27 gennaio 2017

"Lisario o il piacere infinito delle donne" di Antonella Cilento




 di Sharon Tofanelli


A certe storie, a certi libri si deve arrivare preparati. In un certo qual senso, li si può equiparare al primo rapporto sessuale: strascichi perturbanti, esplosioni multisensoriali. Una gamma sgargiante di colori, di odori e suoni prende a impazzare con una passione non priva di sadismo.
Quando l'imbuto che è Lisario inizia a inghiottire, nella testa del lettore si spalanca un caleidoscopio. E no, non si torna indietro.

Il romanzo di Antonella Cilento si apre sulla Napoli barocca, la Napoli delle folle inferocite e dei teatranti squattrinati, dove mezza Europa va a defluire come l'acqua giù per i canali di scolo. Nella città del chiasso, del turpiloquio e dei santi venerati, Belisaria Morales -ovvero Lisario- è la voce che ha da tacere, la femmina immodesta, "malata dalla nascita di straparola". Lisario osa leggere, osa scrivere e pensare.
Lisario dovrà pagare con la perdita della lingua. 

Condannata al matrimonio, opera una protesta passiva, faticosa: sceglie di dormire, dormire forzatamente, di essere la bella dormiente del rione. Al destino della ribelle si allaccia quello di Avicente Iguelmano, il medico fallito che è incaricato di porre fine al coma. Scrutato dal paese intero, da quella Napoli poliocchiuta e popolaresca da Cunto de li Cunti, Avicente desta Lisario con il piacere: quello di lei. E il suo spirito di uomo, di individuo secentesco scivola nella confusione.
Perché Lisario è una donna e può conoscere l'ebbrezza dei sensi anche senza di lui.

Poetico, passionale e tuttavia morboso, il romanzo sprofonda nei moti interiori dei suoi personaggi, in particolare i maschili, frugando nei meccanismi più sensibili e remoti. Avicente, che ha ottenuto Lisario la miracolata in sposa, pur conscio del fatto che ha fatto finta, che lei, stupida femmina, costola estratta, metà deficiente dell'uomo, per sei mesi è riuscita a fingere il sonno e a beffarsi di una città intera; di più, sa che non lui l'ha destata, ma lei stessa ha acconsentito a farsi destare. E' Lisario, la consorte muta, a esercitare il potere. E c'è quel misterioso, quell'abominevole piacere della donna, un piacere che non si può controllare, né imbrigliare:
«Loro godono e io non capisco come...godono anche senza di noi...»
«E che v'importa?»
«Perché...ci rubano qualcosa. [...] Forse possono fare altro senza di noi [...] Immaginate che concepiscano senza di noi [...]: su chi eserciteremmo la nostra...autorità? [...] Presto anche il denaro sarebbe nelle loro mani...»

Altri personaggi s'intessono nella trama: Töde, l'anatomista asessuato che stempera la frustrazione sezionando donne; Jacques Colmar, il maestro di scena, che riamato ama Lisario; Michael de Sweerts, talentuoso pittore omosessuale, innamorato suo malgrado di Colmar e condannato dal tempo e dalla morale a detestare ciò che è. Un intreccio dinamico porta i personaggi a incontrarsi e scontrarsi in un rutilante alternarsi di luci e di ombre, delle battute più scurrili e della poesia più viva: lo studio di Avicente si affastella di vulve disegnate; nei tendaggi smossi dal vento, Michael immagina le sottane di una donna e si addolora; Lisario scrive in segreto lettere alla Madonna; Colmar la intravede in chiesa, innamorandosi delle sue unghie sporche, delle orecchie non lavate.

