21 dicembre 2017

“Igor Stravinsky” foto di Arnold Newman



di Gianni Quilici


Scoprii Arnold Newman diversi anni fa da una edizione “I grandi fotografi” della “Fabbri editori”. Poi l’ho perso di vista, perché non è entrato nei miei circuiti visivi. Ripreso il libro sono rimasto (ancora di più) sorpreso dalla forza intellettuale e visiva dei suoi ritratti. Ciò che mi ha colpito è la ricerca che si intravede nei suoi scatti. Ricerca che è pensamento. Pensa lo scatto figurandosi una scenografia.  Come se dicesse: come posso trasmettere nel modo più efficace ciò che lui o lei è? E’ sufficiente il volto-corpo oppure è necessario  che questi siano inseriti nel loro ambiente tanto più che nel caso di un artista o similari è la sua identità e spesso la sua ossessione?


Da questa scelta la straordinarietà di alcuni dei suoi ritratti come per citarne soltanto alcuni quelli di Picasso, Max Ernst, Krupp, Mondrian, Hopper, Roualt, Cocteau, Warhol, Marylin Monroe.


Prendiamo il ritratto di Igor Stravinsky.

Colpisce a colpo d’occhio la sproporzione tra la grandezza del pianoforte a coda e l’angolino in cui è collocato Stravinsky.


Ma vive già dentro questo nostro primo sguardo la bellezza del piano aperto, elegante e geometrico a formare una figura lineare e un po’ bizzarra e la concentrazione assorta di Stravinsky: il braccio poggiato sul piano, la mano allargata sulla testa, un’ombra lieve che gli ricopre una zona del volto.


Non c’è separazione, se solo si osserva con più attenzione, tra lui e lo strumento.

E’ qui che il realismo, nella  bellezza formale delle geometrie,  contiene un segno simbolico: ed è la musica nell’accostamento  tra Stravinsky ed il pianoforte. Non sarebbe così se al posto di Stravinsky ci fosse un comune mortale, perché il grande compositore è evocativo, trascende, cioè, la sua figura fisica.


In altri termini si viene a creare un’interazione moltiplicativa. La presenza di Stravinsky illumina la bellezza estetica del piano a coda, ma anche questo dà forza allo sguardo espressivo e misterioso di lui. 

Con un’ultima osservazione: in questa connessione è lo strumento, cioè la musica, ancora più grande del singolo compositore che la crea. E tuttavia come è azzeccato fotograficamente questo volto a margine che ci guarda.



Igor Stravinsky foto di Arnold Newman. New York City, 1946.     

20 dicembre 2017

"Rulli di tamburo per Rancas" di Manuel Scorza

di Giulietta Isola
 

"Dove andremo a finire? Dove vorranno i nostri piedi.E' li' che andremo a finire"
Il peruviano Scorza inaugura con questo romanzo la sua "Ballata", il cosidetto ciclo andino nel quale ci racconta la lotta dei comuneros realmente avvenuta negli anni Sessanta.
Una straordinaria pentalogia che risulta purtroppo monca non essendo mai stata ripubblicata nella sua interezza.
 

Nel misero villaggio di Rancas, sulle montagne, un giorno arrivano degli uomini vestiti con giacche di pelle nera, sono scesi dal treno con grandi balle di filo di ferro, cominciano a piantare dei pali ogni pochi metri per costruire il "Recinto". I vicoli bianchi della cittadina ed i suoi abitanti sono inermi di fronte alla Cerro de Pasco Corporation che, con la connivenza dei latifondisti locali fra i quali il perfido Montenegro,vengono privati di pascoli, colli, montagne, non rimane loro ne' un filo d'erba ne' una zolla di terra, sono costretti a far pascolare le loro pecore nei cimiteri. Affamati ed esasperati, delusi dall'esito delle proteste del loro Personero, Don Ravera, decidono di intraprendere la lotta armata, una lotta per la sopravvivenza ed uno scontro impari con le forze del capitalismo che fallira' miseramente. Le loro armi rudimentali, solo fionde e sassi, niente potranno di fronte alla Guardia Civil che distruggerà il villaggio, incendiando case ed uccidendo i suoi abitanti. Sottoterra, in quei cimiteri si ritroveranno e riuniti parleranno dei soprusi e delle violenze subite. Il filo si estende chilometro dopo chilometro, anche Hector Chacon, personaggio realmente vissuto e protagonista, soprannominato il Nittalope, dopo aver guidato la resistenza e miseramente fallito l'uccisione di Montenegro, con la sua banda è costretto a fuggire sulle montagne e vivere da bandito.
 

