31 gennaio 2010

"La fragile bellezza dei gigli"

di Luciano Luciani

Gigli egiziani e greci, ebrei e cristiani
“Guardate i gigli, come crescono; non filano non tessono: eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro”: così l’evangelista Luca rende omaggio se non all’utilità, certo alla bellezza di questo fiore, una tra le piante di cui si abbia più remota memoria.

Sì, il giglio accompagna la storia dell’uomo fin dalla notte dei tempi e lascia le sue tracce nei più antichi documenti letterari: se gli scrittori egizi gli attribuivano un’origine divina, per il mito greco, il giglio, “fior dei fiori”, sarebbe nato da una gocciolina di latte sfuggita al seno di Giunone mentre piena di senso materno si adoperava per nutrire il piccolo Ercole, figlio di Giove e Alcmena.

Nel Cantico dei Cantici dell’Antico Testamento è il fiore più evocato con immagini di fresca poesia e di intenso erotismo.
Bastino due esempi:
I tuoi seni sono come due cerbiatti, gemelli di una gazzella che pascolano tra i gigli…
Il mio diletto era sceso nel suo giardino fra le aiuole del balsamo a pascolare il gregge nei giardini e a cogliere gigli. Io sono per il mio diletto e il mio diletto è per me: egli pascola il gregge tra i gigli…

Presente nella mitologia pagana e nella tradizione ebraica, il giglio, nihil candidius, passa nella consuetudine cristiana come simbolo di purezza ed emblema di verginità, attribuiti a Sante, Santi, e Dottori della Chiesa. Elemento ricorrente della iconografia cristiana caratterizza le immagini dell’illibato San Giuseppe, del nonno di Gesù per parte di madre, San Gioacchino. Questo motivo floreale arricchisce le immagini di santi famosi come San Domenico, San Tommaso d’Aquino, Sant’Antonio da Padova, l’arcangelo Gabriele, l’austero ed eroico San Luigi Gonzaga, patrono dei giovani italiani, Santa Caterina da Siena, patrona d’Italia e protettrice delle infermiere… Fiore democratico, il giglio non disdegna poi di impreziosire anche effigi di personaggi meno noti come San Casimiro, mite principe pacifista del XV secolo, patrono delle cristianissime Polonia e Lituania, morto giovane di consunzione dopo una vita tutta dedita allo studio e alla preghiera, oppure dello sconosciuto San Chenelmo e tanti, tanti altri a testimonianza di uno strettissimo intreccio tra questo fiore, le sue forme, i suoi colori, il suo profumo e la più peculiare sensibilità cristiana.

Il giglio, però, non hai ispirato sempre e a tutti immagini virtuose di castità e purezza. Per esempio, ad uno scrittore anticonformista ed iconoclasta come Pietro Aretino sollecita l’ennesima metafora burlesca del membro virile: Piantato il suo giglio nel mio orto…lo faceva suonare.

Spontanei, ibridi e recisi. Cinesi e americani.
Il genere Lilium comprende un centinaio di specie, a cui vanno aggiunti i sempre più numerosi ibridi realizzati tramite incroci praticati da floricoltori.

La specie più comune è il Lilium candidum, dai fiori bianchi, immacolati, grandi odorosi detti di Sant’Antonio o San Luigi: presenta un fusto grosso, eretto, circa un metro, fornito di foglie lanceolate che decrescono dalla base verso la parte superiore. E’ originario dell’Asia occidentale, si coltiva per ornamento nei giardini da cui talora sfugge e inselvatichisce.
Bello, diffuso e spontaneo nelle nostre aree montuose è il Lilium martagon, di origine europea, detto più comunemente martagone o anche “turbante di turco”: presenta larghi fiori penduli con petali molto ricurvi all’indietro di color rosa macchiati di scuro. “Addomesticato” viene coltivato nei giardini rocciosi e nelle roccaglie.

Sempre spontaneo dei nostri monti il Lilium bulbiferum o croceum si presenta con fiori grandi eretti, privi di odore, giallo aranciati con macchie marroni o porporine.

Il tigrinum, originariamente proveniente dalla Cina e l’auratum che ci giunge dalle montagne del Giappone e dalle isole del Pacifico sono invece due specie molto amate dai fiorai perché commercializzate sotto forma di fiori recisi.

Meritano poi di essere ricordati gli “americani” pardalinum, un giglio californiano che può raggiungere i due metri di altezza e il canadese, mentre il Lilium regale, scoperto in Cina all’inizio del Novecento, solo da qualche decennio a questa parte comincia a conoscere una larga diffusione anche nelle nostre aree per la sua bellezza, resistenza e facilità di coltivazione. Ma la schiera dei gigli è destinata ad accrescersi ancora, sia perché appassionati floricoltori creano continuamente nuove rarità per mezzo di ibridazioni, sia perché se ne scoprono sempre nuove varietà, come il delicato Lilium arboricolum, trovato in Birmania, in tempi relativamente recenti da una spedizione inglese.

Alcuni modesti consigli
Come regola generale i bulbi del giglio si piantano subito dopo la scomparsa delle foglie, periodo che coincide con la fine dell’estate variando un poco, a seconda dell’epoca e fioritura delle diverse specie.
Se si osserva un bulbo di giglio ci si accorge che, a differenza degli altri bulbi, esso non è protetto da una membrana esterna ed è perciò esposto all’aria e alla siccità; da qui la necessità di interrarlo quanto prima. Infatti se si ordinano bulbi a qualsiasi stabilimento orticolo dovranno essere spediti in pacchetti chiusi, riparati da torba umida.
Un altro avvertimento: ogni bulbo è accompagnato da un fascio di radici che ne sono una parte essenziale. Esse non dovranno assolutamente essere tagliate e all’atto della piantagione si dovrà fare in modo che vengano a trovarsi ben distese, affinché la pianta possa subito iniziare la sua nuova vita. Fioriranno alla fine di maggio e nelle diverse specie continueranno a fiorire in giugno – luglio – agosto, in un periodo in cui poche altre piante sono in fiore.



Nel lotto, nell’araldica, nell’onomastica…
Per chi sogna e gioca al lotto la Smorfia consiglia: giglio 5; gigli 66; giglio bianco 56, dipinto 36; giglio d’oro 51, di Francia 26, come arma nobile 33. Infatti, questo fiore ricorre spesso nelle arme gentilizie: il fleur de lis si ritrova in quella della famiglia Farnese, “ sei gigli azzurri in campo d’oro”; degli Acciaioli, stemma “d’argento al leone azzurro tenente un giglio d’oro”; degli Acquasparta “spaccato nel primo azzurro a nove gigli disposti cinque a quattro”; dei Fani, arma “d’azzurro alla fascia accompagnata in capo a un giglio ed in punte da un tronco di colonna il tutto d’argento”; dei Bolognetti “una faccia di donzella circondata da una ghirlanda in campo azzurro e di sopra tre gigli d’oro”… e poi dei Cardelli, Cecchini, Pamphili, Paracciani, Ricci, Serlupi e in chissà quante arme ancora!
Venendo a trattare di più comuni mortali, ricordiamo che Gigli e Giglio – con le alterazioni e i derivati Giglietti, Gigliucci, Giglioli, Gigliotti, Giglione, Gigliano, Gigliato, Gigliuto, Zigliotto, Ziggiotti etc., - costituiscono alcuni tra i cognomi più diffusi in Italia, originati, come è ovvio, da un nome personale legato al fiore del candore e della purezza.

Dorato in campo azzurro, dal XII secolo fino alla Rivoluzione francese e di nuovo durante la restaurazione, il giglio ha rappresentato il simbolo della Francia monarchica: non mancando di comparire per secoli, dall’inizio della Guerra dei Cent’anni fino al 1802, anche sullo scudo della Gran Bretagna, per significare le pretese della corona inglese sul vicino francese.

Delicato, aggraziato, raffinato, profumato questo fiore: con la ricchezza delle specie, la sua spontaneità ed adattabilità, la grande disponibilità a piegarsi alle voglie dell’uomo sembra riproporci l’idea di una Natura amorosa, benigna, propizia almeno per chi sa coglierne i messaggi sottili e silenziosi. Ma il giglio ci dice anche altre cose, quando con l’armonia delle forme, la delicatezza del profumo, la discrezione dei colori ribadisce, nella maniera sommessa che gli è propria, il valore della bellezza disinteressata contro ogni concezione bassamente utilitaristica della vita.

Non a caso a questo fiore fa riferimento un intellettuale raffinato come John Ruskin, quando nel suo celebre e polemico Le pietre di Venezia afferma: Le cose belle sono le più inutili; i pavoni e i gigli, per esempio.

28 gennaio 2010

"Piccoli smarrimenti quotidiani" di Titti Follieri


di Liliana Di Ponte

“La verità di ciò che accade nel seno nascosto del tempo, è il silenzio delle vite, e che non può essere detto (…). Ma è proprio ciò che non si può dire che bisogna scrivere”. Introdotta da una citazione di Maria Zambrano, la raccolta di racconti di Titti Follieri, Piccoli smarrimenti quotidiani, ci conduce in una dimensione nascosta e marginale di quella quotidianità in cui siamo immersi quasi senza rendercene più conto, così consueta da non sorprenderci più.

E invece all’improvviso, un frammento, un particolare ritagliato dal contesto attira l’attenzione, ed ecco la scoperta, “una sorta di epifania, lo svelamento dell’identità altrui e della propria”, come chiarisce l’autrice. In questo svelamento inatteso c’è lo smarrimento del titolo e il desiderio di raccontarlo, di scrivere, appunto, ciò che non può essere detto.

I sedici racconti sono distribuiti in due parti.
Nella prima, che coincide con il titolo, l’attenzione si sofferma sulla realtà esterna, per estrarne un’immagine, un dialogo, una situazione apparentemente banale, flash di vita raccontati in tono a volte realistico, a volte surreale, con venature ironiche. Centrali, nei rapporti interpersonali, i sentimenti, le sensazioni che intercorrono tra i vari personaggi, colti in un momento particolare del loro muoversi e collocarsi nel mondo.

Nella seconda parte, Dimore segrete, vi sono i paesaggi interiori più nascosti e una maggiore introspezione, sollecitata da una visione, da un sogno, dal sopraggiungere di ricordi che ricostruiscono, come in un puzzle, un’identità in crisi. La riflessione si fa più intima e approfondita e diviene consapevolezza.