E' guerra dichiarata. E' guerra tra la ragione e l'umanità cruda; è un gatto epilettico che piomba in laboratorio, seminando il caos. E' la crudeltà di certi flashback, quando assistiamo all'Avicente bambino, trascinato dal padre all'autopsia pubblica, costretto a fissare il cadavere, svenuto. E' l'impatto di certe figure lontane, ormai deperite, come la madre, la cristianissima madre di Michael: lei così pia, lui un'aberrazione. A far da sfondo la Napoli tumultuosa di Masianello, tra epidemie,  zoccole e fiamminghi, la Napoli dei cantanti castrati e dei travestiti, la Napoli sboccata che i dottori disprezzano. Ciclo dei vinti, fantasia erotica di un Verga nei fumi dell'alcool, con un ritmo forsennato che per certe svolte pare quasi una fiaba, il punto di vista slitta da personaggio a personaggio, ora inscenando azioni, ora trascrivendo diari missive appunti, sino ad approdare al piano onirico: è il caso del sogno che ricorre per ampia parte del romanzo, in cui un Avicente progressivamente più folle si trova al cospetto dei santi, santi popolareschi, quelli che la città ama, che si sporgono dal balcone e gl'imprecano addosso in napoletano.
                                                                     Antonella Cilento
E in tutto questo coacervo di lingue, di traumi e violenze, Lisario pare irriducibile come un obelisco. Causa involontaria, in quanto femmina disinibita, del tumulto che scuote la rete dei personaggi, lei non è partecipe della matassa psicologica. I fatti le scorrono addosso puri, limpide le emozioni, veritiere. Lei che è donna, dalla quale questo Seicento non si aspetta la dignità della ragione, rimane al di fuori dai quei torbidi abissi. E tutti, noi compresi, a scrutarla dall'esterno, oltre quell'afonia che l'ammanta di segreto. Lei, che dà il nome al romanzo, rimarrà un mistero nella sua semplicità sconcertante.

Questo libro? E' Lisario, nel nome e nell'essenza. Ti accoglierà nel suo letto di lana grezza, un poco ruvido e lentamente stringerà la presa. Sarà volgare, sarà diabolico e scurrile da farti scuotere il capo. Se griderai al peccato, arrossirai nel sapere che un peccato lo s'interpreta, lo s'indossa con convinzione. E Lisario non recita.
Perché Lisario è.
E in queste tre parole è l'intero dramma.

Antonella Cilento. Lisario o il piacere infinito delle donne. Mondadori 2014.

24 gennaio 2017

"Parola di cadavere" di Andrea Vitali




di Gianni Quilici



      Ho trovato questo racconto lungo (o romanzo breve) di Andrea  Vitali deludentissimo, tanto che la sua lettura mi ha disturbato; sono arrivato fino in fondo solo per la brevità. In rete, invece, ho trovato commenti positivi, se non entusiasti. Soprattutto mi ha colpito Antonio D’Orrico, critico di primo piano de Il corriere della sera che ha scritto: “Secondo me, Vitali sorpassa con la sua levità Guareschi…. Il suo è puro gioco narrativo con momenti di alto virtuosismo”.
              Naturalmente mi posso sbagliare e posso non capire. Ci ho trovato un gusto aneddotico, uno sguardo bonaccione dall’alto e tutto di superficie che fissa personaggi di poveri cristi, in maschere stereotipate e farsesche.
              Un  padre mentalmente stupido, che ha un solo ossessivo desiderio; fabbricare casse da morto, e per avere i soldi per realizzarlo prende il vezzo di risparmiare su tutto ciò che gli è possibile, tanto da rimanere inchiodato nell’unica stanza in cui vive con un filo soltanto di respiro. 
Una madre, detta Polifema, a causa di uno strabismo così forte, che pare abbia soltanto un occhio, con il padre che vuole maritarla senza riuscirci, fino a quando l’affibbia, con un inganno, al povero fabbricatore di bare.
E infine il figlio, chiamato nel paese non a caso Cadavere,pallido, magro, sempre silenzioso, ma non il silenzio misterioso, il silenzio, invece, della banalità, sinonimo di una vicina stupidità. Ne’ più intelligente appare l’io narrante, di cui non si capisce   l’interesse che possa avere per il Cadavere, del quale è stato compagno di scuola, e per la sua disastrata famiglia.
               Ma allora si potrebbe obbiettare: perché Parola di cadavere piace a molti? Forse perché il lettore si sente superiore a questa umanità dileggiata e ironizzata, e sicuramente perché è un racconto sorretto da un linguaggio fluido e popolare, che rende la lettura veloce, accattivante e, per certi occhi, divertente.



