28 dicembre 2019

"Conoscere Lucca. Industria e prodotti del Territorio" di Roberto Pizzi

di Luciano Luciani

Già all'indomani del massimo rigoglio della storiografia positivista non furono pochi gli studiosi che percepirono tutta l'angustia di una ricerca storica solo ristretta a fatti localizzati e datati: battaglie, trattati, mutamenti di case regnanti, politici che salgono o scendono nel favore popolare, nascita di nuove istituzioni che vanno a sostituirne altre inadeguate oppure  obsolete...
 

Un modo di intendere la storia pur utile, pur necessario ma che finiva per perdere di vista quell'insieme organico di relazioni e connessioni insieme sociali, economiche e psicologiche che "il tempo stenta a logorare e che porta con sé molto a lungo" (Braudel), da studiare non solo da un punto di vista statico, ma dinamico. Una concezione della storia che, come scrive Lucien Febvre, si deve praticare utilizzando "ciò che, appartenendo all'uomo, manifesta la presenza, l'attività, i gusti e i modi di essere dell'uomo" dove uomo sta per società umana, per gruppi organizzati.
 

È in tale direzione, sempre feconda di nuove scoperte, che si muove Roberto Pizzi, studioso da sempre sensibile alle manifestazioni artistiche e culturali, politiche e civili della Lucca laica: un campo d'indagine teso a valorizzare presenze se si vuole minoritarie ma tutt'altro che trascurabili nel secolare processo di definizione di un'identità collettiva e di una coscienza cittadina. In queste sue pagine lo studioso toscano, con la  consueta acribia, prende in esame le più importanti espressioni socioeconomiche e tecniche che nel corso dei secoli hanno contrassegnato le manifestazioni più significative della vita della comunità lucchese e delle genti finitime della Piana, della Versilia e della Garfagnana: gli aspetti visibili e tangibili della loro storia e cultura, i materiali e gli strumenti concreti della vita quotidiana, senza trascurare gli effetti della loro ricaduta  nella vita collettiva e nei luoghi in cui si è affermata e organizzata la socialità.
 

Diviso in tre parti – Prodotti del territorio: cibi e bevande;  Industria e Artigianato; Tecnica e 
Scienza - il libro di Pizzi è costruito per brevi saggi che, in veloci ed esaustive incursioni, studiano il punto d'impatto tra la dimensione locale e la materialità della vita quotidiana e delle attività produttive.
 

Nella prima parte,  la sua attenzione per i celebrati "mangiari" lucchesi si insaporisce - è proprio il caso di dirlo - con la storia del vino, della birra, dell'olio, del castagno del riso del tabacco e del caffè e della loro, non sempre facile, affermazione sulle tavole e nei costumi degli abitanti della Città delle Mura e dintorni: il racconto, mai scontato e  sempre agile e godibile, ricco di inedite vicende e inopinati protagonisti, di una "banalità della serenità" da praticare ancora, auspica l'Autore, il più spesso possibile sulla "base di elementi semplici e antichi, in fratellanza d'intenti" .
 

Oggetti della seconda sezione del libro  sono: la carta e l'arte della stampa; la seta; la lana,  gli altri prodotti tessili e le relative  industrie lucchesi; l'invenzione del motore a scoppio di Barsanti e Matteucci e le sue conseguenze.
 

Più impegnativa la terza parte  - Tecnica e Scienza - introdotta da un'ampia ed elaborata riflessione sui significati assunti dai due termini nel corso della storia umana e chiusa da un’ottimistica affermazione circa il valore emancipatorio di una ricerca scientifica ancora giovane eppure capace di sempre più straordinarie acquisizioni. Questo lo spirito con cui Pizzi si inoltra nel labirinto dei complessi rapporti tra "sapere" e "saper fare", contrapponendosi con tenace misura a quelle correnti regressive, manifeste e sotterranee, del recente pensiero occidentale sempre più ostili nei confronti della scienza e della tecnologia individuate come nemiche e distruttrici dell'umanità.
 

Per ricchezza d'informazioni, chiarezza espositiva e serena fiducia in una scienza intrisa di impegno civile e umana fraternità, anche i due capitoli finali Applicazioni scientifiche a Lucca e Storia del vaccino e della sua introduzione a Lucca,  ben si connotano come modesti ma efficaci antidoti molecolari contro ogni  irrazionalistica propensione ai medioevi prossimi venturi che sembrano incombere sugli abitatori di questi tormentati anni del nuovo secolo e del nuovo millennio.

