22 settembre 2021

"La ballata di un piccolo giocatore" di Lawrence Osborne

di Marigabri

       "Misi sul tavolo le fiches, e lì ci fu una pausa negli strumenti del destino; devo ammettere che mi piacque, perché non sapevo cosa sarebbe successo dopo, e quella è la sensazione per cui vive ogni giocatore.”

       L’azzardo come filosofia di vita, come scopo dell’esistenza, come modalità segreta dell’anima. La perdizione come obiettivo finale.

        “Tutti sanno che non sei un vero giocatore finché non preferisci segretamente perdere.

       La vita come rischio perpetuo e come radicale abbandono alla dipendenza. Perché è lì che fiorisce il nucleo pulsante dell’emozione. Intensa e radicale. Unica ogni volta. Quando il tempo è sospeso prima della rivelazione fatale. Attimi come secoli. Rese dei conti come tuffi ciechi verso il tutto o il nulla.

       “Rividi il mio passato in mille immagini simultanee. Forse tutta la vita è la preparazione a un momento come questo, quando vedi tutto in un colpo solo: le città, i paesaggi, gli amori estinti. Vedi momenti magnifici contrapposti a quelli ridicoli e ti rendi conto che non sono diversi. Vedi i tuoi reati minori esposti in fila ordinata, dove l’uno porta all’altro. Vedi strade polverose e parchi oziosi dove hai sprecato la metà dei tuoi preziosi momenti. Ormai che importanza avevano? Stavano per essere annientati, e io cancellato con loro.

       In prima persona racconta se stesso e l’inabissarsi nella vertigine del gioco “lord” Doyle, ancora una volta un espatriato inglese, piccolo truffatore, avventuriero in fuga in Oriente. In Cina, questa volta, a Macao, a sperimentare il perfetto annichilimento migrando da un casinò all’altro, luoghi vibranti di tensione, dove si aggirano come fantasmi i giocatori: ciascuno una storia diversa, ma tutti, indistintamente, malati d’azzardo e disposti a morire.

      “Lungo corridoi d’acciaio lavorato scandito da colonne di vetro, i perdenti malconci si aggiravano con lo sguardo impaurito, come cercando l’uscita dalle loro miserie tutte mentali. Spiriti affamati di sicuro, spinti da intensità che non esaminavano né capivano. Il labirinto circolare del casinò li intrappolava come mosche verdi.

      E qui l’irrazionalità dell’individuo che ha misteriosamente deciso di perdere se stesso si sposa con l’humus fantasmatico delle credenze locali.

      L’inferno personale del giocatore si connette allora con con quello della tradizione esoterica cinese, a ritmo serrato e in un nodo indecifrabile.

      E così anche noi ci perdiamo, tra le porte scorrevoli e mutevoli di uno spaziotempo che ha smarrito i suoi contorni e annullato ogni linea di confine.

Lawrence Osborne. La ballata di un piccolo giocatore. Adelphi.

 

 

17 settembre 2021

"Perché Chagall è enormemente popolare?" di Davide Pugnana

 


        Penso spesso alle impressioni che le opere di Chagall lasciano su chi le vede e, su questa scia di riflessioni, finisco sempre per chiedermi il perché della sua enorme popolarità, senza dare nulla per scontato.

           Mi si risponderà: "Perché Chagall è stato, ed è, un delicato poeta visivo; è un genio della rappresentare iconica dell'intimità quotidiana così come la sentiamo e viviamo tutti. Perché l'empatia con i suoi scenari fantasmatici è sincera, totale e senza smagliature." Tutte obiezioni esatte, anche se ricordo spesso il flagello delle banalizzazioni degli epigoni che hanno ridotto la visione di Chagall a piccole miniature sognanti e fiabesche, contribuendo a dar vita ad una certa vulgata di Chagall pittore piacevole e sognante. Ed è qui che mi fermo a riflettere se la nostra - che è anche la mia - immedesimazione senza freni di fronte alle sue opere non sia agevolata da questa "facilità" direi, con termini forse comuni e impropri, romantica e sentimentale. Anche Chagall era consapevole di questo pericolo, come vedremo tra poco.

