20 dicembre 2023

 




di Marigabri

“Bruciato da più fuochi. Bestia stanca,

uno staffile di fiamme mi colpisce le reni.

Ho ritrovato il senso vero delle metafore

dei poeti: mi sveglio ogni notte

nell’incendio del mio stesso sangue.”

       Marguerite Yourcenar scrive Fuochi a poco più di trent’anni come esternazione e omaggio a una vocazione passionale che ha perlustrato l’abisso: perché ogni amore non corrisposto si nutre di vertigine e rischia l’annientamento. Ma Yourcenar è una donna troppo forte per soccombere al suo stesso dolore. Ecco allora che lo trasforma in raffinata sintesi letteraria.

       Rivisitazioni di miti, evocazioni di personaggi che hanno nutrito l’immaginario narrativo di sempre (Antigone, Saffo, Clitennestra, Fedone, Maria Maddalena…) vengono rielaborati dalla penna geniale della scrittrice a testimonianza che l’amore assoluto è esperienza universale e e pressoché incomunicabile se non, appunto, attraverso il lirismo del mito e l’enigma del frammento poetico. 

      Lettura non facile ma molto affascinante.

Fuochi. Margherite Yourcenar. Bompiani

 


18 dicembre 2023

"Perché ci odiano" di Mona EltaHawy

 


di Giulietta Isola

«Alle ragazze del Medio Oriente e del Nord Africa: siate impudenti, ribelli, disobbedite, consapevoli di meritare la libertà».

       La lettura del libro di Mona Eltahawy, agghiacciante affresco sulla condizione delle donne in Medio Oriente ed in Nord Africa, offre uno sguardo diverso dagli stereotipi imperanti sulle donne musulmane ed un’occasione straordinaria per poter riflettere.

            A scrivere è una donna over quaranta, colta e intelligente, che ha seguito da vicino le primavere arabe e ha condiviso la delusione delle donne che speravano in un cambiamento che non è avvenuto. Mona è cresciuta a Londra , ma ha gli occhi ben aperti sul mix velenoso di misoginia e religione che sfocia nell’odio verso le donne e ne limita pesantemente la libertà. 

       In Egitto, come in Libia, in Tunisia, come in Marocco, in Arabia Saudita come in Kuwait, le mutilazioni genitali, i test della verginità, i matrimoni precoci, le molestie sessuali legittimate ed impunite , il divieto di guidare, di poter disporre di un patrimonio personale, di poter decidere senza il supporto di un maschio “tutore” dei propri spostamenti, sono lo specchio di una cultura fondamentalmente ostile alle donne, imposta dal disprezzo maschile. 

       Essere femmina significa essere l’incarnazione ambulante del peccato e l’odio per le donne non è esclusiva delle interpretazioni conservatrici del corano, anche i moderati sono ossessionati dal controllo del corpo delle donne che non deve essere mai mostrato, sostengono che le mutilazioni genitali sono indispensabili alla protezione dal loro stesso desiderio sessuale che è bene non imparino mai a conoscere, per quanto, di fatto, come nel resto del mondo, sono gli uomini incapaci di controllarsi e le molestie sessuali sono epidemiche. 

       Con grande coraggio e sincerità Mona, da femminista autentica, affronta non solo i temi delle molestie e della violenza, ma anche la spinosa questione del velo restituendo alla scelta di toglierlo o meno la sua complessità. L’atto di indossare il velo non è cosa semplice, alcune lo fanno per devozione religiosa, per essere identificate come musulmane, per dimostrazione di identità, per essere lasciate in pace, per scampare alle molestie, per disporre di maggiore libertà di movimento in uno spazio pubblico dominato dai maschi. C’è chi deve lottare per metterlo e chi è costretta a metterlo, non è sempre simbolo di fede, e non sempre rappresenta il contrasto con il mondo occidentale complice silenzioso delle violazione dei diritti delle donne per tutelare i propri interessi economici in Medio Oriente. 

       In un momento di forte richiesta collettiva di libertà e dignità è importante parlare della condizione delle donne che hanno fortemente contribuito alla rivoluzione, hanno pagato con il carcere, le torture e gli stupri ma nonostante ciò sono rimaste ben nascoste ed invisibili. Nella lotta contro l’ingiustizia per uscire dal buio, è importante sentire la loro verità , conoscere le loro esistenze reali, gli abusi subiti, ma anche gli spazi conquistati. 

         Lettura molto interessante e piena di speranza per la lotta di tutte le donne che si battono contro le loro culture e contro le loro comunità e che riescono a condividere la loro azione e le loro parole in pubblico. 

«La cosa più sovversiva che una donna possa fare è parlare della propria vita come se avesse una grande importanza. Ce l’ha».

PERCHE’ CI ODIANO di MONA ELTAHAWY EINAUDI EDIZIONI

 

13 dicembre 2023

"Lele Panigada: ti ricordo maestro di vita e di musica" di Eugenio Baronti

 

       


     Lele se n'è andato. Una notizia che in tanti ce l'aspettavamo, da un momento all'altro, ma che ci fa soffrire lo stesso.

Chi non conosceva Lele? E’ sempre stato, fin da ragazzino, a trafficare con microfoni, strumenti musicali, mixer, casse, ad allestire palchi per eventi, a fare concerti sempre rigorosamente liberi e gratuiti, ora per una causa, ora per un’altra, sempre cause nobili e giuste, sempre disponibile. 

    Ti ricordo animatore e maestro di vita e di musica di tanti giovani nella sala prove del Comune di Capannori, a fianco, a sostegno e supporto dei più fragili, ad allietarci con la tua chitarra in tante feste e cene di sottoscrizione, era impossibile non volerti bene, sei stato un ragazzo ed un uomo buono e generoso. 

