30 marzo 2022

"Enrico Berlinguer segretario del Pci. Luci e ombre". di Luciano Luciani (prima parte)

 


L’epoca dell’azione collettiva

        Una fase storica, quella che vide l’elezione di Enrico Berlinguer a segretario del Pci (era il marzo 1972 e si era tenuto il XIII congresso del Partito) tra le più tempestose e turbolente della storia repubblicana. Sono gli anni di quella che, con felice sintesi, è stata definita “l’epoca dell’azione collettiva” con le rivolte degli studenti negli anni ’67 e ’68, l’onda lunga delle lotte operaie durata almeno un quinquennio dal ’68 al ’73 e i movimenti sociali fuori dalle scuole e dalle fabbriche nella società: la casa, l’internazionalismo, le donne e le loro rivendicazioni, i diritti civili… 

         A tutto ciò, le classi dominanti avevano risposto con la strategia della tensione (la lunga, lunghissima interminabile stagione delle bombe da piazza Fontana a Bologna e gli opposti estremismi, l’attivazione del terrorismo prima solo nero, poi anche rosso… Un’inflazione a due cifre che arrivò a toccare il 20% e la svolta politica a destra che aveva portato al governo Andreotti e Malagodi e alla presidenza della Repubblica Giovanni Leone, espressione degli umori più retrivi della Dc, il partito di governo e della Confindustria. E tutto ciò mentre il Mezzogiorno si trasformava in una polveriera pronta a esplodere in qualsiasi momento e disponibile a tutte le avventure. come dimostrò l’annosa rivolta egemonizzata dalla destra estrema di un’intera città, Reggio Calabria…        

        Questo sommariamente delineato, lo scenario della crisi reso ancor più preoccupante da vicende torbide che indicavano come settori significativi dello Stato si fossero messi al servizio di progetti politici eterodiretti e di segno autoritario in un Mediterraneo che annoverava tra i suoi inquilini i militari turchi e i colonnelli greci, mentre a occidente resistevano gli immarcescibili Franco e Salazar. Del marzo 1972 è il ritrovamento del corpo straziato di Giangiacomo Feltrinelli ai piedi di un traliccio dell’elettricità a Segrate e del maggio l’omicidio, altrettanto torbido e oscuro, del commissario Luigi Calabresi, il funzionario della Questura di Milano nella cui stanza, nelle ore convulse delle indagini successive alla strage di piazza Fontana era entrato, vivo, l’anarchico Giuseppe Pinelli per uscirne, morto, da una finestra. Uno dei tanti misteri del secondo Novecento italiano.   

        Insomma tirava una brutta aria… E non poteva non essere colta in tutta la sua drammatica contiguità la lezione che giungeva dal Cile di Salvador Allende, dove un governo legittimo, socialista e democratico, veniva rovesciato da un brutale colpo di stato militare ispirato e sostenuto dagli Usa.

Contro lo spreco, l’individualismo e il consumismo

         In due articoli, apparsi su “Rinascita” dell’ottobre ’73, Berlinguer sostiene la necessità di impedire in Italia il ripetersi di quanto avvenuto nel Paese latinoamericano, considerato che anche nel nostro Paese esisteva il pericolo sempre più acuto di una spaccatura in due della società italiana. “sappiamo” scriveva Berlinguer “che la reazione antidemocratica tende a farsi più violenta e feroce quando le forze popolari cominciano a conquistare le leve fondamentali del potere nello Stato e nella società”. 