Un testo non classificabile, a cavallo fra letteratura e sociologia, dal potente valore storico e sociale che racconta, per far conoscere e tramandare, la denuncia di un popolo. Nelle pagine scorre la voce del povero, dello sradicato, dell'esiliato, il ritmo lento ed asciutto è carico di immagini, la poesia di alcune parti si alterna con la cronaca di altri.

 Scorza mischia ed alterna nei capitoli la storia degli eventi per poi interrompersi e raccontare la storia sociale e politica del Perù. La sua qualità narrativa è altissima, il racconto di marginalità e difficoltàa, la lotta per i diritti elementari, il potere corrotto ed asservito rappresentano la storia di un Paese intero, ma anche la triste attualità' di molti Paesi dell'America Latina. 

Si avverte la sua solidarietà e partecipazione ed ho capito perchè molti indios ne conoscono intere parti a memoria, considerano queste pagine la loro storia epica, qui c'e' l'anima di un paese intero, delle sue contraddizione ma anche delle sue emozioni, il sorriso ed i legami sodali.
 

La lettura non è semplice, la realtà storica cerca, nelle trame occulte degli avvenimenti, una logica non sempre presente, ma il senso di straniamento sparisce velocemente; sarete li' a lottare spalla a spalla con Chacon e gli altri, a rivendicare i vostri diritti su una terra che vi è stata rubata senza chiedervi ne' autorizzazioni, ne' permessi, sarete terra, aria e montagne.
 

Una rilettura a distanza di molti anni motivata da un viaggio, ma mentre scorrevano le pagine scorrevano anche, davanti agli occhi e nella mente, ricordi e suggestioni di una storia dei nostri giorni che ho appassionatamente seguito: la questione Mapuche/Benetton con il monito che dalla Storia sembriamo non aver imparato niente, continuamo a ripetere gli stessi errori.
  

E' cronaca recente (agosto 2017) l'arresto di un uomo dallo sguardo fiero e dai profondi occhi neri, il leader dei Mapuche, l'ultimo esponente di una stirpe indigena che tra il 1600 e la fine dell'800 dominava la Patagonia, prima di essere spazzata via dagli argentini. La loro terra era una fascia ininterrotta che si estendeva dalla costa atlantica a quella pacifica, oggi la comunità è ridotta a poche migliaia di persone e la lotta arcaica contro un gigante politicamente appoggiato ed econonomicamente potente sembrava impossibile. Il gruppo Benetton è presente su un territorio di 900 mila ettari, un gruppo di indigeni ha invaso una parte della proprietà creandovi alcuni villaggi, come una fenice dalle sue ceneri, in una civilta' dispersa e relegata in alcune riserve, si sono riaccese speranze mai sopite.La Costituzione Argentina riconosce ai Mapuche quelle terre, il Cile coinvolto non ne vuol sapere ed i Mapuche resistono, scompaiono attivisti secondo i ben noti metodi della dittatura argentina, ma l'incendio non si spenge ed allora non resta che colpire il leader.
 

Huala e' stato imprigionato, dal carcere afferma "Siamo stanchi dell'oppressione,del furto delle nostre terre, siamo stanchi che ci ammazzino e ci arrestino quanto vogliono" e fuori dal carcere un cartello "Il paradiso perduto non puo' attendere".
La strada per raggiungerlo mi pare lunga ed impervia, ma rimane la forza del pensiero, delle braccia e la speranza che ogni lotta non sia mai vana.


MANUEL SCORZA. RULLI DI TAMBURO PER RANCAS.  EDIZIONI FELTRINELLI


08 dicembre 2017

"Il delitto sul sagrato" di Beppe Calabretta

di Luciano Luciani

Ancora un caso per il vicequestore Bruno Carcade, in forza alla Questura di Lucca, personaggio seriale del poliziesco tricolore inventato dalla fervida fantasia di Beppe Calabretta. Sempre scontento della propria situazione professionale, il nostro poliziotto è da tempo distaccato presso la Prefettura delle città delle Mura con il compito specifico di occuparsi di relazioni industriali in un tempo devastato da una crisi economica che non fa sconti a nessuno, operai e datori di lavoro. Un'attività che a Carcade sta stretta. Si annoia e medita la pensione. Ne sta valutando i pro e i contro quando un misterioso delitto, consumato nello spazio consacrato davanti alla bellissima e millenaria facciata delle basilica di San Frediano in una rovente mattinata d'agosto, lo costringe a rivedere i suoi progetti. 