Lo sguardo dell’autrice disegna dunque una movenza circolare tra esterno e interno, con un io narrante sempre diverso che osserva, riflette, racconta ed esprime il proprio punto di vista.
Può essere la visitatrice del racconto “La zia”, che assiste allo sgradevole monologo di una donna che si lamenta ad alta voce per il peso che le procura la gestione dell’anziana parente, che è presente ed ascolta.
Oppure è lo spirito di un cane, in “Attila”, che ricorda i luoghi e le persone con cui ha vissuto. O ancora, in “Volo d’angelo”, un misterioso interlocutore che si rivolge a una donna per raccontare, dall’esterno, la rivelazione di una parte rimossa della sua personalità.

Questa molteplicità dei punti di vista è un elemento che arricchisce la narrazione, la rende più vivace e induce il lettore a posizionarsi mentalmente in una prospettiva sempre differente.

La scrittura, il tono, lo stile che Titti Follieri adotta assecondano queste ottiche diverse, passando dalla descrizione apparentemente oggettiva alla riflessione più intima, dall’ironia più o meno marcata alla malinconia, dalla ricchezza immaginifica alla sobria essenzialità del raccontare.

Alcuni temi sono ricorrenti e creano il fil rouge che orienta nella varietà di situazioni.
Innanzitutto la relazione, tra le persone e con se stessi, presente in tutti i racconti. Ciò che le persone si dicono – e dunque si scambiano attraverso le parole – ma anche il non detto, i silenzi, i retropensieri, i fraintendimenti; oppure i comportamenti, i gesti compiuti per avvicinarsi o allontanarsi dagli altri, gli atti mancati. Ma anche la riflessione sulle proprie parole e sui propri silenzi, sul proprio modo di muoversi nel mondo, su quello che si era e che si è diventati.
Significativo, al riguardo, il racconto “Due donne”, con due amiche che s’incontrano in occasione della convalescenza di una delle due, ma non si ritrovano, per la diversità che ormai le separa.

Altro tema presente è la solitudine, esplicita o semplicemente evocata, ma quasi mai fonte di tristezza o di recriminazioni. E’ piuttosto un’occasione che è offerta ai personaggi per riflettere meglio sulla propria vita e sugli altri, una condizione che induce ad un acuirsi della sensibilità e a mettersi continuamente in gioco, alla ricerca di un’identità che non è data una volta per sempre ma è il frutto di un continuo lavoro d’introspezione. Come in “Gaie solitudini”, in cui due donne, che condividono una vita da single, si confrontano su due opposte visioni del mondo.

Un elemento frequente, soprattutto nella seconda sezione, è l’intreccio tra il presente, concreto e reale con le sue regole, e un altrove possibile, magari solo immaginato, sognato o desiderato come raggiungibile. Questo altrove è il luogo della riflessione, del sogno, del desiderio, ma anche del ricordo, che può essere fonte di piacere o portare con sé la tristezza, il rimpianto, la nostalgia per un tempo che non c’è più o per ciò che non si è più.

Ancora altre tematiche si ritrovano nella raccolta: la bellezza dell’arte, capace di suscitare forti emozioni (“Caravaggio”; “Kandinskij”); la presenza della natura, come legame con la concretezza del vivere, con le radici, con la memoria; il percorso spirituale non come “pratica” sovrapposta, ma come modus vivendi.

Qualcosa, infine, accomuna un po’ tutti i protagonisti dei racconti, pur nella loro diversità: il desiderio di non lasciarsi vivere, di essere presenti a se stessi, di non dimenticare chi sono ora e da dove vengono, di intendere la vita come ricerca di senso.



Titti Follieri, Piccoli smarrimenti quotidiani, Arezzo, Zona Editrice, 2009 pp. 124, € 14,00.



Titti Follieri vive a Firenze. Traduttrice dal francese e scrittrice, collabora con diverse riviste italiane – tra cui “Poesia”, “Il Ponte”, “Testuale” – e straniere, con traduzioni, saggi, testi poetici e narrativi.
Ha pubblicato le raccolte di versi Dell’amore il sogno (1980), Switmagma (1985), Topologia di un mandala (1991), il racconto Un arcobaleno (con il pittore Stefano Turrini, Morgana 2000) e il romanzo La voce delle mani (Pendragon 2003).
Ha curato e tradotto l’ “Antologia della poesia contemporanea del Quebec” (Crocetti, 1999). Altri suoi scritti compaiono in numerosi volumi collettivi. (www.tittifollieri.it).

26 gennaio 2010

"Due secoli di palloni gonfiati" di Luciano Luciani




Lumi e palloni
“ O della Senna ascoltami / novello Tifi invitto: / vinse i potenti argolici / l’aereo tuo tragitto. / Tentar del mare i vortici / forse è sì gran pensiero, / come occupar de’ fulmini /l’inviolato impero? / Deh! Perché al nostro secolo / non diè propizio il fato / d’un altro Orfeo la cetera, / se Montgolfier n’ha dato?”: brutti versi, trasudanti oratoria, ma anche una sincera ammirazione per l’intelligenza e il coraggio umani. Ne è autore Vincenzo Monti, che, allora giovane poeta emergente nella chiusa atmosfera della Roma papale di fine Settecento, cantava, con qualche blando anticonformismo, “il più leggero dell’aria”. Ovvero le ascensioni ideate da due geniali fratelli transalpini, Giuseppe e Stefano Montgolfier che, utilizzando un pallone gonfiato di aria calda, a partire dal 1783 per la prima volta nella storia dell’uomo, vincevano la maledizione della legge di gravità e iniziavano timidamente a percorrere le vie del cielo.

Se i poeti furono i primi a rendersi conto dell’inedita novità rappresentata dal “calcar le nuvole”, tanto per continuare ad usare l’entusiasta musa del Monti, i militari furono buoni secondi cogliendo quasi subito tutte le potenzialità belliche della nuova invenzione, gli aerostati.

E già nel 1794 la Francia rivoluzionaria impiegava con esiti piuttosto positivi mongolfiere da osservazione in occasione della battaglia di Fleurus (24 giugno 1794), con cui il tricolore francese tornava a sventolare sui Paesi Bassi.
Ai giovani ufficiali imbevuti di cultura illuministica della nuova Francia, i palloni aerostatici piacquero tanto che Napoleone decise di portarli in Egitto (1798 – 1799) insieme a 33 navi da guerra, 232 da trasporto, 2000 cannoni, 32300 soldati e 175 tra ingegneri e scienziati. Ma questa larga fiducia nelle scienze e nella tecnologia non portò bene al grande Còrso che vide i suoi aerostati subito individuati dagli inglesi, bersagliati e facilmente abbattuti.

Per quasi un secolo le sabbie egiziane avrebbero ricoperto l’affidabilità militare dei palloni più leggeri dell’aria…Un lungo intervallo scandito, però, da studi, ricerche, esperienze che muovevano ormai nel senso dell’aeromobile a sostentazione statica e in più dotato di propulsione: in una sola parola il dirigibile.
Si va da tentativi ingenui come quelli del lucchese Vincenzo Lunardi che nel 1784 in Inghilterra aveva provato a governare un pallone mobile servendosi di …remi, a quelli in anticipo sul suo tempo di Giovan Battista Meunier (1756 – 1793), che già nel 1786 aveva sperimentato un vero e proprio dirigibile in grado di orientarsi nell’aria grazie ad un’elica. Nel 1852 Henry Giffard, pilotando un aerostato spinto da un motore a vapore, volò per 28 chilometri alla velocità di 7 Km orari, impresa reiterata da Enrico Guglielmini… ma bisogna arrivare al 1884 per incontrare nei sobborghi di Parigi il primo dirigibile capace di partire da un punto determinato e farvi regolarmente ritorno.

Insomma, il “più leggero dell’aria” tornava al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica nel clima del nascente positivismo fervido di aspettative, di speranze, ma denso anche di veleni bellicisti e di umori imperialisti.

Palloni in uniforme
Sempre nel 1884 esordiva nel nostro Paese l’aeronautica militare: a Roma, presso un reggimento del Genio, si costituiva un “Servizio aeronautico” con un parco di due palloni, guidato dal cap. Pecori Giraldi. Nel breve volgere di pochi anni, questa nuova unità sperimentale affrontava il suo battesimo operativo partecipando nel 1887-1888 alla spedizione in Eritrea sotto il comando del gen. di San Marzano. Intanto la ricerca e la tecnologia legate al nuovo mezzo avevano conosciuto una forte accelerazione. Nel 1878 C. E. Ritchel aveva volato con un aerostato spinto da un’elica; nel 1884 Kreb e Renard avevano applicato al pallone un motore elettrico, ma il vero e proprio salto di qualità nella realizzazione del dirigibile si ebbe con gli studi e le esperienze del conte Ferdinando Zeppelin, che ideò e costruì un tipo di dirigibile a struttura rigida destinato ad affermarsi con una serie di modelli fino alla fine degli anni ’30 del nuovo secolo.

Lo Zeppelin compì il suo primo volo nel 1900 azionato da due motori a scoppio Daimler e sostenuto dai generosi finanziamenti del governo tedesco che aveva colto le grandi possibilità belliche del veicolo volante. Intanto in Italia il “Servizio aeronautico” nei 1894 si ampliava nella “Brigata specialisti” con annessi laboratori, officine e l’occhio attento ai progressi che in materia si andavano realizzando negli altri Paesi europei. I primi dirigibili ricolori furono l’”Italia” (1905) di Almerigo da Schio, il “Leonardo da Vinci” (1909), il “Città di Milano” di Forlanini, l’”Ausonia” di Piccoli… Esattamente un secolo fa, nel 1908, un dirigibile militare sperimentato e realizzato nei laboratori e nelle officine della Caserma Cavour volava da Bracciano a Napoli e vi faceva ritorno.

Nel 1911 le grandi manovre tenutesi nel Monferrato videro per la prima volta la partecipazione dei mezzi aerei: 2 dirigibili e una flottiglia di 5 aeroplani offrirono una prova sufficiente delle proprie possibilità belliche e furono prontamente impiegati nella campagna di Libia iniziata nello stesso anno. Il monopolio del cielo nordafricano solletica le diffuse ambizioni nazionalistiche: il “più leggero” e il “più pesante” dell’aria impiegati in operazioni di osservazione, avvistamento, ricognizione, assistenza alle fanterie, propaganda e qualche modestissimo bombardamento conquistano intanto le copertine colorate della “Domenica del Corriere”.