        Una tendenza simile si manifestava anche in Italia a partire dal 1969, quando al protagonismo studentesco e operaio si erano contrapposte la strategia della tensione, la mobilitazione dell’estrema destra, il degrado della situazione economica”. A giudizio del segretario del Pci le forze reazionarie operavano già da tempo per creare “un clima di esasperata tensione che aprisse la strada a un governo autoritario o per lo meno a una durevole svolta a destra”. Per impedire esiti del genere, Berlinguer, nell’autunno 1973, propone una nuova larga alleanza, che richiamava alla memoria quella realizzata dalle forze antifasciste negli anni 1945-1947. A livello sociale, il segretario comunista, sottolineava l’importanza di un’intesa tra la classe operaia e il vasto arcipelago dei ceti medi per sottrarli a ogni tentazione autoritaria e reazionaria. Sul piano politico era giunto il momento di un nuovo accordo con la Dc, perché, secondo lui, socialisti e comunisti non potevano sperare di governare il Paese neppure col 51% dei voti, qualora l’avessero raggiunto. 

        La lettura che il segretario dava della Democrazia cristiana era che non si trattasse di un partito organicamente reazionario, ma di un’organizzazione politica con una base sociale composita eterogenea, capace anche di scelte di progresso come pure aveva dimostrato nei primi anni del centro-sinistra. “La gravità dei problemi del Paese. Le minacce incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito un “compromesso” storico tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano”. 

         Si delinea così una vera e propria strategia di vasto respiro che, perso l’iniziale connotato difensivo, assume i caratteri di una proposta larga, ambiziosa, in cui comunisti e cattolici avrebbero potuto trovare un comune codice etico, un sistema di valori su cui porre le basi per la salvezza politica e sociale dell’Italia. La solidarietà predicata dai cattolici poteva ben intrecciarsi con le tradizioni della sinistra di azione e lotta collettiva per un nuovo ordine politico. Moralità cattolica e moralità comunista alleate dunque in nome di un bene politico superiore, un comune interesse a preservare il nostro Paese dal degrado morale del tardo capitalismo, in cui dominavano “lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione dei particolarismi e dell’individualismo più sfrenato, del consumismo più dissennato”.


 

28 marzo 2022

"Putin L'ultimo Zar" di Nicolai Lilin

 


di Marigabri

È arrivato alla sua posizione facendosi strada con i denti, i pugni e i gomiti, passando sulle teste e calpestando senza pietà gli avversari sconfitti, rispettando negli altri la forza e la lealtà, disprezzando la debolezza e il tradimento, come può fare solo chi ha imparato egregiamente gli insegnamenti che offre la strada
.”
          L’ascesa di Putin da ragazzo di strada a Presidente/oligarca della Russia, passando per il KGB.
Fino all’orrore di oggi.
O meglio: alla sua vigilia, perché il libro è del 2020 e si conclude con queste amaramente profetiche parole:
 
A questo punto, davvero, tutto può accadere. Come si usa dire: quando pensi di aver raggiunto il colmo delle disgrazie, il governo è sempre pronto mostrarti nuove, ampie prospettive.”
 
Nicola Lilin.    Putin L'ultimo Zar    Piemme

27 marzo 2022

"Il paese delle meraviglie" di Joyce Carol Oates

 

di Giulietta Isola

Molto della scrittura di un romanziere si svolge nell’inconscio. In quelle profondità è scritta l’ultima parola prima che una sola di queste appaia sulla carta. Ricordiamo i dettagli della nostra storia, non li inventiamo.” G. GREENE

           “Il paese delle meraviglie”, efficace conclusione dell’Epopea americana , è stato scritto nel 1967, ma si sposta dall’epoca della Depressione alla Seconda guerra mondiale, la Guerra di Corea, la “guerra fredda”, il Vietnam e l’assassinio di JF Kennedy. In quegli anni l’odio aveva scavato un solco profondo tra le generazioni ed impazzava la “controcultura”. 

             La professoressa delle parole, Mrs Oates, apre il suo romanzo con un quattordicenne terrorizzato che “sa” che sta per succedergli qualcosa di terribile o forse è già successo, lo seguiremo nel percorso tortuoso della sua esistenza che ci lascerà senza fiato. Jesse è l’unico sopravvissuto allo stermino della sua famiglia da parte del padre, troverà dimora nella facoltosa famiglia del dottor Pedersen, uomo ligio ai suoi doveri economici, ma padre assente e marito spietato, misogino e indifferente. 