Complici le ferie di molti colleghi, il caso tocca proprio a lui. Per scoprire fin da subito che il morto ammazzato è uno tra i suoi amici più cari: un motivo in più per mettersi alla caccia di un'assassino feroce e senza scrupoli che segnerà ancora di un altro misfatto di sangue la vita della tranquilla città della provincia toscana. 

Meno solare del solito, più umbratile, quasi malinconico, il nostro eroe indagatore si getterà nella caccia all'assassino con la consueta tenacia e determinazione, aiutato dal tradizionale corteggio di aiutanti femminili: la moglie Elina che lo supporterà coll'incoraggiamento del suo amore; Claudia Bellini, ispettore capo della questura, brillante e perspicace ma appesantita da non pochi doveri familiari; Vanessa Pezzoli, un'altra intelligente e risoluta poliziotta in servizio presso un commissariato di Catanzaro. Un team formidabile le cui capacità vengono, però, messe a dura prova perché questa volta il mistero da risolvere è davvero fitto e chiama in causa inquietanti deviazioni di settori delicati dell'apparato statale. E l'indagine, condotta tra la Toscana e la Calabria, rivela a poco a poco uno scenario di connivenze e corruzione che potrebbe arrivare anche molto, molto in alto...
 

Condotta con un piglio narrativo veloce, quasi cinematografico, la storia si dipana per progressivi disvelamenti fino a illuminare una realtà triste e pesantemente compromessa. Né più nè meno che la nostra Italia di oggi: un Paese in declino, ripiegato su se stesso, che resiste solo in virtù dello spirito di sacrificio di pochi suoi servitori onesti e ispirati da un innato senso di giustizia e passione di verità che continuano a battersi col pessimismo della ragione e l'ottimismo della volontà. 

Nonostante un finale rassicurante che assegna la vittoria finale ai "buoni" e la punizione ai "cattivi", il Lettore rimane con l'amaro in bocca nel riconoscersi in tempi e luoghi usurati fin nel profondo da un uso cinico e spregiudicato del Potere.
In fondo, però, la "missione" della letteratura poliziesca è proprio questa: dare l'allarme, suscitare inquietudini, provocare salutari turbamenti. E con Il delitto sul sagrato Beppe Calabretta ottiene proprio questo scopo.

Beppe Calabretta, Il delitto sul sagrato, Tralerighe Libri, Lucca 2017, pp. 134, Euro 13,00

06 dicembre 2017

"Salvatore Morelli, il deputato dalla parte della scienza e dell'altra metà del cielo" di Luciano Luciani

Ogni epoca ha avuto i suoi utopisti, sognatori, i suoi visionari... Uomini e donne in anticipo sul loro tempo, idealisti dallo sguardo lungo, capaci di vedere prima dei  contemporanei gli sviluppi della società a venire, vocati nel cogliere tra le pieghe del presente i lineamenti del futuro. Talora eccentrici nei comportamenti, più spesso normalissimi, appaiono intenti con la parte migliore delle loro energie a coltivare un progetto riposto, una fantasia recondita, l'illusione, oggi solo vagheggiata domani chissà, di un tempo prossimo e migliore.
 

I libri di storia non rendono loro giustizia e si limitano a registrare, quasi controvoglia, le loro, apparentemente bizzarre, teorie. Preferiscono, invece, evidenziarne con malcelata soddisfazione l'incapacità a entrare in sintonia col senso comune dominante dei loro anni e con i processi economici, sociali e culturali e di conseguenza gli inevitabili fallimenti.
 

Esemplare per la capacità di guardare lontano e l'inadeguatezza a vivere nel proprio presente, Salvatore Morelli (Carovigno, 1824 - Pozzuoli, 1880). Fiero oppositore dei Borboni, è per questo duramente perseguitato e sconta lunghi anni di prigione nelle carceri di Lecce, Ponza, Ischia, Ventotene. L'unificazione nazionale lo vede impegnato a fondare e dirigere giornali e riviste - a Lecce nel 1860 "Il Dittatore", di impronta mazziniana; a Napoli nel 1861 "Il Pensiero" che nel corso dei suoi quattro anni di vita conobbe ben 184 sequestri - sui quali in lunghi articoli viene affinando il suo sistema di idee. Per lui conoscenza e vita sociale debbono fondarsi sulla scienza e sulla tecnica, unici strumenti possibili per ogni tipo di sviluppo materiale, morale e  civile. Il male di ogni società per Morelli è da individuarsi nell'ignoranza, il suo antidoto è l'istruzione, gratuita e obbligatoria per tutti con al suo centro l'abolizione di qualsiasi forma di insegnamento religioso e un largo spazio assegnato a materie come la storia, la geografia e, soprattutto, alla scienza e alle sue applicazioni tecniche..
 