Ma la letteratura è più avanti
Anche la letteratura, che aveva così entusiasticamente celebrato le prime ascensioni in pallone, non poteva rimanere insensibile al fascino, alle possibilità e alle conquiste delle nuove macchine volanti.
Se Jules Verne nei suoi romanzi Cinque settimane in pallone (1863), Il giro del mondo in ottanta giorni (1873) e L’isola misteriosa (1874) aveva riservato all’aerostato interventi provvidenziali e quasi salvifici, testimonianza degli ingenui ardori positivisti del grande romanziere francese, in H. G. Wells il dirigibile diviene strumento non di liberazione, ma di distruzione e di morte. Si legga il suo La guerra nell’aria (1908): per l’autore d’oltremanica le sorti dei conflitti a venire si decideranno esclusivamente con il dominio dell’aria e vincerà quel Paese che sarà in grado di allestire una flotta aerea poderosa, efficiente e ben armata. E Wells, da buon inglese preoccupato per l’imperialismo germanico di quegli anni, prevede e paventa che toccherà proprio ai dirigibili tedeschi scatenare una guerra incontrollabile che incendierà tutto il pianeta. Ma dopo l’invasione degli Stati Uniti ed un disastroso e spietato bombardamento di New York, saranno le potenze asiatiche ad uscirne vincitrici, forti di migliaia e migliaia di aerostati, supportati da velocissimi e micidiali aerei monoposto. Però la guerra nell’aria si concluderà, in fondo, senza vinti né vincitori: la società umana infatti regredirà a livelli medievali e la conquista del cielo, male amministrata da una umanità inetta alla pace, si risolverà in un tragico e forse irreversibile arretramento civile e morale dell’intera umanità.
Nel primo conflitto mondiale che scoppierà di lì a pochi anni, lucidamente previsto ed anticipato dal romanziere inglese, non toccherà ancora alle macchine capaci di volare il compito di seminare terrore e morte. Gli orrori di questa guerra verranno piuttosto dall’utilizzo della mitragliatrice, del filo spinato, dei gas e dalla cecità degli alti comandi. Per vedere realizzati gli incubi wellsiani basterà attendere poco più di 20 anni…

Finisce l’età del dirigibile
Ma a quel momento il dirigibile, il “più leggero dell’aria” avrà fatto il suo tempo, sostituito dagli apparecchi più pesanti dell’aria, più governabili, più veloci, più efficienti, più sicuri.
Nonostante i servizi resi – fra il 1910 e il 1914 furono 35.000 i passeggeri delle linee aeree dei dirigibili Zeppelin e decine di migliaia, per milioni di chilometri, quelli trasportati lungo le rotte transatlantiche dal 1928 al 1936 – per questi giganti “più leggeri dell’aria” si preparava un malinconico tramonto. Sancito nel 1937 dal disastro a Lukehurst nel New Jersey quando uno Zeppelin tedesco, l’”Hindenburg” prende fuoco e precipita in pezzi causando la morte di 35 persone. Attraverso una drammatica radiocronaca, tutto il mondo segue in diretta e si commuove per la tragedia di questo dirigibile la cui fine coincide con l’esaurimento di una fase importante nella storia dell’aviazione.

22 gennaio 2010

“Una donna di immaginazione” di Thomas Hardy


di Gianni Quilici


Sono le due della notte. Voglio leggere. Ho una decina di libri iniziati, in tempi diversi. Scelgo Pessoa. Leggo due-tre pagine. Troppo dense per penetrazione di pensiero e poesia. Dovrei meditarci, scrivere. Lascio perdere. Decido di prendere una “short stories” uscita lo scorso anno, “Una donna di immaginazione” di Thomas Hardy, allegata a Repubblica-L'espresso. Un racconto di neppure 50 pagine in versione originale inglese, con la traduzione accanto. Inizio e finisco dopo le tre. L'ho letto “tutto d'un fiato”.

Perché?
Primo: è una storia in cui i personaggi hanno un loro “segno specifico profondo”, che si fa vedere e si fa sentire.
Lei è minuta, elegante, snella con una scintilla luminosa e liquida negli occhi, poetessa desiderante, senza però avere la capacità di esserlo davvero. Lui, il marito, è un industriale che fabbrica armi, alto e longilineo, perennemente assorbito dal suo lavoro, che mantiene solitamente con la donna un rapporto tenero e tollerante. Lei, che non aveva avuto grosse difficoltà ad accettarlo, le consentiva, infatti, una vita agiata e senza pensieri, lo trova ora gretto e grossolano.
In questa coppia, il cui rapporto sta mutando, si insinua come immaginario, quindi senza mai saperlo, un terzo: un poeta, un giovane solitario e sensibile, che ha da poco pubblicato un libro di poesie...

Ognuno di questi personaggi vive una solitudine propria. Mai si verifica un vero incontro. Il marito proietta la sua identità ed ha le sue gratificazioni nel lavoro. La donna vive un amore, senza mai incontrarlo, se non sulla pagina. Il poeta proietta il suo desiderio di corrispondenza amorosa su una donna totalmente immaginata, neppure trasfigurata come nel Dolce stil novo.
Un romanzo che ha radici sociali ottocentesche: la solitudine qui non è data dalla molteplicità (di rapporti), ma dall'isolamento (dell'esistenza). E' lo spazio e la significanza dell'immaginario, che determina poi il senso e la direzione della vita dei protagonisti.

Secondo: questa storia tuttavia riesce a diventare appassionante, perché rappresenta, attraverso il punto di vista della donna, un flusso di desideri, che rompono il tran tran di una vita abitudinaria e coatta, cercando di trovare una via di fuga e di realizzazione.

Il desiderio di “vedere come andrà a finire” nasce dal tumulto dei sentimenti che sgorgano nella donna, dal desiderio di realizzarli, dai comportamenti coraggiosi, dalla successione imprevedibile dei fatti... Il finale con la sua esemplare, geniale asciuttezza esprime -come si osserva nell'introduzione- una filosofia disperata dell'esistenza, che risente dell'influenza della filosofia tedesca negativa da Schopenhauer a Stirner. Cosa c'è stato,infatti? Solitudine, inconsapevole indifferenza, casualità, tragedia. Cosa rimane? Nulla. Perfino gli “innocenti” pagano.

Thomas Hardy. Una donna di immaginazione (An Imaginative Woman). Traduzione di Mauro Formaggio. La biblioteca di Repubblica-L'Espresso.

"Villaggio Mare Blu" di Sandro Bartolini


di Luciano Luciani


Picaro della vita, Agostino, più di vent’anni e meno di trenta, si aggira nel suo tempo, all’incirca la metà degli anni Ottanta, tra lavori precari e un compiaciuto disordine sentimentale. Ingordo dei cibi di casa, quelli che sanno cucinare come si deve solo la mamma, le zie e la nonna, vorace di sesso, il nostro simpatico furfante conduce l’esistenza propria degli eroi senza qualità di tanta provincia toscana: il bar, gli amici, le carte, il biliardo, le ragazze facili da una botta e via e la spasmodica ricerca di un’occupazione qualsiasi. Inetto ben intenzionato, pieno di ottimismo e buona volontà uniti a una forse eccessiva fiducia nei propri mezzi, Agostino individua la sua grande occasione nell’apertura di un ‘villaggio vacanze’ a gestione franco - italiana, meta e sogno di tutti i disoccupati e i precari della zona compresa tra le colline pisane e la costa tirrenica. Assunto in maniera fortunosa con la mansione di pizzaiolo, il nostro modesto eroe è costretto a tirare fuori il meglio di sé: non solo si inventerà ex novo una professionalità, ma dovrà darsi anche e alla svelta un’etica del lavoro e una disciplina interiore fatte di ordine, serietà, responsabilità.
Sarà dura per Agostino e mille le trappole, professionali ed emotive, disseminate lungo questo suo difficile percorso di maturazione che si dipanerà nel corso di una calda, lunga, indimenticabile estate.

A conseguire con pienezza i suoi obbiettivi di giovane uomo impegnato in un difficile processo di maturazione lo aiuteranno l’amabile ribalderia che gli è connaturata; un sentimento forte dell’amicizia, ricevuta e profusa a piene mani; lo sguardo ironico, scanzonato e disincantato con cui in ogni occasione dimostrerà di saper guardare alle relazioni tra gli uomini (e le donne!) e ai rapporti di potere che si instaurano sempre in tutte le società e quindi anche nella piccola polis di un ‘villaggio vacanza’.

Una storia personale e generazionale, un’intelligente lezione di vita, raccontata secondo i modi del romanzo picaresco e del romanzo di formazione che l’Autore, al suo esordio letterario, ci partecipa con una scrittura diretta, immediata, incisiva capace di delineare, con fisica vivacità, figure e situazioni nella tradizione del miglior bozzetto toscano lungo una linea che va da Renato Fucini a Luciano Bianciardi.



Sandro Bartolini, Villaggio Mare Blu, Edizioni Il Grande Vetro, Santa Croce sull’Arno, Collana I Vagabondi, distribuzione PDE, pp.180, Euro 10.

21 gennaio 2010

Discussione su " La crisi della parola"


Mary Madda
Le radici di questo le hai indicate sinteticamente ma in modo chiaro e incisivo
Sottolineo solo quanto sia importante questo fenomeno: la parola è pensiero
Aggiungo solo che la perdita del congiuntivo è perdita del pensiero ipotetico

Luca Chiappini
Una vera e propria peste del linguaggio alla Italo Calvino, ecco un estratto delle sue "Lezioni americane" che può ricordarti qualcosa:

"Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze.
Non mi interessa qui chiedermi se le origini di questa epidemia siano da ricercare nella politica, nell’ideologia, nell’uniformità burocratica, nell’omogeneizzazione dei mass media, nella diffusione scolastica della media cultura. Quel che mi interessa sono le possibilità di salute. La letteratura (e forse solo la letteratura) può creare degli anticorpi che contrastino l’espandersi della peste del linguaggio
"

Mary Madda
interessante, salute- letteratura...


Antonio Nannipieri
Bell'intervento, su un tema importante. Io sono forse più ottimista, tuttavia...

Nara Ricci
Argomento complesso , credo sia importante avere una buona conoscenza della lingua, è con le parole che si esprime un concetto che sia semplice o difficile e se non si adottano termini corretti anche il senso può cambiare...

Marianne Ladi
Si assiste da tempo all'appiattimento in tutti i campi, mi chiedo se possa essere una sorta di autodifesa alla iper-stimolazione che il più delle volte subiamo passivamente.


Elisa Herbst
Mi trovo in una posizione ambivalente nei confronti di questa tua:
- mi piace, mi piaci per quello che dici, per l'appello che mandi e per come lo hai scritto;
-non mi piace, ti trovo esagerato, nel voler trovare le cause in una persona o fazione politica che in fondo ha meno colpe dei nostri singoli genitori o di tutti quelli venuti prima.
A sensazione, capisco che vuoi proporti come filosofo scrittore della tua corrente politica preferita, per gettare le basi concettuali, oltre che il corpo nella lotta... ma io che amo le forme espressive in quanto tali, provo noia e vedo banalita' nel ricondurre qualcosa di cosi' importante (come sottolineato nella fase iniziale) alla lotta contro "Berlusconi" o nella lamentela di una opposizione inesistente.