           Siamo in un’America “benedetta da Dio”, l’America di tutti gli uomini, in apparenza un paradiso, ma in sostanza un inferno, non ci sono meraviglie in questo Paese. L’unica meraviglia è la prosa di Oates impeccabile, potente, densa, mai retorica, che ci stimola ad andare oltre la superficie , oltre le apparenze. 

           Come ha dichiarato l’autrice, questo è il libro più politico dell’epopea, il più difficile da comporre: nel periodo tra la fine del romanzo e la sua pubblicazione sono stati riscritti inizio e fine. Non ci vengono proposte né arringhe politiche né metafore esplicite del tumulto culturale degli anni Sessanta, ma è facile intuire i malesseri del tempo dalle lettere di Jesse, la figlia rapita dal sogno hippie che troveremo crudamente descritta sul finale devastata, asessuata, gialla in volto per l’itterizia . 

        Le incursioni, quasi brutali, degli eventi storici riveleranno quanto anestetizzata sia la vita del protagonista Jesse che il romanzo mostra come un arco ascendente: di origini umilissime diventa un medico socialmente riconosciuto e ricco a scapito però di una perdita totale di personalità. Un alienato, uno scienziato acuto attratto di ciò che è strano, inquietante e mostruoso che non riconosce il sé interiore ma evidenzia quello esteriore. Il sogno americano è un incubo, la gioventù americana è in declino, i personaggi de Il Paese delle meraviglie sono spietati e l’America è feroce. “Gli Stati Uniti sono una nazione unica nel suo genere, benedetta e potente, che non può essere conquistata, non nel corso della nostra vita o in quella dei nostri figli… Gli Stati Uniti hanno qualcosa di magico. I nostri sono tempi magici…”in questo sermone Jesse mostra tutto l’orgoglio americano di uomo che si sente artefice del proprio destino in una terra promessa, quasi fanatico con la sua qualifica da medico si sente il custode della vita altrui, sembra quasi voler occupare il posto di Dio, vuol diventare il migliore penalizzando la vita affettiva e non prestando le dovute attenzioni a sua moglie e alle sue due figlie, pagherà tutto a prezzo altissimo. 

            Per Oates il sogno americano è ormai andato in frantumi, non c’è più nulla da inseguire, nessuna redenzione, i peccati dei padri vengono scontati dai figli, sempre più soli e fragili. Il paese delle meraviglie ha il cuore nero, è un racconto magistrale del tramonto del sogno americano che non fa nessuno sconto alla società americana che non si dimostra capace di essere indulgente e di provare pietà per i vinti che non sempre possono essere considerati semplicemente vittime. 

                                           Da leggere con attenzione.

IL PAESE DELLE MERAVIGLIE di JOYCE CAROL OATES IL SAGGIATORE EDITORE

 

17 marzo 2022

"Album Tolstoj" di Lev Tolstoj

 

di Davide Pugnana

            Periodicamente, come per un segreto gesto scaramantico, mi rituffo in quella prima sorgente artistica che, sui diciotto anni, mi spinse verso la grande letteratura: i romanzieri russi. Appena prima dei francesi, che molto tempo di letture mi avrebbero preso, furono i russi a conquistarmi per sempre. La sensazione di scoperta di un classico trascina sempre con sé l'impressione che, fino a quel momento, stranamente il nostro vissuto sia stato povero e manchevole: l'irruzione, a un tempo dolce e violenta, di un romanzo come "L'idiota" o come "Anna Karénina" è capace di rompere la nostra percezione dell'esistenza e della natura umana in un "prima" e in un "dopo", come se un vetro venisse infranto e un nuovo sguardo sulle cose cominciasse a prendere corpo. Questo furono, per me, Dostoevskij e Tolstoj. 

