25 febbraio 2024

" Se amore guarda" di Tomaso Montanari

 

di Giulietta Isola

Se amore guarda gli occhi vedono

       Ci sono ragioni profonde per interessarsi al patrimonio culturale ed alla storia dell’arte, forse le abbiamo smarrite, eppure la frequentazione di “tali soggetti” apre il nostro cuore ed i nostri occhi a una dimensione «altra», ci offre la possibilità di allontanarci, almeno per un po’, dal flusso incessante dell’attualità e ci mette in contatto con ciò che è avvincente, ciò che dà un senso alla vita.        ”Per vedere – per sentire – tutto questo, è però necessario riattivare la sua connessione con la parte più intima della nostra anima individuale e collettiva; occorre una vera e propria educazione sentimentale”. 

       Tomaso Montanari nelle pagine di questo saggio lucido e appassionato parla del patrimonio culturale che considera la nostra religione civile, è “l’unico possibile luogo materiale di una comunione tra i vivi e i morti” , è la nostra scuola di liberazione e non riguarda soltanto il paesaggio o le opere d’arte, ma riguarda soprattutto noi e quell’amore che tutto congiunge. 

       Va ricordato che la nostra Costituzione definisce la nostra nazione per via non di sangue, etnia, fede o lingua, ma solo per via di cultura, ricerca, paesaggio e patrimonio storico e artistico: cioè per via di inclusione, evoluzione continua, contraddizione, pluralità. Le nostre vestigia rappresentano una storia che è incontro, meticciato, convivenza. 

      Frequentare in modo casuale o forzato, il patrimonio potrebbe essere l’occasione per una formazione umanistica di massa, un’educazione a salvarsi dai nazionalismi. Dobbiamo infatti considerare che” le discipline umanistiche non hanno il compito di arrestare quello che altrimenti fuggirebbe, ma di richiamare in vita ciò che altrimenti resterebbe morto quindi si potrebbe dire che l’educazione al patrimonio culturale è una educazione a diventare e a rimanere umani, il contatto con esso, in tutte le sue forme , può essere una via di salvezza.” 

       Se posiamo lo sguardo su una chiesa antica, camminiamo su un selciato può capitare di porsi domande alla ricerca di risposte ed interpretazioni, ci viene facile, con una certa lentezza , attribuire significato alle cose e ai luoghi fino a sentirci parte di essi, in questo caso il discorso sul patrimonio culturale ci sarà utile per recuperare le ragioni di una convivenza universale, fondata sulla giustizia e sulla condivisione. Tomaso Montanari è uno storico dell'arte e saggista italiano, rettore dell'Università per stranieri di Siena.

Quando davvero entriamo in comunione , in risonanza, in osmosi con le pietre, l’aria, le figure, la storia e le storie che ci avvolgono, sentiamo che c’è qualcosa che ci trascende, qualcosa che supera l’ansia e la fatica delle nostre giornate. Qualcosa che ci cura. Qualcosa che ci fa sentire che no, non è ancora finita”

SE AMORE GUARDA di TOMASO MONTANARI EINAUDI EDITORE

 

22 febbraio 2024

"L'alveare" di Emilia Giorgetti

 


di Elisa Bertoni

Il romanzo “L'alveare” di Emilia Giorgetti ha il grande merito di essere un libro coraggioso, non nel senso comune che attribuiamo al termine, spesso riferito a chi ha compiuto gesta eroiche di fronte a rischi minacciosi. 

    Il pericolo che sfida questo libro è quello di mettere al centro la gentilezza ed i buoni sentimenti, oggi spesso maltrattati quasi fossero puerili sfoghi di anime semplici, incapaci di rapportarsi, anche machiavellicamente, con la crudezza della realtà che appare edulcorata dalle lenti di un colpevole ed ingenuo buonismo. 

      Emilia Giorgetti non teme di parlare attraverso la voce narrante di una bambina che vive la sua infanzia nel secondo dopoguerra: Marta, o affettuosamente Martina, si affaccia a piccoli passi alla vita, scoprendo attraverso l'esperienza il manzoniano guazzabuglio presente nel cuore degli uomini, siano essi bambini siano essi adulti.