La crisi della parola e del pensiero c'e' e sai perche'? Perchè è diventata principalmente strumento politico,quindi demagogico, populista, di marketing e comunicazione di massa. Nel mio modo di vedere, chi lamenta una crisi del genere e la inserisce in quel contesto, ha solo bisogno di un nuovo piano di marketing o di aderire ad un diverso partito politico.... Altrimenti e' bene che si occupi di attingere altrove una nuova visione,quindi nuovi pensieri e parole, per far rivivere la nostra lingua e la nostra cultura. Gli anni '60 sono passati e qualcuno li ha bruciati, lasciando a noi, nuove generazioni, solo fumo e polvere in versi.

Umberto Franchi
Sono molto d'accordo con le tue considerazioni... ne aggiungerei una: le radici di "questa morte" stanno anche nella l'avidità... molta energia vitale che potrebbe essere spesa nel dare e non nell'avere, viene incanalata verso l'oggetto del desiderio e la parola viene rinsecchita dissanguata al solo fine del proprio IO...

Patrizia Cadau
Condivido pienamente e totalmente. Soiprattutto sull'ultimo punto, sulla marginalizzazione di chi cerca sempre la mediazione della ragione, la criticità di un sospetto, la curiosità di una diversa interpretazione. In una parola, la marginalizazione dell'intellettuale libero.

Le parole ce le abbiamo tutte, sono nei nostri dizionari, ma i dizionari non si usano più, difficilmente al liceo o all'università s'incontrano ancora persone capaci di stilare pensieri organizzati su carta, con una certa logica e pulizia dell'eloquio.
Accetto anche che parte del degrado, fermo restando la responsabilità del singolo, che non cresce perchè non ne ha voglia, perchè ha quattro parametri semantici di riferimento e quelli usa senza preoccuparsi che ce ne possano essere altri, accetto dicevo che parte di questo sconcio stia anche nel berlusconismo, in questo soggetto privo di morale e senso del pudore ma pieno evidentemente di carisma sulle troppe casalinghe/i di Voghera

Gianni Quilici
A tutte-i grazie e a volo d'uccello.

x Luca. La letteratura (e in generale l'arte) crea anticorpi quando è tale, ma è anche la politica, che dovrebbe, in un certo senso, "farsi letteratura", cioè analisi rigorosa, passione intellettuale, comunicazione espressiva (si pensi a Gramsci).

x Elisa. Ciò che accenno va oltre Berlusconi e il berlusconismo: riguarda la cultura di massa, i suoi contenuti e linguaggi, la società liquida analizzata da Bauman, le conseguenze psichiche che ne conseguono, affrontate da Galimberti ecc.
Berlusconi e il berlusconismo hanno portato un di più, ciò che notate anche tu e Patrizia, la parola usata come pubblicità aggressiva, che cerca di imporre l'irrazionalità come pensiero e che esclude il confronto serrato, ma di ascolto reciproco, sulle cose.
Esempio: come si può discutere seriamente sul processo breve o sul consiglio superiore della magistratura che è di sinistra... Con la DC si poteva... oggi non più e questo "modo di essere" si allarga allo spettacolo di intrattenimento, ai talk show... Non tutti sono così lo sappiamo e questo ci dà energia, immaginazione, desideri...

Ilaria Pieroni
..tanto banali, come considerazioni, non direi....giusto adesso sto leggendo un libro che alla sua maniera affronta anche quest'argomento... "Farenheit 451"di Ray Bradbury.. molto surreale, ma passa il messaggio...

Mary Madda
Dopo una conversazione di oggi, mi è venuto in mente come si potrebbe analizzare l'uso di parole che da sole aprono problemi etici, politici, scientifici, un esempio "razza",

Gretel Fehr
Succede che si confonde la causa con l'effetto, il significato con il significante, in questa corsa all'ultima parola...

Mary Madda
Ci sono diversi fenomeni, come il cambiamento di significato per uno stesso significante oppure la sostituzione di significati a un significante,...
Mi viene in mente Nanni Moretti in Palombella rossa :- Ma come parli???

Ilaria Sabbatini
E' da un pò che rifletto su questo tema anche perché per me è un problema pratico, dato che con le parole e coi concetti ci lavoro.
Ho riscontrato, dal lato storiografico, che mancano parole nuove adeguate ai concetti che via via si vanno rinnovando. E al contempo ho verificato che non è solo un problema della storiografia o delle discipline sorelle, ma anche delle riflessione politica intesa nel senso ampio e non nell'accezione strettamente partitica. I partiti inventando parole d'ordine, slogan, che proprio per la natura si richiamano a concetti diffusi e facilmente individuabili. La riflessione politica invece è qualcosa di diverso. Non di più alto o più basso. Non ne faccio una questione di dignità. Ma semplicemente di diverso.
La riflessione politica (come la riflessione storica, quella letteraria, quella sociologica e via dicendo) dovrebbe essere una "punta" di diamante. Dovrebbe essere, per usare una metafora, come il rostro di una nave rompighiaccio che apre una strada nuova, a volte sconosciuta, da sperimentare. E in questo processo di esplorazione dei significati si dovrebbero generare i significanti nuovi - le parole - che seguono i concetti nuovi dando loro la possibilità di essere trasmessi da una persona all'altra. Una sorta di ali che permettano alla crisalide mutata in farfalla di girare liberamente.
Il problema è che questo processo di esplorazione si è fermato, o comunque procede a fatica, cosicché non nascono parole nuove e per i pochi concetti nuovi che vedono la luce non ci sono abbastanza "pensatori" a tenerli a battesimo con un loro nome. La riflessione politica si è seduta e ha pensato di poter vivere di rendita di tutti i pensieri che ha generato in passato, ma non è così. Non può essere così. La società cambia e con essa i fenomeni e con essi i concetti e con essi le parole che li descrivono.
Il problema è soltanto uno: se il linguaggio della politica non produce più concetti (e intendo analisi, filessioni e progettualità) chiediamoci chi li produce...


Laila Pifferi
la crisi della " parola " è parallela ad altre crisi cui assistiamo quotidianamente. La povertà di linguaggio deriva da una insufficiente conoscenza di noi stessi, delle nostre origini, delle nostre idee che vanno a morire nell'indifferenza, nostra e altrui. Avere un'ideale, un sogno anche, qualcosa che ci spinga in una certa direzione, cercare di capire, informarsi, discutere, proporre...Cercare altre fonti di informazione, costruire i nostri pensieri in base a ciò che è più vicino alla verità, coltivare la nostra fantasia cercando di coglierne il frutto nelle sensazioni, nelle emozioni, nella sensibilità di cui spesso ci vergogniamo. Non avere paura ad esprimere un pensiero, per quanto possa essere illogico o strampalato, è comunque qualcosa che può portare ad intuire ciò che si nasconde nella stereotipata elaborazione razionale di cui siamo spesso vittime consapevoli. Ascoltare, privilegiare l'ascolto perchè permette di osservare chi sono gli altri, e di conseguenza chi siamo noi.
Le diversità portano a capire meglio le verità, le verità ci avvicinano agli ideali, gli ideali ci permettono di "essere", e di "volere".
Leggere, di tutto, sempre, sottolineando, estraendo, facendo nostri i concetti in cui crediamo, sperimentando le idee altrui, liberandoci dai pregiudizi, dai condizionamenti. Le parole sono la vera azione, il movimento che permette la crescita intellettuale, la nostra arma di difesa contro l'arroganza del tempo che viviamo, contro i falsi idoli che creano disuguaglianza, ingiustizia, schiavitù morale ed intellettuale...
"Noi"...che bella parola!

20 gennaio 2010

"La crisi della parola" di Gianni Quilici



Spesso usiamo un linguaggio fatto di parole morte,
di cliché, di ripetizioni, di termini generalizzati e convenzionali,
senza neppure quella necessità che viene dalle contraddizioni della vita...

C'è, da tempo, una crisi della parola,
c'è una crisi dei contenuti che stanno dentro le parole
c'è la necessità di "curare le parole", di inventare un nuovo vocabolario-linguaggio
fatto di concretezza e di ricchezza, di tensione intellettuale e di ricerca, di ritmo e di emozione, di verità.

Quali sono le radici di questa “morte”, mi chiedo.
Rispondo per titoli, ossia schematicamente.

Nella stupidità della cultura di massa
Nel sovraccarico di informazione e di frammentazione della “società liquida” in corsa.
Nella violenza con cui il berlusconismo si è insediato nel pre-conscio della maggioranza della Popolazione.
Nel conformismo dell'opposizione che nella ricerca interclassista e moderata della mediazione non dice le verità, non “parla” alla coscienza e cultura del Paese.
Nella marginalizzazione di chi, invece, è radicale (va alla radice) nelle analisi ed è espressivo e vibrante nella comunicazione.

“A me stesso” di Oswald Spengler


di Gianni Quilici


Che tipo di recensione -mi sono chiesto- si può scrivere su questi appunti così personali?
La prima risposta è ovvia: cercare di tratteggiare la personalità di Oswald Spengler così come appare da queste note autobiografiche scritte tra il 1911 e il 1919, nel periodo, cioè, in cui lo scrittore tedesco era impegnato alla stesura del suo libro più celebre Tramonto dell'Occidente.

Il nucleo centrale di questi ricordi, aforismi e riflessioni è la solitudine, una solitudine estrema.
Scrive infatti Spengler: “Sono sempre assillato e tormentato da una paura indefinibile e sconfinata che mi impedisce il sonno... Ho paura a prendere in affitto un appartamento, di aprire una lettera, di scrivere qualcosa... di tutto ciò che è femminile, timidezza esagerata, ridicola... di ogni adulto, anche dei miei compagni di scuola...Incubi: l'orribile verme che allunga la testa fuori dal braccio. Paura della morte; lo strappo via. Subito, al suo posto, un'altra testa. E poi un'altra e un'altra ancora".

Questa paura ha una causa: “Ciò che sono diventato lo devo all'educazione sbagliata e mortificante di mio padre...l'infelice matrimonio di mia madre.. mia madre, sempre incerta... mai ci insegnò come comportarci. Lasciava che fossimo noi a trovare la forma e, se facevamo errori, ci biasimava, come se potessimo imparare da soli...”