    Fai buon viaggio Lele, hai speso bene il tempo che ti è stato concesso su questa terra, lasci in tanti di noi, un piacevole ricordo della tua generosità e di una umanità che oggi lentamente sembra soccombere seppellita da un mare di indifferenza, egoismo e disumanità crescente. Fai buon viaggio e che la terra ti sia lieve.

04 dicembre 2023

"Antonio Riva c'est moi" di Giovanna Baldini

 


Cento domeniche
e…

       Succede sempre più spesso che le banche, tutte, nessuna esclusa, fuori da ogni trasparenza, fuori da ogni controllo, manovrino i soldi degli altri con disinvolta leggerezza colpevole.

    Una modalità, questa, molto diffusa, come ha ben raccontato nel suo recente film l’attore-regista Antonio Albanese “Cento domeniche”. Il protagonista, Antonio Riva, operaio in pensione di una ditta della provincia lombarda, vede andare in fumo l’intero suo “tesoretto”, frutto di una vita di onesto lavoro e finalizzato alle spese per il matrimonio della figlia. L’aveva tradito l’istituto bancario del suo territorio, quello con cui era cresciuto assieme, di cui si fidavano suo padre e la sua famiglia.

     Una presenza finanziaria, al tempo stesso, solida e confortante.

  Invece, approfittando dell’ingenuità e della scarsa competenza dei correntisti, degli azionisti, dei soci, gli istituti bancari, purtroppo anche quelli territoriali, agiscono spesso, non tutti, ma certo molti, al limite della truffa. Occultandosi dietro parole di rassicurazione, essi piegano ai loro interessi i quattrini loro affidati, il più delle volte frutto di una vita di lavoro, lasciando nella disperazione e nello sconforto migliaia di risparmiatori.

    Nel film di Albanese il protagonista si suicida; invece, nella vita di tutti i giorni, la mia diretta esperienza di vita mi dice che decine, forse centinaia, di famiglie, finiscono per provare un profondo sentimento di vergogna per essere state ingannate, turlupinate, accettando tacitamente di non rivalersi nei confronti delle banche.

    Queste, per di più, forti di appoggi nella politica locale e in quella nazionale, approfittando di una legislazione inadeguata e incoerente e di un silenzioso patto di non aggressione, stabilito da tempi immemorabili con la magistratura, le banche, dico, operano in un regime di sostanziale impunità. Fanno il bello e il cattivo tempo sulla pelle di correntisti, risparmiatori, azionisti, soci… Pronte solo a raccogliere fondi e mai, dico mai, a erogarne, anche di fronte a proposte fededegne e finanziariamente sicure. E dieci, cento, mille Antonio Riva, l’umanissimo, battagliero e sfortunato protagonista del film di Antonio Albanese!

      Io sono una di loro. Persona perbene che ha affidato i risparmi di una vita alla banca del territorio, una di quelle banche che, come recita la pubblicità, “vanno incontro alla gente” e che, poi, ne tradiscono la fiducia con la prepotenza di chi ha il potere di non rispondere mai dei propri atti.

      Non ci sono ricorsi, non ci sono tribunali… Intanto i miei soldi se li tiene la banca: un atto di ingiustizia, di arroganza, che toglie dignità a chi la subisce e relega nella solitudine e nell’indigenza.

     E pensare che quei soldi sono miei e la banca me li ha presi! E non esistono modi per farseli restituire.

Che dire? Antonio Riva c’est moi!

 


02 dicembre 2023

"I tre di Scanno" di Renzo Tortelli

 


di Gianni Quilici

       Mi colpisce. Mi ha fatto pensare a un fermo immagine felice.  Come se fosse una ripresa video, dove il regista grida “stop”, nell’attimo  in cui i tre protagonisti sono colti ognuno separato dall’altro, spazialmente ordinati. Così si evince dalla foto: la donna a sinistra, il prete a destra e il cane al centro della foto sullo sfondo; importante, perché equilibra lo scatto, senza affollarlo.

        Siamo alla fine degli anni ’50 e Renzo Tortelli, insieme al suo amico e coetaneo Mario Giacomelli, si trova a Scanno, paese dell’Abruzzo, che diventerà famoso fotograficamente, innanzitutto per gli scatti di Mario Giacomelli, a cui seguiranno Cartier-Bresson,  Berengo Gardin,  Fernando Scianna, Fulvio Roiter,  Mario Cresi,  Pepi Merisio e altri.

        Nello scatto la donna, abbastanza giovane, è colta come se sognasse intensamente , il volto leggermente sollevato con occhi chiusi. Ciò che colpisce è l’abbigliamento: il vestito lungo e largo nero, le scarpe-ciabatte nere, i calzettoni neri, il copricapo nero. Soltanto il volto e il collo sono scoperti.

        Interessante è il prete. Se, infatti, da una parte è partecipe alle regole sacerdozie di allora con la tonaca nera lunga, le mani in tasca; dall’altro presenta  sul volto dei  grandi occhiali da sole neri, un elegante cappello a tesa larga nero, che lo fanno sembrare più un turista americano che un prete per giunta del Sud.

        Tra la donna e il prete, sullo sfondo il cane è una figurina smunta nera sul biancore del pavé, con una coda piccola e arricciata.

       Mi ha colpito che Renzo Tortelli in un libro “Obiettivo Scanno” di Renzo Frontoni non venga neppure citato, perché questo scatto (ma anche altri presenti nel suo sito) è essenziale, armonico nelle forme con una qualità espressiva, che valorizza lo spessore storico-sociale.