Andrea Vitali. Parole di Cadavere. Il sole 24 ore.

23 gennaio 2017

"Una nota su Josif Brodskij" di Davide Pugnana



Iosif Brodskij, come Pasolini e Paul Celan, è caduto dentro un secolo terribile, nel quale più volte la poesia è stata messa in crisi e data per morta, come recitava lapidaria la sentenza di Adorno: “scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro e ciò avvelena anche la stessa consapevolezza del perché è divenuto possibile scrivere poesie.”

Malgrado il pessimismo del filosofo, poeti come Brodskij, Mandel’stam, o Ungaretti e Quasimodo da noi, non hanno mai perduto il senso della resistenza etica. Nessuna concezione della poesia può essere messa sotto accusa: i grandi autori non sono mai stati tanto poeti quanto in tempo di precarietà, di crollo dei paradigmi umanistici e di perdita delle certezze storiche.

Questo dato di fatto è talmente ficcante da diventare il cuore geometrico dell'attività poetica di Brodskij. Nelle pieghe dei suoi versi di marmorea bellezza classica sono passati i mestieri più disparati: il fresatore in una fabbrica di Leningrado; l’addetto alle caldaie in un bagno pubblico; l’assistente in un anfiteatro di anatomia; l’operaio avventizio per una missione di geologi in Siberia; e tra queste navigazioni possiamo inserire anche il nomadismo, a piedi tra Russia e Asia Centrale o arrampicandosi sui ghiacciai del Pamir senza provviste e senza attrezzatura alpinistica.

In tanto dinamismo Brodskij riuscì a trovare il tempo di istruirsi, imparando numerosissime lingue e giungendo a conoscere alla perfezione l’inglese e il polacco; e ad impegnarsi nella militanza politica, aderendo al realismo socialista del suo tempo. L’uomo esplorò la sua condizione fino in fondo: lavorò, studiò, militò, coltivò gli ideali buoni della sua generazione, e fece in tempo a farsi arrestare con l’accusa di “parassitismo”, quindi ad essere spedito in un ospedale psichiatrico e poi al confino in una lontana regione del Nord, per scontare cinque anni di lavori forzati. Nella sua vita Brodskij provò quell’esperienza della persecuzione tout court che lo rese un autentico personaggio kafkiano. Occorrerà aspettare il 1989 per vederne la “riabilitazione”. Questo è l’uomo che miracolosamente è riuscito a sopravvivere.

Il poeta continuò ininterrottamente il suo lavoro di scavo dentro grandi temi metafisici ed esistenziali. Ed è singolare che di tanta variata e inaudita materia biografica non ritroviamo che un pulviscolo di vicende sparse in versi di classica perfezione. Al Brodskij poeta interessava la tenuta e la purezza della difficile e calibrata arte della versificazione. Egli sapeva bene che il testo poetico sarebbe stata la vera forma con la quale la Storia l’avrebbe ricordato. Se la vita quotidiana trasvolava tra bordi sfrangiati e precipizi spalancati sull’assurdo, all’opposto la ’vita in versi’ andava costruendo un abito di bronzo imperituro, inciso di assimilazioni classiche; di dialogo con la tradizione; di recupero di un senso arcaicizzante, lavorando a innovare strutture metriche come odi, ballate, elegie; e di segreto nutrimento nella pratica di lettura e traduzione di poeti metafisici inglesi del XVII secolo, quei John Donne e Andrew Marwell dai quali Brodskij imparerà a trasformare il suo pensiero in materia da poemi. Non stupisce che proprio la fama di Brodskij abbia ricevuto il sacro battesimo di W.H. Auden, all’epoca vero e proprio classico vivente della letteratura inglese.