         Scopro, per caso, questo pastello su cartone del 1923, sul tema degli amanti. Purtroppo non ho trovato la resa a colori, ma l'immagine era accompagnata da una frase di Chagall che fungeva da didascalia. Una frase che chiaramente rifiuta l'accusa di una pittura dalla facilità "letteraria" : "Non mi piace la letteratura. Io perseguo, soltanto, un formalismo psichico." Ecco il punto: questa risposta offre uno dei possibili grimaldelli per entrare nelle opere di Chagall e per mettere a tacere il nostro - il mio - dubbio sulla "facilità" iconografica di questo artista. Cosa ci dice Chagall? Ci dice che i movimenti della sua psiche cercano, e spesso trovano, una soluzione necessaria in un mondo preciso di forme e colori; una soluzione tesa alla ricerca dell'espressione.

          Lo vediamo proprio in questo pastello giocato su un tema che è stato il più fertile della poesia chagalliana: il libero volo, in un cielo di notte, della coppia amante che è qui variata nel libero impennarsi nell'aria in groppa ad un cavalluccio puerile, sotto uno spicchio di luna, e lasciando sulla terra i contrassegni di una vita intima (il lume a petrolio sul tavolo) e rustica (la palizzata, il maialino ormai lontano), quella del villaggio, in un'evasione dove il legame è restituito in maniera quasi sinestetica dal nodo dei corpi, tanto sentiamo la stretta calda dell'abbraccio di lei e l'adagiarsi di lui sul lungo e morbido vestito a quadretti. 

          Ho usato spesso la parola poesia per dire un'espressione visiva. Forse non dovrei; ma sempre nelle infinite versioni degli amanti in volo di Chagall si lascia a terra una bolla di intimità della quale possiamo trovare un equivalente nei versi di timbro più intimistico di Ungaretti, laddove la parola nostalgica evoca il "qui" di un focolare nel cui grembo altro non si sente che "il caldo buono" e "le quattro capriole di fumo" che invadono la stanza. Forse è qui che volevo arrivare. Occorre ripartire da questo sentimento delle cose per capire la visione chagalliana, il suo "formalismo psichico" che lavorava sul complesso per renderlo semplice, cioè risolto per tutti.

 


10 settembre 2021

"La solitudine del sovversivo" di Marco Bechis

 

di Giulietta Isola

La mia pelle muta sempre, sono l’eroe e nel contempo il traditore, porto incisa nell’anima una ferita profonda per tutto quello che non è successo e mi poteva succedere e per tutto quello che invece è successo a migliaia di altri. Se io sono qui ancora a parlare, vuol dire che tutti gli altri sono morti.”

         Siamo alla fine degli anni ’70 in Argentina, la democrazia è ormai al collasso e da lì a poco si instaurerà una delle dittature militari più sanguinarie al mondo. Marco Bechis è un ventenne privilegiato, di buona famiglia cosmopolita, il padre è un manager italiano, la madre una hostess cilena, conduce una vita agiata e viaggia con facilità grazie alla doppia cittadinanza, inizialmente ha una percezione lontana di quanto sta per abbattersi sul paese. Si iscrive ad una scuola serale per maestri, si avvicina ad alcuni militanti dei Montoneros senza aderire alla lotta armata, pensando che lo squilibrio di forze con il regime li condannasse tutti alla sconfitta e quindi alla morte. Per sé aveva immaginato ad un ruolo diverso, dedicarsi all’emancipazione degli ultimi con l’educazione. 

          In quegli anni gli squadroni della morte erano implacabili ed il potere militare si insinua e si afferma. Intellettuali, giornalisti, rappresentanti sindacali iniziano a essere arrestati per poi sparire. Poi tocca a studenti, giovani e chiunque venisse anche solo percepito come dissidente… è solo l’inizio della fine. 