 

27 novembre 2023

"L'uomo che suonava Beethoven" di Jean-Baptiste Andrea

 


UN LIBRO CHE NON VORRESTI MAI LASCIARE

di Marigabri

Scusatemi se ogni tanto ho lo sguardo un po’ assente.

I miei occhi hanno fissato troppo a lungo regni dimenticati.”

        È la storia di Joseph, un uomo che suona il pianoforte per strada, soprattutto alle stazioni e negli aeroporti, nell’attesa di vedere comparire come per magia il suo primo e mai dimenticato amore.

        Leggendo scopriremo perché Joseph suona solo Beethoven e scopriremo che la storia di quel primo amore non è l’asse portante di tutta la vicenda, ma lo è la forza e il coraggio dei vincoli di amicizia nati dall’esperienza comune del dolore e della sopraffazione. Dalla resistenza e resilienza.

         Vedremo un mondo di adulti che traducono in sadica crudeltà le profonde ferite della loro anima e un mondo di bambini e adolescenti che tentano di spezzare le catene che li costringerebbero a seguire la perversa strada intrapresa da quei falsi educatori.

        Storia, personaggi e scrittura costituiscono un amalgama talmente equilibrato che difficilmente si riesce a staccarsi dallo scorrere delle pagine e quando è necessario farlo la nostalgia per Joseph e compagni nutre il desiderio di riprendere al più presto l’avventura.

       Insomma: ecco un libro che non vorresti mai lasciare e che non vedi l’ora di ricominciare.

      Perciò nessun cenno sulla situazione e tanto meno sulla trama…così ogni pagina sarà un’avvincente e sorprendente esperienza di lettura.

     Jean-Baptiste Andrea. L'uomo che suonava Beethoven. Einaudi


UN RACCONTINO SCIATTO E INCONSISTENTE

di Marigabri

 Un raccontino sciatto e inconsistente che risolve alla svelta la spinosa questione del fedifrago Sebastiano.

      Siamo lontani dall’epica di Rocco, dai dialoghi brillanti e dalla complessità delle trame a cui siamo abituati.

Qui Manzini ha fatto il compitino, ha buttato giù due battute porche e Sellerio se la gode.

Che pena.

 

23 novembre 2023

"Chi ha paura dei Greci e dei Romani?" di Maurizio Bettini

 

di Carla Rosco 

     Maurizio Bettini (1947) classicista e scrittore, Direttore del Centro Antropologia e Mondo Antico dell’Università di Siena, ha il dono della chiarezza e di una verve narrativa che fa attraversare i suoi libri con grande facilità e piacere.

      L’ultimo suo libro è “Chi ha paura dei Greci e dei Romani - Dialogo e cancel culture”. Per l’autore il dialogo con chi ci ha preceduto va sempre mantenuto perché il dialogo è tutto nelle relazioni umane e sociali. Dialogo con i contemporanei e con chi ci ha preceduto.

      Il fatto è che viviamo in una società che sente di essere in un presente mai conosciuto fino ad ora, forte di una tecnologia sempre più vigorosa e sofisticata, per cui la tentazione di chiudere il dialogo con il passato o di ridurlo al minimo c’è. Si tratta però di un presente fragile e minaccioso: “Come sappiamo in tutto il mondo dagli schermi sgorgano fiumi di fiction, filmati o videogiochi interamente costruiti su sesso, pornografia, violenza, torture, smembramenti, e così via. Di questo planetario (e spesso ripugnante) flusso di immagini cui sono esposte milioni di persone, donne e uomini, bambini e anziani, nessuno sembra dire una parola: mentre nelle università i professori se la prendono con Ovidio ... Di recente una scuola superiore del  Massachusetts ha eliminato dal curriculum addirittura la lettura dell’Odissea, in quanto sessista”.

    La cancel culture è un fenomeno che riguarda soprattutto l’area anglosassone, bisogna però riconoscere che quelli che esaltano la ricchezza dell’eredità classica  in genere ne fanno un uso selettivo: per esempio va bene l’Eneide di Virgilio o la Poetica di Aristotele, ma non le pagine della Politica in cui Aristotele pretende di definire le caratteristiche di quelli che erano schiavi per natura.

     Esiste anche una corrente di studi che considera la cultura classica non la cultura per eccellenza , ma una cultura fra le altre, e che propone quindi riflessioni comparative. Occorre evitare che il giudizio morale si sostituisca alla riflessione storica, al bisogno di approfondire, di capire.

       Approfondendo si possono scoprire differenze interessanti come, per esempio, in campo religioso: “La flessibilità, l’intrinseca inclusività, la continua evoluzione che caratterizzano il politeismo greco e romano contrastano visibilmente con la rigidità dei monoteismi: ancora in buona parte prigionieri delle loro fedi in un dio unico e vero che esclude tutti gli altri”.

      Il movimento della “cancel culture” è stato accompagnato da un altro denominato “decolonizing classics”, che imparentato con il primo in area anglosassone sta crescendo: si chiede di decolonizzare i classici perché essi sarebbero inestricabilmente legati all’imperialismo, al sessismo, al razzismo e al colonialismo dell’Occidente (l’espansione imperialista dell’Italia fascista seguì due direttrici “romane”: quella della disciplina e della forza militare e quella della missione civilizzatrice).

        Quindi vengono individuati testi la cui lettura, nelle scuole e nelle Università, dovrebbe essere abolita, limitata o preceduta da un avviso. Si chiede inoltre che agli studi classici accedano studenti di altre etnie, che anche i professori non siano quasi esclusivamente maschi bianchi, e che si dia spazio maggiore alle donne.