Dura anche la sua condanna delle spese militari: piuttosto costruire scuole, ferrovie, allargare servizi assistenziali e il diritto a usufruirne... Eletto deputato per la prima volta nel 1867 per il collegio di Sessa Aurunca, si impegna a fondo in Parlamento per trasformare in leggi i frutti di un intenso lavoro di elaborazione e documentazione delle migliori esperienze europee in materia di giurisprudenza familiare: per esempio, una riforma che preveda la parità di diritti fra moglie e marito, il doppio cognome, la possibilità del divorzio e l'eliminazione di qualsiasi discriminazione tra figli legittimi e naturali. 

Alla attività politico-legislativa affianca anche una coerente attività pubblicistica: tra i suoi lavori più carichi di novità e di utopia, più volte ripubblicato, La donna e la scienza, considerate come i soli mezzi per risolvere il problema dell'avvenire, 1861. Presente alla Camera dei Deputati fino al 1880, di convinzioni repubblicane, laiche e libertarie con qualche simpatia per il socialismo aurorale, per quattro legislature si batte per la parità tra i sessi e già nel 1867, primo in Europa, presenta la proposta di legge "Abolizione della schiavitù domestica per la reintegrazione giuridica della donna, accordando alle donne i diritti civili e politici", uno straordinario passo in avanti in un Paese che codificava la subalternità della donna al marito, facendono una figura fragile e trascurabile. 

Sempre a Salvatore Morelli appartiene un disegno di legge con la richiesta del diritto di voto per le donne e non si smemorino fra le sue altre proposte, l'istituzione della cremazione, l'abolizione della pena di morte, la proposta - questa sì futuribile - della istituzione  di una Società delle Nazioni per tutelare la pace universale. Seppure emarginato in un Parlamento bellicista e tutto al maschile, grazie al suo imperterrito impegno, nel 1877 il Parlamento italiano approva la legge Morelli n. 4176 del 9 dicembre 1877, riconoscendo alle donne il diritto di essere testimoni negli atti regolati dal Codice civile, come i testamenti, un significativo progresso per i suoi risvolti economici e per l'affermazione del valore della capacità giuridica delle donne. Inoltre è in virtù del suo lavoro parlamentare se le ragazze sono ammesse a frequentare i primi due anni del Ginnasio. 

Torna poi spesso, Morelli, a intervenire contro la Legge delle Guarentigie (ovvero le garanzie concesse al papa pari a quelle previste per un Capo di Stato straniero, con la differenza che da quando tale legge entra in vigore le spese dei successori di Pietro sono a totale carico del contribuente italiano). 
Apprezzato all'estero da grandi uomini di cultura del suo tempo come Stuart Mill e Victor Hugo, nel suo Paese conosce solo incomprensioni e l'isolamento da parte dei contemporanei, oggetto del livore di un senso comune becero e dell'accanimento dei disegnatori satirici del tempo. 
Muore in miseria - non esistevano allora le indennità parlamentari e i vitalizi - nella camera di una povera locanda a Pozzuoli. Le più importanti esponenti dei movimenti di emancipazione femminile statunitense  piangono la sua dipartita e scrivono che è scomparso il più grande difensore dei diritti delle donne nel mondo.
 

È stato uno sconfitto Salvatore Morelli? Sì, certo... Pochi, però, come lui sono stati capaci di lasciare nel mondo segni che non possono più essere cancellati dalla memoria collettiva delle donne e degli uomini.

02 dicembre 2017

"La pianista" di Elfriede Jelinek



di Giulietta Isola
“una scrittura che non si dimentica,

mai banale,spesso non immediata,
vastamente metaforica”

PERSONAGGI
ERIKA “ è un insetto imprigionato nell’ambra,senza tempo,senza età,non ha storia e non fa nemmeno storie. Proviene da una famiglia di segnali solitari sparsi nel paesaggio. Non prova niente,non ha mai provato niente,è insensibile come un cartone catramato sotto la pioggia.
Tra le sue gambe il marciume,una molle massa insensibile. Putredine grumi in decomposizione di materiale organico. E’ un opaco mucchio di meschini desideri e mediocri aspirazioni che temono il proprio compimento:
LA MADRE “e’una pestilenza incurabile, le sta attaccata come una piattola o una sanguisuga le succhia il sangue.”
LA MADRE E LA NONNA “le vulve pietrificate delle due vecchie si chiudono con uno scatto secco e rumoroso,come le chele di un cervo volante in agonia,ma niente rimane imprigionato nelle loro grinfie.”