          Andando avanti nel suo racconto, Bechis, non è più l’adolescente ignaro di buona famiglia, ha una precisa cognizione dei fatti ed è conscio della guerra sporca che sta avvenendo in Argentina. Continua a studiare, si innamora ma da lì a breve la polizia segreta lo cattura. 

        Scorrendo le pagine abbiamo una esatta percezione della strategia del nuovo apparato politico, le gerarchie militari non vogliono compromettere i rapporti internazionali e la loro propaganda si muove su più livelli, si mostrano come protettori di uno “stato politicamente compatto” ma “rispettoso” dei diritti umani di fronte all’opinione pubblica mondiale, ma è sottoterra che l’anima nera del potere assume le sue vere sembianze. È nel “mondo di sotto” che si trovano le carceri clandestine, luoghi di morte dove vengono consegnati i prigionieri “bersagli sensibili” che difficilmente ne escono vivi. 

           Marco, nei sotterranei del Club Atletico, è il detenuto A01, numero dei lucchetti alle caviglie 190 e 191, cella numero 16, è lì che sopporta sevizie ed interrogatori violenti e manipolatori, sente cigolii, catene, gemiti, urla, riconosce le voci dell’interrogatore “buono” e di quello “cattivo”, il rumore della picana usata dai sequestratori per far parlare gli oppositori della giunta militare Videla ed anche il rumore incessante dei suoi pensieri: cosa ammettere per salvarsi e cosa nascondere per non compromettere i compagni ancora vivi? 

          Bechis si salva, grazie all’intervento della sua famiglia rientra in Italia, è vivo e tanto basta a farlo sentire un traditore, si porta addosso il marchio della colpa: perché io sì e loro no? Ha deciso di scrivere la sua storia 44 anni dopo il sequestro, dopo aver convissuto con il torto di essere un usurpatore e un traditore e aver speso ogni energia per denunciare i crimini della dittatura, negli anni ha cercato risposte, tenuto a bada le ombre e i fantasmi, l’assurdo senso di colpa nei confronti dei compagni finiti cinque metri sotto terra o gettati in mare da un aereo, con queste pagine chiude i conti con il passato e condivide con i lettori l’inquietudine e l’angoscia di essere vivo, la rabbia per il silenzio degli aguzzini, prende coscienza di essere vittima di un dramma collettivo che è stato anche un genocidio generazionale, il suo libro è ferocemente sincero e ne consiglio la lettura.

LA SOLITUDINE DEL SOVVERSIVO di MARCO BECHIS GUANDA EDITORE EUR 18.00

 

01 settembre 2021


Tra Pisa e Lucca un originale romanzo di formazione

 di Luciano Luciani  

               Anch’egli “giovane favoloso”, un po’ Contino di Recanati e un po’ Cosimo Piovasco di Rondò, il protagonista del calviniano Barone rampante, Bartolomeo Allattati è figlio di una nobile famiglia, padrona di terre, casali e fittavoli tra Pisa e Lucca.  

          D’infelice e fragile costituzione fisica, conduce un’esistenza appartata e dimessa, cercando di convivere con un “dono” davvero fuori dal comune, che insieme lo spaventa e lo eccita. Bartolomeo, infatti, sa volare - “se come uomo, fisicamente parlando, valgo poco, come uccellino sarei quasi perfetto” - e giustamente teme che questa sua straordinaria facoltà possa non essere compresa nell’ambiente retrogrado e reazionario che lo circonda: una madre, donna Clotilde Antichi, “avara, bigotta, dispotica e forcaiola”, due fratelli “anonimi idioti adulti”, due zie nubili “sempre indaffarate a pregare per le anime del Purgatorio”. Migliori il padre, Gastone junior, mite e ironico e apparentemente distante, e la sorella Concettina, sposata con un giornalista di origini borghesi e di convinzioni radicali.