       Questioni interessanti, che ci dovrebbero far riflettere sul fatto che anche in Italia, quando ci saranno seconde, terze, quarte generazioni di giovani immigrati, ci sarà anche chi fra di loro vorrà conoscere meglio il proprio passato e farà confronti o si sentirà in conflitto con la nostra cultura.

      In ogni caso comunque l’atteggiamento che deve prevalere è quello del dialogo, della conoscenza.

     “Sono uomo, niente di umano ritengo mi sia estraneo” scriveva Terenzio nel suo “Il punitore di se stesso”, che è un elogio della indiscrezione fra uomini, un invito a superare il reciproco mutismo in nome della comune umanità, nonostante gli ostacoli e le preclusioni.

 Carla Rosco. “Chi ha paura dei Greci e dei Romani? - Dialogo e cancel culture” di Maurizio Bettini. Einaudi,  euro 12

 


20 novembre 2023

"Tonino Guerra che scrive" polaroid i Andrei Tarkovskij

 


di Andrea Appetito

                            Polaroid di Tarkovskij, Tonino Guerra. Lui scrive, seduto su uno sgabellino, forse la sceneggiatura di Nostalghia, forse un’altra sceneggiatura. 

                        L’indice destro sospeso sulla tastiera, poggiata su una sedia di legno. Lo vediamo impastare, sotto la finestra aperta, una lettera alla volta, parole azzime. Niente scrivanie, niente scaffali colmi di libri, né comode facciate; c’è un libro solo, sul davanzale, sotto il bicchiere che cattura le ombre del mattino. Sul suo capo tonsurato dalla luce splendono le margherite raccolte dai prati ancora coperti di guazza e ordinate nel bicchiere. Lui è concentrato su lacerti di immagini che affiorano dal deserto della pagina bianca. 

                       Accanto alla finestra, ha montato la sua tenda per seguire l’ispirazione improvvisa e ora la consuma, mentre il tepore del mattino gli accarezza la schiena curva. Tutto il mondo di dialoghi che sta per venire alla luce poggia sulle sue spalle. Questo Atlante curvo sotto il peso dell’immaginazione è un instancabile mediatore tra il mondo delle cose rustiche e quello delle idee improvvise. Così dopo aver allestito lo scriptorium da campo, con dignità solerte si è messo al lavoro. Questo artigiano laborioso nella nicchia della polaroid ha fatto della scrittura la sua devozione, il suo stile di vita.


 

15 novembre 2023

Il sentiero del sale" di Raynor Winn

 

di Giulietta Isola

“Avremmo potuto fermarci, ma non avevamo niente da perdere e tutto da guadagnare dal continuare il cammino. Qui eravamo liberi, bistrattati dagli elementi, affamati, stanchi, infreddoliti, ma liberi. Liberi di non accamparci presso amici o parenti, essere un peso, diventare una scocciatura …Qui avevamo ancora il controllo sulla nostra vita, sui nostri risultati, sul nostro destino. Avevamo scelto di camminare e godere della libertà che deriva da quella scelta”.

       La storia di Raynor e del marito Moth è vera, bellissima e straordinaria. Questo libro, un esordio molto toccante, ruota intorno alla malattia incurabile e degenerativa che viene diagnostica a Moth nello stesso momento in cui perde la propria fattoria, per un investimento sbagliato e un errore burocratico nella difesa legale del loro diritto. 

       Raynor da agricoltrice diventa senzatetto ed infine a scrittrice a tempo pieno. I due coniugi iniziano il loro cammino nella natura e nella povertà , un percorso di 1013 chilometri da Minehead a South Haven Point, lungo le coste del Devon e della Cornovaglia . Spiagge , scogliere a picco e brughiere vengono percorse con due sacchi a pelo, una piccola tenda, un fornelletto e 48 sterline a settimana . 

        Riprendere in mano il proprio destino a 50 anni , mettersi a camminare nella natura selvaggia con la fame come “sottofondo costante”, non è facile, bisogna imparare a fare un passo alla volta ed apprezzare quello successivo, vincere la paura, l’ansia, l’amarezza . 

       Questi ingredienti rendono il racconto di Raynor forte e potente con qualche richiamo all’esperienza di tanti nomadi del nuovo millennio, così ben tratteggiati da Jessica Bruder. Moglie e marito camminano fra intemperie e stenti, dormono in una tenda montata nel fango, al freddo e sotto la pioggia battente, mangiano ciò che capita o meglio ciò che si possono permettere , vivono eventi straordinari e situazioni insolite premesse ideali per un forte cambiamento interiore, entrambi pensano : “noi non saremmo mai tornati indietro. Non avremmo mai più varcato quella porta, lasciato cadere i bagagli sul pavimento di ardesia, dato da mangiare ai gatti, passeggiato per il giardino in una notte d’estate.”

       Raynor e Moth sono consapevoli di non poter più perdere nulla, perché tutto è già stato perduto, insieme diventano più forti, vincono lo repulsione della gente , ed acquisiscono una nuova certezza: “una cosa sola era reale ora più del passato che avevamo perduto o del futuro che non avevamo: se mettevo un piede davanti all’altro, il sentiero mi avrebbe fatto procedere, e una striscia di terra spessa non più larga di una trentina di centimetri era diventata casa.” 