In contrasto con questa paura nevrotica, immaginazioni di gloria, della cui irrealtà era, però, consapevole. Scrive: “ Insensatezza della mia vita. Fin da bambino la smania di essere Napoleone, grande uomo politico, statista, di modificare la carta geografica...ho sempre pensato che sarei dovuto diventare una specie di messia. Fondare una nuova religione del sole, un nuovo regno universale, un paese incantato, una nuova Germania, una nuova concezione del mondo...”

Aspirava più modestamente, anche, a orizzonti possibili: “...il desiderio di una abitazione solitaria, tre o quattro conoscenti, che sappiano tutti parlare di cose ultime... una fanciulla con un bel corpo, di buon umore, silenziosa e di buon carattere... Niente cani. Pochi libri...” Soprattutto ciò che lo angustiava era “la mancanza di compagnia intellettuale...di spiriti del mio stesso rango in grado di apprezzare e comprensivi...”
Da qui uno sdoppiamento: “...e, mentre parliamo, il mio secondo io che interviene: per l'amor del cielo non dire la verità, non dire niente di profondo, non verrebbe capito...”

Tutto questo lo capisce ma sente di non avere la forza di cambiare. “...Per un'intima viltà e debolezza, ho seguito il branco ingoiando e ricambiando i suoi scherzi insulsi, la sua filosofia piatta, le sue squallide visioni della vita... Ancora oggi non so spiegarmi per quale motivo mi manchi la forza di scuotermi di dosso queste persone...”

Infine convivono in lui un atteggiamento aristocratico (“ un uomo superiore”), che nasce forse da una condizione oggettiva (“il sordido popolo di letterati che bighellona scribacchiando...”) e soggettiva (l'isolamento), ed uno, invece, di compassione nei confronti delle persone più umili: “Quando vedo una vecchia entrare timorosamente in un negozio, o esaminare le merci esposte in una vetrina, oppure contare i soldi, vengo colto da un così tremendo senso di compassione...”.

La seconda risposta è più problematica e complessa e qui posso soltanto segnalarla: quali sono, cioè, le ragioni del contrasto profondo tra questo tipo di uomo debole e disperato e l'immagine completamente diversa che si ricava da Tramonto dell'Occidente? Vale a dire “l'uomo d'acciaio, dall'animo forte e del tutto ametafisico, che vede quale suo modello il Romano senz'anima, l'uomo d'azione che disprezza il Graeculus histrio artista e filosofo...” come scrive nella sua articolata nota il curatore Giovanni Gurisatti.

Sembrerebbe quasi che il suo pensiero politico-filosofico nasca da una illibertà, da condizionamenti, che sia, cioè, anche una rivalsa ad una condizione di frustrazione personale o un “voler essere” soltanto vagheggiato.

Oswald Spengler. A me stesso. A cura di Giovanni Gurisatti. Adelphi. Pag. 130. Euro 6.20.

"Silvio Micheli che mise la sua pagina al servizio degli umili"


di Luciano Luciani


Vent’anni fa
Nel marzo del 1990, presso l’ospedale “Tabarracci” di Viareggio, dopo una lunga malattia, moriva, all’età di 79 anni, Silvio Micheli, lasciandosi alle spalle una fama di scrittore civilmente impegnato e intelligente organizzatore di cultura. Con la sua scomparsa giungeva alla sua conclusione un itinerario culturale, politico e umano che era iniziato nella Viareggio degli anni ’30, quando la città era ricca di presenze culturalmente significative come quelle di Mario Tobino, Lorenzo Viani, Enrico Pea, Elpidio Jenco…

Era nato, Silvio Micheli, il 6 gennaio del 1911 da “una famiglia di lavoratori. Brava gente versiliese che ha seguito per generazioni il lento ritirarsi del mare sino a Viareggio”. Diplomatosi perito tecnico industriale a Pisa, nel corso della sua vita aveva lavorato in un primo tempo alla Piaggio e in seguito alla Fiat come disegnatore meccanico. La sua attività lo aveva portato negli anni ’40 anche a Napoli, presso le Industrie Meccaniche e Aereonautiche Meridionali, la sua “più duratura e soddisfacente esperienza lavorativa”. Qui era entrato in contatto con il mondo del lavoro, la sua cultura e le sue lotte per migliori condizioni di vita. Probabilmente a Napoli maturò la sua poetica di narratore realista, all’interno della quale assumeva una particolare importanza la classe operaia: Micheli sentiva di condividerne le ansie quotidiane, le speranze, le aspettative per una società più giusta e umana. Napoli e i suoi lavoratori furono per Micheli decisivi per il suo “primo vero contatto con la realtà nell’agganciare le sorti della letteratura a quelle della vita”.

Un intenso dopoguerra
“Anch’io ho subito tutta la guerra. Mi detti al ‘bosco’ nel 1942, quando mi chiamarono alle armi. Ho molto lottato e molto sofferto. Ancora ho mia moglie e il figlio e ho scritto”. Così, in una lettera a Fidia Gambetti del dicembre 1945, Micheli sintetizza gli anni della guerra trascorsi in condizioni molto simili alla clandestinità nella casa della madre e insieme alla famiglia. Nella battuta finale “ho scritto” l’individuazione di una vocazione e di un destino.

Infatti, ritornato a nella cittadina versiliese dopo l’esperienza napoletana, Silvio Micheli decise di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura e per vivere collaborò a quotidiani e riviste politicamente schierate come “L’Unità” e “Vie Nuove”. Certo, le sue idee politiche non lo aiutarono a fare carriera o a raggiungere una tranquilla situazione economica.

Il suo esordio letterario è comunemente indicato nel romanzo Pane duro, scritto tra il 1940 e il 1942, che gli valse il Premio Viareggio edizione 1946, la prima dopo il conflitto mondiale e la liberazione: un lavoro di evidente ispirazione neorealista, che denunciava la guerra e chi l’aveva voluta, le sue devastazioni e le sue miserie materiali e morali.

Secondo Italo Calvino, Pane duro rappresentò uno dei primi tentativi della nostra letteratura di mettere il lavoro al centro di un’opera narrativa, di costruire un “romanzo di fabbrica” sul modello della letteratura sovietica, allora imitata e ammirata: a suo giudizio, si trattava di un’operazione non del tutto riuscita, ma in ogni caso interessante, nuova, apprezzabile per vigore di stile e sincerità d’ispirazione. Da una ricerca condotta alla Fiat nei primi anni ’50 fra settemila operai risultò che Micheli era uno degli autori più letti: non fa meraviglia, quindi, se il romanzo Pane duro e il successivo Tutta la verità, Einaudi 1950, furono tradotti con grande successo in Polonia, Romania, Cecoslovacchia e Unione Sovietica.
Per Cesare Pavese, Pane duro fu una delle prime esperienze narrative che contribuì a svecchiare i condizionamenti letterari parlando un linguaggio “nuovo e intatto”. Protagonista del romanzo, una famiglia: un uomo, una donna, un figlio e una vecchia madre. La storia comincia con lo scoppio del secondo conflitto mondiale il 1 settembre 1939 e arriva fino all’entrata in guerra dell’Italia il 10 giugno 1940. Il protagonista, che narra in prima persona e resta anonimo sino all’ultima pagina, mobilitato per gli eventi bellici, si ritrova per un lungo periodo su un’isola dove scrive e racconta la disaffezione del cittadino comune nei confronti di una guerra che non condivide. Non è una cronaca, ma la testimonianza di uno stato d’animo diffuso, ribadito dall’affermazione “Diario mio e di tutti“. Nella seconda parte compaiono i bombardamenti delle città italiane e l’invasione tedesca. Alla fine di questa esperienza il protagonista ha vissuto quattro anni senza mai vedere né la moglie, né il figliolo: la clausola finale del romanzo è “ma la guerra mi ha lavato gli occhi e io dico: noi siamo la verità.“

I libri sulla marineria versiliese

Pane duro sarebbe dovuto essere tradotto anche negli USA, ma le idee di Micheli, ribadite con coerenza e con forza nel clima pesante della “guerra fredda”, bloccarono questo progetto e lo stesso accadde per l’idea di un film sui palombari dell’Artiglio. Micheli non faceva distinzione tra storia e cronaca. Per lui nulla era più reale della cronaca e proprio per questo si imbarcò nell’impresa di raccontare la vicenda e i protagonisti dell’Artiglio: una storia nascosta che ancora aspettava di essere narrata, quella della vita e delle gesta dei palombari e marinai viareggini che erano stati capaci di recuperare un tesoro sommerso in pieno Atlantico. Scrupolosissimo nel suo lavoro di ricostruzione, Micheli decise di intervistare i superstiti di questa straordinaria avventura, vecchissimi, in alcuni casi addirittura novantenni, e per documentarsi non esitò a trasferirsi a Trapani.

Da questo scrupolo documentario nascono anche Gran Lasco e Una famiglia viareggina sui mari del mondo, 1972, dedicati al mare e ai suoi eroi, quelli veri, quelli della navigazione a vela: lavori che hanno contribuito a diffondere la fama marinara della Versilia e in cui non interviene mai la rielaborazione letteraria ma prevale la presentazione fedele di dati, testimonianze, informazioni, interviste ai lavoratori del mare. Il linguaggio utilizzato è quello specifico dei marinai, gergale, secco, prosciugato. La sintassi, assolutamente sobria, ricorda l’essenzialità dei libri di bordo.

Un uomo di cultura schierato con gli umili

Uomo colto, Micheli, amava l’arte e, nel tempo libero dal lavoro, dipingeva e scolpiva: non a caso, tra i suoi amici più intimi sono da annoverare i pittori Mario Marcucci, Eugenio Pardini e Renato Santini.
Da buon viareggino era legatissimo al mare, ma, almeno fino a quando la malattia non lo costrinse ad abbandonare, praticò con passione anche l’alpinismo. Tra le numerose attività culturali che lo hanno visto protagonista – a testimonianza di un’acuta sensibilità per la modernità e il mutamento – non va dimenticato uno dei suoi ultimi impegni, quello di direttore di “Televersilia”, una delle prime emittenti televisive locali. Attivissimo nella vita culturale della sua città fu spesso giudice nelle giurie del Carnevale di Viareggio di cui, con grande sapienza letteraria, amava rievocare le origini che lo apparentavano al mare: “A quel tempo il carro del Carnevale nasceva odoroso di ragia e pece come un bastimento, nello stesso cantiere, a colpi d’ascia e a colpi di mazzetta… Un colpo d’ascia e una carezza a palmo aperto perché la mano potesse sfiorare il disegno, perché l’occhio potesse seguirne le linee: come a bordo. Marinai e calafati, sbozzatori e carpentieri, qualche imbianchino segretamente iniziato all’arte del pittore o per dir meglio alla decorazione, e sozzellai e intagliatori; erano questi, ciascuno a modo suo, a dare l’opera dopo il travaglio giornaliero a bordo o nei cantieri.”