        L’unico partecipe dell’eccezionale dote dell’aristocratico rampollo è Marco Lepri, figlio di contadini al servizio degli Allattati, con cui Bartolomeo condivide non poche esperienze e adolescenziali apprendistati alla vita: non ultimo, godere, entrambi e senza gelosie, dei favori amorosi della aristocratica cuginetta Ekaterina, figlia di lontani parenti russi approdati fortunosamente in Toscana a seguito degli eventi della rivoluzione d’ottobre.

       Di questa complessa condizione umana apprendiamo dalle pagine di un diario segreto che il giovane conte pisano tiene dal 21 settembre 1919 al mese di maggio dell’anno successivo: due anni fondamentali nella crescita personale e umana di un ventenne di un secolo fa. Vicenda privatissima e fantastica, la sua, dove non mancano le torsioni a cui le storie individuali sono costrette dalla Grande Storia: gli echi tragici della Grande Guerra, i moti che agitano in quegli anni gli assetti fondiari delle campagne e proprietari in genere, il fascismo aurorale con il suo portato di grossolanità e violenze, i disastri del contagio della incombente pandemia di Spagnola… 

      E particolarmente intense, ricche di pathos e di pietas, risultano le pagine del libro che l’Autore riserva agli effetti del terribile morbo epidemico che un secolo or sono colpì tutti, giovani e vecchi, ricchi e poveri, ma che si rivelò particolarmente accanito e feroce quando colpiva e scompaginava le reti familiari e sociali delle povere comunità rurali di quest’ultimo segmento della valle del Serchio.

       Vessato dalla sorte, ma intimamente libero, capace più e meglio dei suoi coetanei e contemporanei di cogliere le bellezze piccole grandi della Natura e il buono della storia, per esempio l’amicizia e la solidarietà tra gli uomini pur nella palese ingiustizia dei rapporti proprietari, il Contino di Regoli e Papiana, procede a larghi passi verso il suo destino di morte: nella torrida estate del 1920 la Spagnola, di cui insieme ad altri generosi Bartolomeo aveva cercato di limitare i danni, avrà ragione anche di lui: “Da qualche ora o da qualche giorno non soffro più il caldo, sarà segno che sono sulla via della guarigione o su quella del cimitero? Non so, ma se sto per morire devo immaginarmi la mia fine: credo che, poco prima dell’appuntamento, il cuore impazzirà e dei colpi, persi nel vuoto come un’eco, squasseranno la ragnatela di un corpo senza ossa né carne… ”

        Particolarissimo e originale romanzo di formazione, il Diario segreto di Bartolomeo Allattati si avvale di un linguaggio adeguato alla condizione sociale e culturale del suo estensore-protagonista: un italiano desueto, ancora ottocentesco fitto di termini ora preziosi ora popolari e di asprezze di una sintassi in gran parte dimenticata, distribuito lungo un periodo che privilegia la metafora e l’iperbole, l’analogia e gli effetti musicali; una lingua carica di poesia e di rintocchi emotivi, che non esclude, però, il realismo proprio della polemica sociale nelle descrizioni delle misere condizioni di vita delle classi subalterne toscane. Una bella e importante prova di scrittura romanzesca che onora l’Autore e l’Editore.

 Piero Panattoni, Diario segreto di Bartolomeo Allattati (1919–1920), Edizioni Helicon, Poppi (Ar), 2021, pp. 260, Euro 14,00

 

Piero Panattoni, insegnante di liceo, trovarobe, attore di teatro e collezionista di giocattoli antichi, ha pubblicato con le Edizioni ETS di Pisa due romanzi brevi: Chicago 1958 e Due donne, usciti rispettivamente nel 2013 e 2015. Nel 2018 le Edizioni Helicon hanno editato una sua raccolta di racconti, Storie della valle del Serchio

Durante la clausura imposta dalla recente pandemia ha ritrovato i tremori, le esitazioni, ma anche la misura e l’ironia che, fin dagli slanci giovanili hanno caratterizzato il suo sguardo sul mondo.