       Una riflessione: oggi c’è tanta gente che per la guerra è rimasta senza un tetto, è una cosa che spezza il cuore, si prova empatia e voglia di aiutare. Ma se incontriamo un barbone per strada è facile pensare a storie di droga e alcol, è facile pensare che in fondo sia colpa sua, ognuno ha una percezione diversa per situazioni simili. Leggere queste pagine sincere significa venire a patti con il dolore e scoprire il potere curativo della natura.

IL SENTIERO DEL SALE di RAYNOR WINN FELTRINELLI EDITORE

 

13 novembre 2023

"Le farfalle di Sarajevo" di Priscilla Morris

 

di Marigabri

       Sulla dannata guerra fratricida in Bosnia finalmente leggo un libro antiretorico, sincero, maturo (niente protagonisti bambini/adolescenti a pietire afflati di lettori commossi) che racconta come Sarajevo sia diventata nel giro di pochi mesi una prigione a cielo aperto.

       Distrutta inspiegabilmente la cultura multietnica che la caratterizzava, di cui il rogo della bellissima biblioteca nazionale è il tragico simbolo, la città diventa il teatro di una guerra assurda e implacabile, sprezzante di ogni diritto umano e insensibile a ogni differenza: implacabile e assurda come tutte le guerre, del resto.

      Perché l’odio inveterato cerca il suo oggetto a caso e poi colpisce a raffica, ovunque. È il caso dei cecchini appostati ai piani alti di qualche edificio che si dilettano a fare il tirassegno contro chiunque abbia la sventura di passare per strada in quel momento. Giovani, vecchi, donne, bambini: è lo stesso. L’odio praticato come religione rende tutti uguali nello spargimento di morte a caso.

      Priscilla Morris si ispira alla sua storia famigliare per raccontare di Zora, serba bosniaca, pittrice di una certa fama e insegnante all’accademia delle Belle Arti, che si trova nel giro di poco tempo prigioniera in una città assediata e ben presto ridotta alla fame. Recisi tutti i contatti col mondo fuori, Zora non riesce più a comunicare con i suoi cari: sua figlia vive in Inghilterra; suo marito Franjo l’ha raggiunta insieme alla fragile madre di lei, per proteggerla dalle prime minacciose incursioni dei nazionalisti serbi.

        Musulmani, croati, serbi sono i gruppi che costituiscono la nazionalità bosniaca: non sono etnie diverse ma appartengono allo stesso ceppo slavo. Negli anni Novanta però qualcosa si rompe, la pacifica convivenza viene lacerata dal nazionalismo fanatico che rimane tuttavia incomprensibile alla popolazione civile e agli intellettuali come Zora.

       Il racconto di una città sotto assedio è precisa, devastante, mentre segue il progredire insensato della violenza. La vita quotidiana dapprima sembra soltanto sospesa, ma in breve tempo ogni frammento di normalità viene annullato, sembra ardere nel rogo della Vijećnica, il palazzo simbolo della città, una meraviglia architettonica da cui si innalzano ora nere scaglie di cenere: quel che resta della cultura, del buon senso, della vera, autentica umanità. Una sola domanda : perché?

        E poi: “Nel giro di una settimana, Sarajevo si apre come una piaga.[…] siamo tutti i profughi ormai, passiamo i giorni ad aspettare acqua, pane, aiuti umanitari: mendicanti nella nostra stessa città.”

       Zora non può più insegnare, il suo studio distrutto nell’edificio distrutto, eppure cerca, fino all’ultimo, di continuare a dipingere: la sua specialità sono i ponti, ma quando si guarda intorno vede solo rovine: “Tutto, ovunque, è marrone e buio, fradicio e rovinato”.

      I sopravvissuti si stringono intorno a quel che resta delle loro case, alle poche coperte, al niente di cibo.

      E intanto, senza quasi più contare i giorni, un anno è passato.

     Qui c’è la storia di Zora e non solo. Personaggi che rappresentano un popolo, legami umani che si intrecciano e si spaccano, sentimenti, parole e corpi. Qui c’è una città, Sarajevo, che è impossibile non vedere e non amare.

     Qui c’è una letteratura che ci restituisce la vita nella sua nuda, essenziale e complessa verità.

Priscilla Morris. Le farfalle di Sarajevo. Neri Pozza.

 

12 novembre 2023

"A noi non accadrà" di Mario Zeppolini e Romano Zipolini

 

 


di Elisa Bertoni 

       Non è facile approcciare un libro di memorie perché si rischia di volerlo inquadrare in modo rigoroso, facendone smarrire l'identità: è storia e se ne può attingere come fosse un documento o è romanzo in cui l'aspetto di una trasfigurazione soggettiva dell'elemento autenticamente biografico traligna dall'oggettività del reale? A rendere ancora più complessa la questione è la presenza, in questo caso specifico, di una coppia di autori, padre e figlio, come se il testo fosse stato scritto a quattro mani, nonostante la pubblicazione avvenga molti anni dopo la morte di uno degli autori, Mario. Inoltre, perché padre e figlio presentano un cognome simile ma diverso?

      Il libro incuriosisce dunque già in partenza aprendo la porta a svariati interrogativi.

     Una chiave per avvicinarsi ad una comprensione più genuina dell'opera la troviamo nelle pagine che precedono la vera e propria narrazione. Si legge nella sezione Cartiglio: “Tutto è meglio della pura verità” (Pierre Sebor, 6.1.86). La dimensione soggettiva insita nella vita di ognuno è ciò che permette di vivere, nel momento in cui la pura verità, se si rivelasse limpida come un'idea platonica nell'iperuranio, nel momento in cui spazza via in modo cinico e brutale l'entusiasmo di un ideale vissuto con autentica passione, alimenterebbe solo rabbia, rinuncia se non disperazione e nichilismo. La memoria anche di fedi che hanno deluso e tradito si impone come esperienza utile per provare a rifocalizzarsi verso obiettivi di speranza e non di morte. Inoltre, vendere “pure verità” può essere la bandiera a cui si attaccano i potenziali dittatori perché il reale sfugge sempre al monopensiero delle tirannidi.