Tutta la verità

Ma la personalità di Micheli la ritroviamo soprattutto nelle sue pagine, nei romanzi e nei racconti. In ognuno c’è qualcosa di lui, del suo modo di pensare, della sua poetica: “ Comincio con lo scrivere quello che sento di avere da raccontare; un giorno troverò anche il modo migliore di dirlo”. Nel romanzo Tutta la verità, 1950, s’impegnò a fondo per rappresentare il mondo del lavoro, una realtà ritenuta “bassa” e poco degna di attenzione e di letteratura. La sua sensibilità muove verso l’ “uomo” con la u minuscola, la gente comune e tende anche alla rivalutazione della cultura tecnico-scientifica da sempre trascurata nella nostra narrativa. Ed ecco che si comprende meglio la sua espressione “noi siamo la verità”, che appare nel suo Pane duro, proprio per ribadire che la verità si ricava non dalla storia dei grandi uomini, ma da quella dei piccoli, modesti eroi quotidiani che sperano, soffrono, lottano… Altro grande successo di Micheli, Tutta la verità rappresenta un tipico esempio di romanzo che punta ad affrontare un nocciolo fondamentale della società italiana: la differenza tra le classi sociali.

Il facilone

Micheli tornerà a parlare della condizione operaia anche nel romanzo Il facilone, 1959, costruito sulla figura di un operaio che si trova a gestire una piccola azienda familiare. Fabbrica e famiglia sono tutto il suo mondo e le sue ragioni di vita, ma le responsabilità che ne derivano non sono vissute chiaramente e fermamente. L’uomo tende sempre a sfuggirle, ripiegando dalla fabbrica alla famiglia e dalla famiglia alla fabbrica. Alla prospettiva di un sacrificio o di un impegno, perdute le speranze fiorite nel dopoguerra, anche gli uomini sembrano mutati: l’individuo si ritrova solo e non c’è ambiente o idea che possa risollevarlo e farlo sentire uomo tra gli uomini. Cogliendo la minuta verità quotidiana di una fabbrica e di una famiglia, Micheli svolge un tema morale altamente drammatico, quello della responsabilità verso se stessi e verso gli altri. I destini personali cedono alla storia, anzi alla Storia che incombe su tutti.

"Tonno. Una Storia d'Amore" di Richard Ellis


di Elisabetta Bastai

Pollo di Mare…Non avrei mai pensato che una ditta che produce prodotti di mare in scatola americana paragonasse il magnifico tonno ad un pollo. Da un lato questo paragone mi fa pensare erroneamente a cibo che è poco costoso ed abbondante come se il tonno fosse un’animale domestico allevato in una fattoria e non uno dei pesci più veloci dell’oceano. Dall’altro questo ‘pseudonimo’ è piuttosto appropriato, perche’ l’apparenza e la qualità della carne di alcune specie di tonno ci può ricordare proprio quella del pollo. Tuttavia, una ragione meno conosciuta per chiamare giustamente il tonno Pollo del Mare è che questo pesce fisiologicamente assomiglia di più ad un animale a sangue caldo come un’uccello che a un pesce. Al contrario della maggioranza dei pesci, il tonno ha la capacità di ritenere l’energia termale prodotta dal suo metabolisimo e mantenere una temperatura corporea superiore a quella dell’acqua che lo circonda.

Io non conoscevo questa incredibile caratteristica fisiologica del tonno finchè recentemente vidi per puro caso nella mia bilbioteca locale l‘edizione paperback del libro di Richard Ellis Tonno, Amore, Morte e Mercurio. Fin da bambina sono sempre stata un’entusiasta del mare ed essendo un’artista non c’è da meravigliarsi se l’illustrazione , dipinta dall’autore stesso, di un tonno sulla copertina del libro ha attirato la mia attenzione e mi ha fatto ricordare sapori ed odori del mio paese di nascita: l’Italia. Senza esitare presi in prestito il libro ed incominciai a leggerlo con estrema curiosita’. Pochi giorni dopo comprai l’edizione hardcover del libro (intitolato in modo leggermente diverso: Tonno Una Storia d’Amore) durante una visita ad una libreria di Seattle.

Fino a quando avevo circa 27 anni ho mangiato regolarmente qualsiasi tipo di pesce, frutto di mare e tonno in scatola, talvolta anche fresco. A quei tempi vagamente avevo sentito parlare della mattanza, un modo di pescare il tonno con grandi reti ed arpioni usato in Sicilia. Non mi è mai venuto in mente di saperne di più di questo ed altri metodi di pesca che i pescatori commerciali usavano , ed ancora usano, per catturare questo pesce migratore. Non sapevo che la maggior parte di questi metodi di pesca decimavano non solo la popolazione del tonno, ma anche quella di altri animali marini, delfini inclusi. Per anni ed anni ho preso il tonno per scontato e non mi sono mai scomodata di leggere qualche altra cosa riguardo a questo pesce.

Nel 1991 ho smesso di mangiare pesce e frutti di mare. Circa un’anno fa sono diventata una subacquea ed ho incominciato ad esplorare le acque dell’oceano Pacifico del Nord. Successivamente incominciai a fare del volontariato all’acquario di Seattle. Fare la volontaria all’acquario mi sta dando l’opportunità di saperne di più degli effetti negative causati dalle attivita’ umane ed ho imparato che la salute del Mediterraneao e degli oceani è deteriorata in modo allarmante da quando ho lasciato l’Italia nel 1989.

Il libro di Richard Ellis è un tentativo di farci rendere conto che il tonno, una comodita’ alimentare che milioni di persone continuano a prendere per scontato come feci io anni fa, è sull’orlo dell’estinzione. Se non cominciamo a cambiare le nostre abitudini alimentari le file di scatolette di tonno al supermercato saranno presto un ricordo del passato.

Come subacquea non vedro’ mai un tonno sfrecciare come un proiettile sott’acqua e da tempo ho smesso di mangiare la sua carne, per cui che cosa mi importa se questo pesce viene pescato fino a che sia completamente eliminato dalla faccia degli oceani?
Ellis cerca di rispondere a questa domanda descrivendo la straordinaria fisiologia del tonno, la storia dello sviluppo della pesca commerciale di questo pesce, il suo impatto distruttivo sull’ecosistema marino e l’insaziabile avidità umana per la cattura di alcune specie di tonno, in particolare quello a pinna blu (o tonno rosso), per il mercato del pesce giapponese, dove recentemente un singolo esemplare è stato venduto per $ 177,000 (circa 124.000 euro).

Inoltre l’autore ci guida tra le acque nebulose ed ingannevoli della politica internazionale che si occupa di creare regolamentazioni internazionali della pesca del tonno. La maggior parte delle quali sono sate pochi efficaci , o del tutto deleterie, per preservare la popolazione del tonno ad un livello sostenibile, perchè sono state il frutto di accordi e decisioni superficialmente valutate dalle nazioni che hanno un forte interesse nel continuare questo tipo di pesca.

In questo quadro cosi’ poco rincuorante, Ellis suggerisce che forse la salvezza del tonno risiede nell’addomesticarlo proprio come un pollo. L’autore ipotizza che allevare il tonno in ‘fattorie’ marine con tecnologie che minimizzimo l’impatto ambientale e senza effetti collaterali negativi puo’ essere una valida soluzione per salvare questo pesce dall’estinzione. Tuttavia l’acquacultura intensive di altre specie di pesci , in particolare il salmone, condotta senza riguardo per l’ecosistema marino in generale, ha creato altri problemi che stanno minacciando la sopravvivenza di popolazioni di salmoni selvatici preestitenti. I principali paesi interessati a condurre l’allevamento del tonno sono l’Australia ed il Giappone. Questo tipo di aquacultura è allo stato iniziale e solo recentemente gli acquaculturisti australiani sono riusciti a fare riprodurre il tonno a pinna blu in cattività. Con il tempo si saprà se questo tipo di acquacultura avrà successo.

Richard Ellis ha aggiunto un’estensiva bibliografia alla fine del suo libro dimostrando che ha condotto una ricerca approfondita, esprimendo diversi punti di vista.

Purtroppo, pero’, Ellis presenta il suo materiale in capitoli che sembrano essere troppo indipendenti gli uni dagli altri. La decisione editoriale di strutturare il libro in questo modo trasforma il testo in una collezione di vari articoli che sono carichi di ripetizioni e contradizioni inutili.

Nonostante la mia occasionale frustrazione ho continuato a leggere Tonno Una Storia d’Amore fino alla fine perche’ il soggetto è incredibilmente affascinante e l’urgenza per tutti noi di conoscere questa straordinaria creatura marina non e’ mai stata così impellente come ora.


Richard Ellis."Tuna A Love Story", published by Alfred A. Knopf,a Division of Random House, NW, 2009)

"Le mari en noir" di Monica Innocenti


di Luciano Luciani

Un noir col sorriso
Diciamo la verità: il noir, inteso come la variante, metropolitana e ‘cattiva’, del tradizionale romanzo poliziesco comincia alquanto a stancare. Ormai lo praticano in troppi e i suoi sgualciti protagonisti (commissari di polizia o dei carabinieri in disarmo, avvocati falliti, giornalisti privi di qualità) che senza protettori, né mezzi, né particolari abilità, si aggirano su scenari di corruzione generalizzata e violenza diffusa sono diventati ripetitivi e sempre un po’ troppo uguali a se stessi. Poche le novità e fin troppo ferreo il rispetto di un canone mai codificato ufficialmente ma sempre vincolante.

Oddio, sempre meglio degli insopportabili Poirot, Philo Vance e dei loro innumerevoli epigoni: però, anche i simpatici antieroi, inaugurati quasi mezzo secolo fa da Scerbanenco e da allora impegnati su nostrani teatri urbani o provinciali, passando per i fasti della scuola bolognese, toscana, romana, siciliana, pugliese…, finiscono ormai per produrre nel Lettore fastidiose sensazioni di déja vu.