Roberto Pizzi, Conoscere Lucca. Industria e prodotti del Territorio, Maria Pacini Fazzi editore, Lucca 2019, pp. 180, Euro 20,00

Roberto Pizzi svolge da anni un'intensa attività pubblicistica sui temi della storia locale.
 Al centro dei suoi interessi una Lucca “di minoranza”, ma non per questo meno degna di attenzione e rispetto. Collabora con numerose pubblicazioni: “Documenti e Studi” semestrale dell'Isrec lucchese, “Actum Luce” e la “Rivista di Archeologia, Storia e Costume” dell'Istituto Storico Lucchese.
Tra i suoi libri ricordiamo: Squadre e Compassi della Lucchesia intorno all'Unità d'Italia, mpf 2011;  La stampa lucchese dall'Illuminismo al Fascismo. Giornali, fatti, personaggi, mpf 2013;  Conoscere Lucca. Storia e personaggi, mpf 2015

18 dicembre 2019

"Olè" di Raffaele De Bartolomeis


di Silvia Chessa

Al teatro Petrolini, nelle giornate di sabato 14 e domenica 15 dicembre, è andato in scena Olè, spettacolo scritto diretto ed interpretato da Raffaele De Bartolomeis, il quale, in occasione del suo trentesimo di carriera, ha deciso di festeggiare portando in scena, rivista e aggiornata, questa sua commedia florilegio delle sue più efficaci battute e più iconici e riusciti personaggi.

 Come suggerisce il titolo - Olè – dettato dalle intenzioni (pienamente realizzate) dell’autore, la cifra stilistica è la leggerezza indicata da Italo Calvino: quel “planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”, che non è banalità e contrasta la pesantezza con l’arma comica e critica dell’ironia e della distanza.

Olè si struttura così come uno scoppiettante e travolgente spettacolo, animato dalle musiche e dalla carismatica presenza scenica di Pierfrancesco Galeri e deliziato, coreograficamente, dalla grazia e professionalità della danzatrice Elena Frisenda.
Fra brillanti trovate comiche, trasformismi talentuosi e veloci cambi di costume, poggiandosi su una elegante e funzionale scenografia di Riccardo Polimeni, De Bartolomeis trascina il suo pubblico alla risata sui soggetti più contemporanei (lo chef, il medium, la rockstar) per poi accompagnarlo nel ricordo dei classici, con un sentito tributo ai suoi maestri, da Totò a De Filippo, fra i quali spicca l’omaggio a Troisi e Pino Daniele, particolarmente toccante ed emozionante.

Quasi due ore di spettacolo che allietano e volano, in allegria e spensieratezza, nelle quali l’autore-attore fa emergere la sua notevole capacità di tenere la scena e viva l’attenzione del pubblico, chiamato a prendere parte attiva allo spettacolo, che diventa, da one-man-show, anche una commedia partecipata in maniera frizzante e spontanea.

11 dicembre 2019

" Verso l'infinito e oltre" di Nicola Barbato


Come per molti altri il mio "leopardismo" ebbe inizio sui banchi di un Liceo Classico: il Carducci di Viareggio, mezzo secolo fa. Cominciò con uno schierarsi d'istinto che il tempo avrebbe, kubrikianamente, portato "verso l'infinito e oltre”.
 

Tra mille altri passatempi assai meno colti, anche nelle nostre terze era in voga la disputa tra foscoliani e leopardiani ". Nel conflitto incruento tra liceali (guerra non di bottoni ma di poeti) non si poteva non prendere partito. Pena l'essere tacciati di ignavia.
 

I foscoliani rivendicavano la politicità radicale di Ugo e davano di Giacomo una lettura troppo intimista. Che gli idilli fossero quasi assimilati ai motti dei baci di cioccolata per innamorati peynettiani mi urtava. Non avevo letto, all'epoca, né Luporini né Timpanaro e l'illuminismo e il materialismo di Leopardi mi erano scolasticamente noti ma non conosciuti. A maggior ragione, poi, ne ignoravo la statura politica e perfino sociologica.
Quella contrapposizione, d'istinto, mi pareva artificiosa. E forse, a ripensarci, conteneva anche, tra le righe, un vago ammiccamento sessista (la politica come affare dei maschi, e Foscolo assurto a eroe "virile"). Mancava ancora un anno al fatidico 1968.
 