      E sempre in Cartiglio, ad apertura: “Quel giorno erano in migliaia, con le loro grida nervose ed il battimani ritmato, a sovrastare Jimi Hendrix. Invocavano sul palco i Monkees” (8 luglio 1967, Jacksonville-Florida). Perché questa citazione? Di fronte ad una epopea rivoluzionaria della musica come quella incarnata da Jimi Hendrix, il pubblico chiama a gran voce i Monkees, un gruppo che è stato creato per inscatolare commercialmente la canzone sulla scia del successo dei Beatles, tanto che il critico musicale Glen Baker li definì “la prima grande vergogna del rock”. La voce del popolo non è sempre vox dei, secondo il noto motto popolare; in epoca contemporanea la massa subisce costantemente un processo di strumentalizzazione sia nel campo dei consumi che in quello politico sociale ed il messaggio che arriva forte dalle pagine di questo diario è proprio l'occhio a non lasciarsi trascinare da effimere esaltazioni che invece di promuovere il talento/progresso inneggiano all'omologazione/regresso, all'ubbidienza cieca e acritica ad un potere che si proclama forte ed autoritario.

       Il libro si può anche considerare una sorta di romanzo di formazione con un finale che tuttavia rimane aperto. L'approdo, dopo la tragica conclusione del conflitto e la dolente percezione dell'inutile spargimento di sangue di tanti civili inermi, si potrebbe sintetizzare in una coppia di versi di Montale: “codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Lo Stato fascista pur nell'esibita ostentazione della sua forza non è riuscito a proteggere la sua gente per una insufficiente preparazione allo sforzo bellico o, secondo la ribadita opinione di Mario, per il tradimento di comandanti e di reparti, e a quanti sono stati animati da un genuino amor di patria non rimane che un cocente senso di smarrimento e sbandamento. Il vitalismo di matrice dannunziana che aveva animato il giovane Mario incline a gustare la sua vita come fosse un vero e proprio romanzo tra gesti di insubordinazione e l'eroismo della solidarietà, tra atti di coraggio ed avventure amorose molteplici, vissute tutte con intensità, come chi voglia assaporarne ogni sfumatura nella diversità degli incontri, viene barbaramente umiliato dalla storia, frustrato dal disinganno che lascia il marinaio barghigiano incapace di ritrovare in modo non contraddittorio un'altra fede cui donare il cuore. Se si esclude il valore degli affetti e dell'amicizia, specie quella per Ottone suo compatriota e compagno d'armi, che alla fine diventa il fil rouge che dà unità alla storia. Si legga in chiusa al libro “...scrutando la realtà del cielo e del mare, dalla mia nave, che ho perduto, sono stato indotto a spingermi incontro alla vastità di tutto quanto non conoscevo, a costruire il sogno della mia vita, che non si è perso nell'orizzonte, perché era celato nel corpo e nell'anima delle persone amate, in cui mi sono specchiato, per provare ad essere diverso da come mi avevano costruito”.  Il sogno miseramente vessato dalla storia si cela nel cuore delle persone amate: questa frase ha il sapore di un testimone che consegna agli affetti, anche al figlio Romano, ed è un impegno a non spegnere la vita e l'entusiasmo per essa attraverso vie diverse e nuove al di là di quelle in cui il giovane Mario si era incamminato con baldanzosa audacia e genuina speranza.

       Alla lettura si può percepire una netta cesura tra quello che avviene prima della guerra e della disfatta di Capo Matapan e il dopo: le pagine della prima parte più leggere e briose, tessute di reminescenze musicali e della giovanile esuberanza dell'autore paiono invecchiare di colpo, si fanno più stanche, nude, crude, rispecchiando la frustrazione dei reduci. Nella scrittura del diario, rispetto ad un documentario cinematografico, le immagini affiorano con la forza dei sentimenti di chi descrive eventi che ha vissuto e visto, perciò permangono con più incisività anche nella memoria del lettore. Come non figurarsi il marinaio Mario, amante della lettura e delle donne, aperto al nuovo, dotato di squisita sensibilità lirica, che si avventura nei mari pur venendo dai monti di Barga? Come non sentire vicine le sofferenze ed i turbamenti di un uomo che affronta eventi eccezionali in tempi eccezionali destinati poi a precipitare miseramente nel disincanto di chi non può fidarsi più neppure dei propri generali? Gli siamo accanto quando si riflette nel motto “tenacemente” della nave ammiraglia Zara su cui è imbarcato, accanto nella notte atroce che trascorre naufrago tra tanti commilitoni a seguito dell'affondamento dello Zara, percependo il suo stesso “disgusto infinito, per tutti quei corpi dilaniati, per quei pesci immondi, per questo freddo, per chi ci ha condannato a morire senza combattere...”, e accanto nella sua prigionia greca, a nutrirsi di olive e di paleo bollito, come prevenzione allo scorbuto.