Un effetto di saturazione contraddetto talora e nei casi migliori dall’irruzione dell’elemento irrazionale/fantastico all’interno di una storia di quotidiana normalità (Eraldo Baldini; Enzo Fileno Carabba), dall’abilità nell’impaginazione di una vicenda complessa (Giampaolo Simi), dall’accattivante recupero memoriale in chiave giallo/noir di un Italia che non c’è più (Marco Vichi; Leonardo Gori): meno male, ma rimane l’impressione che agli occhi della critica più avvertita e dei Lettori più esigenti la grande stagione del ‘nero italiano’ appaia ormai in via di esaurimento.
Poi, però, capita di imbattersi in pagine come quelle che seguono e allora qualche speranzella sui destini dei tuoi generi e sottogeneri preferiti torna a fare capolino…

Per dirla tutta, avevo cominciato a leggere il romanzo d’esordio di Monica Innocenti pregiudizialmente provvisto di una buona dose di scetticismo, convinto di ritrovarmi alle prese con l’ennesima rielaborazione in chiave toscano/lucchese di convenzioni sapute e risapute. Invece, fin dal primo dipanarsi di questa storia, l’Autrice dimostra di conoscere bene le strade per arrivare al cuore e al cervello del suo Lettore: e se non gli fa mancare l’amore (o meglio il disamore), la violenza, la morte, l’intrigo e l’indagine, che, secondo le migliori tradizioni dell’hard boiled school, si svolge tutt’intera sotto gli occhi di chi legge, riscatta, però, i soliti Luoghi Comuni con l’ironia intelligente e lo spirito simpaticamente anarchico che, dal principio alla fine, intridono tutto il romanzo.

Accattivante il/la protagonista; credibili gli scenari provinciali (proprio questa città di Lucca con tutti i suoi hinterland dal mare della Versilia alla Piana lucchese); aggiornati all’oggi e alle sue attuali mode e manie gli stili di vita, i comportamenti, la mentalità dei personaggi.

Ma i risultati migliori Monica Innocenti li ottiene con una scrittura brillante e dalla vis comica fuori dall’ordinario: un divertente impasto, in cui la lingua di comunicazione si mescola con azzeccati toscanismi, con il linguaggio dei fumetti, con la cordiale presa in giro dei modi vernacoli di un Camilleri, con una girandola di citazioni che provengono tanto dalla letteratura quanto dal cinema americani degli ultimi trenta/quarant’anni…

Ora mescolate il tutto: aggiungeteci qualche riferimento colto alla mitologia greca, insaporite con un po’ di sesso disinibito quanto basta, inserite qua e là nei momenti giusti gli adeguati riferimenti alla magica tromba di Chet Baker… Et voilà il romanzo è servito. Un raro noir col sorriso: lieve, spiritoso, scanzonato, irriverente. Mai banale. Era da un po’ di tempo che ne sentivamo la mancanza e siamo grati a Monica per averci offerto la possibilità di tornare a gustarne il sapore.

Monica Innocenti, Le mari en noir, collana “cartacarbone” 5, Daris libri e stampe, Lucca, pp.112, Euro 7.00

17 gennaio 2010

“I miei demoni” di Edgar Morin


di Gianni Quilici

E' un'autobiografia, senza poterlo essere fino in fondo per ragioni di privacy. E' una storia in divenire di pensiero e di azione punteggiata da diverse tappe: ognuna di queste individua limiti, approfondisce, muta idee e percorsi.
E' un laboratorio intellettuale e culturale, incredibilmente colto e incredibilmente umile, che sceglie la contraddizione come metodo di pensiero, la complessità come filosofia, la Terra-Patria come orizzonte.

Va letto e pensato. Impossibile sintetizzarlo. Possibile soltanto lasciare qualche suggestione.

La contraddizione come lettura del mondo e di se stessi in un incessante divenire: empirico e teorico, concreto e astratto, singolare e universale, fenomeno e contesto, religione e ragione, vita e morte, unione e divisione, concordia e discordia, realtà e irrealtà, biologia e cultura, cerebrale e psichico, razionale e irrazionale, orrore e stupore, morale e amorale...

La complessità, un pensiero, cioè, che mette in relazione ciò che, muovendo da origini diverse e molteplici, forma un tessuto unico e inscindibile. Morin pone in connessione le due culture principali, quella umanistica con quella scientifica, integrando tra loro quattro apporti principali:
la tradizione filosofica, che, nata in Occidente con Eraclito, prosegue con Nicola Cusano, Pascal, Hegel, Marx e arriva ad Adorno e Jung, sino a trovare un proprio prolungamento scientifico in Bohr, Godel, Lupasco; l'apporto delle tre teorie (dell'informazione, cibernetica, dei sistemi), nonché delle teorie dell'auto-organizzazione e dell'auto-produzione; la riflessione filosofica sulla natura della scienza: da Husserl ad Heidegger; la riflessione sulla prima rivoluzione scientifica del XX secolo nata con l'irruzione dell'incerto e quella sulla seconda rivoluzione scientifica in corso: dall'ecologia scientifica alle scienze della terra, alle cosmologie. Con la consapevolezza che la conoscenza complessa non ha termine, perché è incompiuta e interminabile. Dietro di essa c'è l'indicibile e l'inconcepibile.

E' anche un'autobiografia morale, che diventa essa stessa una parte importante della filosofia stessa. Morin la definisce auto-etica e consiste nella capacità del singolo individuo di autonomizzare l'etica, fondandola esclusivamente su se stessi, sullo scrupolo dell'autocritica, sulla consapevolezza della complessità e delle tante possibili derive umane, sulla morale della comprensione e sull'etica della comunità.

Dall'etica della comunità Morin prende l'ipotesi più affascinante da perseguire nella nostra epoca, l'idea di Terra-Patria, di estendere, cioè, l'etica di comunità a tutti gli esseri umani, ben sapendo che l'identità del nostro universo è la catastrofe, sia per la straordinaria deflagrazione che l'ha fatto nascere che per le forze di dispersione, disintegrazione, collisione, esplosione, distruzione, che lo dominano. A questa crudeltà fisica del mondo si unisce la crudeltà terrificante nelle relazioni fra umani, individui, gruppi, etnie, religioni, razze. Nell'uomo tuttavia convivono la crudeltà del mondo e la bontà. Da qui nelle ultime pagine l'appello a resistere. “Resistere innanzitutto a noi stessi, alla nostra indifferenza e disattenzione, al nostro lassismo e al nostro vittimismo, alle nostre cattive pulsioni e meschine ossessioni”. Resistere in nome e con amicizia, carità, pietà compassione, tenerezza.

Edgar Morin trasmette una filosofia ed una personalità complesse, che non finiscono mai di interrogarsi, perché sono curiose ed aperta a tutto, toccando sia le corde della ragione più sottili, che anche quelle dei sentimenti. In questa continua sintesi, che egli opera tra fisico e psichico, tra materia e esseri viventi, l'orizzonte che ha sempre presente è la nostra felicità.



Pur essendo Morin un intellettuale geniale è al tempo stesso umile, perché la sua è la genialità del lavoratore, di chi con fatica, ma con una inflessibile determinazione, illumina. Il contrario, per esempio, di Jean Baudrillard, in cui, spesso, si coglie il desiderio di stupire con acrobazie intellettuali non sempre rigorose o necessarie.

Il limite? Il bisogno forse di comunicare è così necessario, che ci sono nel libro delle riprese degli stessi concetti. Non si può parlare banalmente di ripetizione, ma è indubbio che una maggiore asciuttezza avrebbe reso più fluida la lettura.

Edgar Morin. I miei demoni. (Mes démons). Traduzione di Laura Pacelli e Antonio Perri. Meltemi. Pag. 255.

"Il vasaio e la luna" di Paolo Folcarelli


di Luciano Luciani


Faccenda davvero strana, davvero complicata, la poesia e cosa assai ardua definirla, fissarla con chiarezza in concetti espressi con termini precisi.
Per Alfred de Vigny, grande aristocratico e isolato poeta francese della prima metà dell’Ottocento, “la poesia è una malattia del cervello”: un’interpretazione morbosa della poesia, la sua, che trova corrispondenze in Franz Kafka per cui “poesia è malattia”. Una concezione della poesia come infermità morale, affezione dello spirito: un malanno da cui riguardarsi. Infatti, “un uomo sano arrossisce sempre quando ha composto una poesia” per dirla con lo scrittore tedesco Franz Wedekind. Un’idea patologica del fatto poetico, diffusa tra illustri uomini di lettere ma che non trova concordi tutti gli addetti ai lavori.
Per Alphonse de Lamartine, infatti, “la poesia sarà la ragione cantata” e per Francesco De Sanctis “ la poesia è la ragione messa in musica”: una linea di pensiero in cui prevale l’elemento raziocinante, intellettivo, il dato della normalità, della sanità mentale.
Jorge Luis Borges si sofferma, invece, sulle oscure, inesplicabili alchimie del processo poetico. “Ogni poesia è misteriosa: nessuno sa interamente che cosa gli è stato concesso di scrivere”. La poesia, dunque, come dono segreto, elusivo, enigmatico… Che il nostro Pascoli spiega in termini sicuramente memoriali: “Il ricordo è poesia, e la poesia non è se non ricordo”.

Quale di queste definizioni si attaglia meglio alla raccolta poetica di Paolo Folcarelli? Quale affermazione spiega, precisa, identifica con più chiarezza la poetica – ovvero cosa dire e come – dell’autore del Vasaio e la luna? Ce la potremmo cavare asserendo che in ognuna di queste frasi, di questi frammenti di sapienza letteraria c’è qualcosa di utile per comprendere l’esperienza poetica di Paolo.

Limitarci, però, a questa constatazione, a questa considerazione un po’ ovvia, sarebbe un modo davvero ingeneroso per avvicinarsi ai versi di Paolo e al suo rivelarsi a poco a poco, con la discrezione, direi quasi con la timidezza, che gli sono proprie e che costituiscono la parte più bella della sua personalità di uomo che ama cimentarsi con le discipline più diverse: ora con la ricerca storica – mi sia qui consentito ricordare una pregevole monografia di Paolo Folcarelli, La Manifattura Tabacchi di Lucca Una fabbrica…Una storia, il lavoro più compiuto, più complessivo su questa secolare istituzione lucchese - ; ora con la pittura (una sua mostra ha ottenuto un buon successo e non solo tra i numerosi estimatori di Paolo); ora con la poesia. Ma ora è avverbio improprio, perché Folcarelli pratica la poesia fin dalla giovinezza: si guardi la data del primo testo poetico di questa silloge, risale al giugno del 1964! Dunque, Folcarelli ha frequentazione con i versi, letti e scritti, da quasi mezzo secolo, e solo ora, vincendo pudori e ritrosie, ha deciso di parteciparceli.