       Lo schema stesso del libro rifugge da forzose architetture razionalistiche e per questo scontate, lasciandosi guidare dal tempo interno di matrice bergsoniana che ogni stagione offre a Martina. Alla tradizionale quadripartizione “Inverno, Primavera, Estate, Autunno” si aggiungono altre due sezioni, “Ancora estate” e “Verso l'autunno”, quasi fossero due nuove stagioni che si affiancano alle altre sulla base della percezione del tempo di una bambina che riconosce proprio nei mesi di massima luce e di assenza di impegni routinari cadenzati -primi tra tutti la scuola- la dilatazione e l'esplosione degli spazi di libertà, vissuti per lo più all'aria aperta in una dinamica relazionale ricca e variegata, fatta di scoperte, delusioni, di avventure, di creatività, di contatto con la natura nei suoi imperscrutabili cieli, negli animali, nelle piante. 

      Il mondo descritto, rapportato a quello attuale caratterizzato dall'individualismo crescente delle giovani generazioni, appare come uno spaccato di società perduta; il romanzo diventa pertanto una testimonianza urgente di come sia necessario recuperare relazioni autentiche, non più prevalentemente assorbite e mediate da apparecchi tecnologici e chiuse entro pareti illuminate a led, che diventano oggi subdole prigioni di bambini.

      Non è un caso che il titolo sia “L'alveare”: un'operosità di piccoli insetti in continuo movimento che lavorano insieme per la fecondità del gruppo attorno ad un'ape regina. L'alveare diventa simbolo efficace di una vita che non rifugge da fatiche e che trova il miele -quasi una trasposizione figurata del senso della vita- proprio nell'operosità, nello scambio e nella solidarietà umana. La grande casa delle zie, con le tante cellette delle stanze in cui si possono ospitare tante famiglie e condividere spazi e letti, è metafora di accoglienza, di apertura, di collaborazione.

      In questo romanzo, il punto di contatto tra mondo degli adulti e quello dei bambini si coglie proprio nell'approdo al simbolico, immaginario ponte tra l'ardita fantasia dei fanciulli e la ricerca di un significato che dia ragione all'esperienza secondo un procedimento di razionalizzazione tipico degli adulti. 

      Esempio significativo può essere il regalo che viene donato alla compagnia dei bambini dalla signora Ester: la Menorah, la lampada ebraica a sette bracci. Lungi dal costituire un mero oggetto di valore religioso, la protagonista cerca di trovarne il messaggio che renda quel dono significativo: esso rappresenta per Marta, così come l'alveare per l'autrice, l'importanza della collaborazione; i sei bambini insieme alla signora Ester formano una unità capace di illuminare la vita attraverso i pensieri e le azioni solidali di tutti. Marta inizia dunque a dare il suo significato a ciò con cui entra in contatto, scrutando anche le pieghe oscure che la spaventano ma che sono allo stesso tempo anch'esse un mezzo privilegiato per crescere e prendere consapevolezza. 

      Il difficile passaggio da un'infanzia percorsa da ombre alla percezione che il mondo degli adulti non è poi così inaccessibile ed impenetrabile è infine rappresentato dall'acquisizione di coraggio da parte della protagonista che per mano alla sorellina Innocenza può affermare nell'Epilogo: “Neppure io ho più paura della scala buia”. Ciò che vince il buio è il coraggio del pensiero che, come quello dell'autrice, non si nutre di freddo intellettualismo, ma che può vivere di emozioni ed è capace anche di una “riflessione interrotta” in nome di una socialità piena e vitale.

Emilia Giorgetti. L'alveare. Giovane Holden Edizioni. 

19 febbraio 2024

"romanzo senti/mentale" di Bianca Bellova

 

di Marigabri

       Al contrario di quel che annuncia il titolo, questo non è affatto un romanzo sentimentale nel senso classico e comune del termine. Tutt’altro. È un racconto tragico, di passioni profonde, di relazioni torbide, di sensi accesi e di latente follia; è l’incontro impossibile e sempre deviante fra personaggi con l’anima ferita e silenzi gravi che pesano nel cuore come pietre in fondo a un lago.