        Il mare, nella sospensione di lunghe traversate, abitua alla riflessione: “il destino del marinaio, si legge, è... quello di sentirsi lontano da tutto e da tutti, nella grande immensità del mare, che rispecchia la vastità delle sensazioni dell'anima, con le quali si confronta”. Ci sono momenti in cui Mario, pur in un contesto storico come quello fascista, che relega la donna al ruolo asessuato di madre e moglie devota, precorre i tempi nel cammino verso l'uguaglianza di genere, quando afferma a proposito delle delusioni amorose: “o forse è difficile accettare che la donna, anche in questo, sia uguale all'uomo e che il desiderio di conquista, pure per lei, sia più forte di ogni fedeltà”. C'è in lui una forma di anarchia del pensiero che lo spinge a riconsiderare tutto alla luce delle proprie rimeditate esperienze.

        E' lui stesso a costruirsi vero e proprio personaggio letterario nel momento in cui si autobattezza Zeppolini dall'originario Zipolini, sulla scia della fama del dirigibile Zeppelin, capace di navigare i cieli così come il protagonista vola proteso sui suoi sogni; sogni che grazie al libro ci vengono riconsegnati intatti perché si stabilisca quella sana dialettica tra le epoche che dovrebbe far approdare al porto dell'evoluzione. Dallo scontro delle generazioni deve nascere l'incontro delle generazioni con le specifiche peculiarità, il foxtrot e le danze coreografiche di Tangolita amate da Mario si possono mettere accanto allo shake amato da Romano: chissà che non ne nasca un ballo nuovo che unisca tutti, il ballo dell'umanità. A noi non accadrà, in questo  imperativo futuro che si pone volutamente più come certezza che come speranza proprio nell'incertezza dolente di un mondo in cui la guerra continua ad affacciarsi, sono affidate  memorie che non si consumano in loro stesse ma che vogliono programmaticamente costruire dialoghi aperti, non settari, e per questo fortemente coraggiosi.

A noi non accadrà (un marinaio nella seconda guerra mondiale; da Barga a Capo Matapan, la prigionia, Bari) di Mario Zeppolini e Romano Zipolini. Tralerighe libri

 

 

 

11 novembre 2023

"La favola del re buono" di Castrenze Bonanno,

 


L’amor che move il sole e l’altre stelle

di Giovanna Baldini  

 La favola del re buono, di Castrenze Bonanno non è un libro di storia sulla vicenda umana e politica di Federico II, re di Sicilia e imperatore del Sacro Romano Impero. L’Autore, infatti, narra una favola a sfondo morale, dove i buoni sentimenti prevalgono sempre nelle azioni dei protagonisti, accompagnati dalla comprensione verso chi sbaglia, e mai dal rancore o dalla vendetta.

Il motore che muove il mondo, pensa l’Autore, è l’amore, anche se l’uomo spesso tende a ignorare questa grande verità.

Palermo, prima metà del XIII secolo: il dove e il quando si svolgono i fatti raccontati nel libro, ambientati nella città siciliana che quel grande sovrano rese famosa per splendore artistico e culturale fino agli angoli più lontani del mondo allora conosciuto.

I personaggi, che agiscono attorno al protagonista, sono d’invenzione e l’intreccio racconta una storia d’amore e d’amicizia.

Secondo Bonanno, le idee di dominio, di sopraffazione, di potere e ricchezza, che sempre hanno spinto gli uomini ad atti efferati e distruzioni, si sono realizzate a danno di molti nel corso dei secoli. Mentre, invece, le idee di solidarietà, amore, fratellanza sono sempre rimaste minoritarie e perdenti e i portatori di questi alti valori etici e morali tacciati spesso da eccentrici visionari o sognatori.

Per esempio, Federico II, ne La favola del re buono diventa per lo scrittore siciliano il modello del monarca illuminato che, dovendo partecipare a una crociata contro gli infedeli indetta dal papa, preferisce tentare un’azione diplomatica. È convinto, il sovrano siculo-svevo, formato a saldi valori di giustizia e fermi principi religiosi, che il dialogo tra i popoli sia più proficuo delle stragi e delle distruzioni; che la pace e l’incontro portino benessere e serenità.

Ragionamenti di puro buon senso che tutti dovrebbero impegnarsi ad attuare nella vita di ogni giorno, ottemperando anche alla parola di Dio, che è unico, secondo l’Autore, anche se conosciuto e adorato con nomi differenti.

Attraverso l’amore impossibile dell’imperatore Federico II e una popolana, Anna, un uomo e una donna di classi sociali molto distanti tra loro, ma uguali nei sentimenti che provano, il messaggio della favola è chiaro: in questa nostra vita l’unico sentimento che dà senso all’esistenza è l’amore, inteso in ogni sua sfumatura.

Ma il genere umano, e Castrenze Bonanno non si stanca mai di ripeterlo, è sordo e cieco, perché, parafrasando Francesco Petrarca, “vede il meglio e al peggior s’appiglia”.

 Castrenze Bonanno, La favola del re buono, La Grafica Pisana, Bientina (Pi), 2023, p. 136, euro 12.     

06 novembre 2023

"L'arte di legare le persone" di Paolo Milone

 




L'arte di legare le persone.

Legare le persone al letto.

Legare le persone a te.

Legare le persone alla realtà.

Legare le persone a se stesse.

Legare le persone è un'arte

Inconoscibile.”

di Marigabri

         Allora Paolo Milone, da quarant’anni psichiatra, ci rende partecipi di quest’arte inafferrabile costruendo un libro frammentario, lirico, intenso, a tratti struggente e malinconico, a tratti leggero e dilettevole. Personale e universale, come sono i libri che sanno dare parola all’intima, profonda verità.

       È l’incontro umano, solidale e fraterno, con tanta e varia umanità nella quale ci riconosciamo, noi che siamo sani o folli per uno scherzo del destino. (“I matti sono nostri fratelli. La differenza tra noi e loro è un tiro di dadi riuscito bene.”)