“Il vero pericolo per uno scrittore non è tanto la possibilità (e non di rado la realtà) di una persecuzione da parte dello Stato, quanto la possibilità di farsi ipnotizzare dalla fisionomia dello Stato, una fisionomia che può essere mostruosa o può cambiare verso il meglio ma è sempre provvisoria. La filosofia dello Stato, la sua etica - per non dire la sua estetica - sono sempre ’ieri’. La lingua e la letteratura sono sempre ‘oggi’ e spesso (specialmente nel caso in cui un sistema politico sia ortodosso) possono addirittura costituire il ’domani’. Nessun poeta, messo davanti alla necropoli del “secolo breve”, si è piegato alla tentazione di fregiarsi “del titolo onorifico di ’vittima della storia’; la sua ricerca anzi si è sempre orientata verso la costituzione di un senso capace di restaurare quegli strappi feroci che la mano della Storia aveva lasciato sul corpo dell’uomo. La poesia del Novecento non ha mai giudicato gli oppressori secondo criteri di semplice moralità: tenendosi in uno spazio premorale ha cercato con lucidità di metterne a nudo le ragioni oscure di violenza e di distruzione."





20 gennaio 2017

"Non di solo pane" di Angela Lepore

Il pane non basta

di Luciano Luciani

Se mangiare è una manifestazione fondamentale del corpo, certo non si può ridurre al solo fatto nutrizionale. È attraverso il cibo che l'uomo incontra il mondo, lo assapora, lo introduce dentro di sé, lo assimila e lo rende parte di se stesso. Lo assorbe e non ne è assorbito e così trionfa sul mondo. 

Quindi mangiare è un gesto carico di ritualità, soprattutto quando avviene con gli altri: è la metafora dell'unione, della famiglia, dell'amicizia. 

Nell'intera area del Mediterraneo, il convito è sempre stato un'occasione spirituale: Platone ci racconta di un Socrate che insegnava seduto a tavola... Senza dimenticare il valore mistico-simbolico che il pasto in comune acquista col cristianesimo: i monaci che trascorrono la giornata da soli e in preghiera hanno sempre un momento di aggregazione quando consumano insieme il loro pasto frugale. A tavola si è celebrata la magnificenza rinascimentale e il filosofo illuminista Voltaire suggeriva di porre in sala da pranzo la statua della dea Ragione col fine di riappacificare gli animi. Così, non per caso, gli incontri dei membri dei club rivoluzionari francesi si tenevano proprio a tavola...
 

Tutti concetti, questi, ben presenti ad Angela Lepore, autrice di Non di solo pane... Viaggio nella Mensa Arcobaleno di Vicopelago, San Marco Litotipo-Lucca, 2016, una interessante e originale lavoro di ricerca all'interno di una bella esperienza del volontariato lucchese. Ovvero una mensa gratuità, rivolta a donne e uomini espressione delle sempre più numerose tipologie del disagio e della fragilità sociale: immigrati dai quattro angoli del mondo, ex tossicodipendenti, ex alcolisti, disoccupati, homeless... Naufraghi che non hanno mai smesso di asciugarsi, poveri sull'orlo della miserabilità, della perdita di dignità, della disperazione: abissi di sconforto a cui fa la Mensa Arcobaleno prova a fare da argine con i suoi ambienti caldi e accoglienti, con le tavole bene apparecchiate, con il cibo gratuito e abbondante, con la possibilità fornita agli ospiti di curare la propria persona, il proprio aspetto. Con l'offerta di relazioni ripettose: sono questi gli  antidoti più efficaci a vite segnate da cadute e solitudini.
 

Angela Lepore fa parlare gli ospiti della Mensa Arcobaleno e in maniera semplice e diretta ne raccoglie le voci: a esse aggiunge, come controcanto, quelle dei volontari che gestiscono la mensa. E gli uni e gli altri, pagina dopo pagine, immagine dopo immagine, sembrano voler cantare un'unica canzone. Che parla di accoglienza, condivisione, solidarietà, di disuguaglienze da colmare, di percorsi esistenziali interrotti e da riprendere. La Mensa Arcobaleno è solo un primo passo: dopo, ne siamo sicuri, ne seguiranno altri e altri ancora. Meno incerti, più fiduciosi e resi tali anche dalla convivialità gentile della Mensa di Vicopelago.