              Ogni volta che sento il bisogno di rinvigorire la mia energia di lettore e di tornare a credere nella bellezza del vivere riapro quei romanzi vasti, tentacolari, aurorali; e tutto, tutto il respiro tragico ed epico di affreschi assoluti e totalizzanti come "I fratelli Karamazov" e "Guerra e pace" mi spalancano le porte immense dell'agire umano, il complicato telaio dell'esistenza, le sue forze diurne e oscure, i misfatti, le redenzioni, le cadute abissali, la tessitura ronzante della vita quotidiana.

              Non dimenticherò mai la prima volta che lessi la scena dell'innamoramento di Levin e Kitty in "Anna Karenina". Un dialogo d'amore tutto giocato sul filo sottile e smagliante del non detto, come accade tra Alfio e Mena nei "Malavoglia" di Verga, altra duetto amoroso memorabile. Lévin arriva al giardino zoologico alle quattro di pomeriggio, in «una limpida giornata di gelo». Gli basta vedere la carrozza degli Šcerbackij (la famiglia di Kitty) per farsi venire il batticuore. Il sentiero innevato che conduce alla pista di pattinaggio è disseminato di simboli ieratici, lo scintillante laghetto ghiacciato è il correlativo oggettivo dei pensieri puri di Lévin e della verginità di Kitty. «Si accorse che lei era lì dalla gioia e dal terrore che gli aveva afferrato il cuore» scrive Tolstoj. Avvertiamo l’agitazione del nostro eroe, le pulsazioni, lo stomaco in subbuglio. Eccola finalmente: sebbene condivida la pista con un nutrito gruppo di pattinatori, è isolata dal resto da una luce vivida. Gli appare come una rosa tra le ortiche, dice Tolstoj. Una similitudine semplice come è semplice l’animo di Lévin. «Tutto risplendeva di lei. Lei era il sorriso che illumina tutto intorno a sé». Adoriamo Kitty perché gli occhi di Lévin ci insegnano ad adorarla. Non sappiamo niente di lei e ne siamo già innamorati. Presidiamo con imbarazzo all’incontro tra questi amici di vecchia data. Kitty non è più una bambina, sta per esordire in società. Lévin, inselvatichito dai mesi in campagna, dà prova di irredimibile imbranataggine. I due finalmente pattinano insieme ed è questo sport elegante a scioglierli. Quando lei gli chiede se si tratterà a lungo a Mosca, lui con qualche esitazione risponde: «Dipende da voi». Lei finge di non aver sentito e il lettore si chiede che ne sarà di Lévin. Siamo a vertici narrativi altissimi.

            La stessa vita di Tolstoj ha il respiro di un suo romanzo, e in una manciata d'anni sembrano condensarsi centinaia di pagine che svolgono anni, crescite, debolezze, maturità, crisi e rinascite. Nell' "Album Tolstoj" dei Meridiani Mondadori tutto è fissato come in un gigantesco dagherrotipo di quell'epoca: l'infanzia dello scrittore alla luce della sua genealogia, la mitica tenuta di Jasnaja, i primi precettori, il rapporto con i tre fratelli che si svolge nel tempo tra esaltazioni e drammi, la vita militare del giovane Tolstoj che vediamo in uniforme, la sua goffaggine nei salotti, le prime avvisaglie del suo talento letterario attraverso i racconti, da "Adolescenza" a "Sebastopoli".  

            Igor Sibaldi, che ha scritto il testo e i commenti alle immagini di cui è trapunta questa biografia, ricostruisce con grande perizia le varie epoche della vita di Tolstoj, mostrandoci dall'interno le imprese pratiche e spirituali dello scrittore prima che diventasse uno dei geni della narrativa russa di tutti i tempi. Da qui, ad esempio, le pagine dedicate alle scuole (ben 23) aperte dal giovane Tolstoj, in veste di maestro rurale, per alfabetizzare i figli dei muziki. Un gesto che già prelude ad alcune posizioni da "anarchico cristiano" del vecchio Tolstoj.