      E'un racconto dove, fin dal primo capitolo, entra in scena la morte che, fino all’ultimo, ci sentiremo alitare addosso col suo ansimo inverecondo.

C’è una doppia narrazione: Eda e Nina cominciano a tracciare il loro cerchio di memorie raccontando di sé, definendo le situazioni del presente che poi inevitabilmente vanno a pescare negli eventi passati. Ed è così che questi cerchi apparentemente separati e distanti a poco a poco si avvicinano ruotando fino a incontrarsi e convergere in un punto, in un nome: Eliška.

        Eliška, con la sua vulnerabilità e la sua forza, con la sua stranezza e il suo talento, con i suoi diari segreti e i suoi disegni geniali. Eliška con “le sue dita impeccabili laccate di uno smalto perlato rosa chiaro, dieci figlioletti vestiti per la cresima”.

       Gli eventi, le relazioni reciproche, i traumi inevitabili sono tutti da scoprire.

      Un romanzo sorprendente per lo stile schietto, la costruzione impeccabile, per il dominio della forma che svolge con lucidità un contenuto drammatico disvelando progressivamente una realtà feroce e labile e innalzando intorno al gigantesco e umbratile personaggio di Eliška un edificio fatto di ambiguità e reticenze. Fino a toccare la verità di ciascuno, quella che snuda il dolore e la colpa.

…non abbiamo fatto altro che ratificare la nostra colpa, questo pensa lui, non finirà mai, gli anni futuri li trascorreranno entrambi soli come in una cella della morte, una morte la cui distanza tende al limite dell’infinito, dannazione, tradimento, espiazione, colpa, retaggi, inappetenza, insonnia e baccanti selvagge sulla soglia.”

Il primo romanzo di Bianca Bellova è già una prova matura: una scrittura densa, un ritmo incalzante che non lascia altra scelta se non galoppare trepidanti verso la fine.

Bianca Bellova. Romanzo senti/mentale.Feltrinelli

 

12 febbraio 2024

" Una strada senza nome" di James Baldwin

 

di Giulietta Isola

“Era strano ritrovarsi ad ascoltare, in un’altra lingua, in un altro paese, la solita vecchia storia e sentirsi condannare allo stesso modo”

        James Baldwin ha speso la sua vita per la letteratura, il teatro, il cinema e la lotta per i diritti degli omosessuali e degli afroamericani. Da Harlem, a Parigi, al Sud degli Stati Uniti, la sua voce è stata capace di restituire, nella sua complicata veridicità, un periodo ricco di sfaccettature come gli anni della desegregazione razziale. Una strada senza nome è una profonda riflessione sull’America e sul razzismo attraverso le esperienze e gli incontri dell’autore. Un racconto di sconcertante attualità per comprendere quello che continua a rimanere uno dei mali più difficili da sradicare del nostro tempo. In questo percorso non lineare, fatto di balzi geografici e temporali , il ruolo di Baldwin cambia da narratore, protagonista, testimone a pensatore, scivola da una posizione all’altra senza strappi e incoerenze. Il suo sguardo e la sua voce assumono diverse prospettive nella scrittura come nella vita. 

       L’inizio, come fosse una classica autobiografia, ci racconta la difficile infanzia ad Harlem, ma basta poco per accorgersi che siamo di fronte a molto di più. L’identità, dice Baldwin, «sembra discendere dal modo in cui una persona affronta e utilizza le proprie esperienze», ma è anche il prodotto delle interazioni, perché queste esperienze hanno luogo nel mondo e avvengono, quasi sempre, con o attraverso gli altri.  L’esperienza raccontata e analizzata è quella della blackness, cioè essere una persona nera nell’America bianca e razzista. Un apprendistato che comincia già dall’infanzia e che può condurre molto facilmente al carcere o all’obitorio. 