      Sono le parole calde, essenziali, in equilibrio delicatissimo e magico tra il vuoto e il pieno che ci fanno guardare “l’abisso con gli occhi degli altri” e cogliere la sottile e sfumata differenza tra lo psichiatra e il suo paziente.

      Lucrezia, giovane donna intelligente e scaltra, tremiamo per la tua vita. Carmelo, vecchio tossico barcollante dalle mille risorse, tremiamo anche per la tua.

       Siamo nel reparto 77, pronto soccorso psichiatrico, anteprima dell’inferno e ostinato faro nella notte nera.

      È Genova, città storta, stretta, impervia, impossibile camminarla tutta, Genova, dove un inseguimento notturno in zoccoli e camice svolazzante trova il suo limite naturale in faccia al mare (quel mare che “ascolta le persone una per una e intanto continua ad andare e venire”).

      Sono storie diverse che si intrecciano, si frastagliano e mai si completano, sono sentimenti e pensieri in cerca di un equilibrio che si fa e dis-fa continuamente. Così che i pensieri più fondi si frastagliano su uno scoglio e schiumeggiano lontani.

      Allora ritorna la prosaica, umile, necessaria realtà quotidiana come testimonia questo dialogo casalingo:

Anna, dentro di me c’è l’eco della tragedia del mondo.

Paolo, porta giù la spazzatura o te lo faccio sentire io l’eco della tragedia del mondo.

L'arte di legare le persone. Paolo Milone. Einaudi

22 ottobre 2023

Corpi celesti di Jokha Alharthi

 

Oman, un Paese ancora in cammino

 di Giovanna Baldini

       Il libro Corpi celesti di Jokha Alharthi, Bompiani, 2022, è un romanzo sulla vita di oggi in Oman, con frequenti incursioni nel passato. Abbraccia un arco di tempo che va dalla fine dell’Ottocento, quando quel territorio della penisola arabica era un grande mercato di schiavi, ai nostri giorni e ne descrive i mutamenti e le modernizzazioni attraverso le vicende di una famiglia di ‘Awafi, piccolo paese lontano dalla capitale.

      Il titolo si spiega perché le storie non scorrono in modo lineare, ma intrecciate tra passato e presente, tra vivi e morti, nei ricordi di ‘Abdallah, uno dei personaggi principali del romanzo.

      Un flusso di coscienza, mentre ‘Abdallah, marito di Mayya e padre di London, vola in aereo verso Francoforte.

     Basterebbe pensare ai nomi dei protagonisti per renderci conto del profondo cambiamento nella società omanita odierna.

      La figlia di Mayya viene chiamata, per volontà della madre, London, nello sconcerto totale della famiglia. Un nome che esce dalla tradizione, che non è nemmeno un nome di persona, ma di città. Salima, la nonna della piccola, rimane sbigottita e si oppone, ma la figlia è irremovibile: un buon auspicio, un augurio. Pensa che sua figlia sarà diversa da lei, studierà all’università, andrà a Londra.

      Infatti, nel romanzo la troveremo medico, realizzata nel lavoro, ma delusa e infelice nella vita privata, perché, per superare la tradizione, la cultura secolare, i rapporti sociali fondati su quelle antiche consuetudini, non basta portare un nome eccentrico, originale, straniero.

      Il libro descrive bene, attraverso i componenti di una famiglia omanita, allargata ai parenti più stretti e ad alcuni schiavi poi liberati e rimasti nella Grande Casa, come persone di servizio, i rapporti di potere dei maschi sulle donne, madri e figlie. È intorno agli anni Settanta, infatti, che quella società comincia a cambiare e la figlia di Mayya, nata nel 1981, può chiamarsi London.

      Un albero genealogico, inserito all’inizio del libro, dà conto dei personaggi che, con capitoli a loro intitolati, diventano tutti protagonisti dell’intera vicenda del romanzo. Inoltre, i rami della famiglia mettono in luce i nomi delle donne, che partoriscono i figli attraverso un matrimonio che mai è stato scelto dalla donna stessa.

       Mi è sembrato molto interessante questo aspetto. La continuazione della famiglia è nelle mani delle donne, che si devono sposare, ma con un uomo che non conoscono e che naturalmente spesso non amano. Così la vita va avanti nel presente come nel passato, che sembra immodificabile, nonostante gli stimoli di novità che arrivano dal mondo esterno. L’Autrice, non a caso, racconta due episodi che fanno pensare.

       Khawla, una delle tre sorelle, la più bella, non accetta l’imposizione di un matrimonio combinato, perché testardamente rimasta fedele a un amore giovanile. Riuscirà alla fine a realizzare il suo sogno, ma sarà un disastro.

      London, sua nipote, di un’altra generazione, quindi libera di scegliere il suo amore e il suo compagno, resta prigioniera della mentalità retriva di un tempo che le toglie obbiettività di giudizio e le procura infelicità.

      Un bilancio realistico, lucido, impietoso sulla società del piccolo sultanato arabo esce dalle pagine di Jhoka Ahlarthi, giovane rappresentante di quella classe di intellettuali che, dopo avere studiato in patria, si è trasferita all’estero per realizzare il cambiamento.

      Il libro è bello e interessante, un sapiente intreccio che tiene insieme una trama narrativa tra passato e presente, tradizione e attualità, riti magici e superstizioni: un mondo non ancora del tutto scomparso.

 Jokha Alharthi, Corpi celesti, trad. dall’arabo di Giacomo Longhi, ed: Bompiani, 2021, p. 258, euro 18,00