Io avevo iniziato (da poco) a occuparmi di politica ma proprio non sentivo rùggermi dentro nessuno "spirto guerrier" (per inciso e a scanso di equivoci: Alla sera è tra i sonetti che amo di più). La politica era un impegno pratico e una direzione di studio teorico. Non mi sembrava serio immaginarmi nei panni di un eroe risorgimentale solo perché mi affacciavo al presente in cui vivevo e ai suoi problemi. E dunque respingevo quella equazione tra politica e poesia foscoliana. Ma c'era di più. Diciamo che l'inquietudine esistenziale di Leopardi la sentivo mia, perché andava a scavare in una terra di interrogativi filosofici in cui già abitavo e a cui la politica non dava allora (oggi so che non può darle) risposte ristoratrici. Proprio perché l'essere "sconfitto da domande ancora aperte" mi ha accompagnato poi nei decenni, Leopardi era già per me il coraggio della coscienza (senza tuttavia che da quel coraggio nascesse - come per il Pericle riferito da Tucidide - la felicità).
 

Leopardi rappresentava la rinuncia a ogni consolazione preconfezionata ma, insieme, un antidoto alla passività. Era, il mio, un sentire ancora pre-Ginestra (anche questa l'avrei compresa tardi), un sentirsi fieri della propria singola, laica e deserta inconsolabilità. "L'infinito", nello splendore del suo plenilunio poetico, mi rapì, sul carro di una voce - quella di Arnoldo Foà - solo anni dopo. Ero ormai oltre i trenta e in piena crisi affettiva. La voce liberò il testo, sciolse il dolore rappreso, riuscì finalmente a consolarmi con la dolcezza delle lacrime, con la pacatezza densa di pause di quel timbro vocale inconfondibile. Piansi la scomparsa del poeta, e mi parve di piangere un fratello che avrei voluto vedere e toccare anche per un momento soltanto. Così l'infinito entrò per sempre dentro di me e nella mia memoria. Per molto tempo non ho potuto recitarlo fino in fondo, perché la voce mi si rompeva e dovevo zittirmi. Altre voci e altre musiche mi provocano effetti simili. Ma quella poesia è stata il mio "nuovo inizio".
 

In terza liceo amavo, sì, quella meraviglia di versi, ma preferivo "A Silvia". La innocente soccombente e ignara cantata dal poeta che pensa coraggiosamente, che sa fare oggetto di pensiero in versi il coraggio stesso. Forse mi spaventava l'idea di naufragare, sia pure dolcemente, in quel mare, troppo vasto, troppo infinito se così si potesse dire. Forse, a mio modo, resistevo all'idea del definitivo e irreversibile naufragio, a dispetto della esibita e titanica "inconsolabilità". C'è voluto del tempo per capire che il titanismo, in tutti i suoi travestimenti, è una semi obbligata epifania dei diciotto anni.
 

Oggi, duecento anni dopo, grazie alle nuove analisi ad altissima definizione, sappiamo ormai tutto di quel quaderno manoscritto e dell'incessante lavorìo di penna che ne ha preceduto la stesura definitiva. Ma questa è filologia. Radiografia. Anatomia, tavolo operatorio, dissezione. Lo splendore del plenilunio è un altro mondo. Un mondo infinito.

02 dicembre 2019

"Anche i Pisani sono esseri umani" di Luciano Luciani

                                                          Pagine da un libro d'improbabile pubblicazione
                                                          (prima puntata)
                           
                             

Pisa. L'ora del topo.

Arrivai a Pisa per la prima volta in una notte d'autunno di 47 anni fa. Mi ci condusse un treno improbabile: un localaccio in ritardo da Firenze, possibile destinazione Livorno, o magari Grosseto o forse anche La Spezia. Per me la Toscana, allora, era soprattutto Firenze e di lì ero convinto che si transitasse per andare da qualsiasi altra parte. All'atto della partenza da Roma l'idea di un collegamento diretto tra la Capitale e il capoluogo con la Torre pendente non mi aveva neppure sfiorato: così, complice anche una coincidenza sbagliata, allungai il viaggio di oltre due ore, mettendo piede, rintronato dal sonno, in una città appena uscita da un abbondante acquazzone notturno che aveva costellato di pozzanghere la piazza della Stazione e intasato più di un tombino. Mi accolse, dunque, una città acquitrino, mentre le nubi si diradavano, riapparivano le stelle e la luna faceva discretamente capoccella. 