Abbiamo rivolto alcune domande alla curatrice del libro, la dott.a Angela Lepore:
Perché hai scritto un libro sulla Mensa Arcobaleno di Vicopelago?
Questo libro è un ringraziamento personale agli ideatori della Mensa di Vicopelago e a tutti i volontari che si impegnano quotidianamente nella lotta alla povertà.
Inoltre, è un modo per far conoscere le storie degli ospiti, le vite interrotte, le odissee che hanno condotto uomini e donne diversi per provenienza, per età, per cultura, a sedersi allo stesso tavolo e condividere lo stesso cibo.

Come è stato accolto il libro?
Ho scritto un libro sulla mia esperienza come volontaria presso le Mense dei poveri di Lucca, in particolare sulla Mensa di Vicopelago dove sono presente. L'ho fatto di getto, pensando che non sarebbe uscito dall'ambito locale e sarebbe rimasto un ringraziamento a chi mi aveva affiancato in questo stupendo servizio a favore dei soggetti più poveri, emarginati, esclusi.
In realtà, grazie al passaparola il libro si è diffuso in poco tempo, anche al di fuori della Diocesi di Lucca, ed è stato valutato molto positivamente per il tema trattato: è un argomento molto attuale e poco argomentato nei testi esistenti. Ciò che mi rende più felice e orgogliosa è vedere l’entusiasmo dei volontari che si sono riconosciuti nella descrizione dei loro compiti svolti presso la Mensa e nelle foto inserite nel libro. 

Cosa ti aspetti dalla diffusione di questo libro?                                     
Mi auguro di poter dare una testimonianza significativa affinchè sempre più persone siano disponibili a dedicare il proprio tempo e le proprie competenze a questi soggetti in difficoltà. Inoltre, vorrei sensibilizzare l’opinione pubblica sullo stato di indigenza di persone che ogni giorno si mettono in fila per mangiare alle mense della Caritas e che non hanno la possibilità di far parte in modo attivo della nostra comunità in quanto relegati ai margini della società perché ritenuti scomodi. È importante che gli enti pubblici siano in grado di progettare nuove politiche di contrasto alla povertà sulla base di esperienze di volontariato come la mia, esperienze vissute in prima persona.

Angela Lepore, Non di solo pane... Viaggio nella Mensa Arcobaleno di Vicopelago, introduzione di Donatella Turri, postfazione di Raffaello Ciucci, Edizioni S. Marco Litotipo - Lucca, 2016, pp. 136, Euro 10,00


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17 gennaio 2017

"Donne innamorate" di David Herbert Lawrence



di Sharon Tofanelli

C'è un tempo specifico per leggere Donne Innamorate, un tempo che non può essere troppo anticipato, o ritardatario. Donne Innamorate più che apprezzarlo lo si vive. Ed è in quel momento, quello in cui lo si riconosce come parte integrante del nostro vissuto, che iniza a esercitare quel magnetismo vago.
La seduzione di Donne Innamorate giunge ad amplesso ultimato.

Dove sta il fascino? E' riassumibile in una frase: semidei in estasi, senza pietà.
Perché semidei? Perché in quest'opera, in questo testo dalla trama prettamente decorativa, è l'io dei personaggi a regnare. Quattro individui, due coppie, un'omosessualità: Gerald, Ursula, Birkin, Gudrun. Lawrence ne traccia la psiche con una precisione allarmante, costringendo il lettore a un'intimità forzata, via via più intensa, fino alla perdizione.