       Baldwin è stato ,in qualche modo, una felice eccezione : ha avuto successo nella scrittura, tenuto conferenze, ha vantato amicizie importanti, ma un nero che “ce l’ha fatta” non può dimenticarsi i dei fratelli e delle sorelle che lottano tutti i giorni per la sopravvivenza, annaspando tra le ingiurie e la miseria. Baldwin in quegli anni 50 nei quali il maccartismo rendeva gli Stati Uniti un posto sempre più asfissiante e inospitale, si rifugia a Parigi dove scopre che il razzismo è assai di moda. 

        Quando l’America ribolle di manifestazioni per i diritti civili , Baldwin non può stare a guardare e nel 1957 fa ritorno prima a New York e poi verso gli Stati del Sud, dove in quegli anni una persona nera correva seri rischi. «Prima di andare al Sud, dubito di aver saputo davvero cosa fosse il terrore». Gli uomini e le donne del Sud che Baldwin incontra sono assolutamente ammirevoli nei loro gesti di quotidiano eroismo, nell’affermazione ostinata della propria presenza nonostante la paura, le loro storie sono una parte fondamentale del libro che Baldwin intreccia con le sue riflessioni sul potere e sulla violenza, sull’ingiustizia e sugli ostacoli verso la libertà. 

       La lucidità e, purtroppo, l’attualità delle sue considerazioni , puntano il dito contro una società pronta a tollerare l’ingiustificabile spaventata dal cambiamento. Il privilegio dei bianchi e la negazione (fino alla dissoluzione) dell’esistenza nera fanno ancora parte del nostro triste presente. In America così come in altri luoghi del mondo. «Non ci sono prospettive chiare: la strada che sembra portare avanti nel futuro sta anche tornando indietro nel passato». 

       Mi piacerebbe sapere cosa penserebbe oggi Baldwin dei movimenti per i diritti civili, tuttora terreno di scontro, non lo so, ma cerco di utilizzare la sua visione lucida per interpretare la nostra realtà e per non ridurre i diritti civili a cartastraccia, dobbiamo difenderli assumendoci in prima persona la responsabilità, possiamo almeno provarci. La conoscenza è già una prima forma d’azione.

UNA STRADA SENZA NOME di JAMES BALDWIN FANDANGO

07 febbraio 2024

"Italo" di Ernesto Ferrero

 

di Marigabri

“L’arte di scriver storie sta nel saper tirar fuori da quel nulla che si è capito della vita tutto il resto; ma finita la pagina si riprende la vita e ci s’accorge che quel che si sapeva è proprio nulla.” (Italo Calvino)

      Intenso, essenziale  e esaustivo, lucido e rispettoso è questo ritratto-omaggio di Italo Calvino, scritto con raffinata densità da un allievo, un collaboratore, e infine un amico come fu Ernesto Ferrero che, ironia della sorte, conclude la sua parabola letteraria e umana proprio con questo libro.

A leggere l’ultimo capitolo, quello sulla morte improvvisa di Italo, sale agli occhi un fiotto di commozione e si capisce che è stata spremuta e distillata con cura dal meraviglioso viaggio di tutte le pagine precedenti. Si capisce che in quella emozione è frammisto anche il compianto per la perdita di un intellettuale acuto come Ernesto Ferrero.

     Non si tratta di una vera e propria biografia di Calvino, come quella, monumentale, che gli ha dedicato Domenico Scarpa, ma di un excursus a tappe, dall’infanzia alla maturità, dove appaiono gli snodi fondamentali che hanno formato l’avventura intellettuale e umana di uno scrittore sui generis: silenzioso, schivo, sempre un poco eccentrico nello sguardo verso le cose del mondo, teso a trasformare in narrativa una molteplicità di visioni in divenire. Ma anche di offrire una scrittura forgiata dalle esperienze di viaggio, dalle riflessioni sulla società e sulla politica, dalle meditazioni sulla letteratura, offrendo di ogni aspetto della realtà una lettura unica e originale.