            Alcune delle pagine più belle di questo Album biografico sono quelle dedicate al ruolo della moglie Sonja, la grande, complice, compagna di vita di Lev Tolstoj. Ad un certo punto della loro vita, dopo varie burrasche e litigi, la loro unione divenne perfetta perché Sonja iniziò a vivere e a partecipare del sogno del marito, a gestire le proprietà, l'azienda, a crescere i figli, e, soprattutto per noi che siamo i posteri, a trascrivere pazientemente le pagine che Tolstoj andava scrivendo. È un piccolo miracolo coniugale. Le liti cessano e Sonja si trasfigura. È lei a ricopiare impeccabilmente i capitoli che Lev viene via via ultimando, glieli consegna in bella grafia, e non batte ciglio quando le tornano ricoperti di accidentatissime correzioni: li ricopia di nuovo, con magnifica, inesausta pazienza. Il tempo interiore del romanzo ingoia così anche Sonja, e tutta casa Tolstoj: tutti le cose di fuori, tutti i rapporti con il parentado moscovita, ogni relazione con la società e gli editori. Scrivere, per i due coniugi, diventa come una traversata senza scalo né tempeste, e tutto il resto sembra avvenire senza sosta, appena visibile all'orizzonte. Siamo ormai alle porte di "Guerra e pace" e tutto - il tempo, le scadenze, il quotidiano lavoro sulle pagine, le trascrizioni in pulito, la consultazione dei testi di storia e dei memoriali, le letture di nutrimento come Dickens, Cervantes, Hugo, Goethe e altri - ogni cosa si accorda sulla folla dei personaggi, già formati o in formazione, che fanno di Tolstoj, ancora oggi, una tale densità di vite, un'epoca, un mondo intero (quasi) senza paragoni. 

Lev Tolstoj. Album Tolstoj. Mondadori I Meridiani. a cura di Igor Sibaldi.

08 marzo 2022

"Libri che mi hanno rovinato la vita" di Daria Bignardi

 

di Marigabri
         In genere si parla dei libri che curano, dei libri che aprono orizzonti, di quelli che ti cambiano, ma sempre in senso positivo.

       Daria Bignardi, invece, decide di parlare di quei libri che le hanno rovinato la vita facendole sperimentare, giovanissima lettrice, la fascinazione del male, l’attrazione verso l’abisso, il pericoloso magnetismo del negativo. Con l’energia inesauribile della giovinezza Daria si tuffa nelle parole degli scrittori amati, cammina sul ciglio di libri pericolosi, ne abbraccia il mistero. La loro sofferenza diventa la sua.

       Come scrisse Abbie Hoffman : “ Eravamo giovani, eravamo avventati, arroganti, stupidi, testardi. E avevamo ragione!”

        Taccuino di lettura e memoir, il libro ripercorre brevemente il percorso di formazione dell’autrice, analizzando la sua propensione verso la malinconia, l’idea che il tormento e la sofferenza siano più interessanti della gaiezza e della felicità fino ad arrivare alla consapevolezza dell’età matura, espressa con mirabile sintesi dalle parole di Tolstoj:

Chi è felice ha ragione.

      Raccontando la sua esperienza di avidissima lettrice la Bignardi intreccia i paesaggi narrativi con le sue esperienze personali, mostrandone i nessi e indicandone gli enigmi. Arrivando a una conclusione in cui tutti noi amanti dei libri possiamo riconoscerci:

    “L’importante è che siano belli, i libri, e onesti, che non siano sciatti o furbi o pretenziosi, se no diventano irritanti o inutili, o fanno perdere tempo, e il nostro tempo sulla Terra è poco, e bisognerebbe vivere per sempre solo per leggere, che è così furiosamente bello.”

 Daria Bignardi. Libri che mi hanno rovinato la vita. Einaudi