Il vasaio e la luna, come ha scritto nella bella introduzione la professoressa Iris Fusaro, che lo ebbe suo studente (ed è toccante questa consonanza docente/discente che si mantiene calda, affettuosa, rispettosa ancora dopo cinquant’anni!) nasce davvero “attraverso un travaglio di sofferta riflessione”: scrivere, poi buttare via tutto, tornare a scrivere con maggiore consapevolezza, correggere, rivedere, ritoccare…
Ed è da qui, da questo titolo un po’ criptico, Il vasaio e la luna, che dobbiamo partire, se intendiamo penetrare, almeno in parte, il mistero, il dono misterioso, per dirla, appunto, con Borges, delle poesie del nostro Autore.

Un titolo, in cui, senza nessun criterio gerarchico, c’è il basso e l’alto, la concretezza del quotidiano e l’aspirazione a salire.
Il vasaio lavora con le mani, le sporca di argilla, di creta, impasta, piega, modella, dà forma all’indistinto, alla materia bruta. Persegue un suo ideale, magari semplice, di bellezza, di armonia e per realizzare i suoi manufatti si serve di elementi primordiali: la terra, l’acqua, il fuoco che nobilita in forme ancestrali vagamente femminili.
I vasi, il vaso: luogo magico in cui si operano magie, meraviglie. E’ il seno materno, l’utero in cui si forma una nuova vita. Il vaso, vedi il Graal delle letterature medievali, contiene il tesoro per eccellenza, il tesoro dell’esistenza. E il vasaio è il padre dell’Autore.

Poi, la luna che torna frequentemente nei testi della raccolta sia da protagonista, sia da elemento contestuale. Da sempre fonte di innumerevoli miti, leggende e culti quanti nomi ha la luna: Iside, Ishtar, Artemide o Diana, Ecàte… Simbolo cosmico esteso a tutte le epoche, dai tempi più remoti fino ai nostri giorni generalizzato a tutti gli orizzonti, la luna esprime il potere fecondante della vita animale e vegetale.

Sempre nettamente femminilizzata la luna di Folcarelli: ora amante delusa, frustrata nella vana ricerca del suo amato, incapace di penetrare con la sua luce fredda gli ambienti caldi e affocati in cui lavora il vasaio; ora pronuba degli amori altrui; spesso elemento paesistico, mai però mai puramente esornativo, ma sempre attrice delle azioni e dei sentimenti degli uomini.

Dunque, le poesie di Folcarelli vivono tra la terra e il cielo. Uno spazio tutto riempito dai dati di un’esistenza tanto appartata quanto piena, ricca di affetti, familiari e amicali, di un’intensa, partecipe attenzione ai destini delle persone e all’anima dei luoghi.

Ma attenzione è forse un termine inadeguato: meglio dire simpatia piena d’amore. Per esempio, nei confronti del lavoro umano. Quello del padre vasaio, dai gesti armoniosi; il lavoro faticoso delle sigaraie di Lucca, assunte ancora bambine e costrette a cottimi feroci, avvinte da regolamenti assurdi e vessatori, prede di una ferrea disciplina, derubate con salari mai sufficienti per una vita dignitosa; oppure la fatica degli operai ciociari, intravisti nell’attesa della corriera che portava a scuola il poeta, e la pena per “ le loro voci dolenti e irate/ le confidenze sull’incerto futuro/ i presagi di amare emigrazioni…”

Fortissimo nelle poesie di Paolo il legame con le proprie radici; continuamente ribadito - e non c’è vincolo di tempo o di spazio che tenga – il suo senso di appartenenza a una terra lontana geograficamente, ma mai lontana dal cuore, aspra e gentile insieme: la Ciociaria. Recuperata nei suoi scenari, panorami, città, fiumi, strade, monti, uomini e donne - si notino le date dei testi poetici - , con l’affetto, la tenerezza, lo stupore della fanciullezza, con la vivezza, la freschezza e la felicità che solo gli occhi di un bambino possono donare. E’ ancora così vivo, così intenso questo rapporto con la propria terra, che, vincendo il filtro di un controllo formale sempre attento, e talora piuttosto severo, prorompono sulla pagina le parole, i termini, le espressioni della lingua nutrice: toponimi, versi di antiche canzoni popolari, rassegne di luoghi geografici un tempo consueti oggi idealizzati nella “carità feroce del ricordo”.
Vocabolario, pronuncia e cadenza ci dicono che la Ciociaria è già Sud e lo confermano i fiori, i frutti, gli animali, i colori e gli odori, i tratti fisici e i lineamenti degli uomini e delle donne che popolano i testi di Paolo. E’ già Sud coi suoi riti religiosi al limite della superstizione, la sua antichissima cultura, le sue sempre deluse aspettative di riscatto sociale…

Questa la materia, mai fredda, mai inerte su cui lavora il poeta, che, come il vasaio Francesco suo padre, modella e rimodella l’argilla dell’ ispirazione in forme sempre uguali e sempre nuove, ogni volta diverse.
Densa, concentrata la sua parola poetica che, a volte, ma solo a volte, sale troppo, attribuendo un’eccessiva importanza all’espressione elevata, al vocabolario nobile, rischiando così la sonorità un po’ stentorea o la vibrazione modulata su una nota troppo alta.

Ma si tratta di notazioni di dettaglio.
Qualcuno ha scritto che se la poesia è dentro di te, prima o poi dovrai concederle uno spazio. Ciò che conta è che possa riuscire a percorrere la sua giusta strada. Umilmente.
A Paolo Folcarelli è successo.

11 gennaio 2010

"Ilia di notte" di Giuliana Dal Pozzo e Elisabetta Pandimiglio


di Gianni Quilici

Ilia di notte è uno dei romanzi che rischia di sparire, ma che merita di restare.

Mi ha avvinto. E mi ha avvinto, perchè ragione e sentimento sono diventati una cosa sola. La ragione è nella struttura. Soprattutto nel modo complesso e veritiero in cui Giuliana Dal Pozzo e Elisabetta Pandimiglio rappresentano Ilia, la protagonista, intorno alla quale ruotano personaggi vivi e corposi; e nell'utilizzare la formula del romanzo nel romanzo,che qui ha una duplice funzione: farci capire meglio madre e figlia, sfuggire ad una narrazione datata.

E tutto questo diventa anche avvincente, perché in ogni momento la protagonista si trova di fronte se stessa: il suo passato condizionante, un presente spesso grigio e irrisolto, che la costringono a cercare di capire, a lottare, a oltrepassarsi. Diventa quasi un giallo, ma con la leggerezza, che nasce dalla rappresentazione stessa.

Ne viene fuori anche una fase della storia italiana (dal periodo che da dopo la resistenza arriva alle Brigate Rosse) in una delle sue province, Siena , vista attraverso uno sguardo femminile, in cui anche i personaggi secondari hanno una loro felicità (la vicina su tutte). Contrariamente a quello che pensavo, in un primo momento, la storia d'amore con Alex è riuscita, e la giornata a Punta Licosa, nella sua complessità, rappresenta il punto forse più alto per incanto e dolore.

Dal Pozzo Giuliana, Pandimiglio Elisabetta. Ilia di notte. Datanews. Pag. 153
€ 9,81

“ Coppia di amanti in un caffè” di Brassaï


di Gianni Quilici

E' una delle foto più famose di Brassaï . Una di quelle foto, che, riprodotta in cartolina, facilmente si acquisterebbe.

Perché c'è l'atto: la seduzione del bacio. Ci sono i volti: lui e lei (intravisti). C'è l'atmosfera: il caffè notturno. Può trasmettere un desiderio. Il desiderio di esserci.

Però se a quel punto il nostro sguardo evapora sazio, la foto non si conquista. Si consuma. Non è nostra. Non si colgono i dettagli. Non si coglie l'insieme. Perché qui c'è sapienza dell'inquadratura, felicità della scelta dell'attimo, forse anche fortuna, come spesso succede.

Al centro Lei e Lui. Lui si sta avvicinando alle labbra di lei, una mano sui suoi fianchi; lei sorride, un sorriso di trionfo e di gioia, di provocazione e di sfida. Non è lui che sembra condurre il gioco, ma lei. Non vittima, semmai preda da conquistare. Ed anche la sigaretta tra le dita, siamo nel 1932, le unghie laccate, il bicchierino dinnanzi suggeriscono un tipo di donna con una certa autonomia.

Nella centralità dei due corpi, il volto di lei è evidenziato e scolpito, quasi fosse incorporeo, dal nero profondo dei vestiti e del buio.

Non solo: i due sono collocati in un angolo tra due specchi, incrocio di linee che li riflette in due triangoli: in uno Lui con gli occhi abbassati, i capelli lisci impomatati con la scriminatura centrale; nell'altro specchio Lei con la bocca aperta, protesa, gioiosa, provocante, ma ancora libera dalle labbra di Lui.

Cosa manca, mi viene da chiedermi, per essere uno scatto perfetto di “seduzione”? Né l'attimo, colto nel momento in cui rimane sospeso; ne' la composizione equilibrata fra il nero ed il bianco-grigio e tra il taglio dell'inquadratura che seziona a metà gli specchi ed i riflessi di essi. La cosa stupefacente (e qui c'entra anche quel briciolo di fortuna che la realtà spesso dona) è che gli specchi aggiungono inquadrature nuove che completano l'attimo: il volto di lui, che altrimenti sarebbe nascosto; e la distanza che li separa, che nello scatto diretto è quasi annullata.

Brassaï. Coppia di amanti in un caffè. Place d'Italie. Paris, 1932.

Due o tre cose su Brassaï

Gyula Hal ász , conosciuto con lo pseudonimo di Brassaï, fotografo ungherese, nasce a Brasov il 9 settembre 1899. A soli tre anni Brassai si trasferì con la famiglia a Parigi; suo padre fu professore di letteratura alla Sorbona. Imparò il francese leggendo Proust e Prévert. Di quest'ultimo e di Henry Miller diventò grande amico, frequentando l'arrondissement di Montparnasse.Una volta radicato nelle viscere del territorio parigino, la sua attenzione fotografica nei confronti della città diventò assoluta.Amò Parigi di notte o sotto la pioggia, le ville, i giardini, il lungosenna e le stradine senza tempo dei quartieri antichi. Adottò lo pseudonimo di Brassai in memoria della sua terra d'origine (significa "di Brasov" - Brasso, in ungherese).
Nel 1933 pubblicò il suo primo libro di fotografie, "Paris de nuit", che riscosse un grande successo, soprattutto nell'ambiente artistico. Miller lo soprannominò "l'occhio di Parigi".Si interessò anche all'alta società, agli intellettuali, al teatro e all'opera.
Immortalò, tra gli altri, Salvador Dalí, Pablo Picasso, Henri Matisse e Alberto Giacometti.