      Sempre più Italo reagisce alla consapevolezza del disordine intrinseco dell’universo con gli strumenti dell’esattezza, della precisione, della descrizione meticolosa e stupefacente (perché descrivere è combattere con il linguaggio per entrare nell’essenza della cosa, mostrarla agli occhi di chi legge come se fosse la prima volta e soprattutto lasciare l’io fuori dal discorso). Infatti:

“L’unica barriera che si può opporre al disordine dell’entropia è l’ordine della scrittura, la moralità del fare bene quello che si fa.”

      Parola e azione, dunque. Entrambe oggetto di un’etica rigorosa. Entrambe a fondamento dell’essere e sentirsi umani.

      La ricerca di questo ordine, di una sorta di geometria cosmica segreta e necessaria, impegnerà Calvino dalle Cosmicomiche in poi, fino ad arrivare all’ osservatorio astrofisico e antropologico del signor Palomar.

     Ma la parabola intellettuale di Italo è varia ed eclettica e non si può certo riassumere in poche righe. Ferrero sa farlo benissimo, invece, in un libro di appena duecento pagine che ci restituisce l’uomo e lo studioso Calvino in tutta la sua seducente stranezza, pur lasciandone intatto il mistero.

     La sua personalità multitasking e il suo carattere riservato possiamo conoscerli, per quel che si può, avventurandoci in questo intrepido viaggio narrativo per arrivare infine a contatto con l’essenza: quel suo essere eterno viaggiatore, esploratore del mondo dentro e fuori, e tuttavia capace di rimanere fino alla fine “un bambino buono” che ha mantenuto intatto uno spirito di scoperta e di meraviglia e, sbalorditivo miracolo, è riuscito a trasmetterlo alle sue lettrici e ai suoi lettori.

Ernesto Ferrero. Italo. Einaudi. 


 

01 febbraio 2024

“ I due piedi che si toccano” di John Vink

 


di Gianni Quilici

       Osserviamo soltanto la donna, che  cammina, lungo una strada,  alta e sottile, busto eretto e passo agile e sorregge con un braccio il suo bambino, che, a sua volta, si appoggia, senza stringersi, a lei. Sarebbe uno scatto , a suo modo, sereno,  nonostante sullo sfondo  tende allineate, che lasciano presagire possibili “campi profughi” e, se vogliamo essere pignoli, i  piedi scalzi della donna che non sono il massimo della goduria.

       Ma ciò che  allarga il senso dell’immagine e colpisce immediatamente lo sguardo è il primo piano della gamba quasi scheletrica di un ragazzo (si può presumere), che si incontra con la pianta dell’altro  suo piede, in presenza di un  gonfiore grosso come una noce, a tal punto, che viene  portato in braccio (presumibilmente) dal padre. Questo scatto fa parte di un libro fotografico di John Vink dal titolo Réfugiés , in cui l’autore stesso ci informa che questa foto è stata scattata nel 1988 nel sud del Sudan e che “ in Sudan la maggior parte dei bambini malnutriti sono troppo deboli per percorrere i 300 m fino al centro di alimentazione e devono essere trasportati lì”.   

       Questa tuttavia non è soltanto una foto che documenta, denunciando una situazione disumana.  Proposito meritevole. E’ anche una foto che ci “tocca” per le qualità espressive.

      Primo, è una composizione essenziale, dove niente è inutile. La strada apparentemente aperta, è in realtà chiusa considerando  la destinazione e il contesto di denutrizione.

     Secondo, i due corpi in movimento, con il loro carico filiale, sono colti nell’attimo, in cui non si sovrappongono. Questo dà ad ognuno dei corpi una propria unicità figurativa.

      Terzo, in primo  piano viene evidenziato il cuore dello scatto: la gamba fragile e denutrita del ragazzo e l’incontro tra i due piedi.

      E’ una foto che informa e che nello stesso tempo  tocca emotivamente e  lascia lo spazio per immaginare. Trovando l’equilibrio giusto tra ciò che viene rappresentato  e ciò che lascia trapelare. Un’immagine che va oltre la foto stessa diventa simbolo più generale della condizione del Sudan in quegli anni.  Operazione che  storicizza visivamente nel modo più profondo, come si evince osservando anche le altre foto presenti nel libro.

JOHN VINK. SUDAN, Kosti.  23 ottobre 1988.