La pianista,si evince dalla biografia di Jelinek,prende spunto dalla sua storia personale (la madre era pianista ed il padre in manicomio)e qui il ruolo centrale è proprio riservato al rapporto madre-figlia. Erika Kohut,insegnante di pianoforte,inquietante quarantenne,vive con la madre dispotica e soffocante (maternità alienata),una presenza che pretende di gestire la vita della figlia scegliendole i vestiti,le frequentazioni,la carriera,controllando maniacalmente ogni suo spostamento e condividendo con lei il letto matrimoniale.
Erika per niente emancipata e’ stata forgiata da dure lezioni,spinta a fare sempre il massimo, trattata da adulta quando era bambina,segue le ambizioni imposte dalla madre per la quale niente è mai abbastanza e tutto è ad un livello troppo basso per lei, è ingabbiata dal suo rigore e dai suoi continui rimproveri per le aspettative deluse. Erika non sembra avere un futuro proprio,ha il futuro che qualcuno ha pensato per lei,è abituata alla violenza,abita i luoghi del sadismo e dell’odio,non ha posto per il sentimento amoroso,la sua vita è  piena di fatti tragici e drammatici,non ha volontà per mutare le cose e scardinare regole sociali già predeterminate, è disastrosamente assoggettata al conformismo,incarna l’idea di umiliazione, di aggressione, di dominazione,cerca la propria identità nel voyeurismo, nell’autolesionismo ed il sadomasochismo,crede di affrancarsi dal cilicio materno con l’idea di un amore impossibile per un suo allievo molto più giovane Klemmer, ma e’ una donna sessualmente frustrata, una vittima della propria posizione culturale dominante e di una madre possessiva e paranoica ed il lieto fine per lei non e’ contemplato.
 

Al di la’ della storia,mi pare veramente interessante l’analisi della prosa di Jelinek straordinariamente forte, antisentimentalista eppure suscita forti emozioni, dalla sua penna temi come matrimonio,famiglia, sesso sono estremizzati, portati oltre il confine, oltre i limiti, li utilizza in maniera spericolata,la terminologia è esplicita e cruda, è insolito leggere di prevaricazione e violenza fra i sessi e classi sociali in maniera così pervasiva.
 

Credo di non essermi mai trovata di fronte ad una scrittura così dissacrante,così sincera,così argutamente metaforica,così violenta,così coraggiosa, a tratti volutamente spiacevole a tratti intensamente poetica, una miscela di stili e generi, il moderno e l’antico, e le donne trattate non tanto o non solo come esseri umani specifici ma come “il femminile” nella storia e nel sociale, quel femminile che per l’autrice fa parte degli oppressi,degli emarginati,degli ultimi “che i movimenti femministi e i partiti comunisti hanno per oggetti da tutelare”,ed anche il sesso sesso che si esprime come possesso, forza e rapina e conseguentemente come sottomissione, dipendenza e schiavitu’.Sesso a go-go senza sentimento, ne’ dolcezza, mai portatore di allegria e consolazione brutalmente pornografico.
 

Avevo letto la biografia di Jelinek all’assegnazione del Nobel nel 2004 (mi era assolutamente sconosciuta) e penso sia necessario valutare la sua opera legandola alla sua posizione politica di femminista e comunista, critica la societa’ capitalista e consumistica che mercifica gli esseri umani e le relazioni,avverte le vestigia del passato fascista dell’Austria sia nella vita pubblica che in quella privata e lo sfruttamento sistematico e l’oppressione delle donne nella societa’ patriarcale capitalista e lei stessa ha dichiarato che “il narrare è necessità,a volte urgenza,ma sempre atto politico”.
 

Mi son messa le mani nei capelli fin dalle prime pagine sbigottita di fronte ad una scrittura femminile così controversa così contraddittoria da suonarmi come un avvertimento,potrebbe la vita di Erika assomigliare alla mia? O a quelle di tante altre donne?


ELFRIEDE JELENIK- LA PIANISTA- EDIZIONI EINAUDI