Personaggi ribelli e insofferenti alla civiltà, i quattro vivono in preda a passioni e inclinazioni, ora isolandosi, ora tenendo polemici teatrini. Dapprima generano in noi la confusione, loro e quel ripetersi di azioni irrazionali, di frasi cavate da un subconscio che nella vita di tutti i giorni nessuno adopererebbe: Gudrun che danza tra i buoi, Birkin nudo e abbarbicato all'erba, Ursula ginocchioni ad abbracciargli l'inguine.

E tuttavia, a poco a poco capiamo. E capiamo che analizzarli è sciocco. Poiché i quattro ci sono superiori, come tutti i satiri, tutte le ninfe e le grazie lo erano ai greci. E lasciamo che giochino, lasciamo che strepitino e s'incapriccino con la riverenza e la pazienza che useremmo con un dio infante.

Perché in estasi? Perché in Donne Innamorate, in cui Lawrence profonde tutto l'esotismo che gli arriva da quella sua vita da ramingo, è palpabile quella pigrizia da harem, quella patina di languore che esercita la parola, ora sqisitamente straniera, ora densa di termini ricercati, in particolare in certe descrizioni apparentemente superflue, ma essenziali in un romanzo del genere.

A ciò si accompagna quella tensione, quella percezione che qualcosa deve accadere, quell'aspettativa di sesso o di morte -e nessuno dei due verrà a mancare- che culmina nei capitoli centrali. Donne Innamorate è un testo che sussurra, un'unghia gentilmente passata sul braccio per provocarne i brividi. E' l'istante di certe epifanie che allarmano improvvisamente i personaggi, che li volgono all'atto creativo o distruttivo, senza che il perché sia spiegato. Come l'estasi dei santi, neppure questa ha un'esplicabilità, è indubbiamente carnale, ma mistica al contempo. E pare così giusto che a esserne colpiti siano individui dalla sensibilità estrema, epidermica. Birkin, Gerald, Gudrun, Ursula: non sono persone, sono fiori. Pare quasi un sadismo accanirsi su di loro.

Questo ci porta all'ultimo punto: senza pietà.
Perché senza pietà? Perché piacere e dolore si abbattono sui personaggi con violenza, infischiandosene di tanta delicatezza. Al richiamo dell'eros si deve rispondere, rispondere o morire.

E mentre Birkin, quintessenza di Lawrence, fallisce ripetutamente nei suoi tentativi di razionalità, altri soccombono nella propria impossibilità a piegarsi: e arriva la morte a perseguitarli.
Natura madre e matrigna, questa prende via via piede, assume più potere, impera. Se i primi 
capitoli si consumano in città e paesi, gli ultimi vedono i quattro smarrirsi nel nitore delle Alpi svizzere. E' come se l'intero romanzo fosse un corpo che rotola per un pendio, sempre più rapidamente, verso un destino ineluttabile. A tanto è giunto Lawrence, l'artista perseguitato dalla tubercolosi, che ha scandalizzato la società del Novecento, prima con la natura aperta della sua relazione, che prevedeva anche l'omosessualità -a tal proposito, Gerald pare tratto da Middleton Murry, amante di sua moglie, con cui lo stesso aveva un rapporto particolare-, poi con una portata di romanzi ai quali l'Inghilterra non era ancora pronta. Romanzi che dovranno pagare con roghi e censure. Romanzi tra i quali Donne Innamorate è un apice.

E pensare che Lady Chatterley doveva ancora arrivare.

David Herbert Lawrence. Donne innamorate. Newton Compton.

15 gennaio 2017

"Bersaglieri ieri e oggi" a cura di Umberto Stefani

Un libro per il 180esimo

 anniversario del

 Corpo dei Bersaglieri


di Luciano Luciani

            Un libro ancora fresco di stampa, Bersaglieri Ieri e Oggi,  realizzato dall'Associazione Nazionale Bersaglieri di Lucca e dal suo presidente, Umberto Stefani, intende celebrare degnamente il 180esimo anniversario della costituzione del Corpo dei Fanti piumati.
 