Era l'ora del lupo, o meglio del topo: unico essere vivente visibile, infatti, un ratto di chiavica di stazza medio-grande, incerto se attraversare o meno il viale che mi/gli si apriva davanti e alle prese, presumo, coi problemi della tana allagata. Emerso dalle fogne, si proponeva come esclusivo plenipotenziario del locale Comitato per le accoglienze: appena al di là della strada ne intuivo la pelliccia umida e ruvida di peli spinosi, la lunga coda, un'aria vagamente seccata. La stessa mia mentre affrontavo il problema di attraversare quel piazzale impaludato senza inzupparmi scarpe e calzini evitando inoltre di incrociare troppo da presso l'abitatore della cloaca e di quella primissima alba.
 

Una breve corsetta appesantita dalla valigia piena di libri e del tipo omnia mea mecum porto e guadagnai i portici senza garbo della pisana Galleria Gramsci. Dieci, quindici, venti passi ancora con le scarpe mézze (termine che nel 1972 non conoscevo e che avrei imparato a usare negli anni a venire) e... "Nessun eroismo" mi ribadii. Allora, modesto ma decoroso, un po' malinconico, mi offrì ospitalità l'Hotel La Pace: per circa tre settimane - nomen/omen - la mia prima residenza nella nuova città.
 

Pisa l'avevo appena appena sfiorata e l'impressione non era stata granché. Ignoravo che quel posto così poco accogliente, per oltre sette anni sarebbe diventata casa mia, intensamente vissuta e altrettanto amata e detestata.

                                         Lavoro, non studio. Se Dio vuole, gli operai!
 

A Pisa non conoscevo nessuno e nessuno mi conosceva. Contrariamente a tanti miei quasi coetanei non arrivavo nella città toscana per frequentare i celebrati corsi di studio delle sue università. Un'onesta laurea in lettere moderne (il primo dei Luciani che si fosse mai addottorato!) l'avevo già conseguita l'anno precedente presso lo Studium Urbis: se mi ero mosso da Roma, dove ero nato e cresciuto e da cui raramente e sempre malvolentieri mi allontanavo, era per motivi di lavoro. Ero un insegnante. No, non un professore universitario, per carità. E neppure un docente di scuola secondaria di primo o secondo grado. E neanche un maestro elementare. No, io insegnavo nei Centri di Formazione Professionale, la misconosciuta figlia di un dio minore nel sistema di istruzione del Bel Paese. Ben più di oggi allora, quando le competenza in materia stavano faticosamente trasferendosi dal Ministero del Lavoro ai neonati Istituti regionali. Un settore già incoerente per via della pluralità dei soggetti che vi operavano - enti pubblici e privati; religiosi e sindacali; assistenziali e di pura speculazione - si trovava d'improvviso a dover ricontrattare tutto - sedi, strutture, finanziamenti, personale - non più con un solo interlocutore, ma con tanti quante erano allora le Regioni.
 

È in questa fase convulsa che l'Enaip (Ente Nazionale Acli Istruzione Professionale), per cui lavoravo presso il Cfp di Anzio Colonia (RM) - meccanici, saldatori, tornitori, disegnatori tecnici - in qualità di insegnante di cultura generale, accetta la mia domanda di trasferimento: nuova sede di lavoro, Pontedera, in provincia di Pisa e anche qui, vista la poderosa presenza della Piaggio, le stesse attività corsuali. Una promozione? A me, giovinotto, convinto, come molti del suo tempo, che, per immegliare il mondo, la classe operaia dovesse dirigere tutto, sembrava tale. In più da insegnante semplice ero stato promosso "coordinatore pedagogico", qualsiasi cosa volesse dire: di sicuro significava pochi soldi in più, nessun orario certo di lavoro e tante responsabilità extra, ma non m'importava. Quale migliore occasione di quella che mi veniva offerta per studiarli da vicino, conoscerli in carne, ossa e tuta blu, questi famosi operai sino a quel momento solo letti sulle pagine di Pratolini e Balestrini, portati sullo schermo da Gian Maria Volontè, cantati da Ivan Della Mea? Passavo dalla classe operaia dell'asse industriale Roma-Latina figlia dell'assistenzialismo della  Cassa per il Mezzogiorno, clientelare e che votava a destra, ai solidi e politicizzati operai nel cuore della rossa Toscana.