Non solo una nuova specialità militare, i Bersaglieri, non solo un nuovo modo di intendere e praticare la vicenda bellica, ma la proposta di un nuovo tipo di uomo e d'italiano. Non più subalterno, ma protagonista; non più ignaro della propria storia, ma di essa pienamente consapevole e orgoglioso; non più incerto, incredulo, scettico, ma fiducioso, sereno e tranquillo nei propri mezzi e del proprio avvenire.
 

Nelle pagine corredate di numerose fotografie a colori di Bersaglieri Ieri e Oggi, la Storia grande si intreccia con decine, centinaia di storie minori, ma altrettanto importanti e significative: quelle dei Fanti piumati di Lucca e della sua provincia che, da prima ancora che l'Italia fosse unita sino ai nostri giorni, hanno sempre saputo fornire esempi virtuosi di coraggio, spirito di sacrificio, disposizione al servizio in favore degli altri, piena dedizione alla Patria. Dalla nascita dei Bersaglieri alle prime prove sui campi di battaglia (Goito;  la Repubblica Romana); dalla spedizione di Crimea a Porta Pia, attraversando anche le zone d'ombra di un processo d'unificazione nazionale faticoso e contraddittorio (Aspromonte; il brigantaggio), sino alla Grande Guerra, l'epopea dei Fanti piumati è raccontata utilizzando le categorie della Storia con la S maiuscola: battaglie decisive per le sorti del nostro Risorgimento; illustri protagonisti; imprese ormai entrate nel canone della storia patria e nella memoria di ogni italiano.
 

La narrazione del secondo conflitto mondiale è, invece, affidato al ricordo e alla voce dei bersaglieri lucchesi - della città o della provincia - che, con maggiori o minori responsabilità, si sono battuti sempre con abilità, coraggio e attaccamento alla divisa e alla Patria, nei Balcani in Africa, in Russia... Il bersagliere ciclista Ernesto Piria; il caporale Ernesto Nildi, prima fante piumato assaltatore controcarro, poi inquadrato nel Corpo Italiano di Liberazione; il bersagliere motociclista Alfido Marcheschi; il bersagliere e partigiano Alvi Frizza; la Fiamma cremisi Sergio Del Bucchia, deportato in Germania dopo l'8 settembre e testimone del terribile bombardamento di Dresda; Giuliano Lencioni che, senza mai cedere, soffrì gli orrori della ritirata in Russia; l'indimenticabile Mario Romagnoli "Bufera" e altri ancora, ci narrano, in maniera semplice, diretta, disadorna e per questo ancora più incisiva, una guerra difficile, condotta spesso in condizioni d'inferiorità di mezzi e risorse militari, mai deficitaria, però, per ardimento e spirito di sacrificio.

Stefani, Umberto (a cura di), Bersaglieri Ieri e Oggi, La Grafica Pisana-Bientina (Pi), 2016, pp. 126, Euro 15,00

14 gennaio 2017

“Autoritratto di un fotografo” di Ferdinando Scianna



di Gianni Quilici

Che Ferdinando Scianna sia conosciuto come un grande fotografo, credo possa essere scontato, meno forse come sottile intellettuale, che sa scrivere.
In Autoritratto di un fotografo mi hanno colpito due aspetti.

Il primo: il desiderio di condivisione con il lettore su ciò che andava scrivendo, con un bisogno latente di non annoiare, tanto che termina il suo viaggio a grappoli così.
“Adios, anche a voi, cari amici, e perdonatemi questo lungo, logorroico monologo”. Dove, penso io, il lungo monologo è in realtà un breve monologo, sia perché ciò che Scianna scrive è necessario e interessante, sia perché alcuni di questi capitoletti avrebbero potuto benissimo avere ben altra ampiezza.

In questo autoritratto Scianna, infatti,  racconta la sua adolescenza in Sicilia e le prime fotografie, la scelta coraggiosa di fare il fotografo e l’incontro decisivo con Leonardo Sciascia, l’ascesa a Milano e l’esperienza formidabile de l’Europeo, i suoi Maestri e l’incontro con Cartier-Bresson, la Magnum e alcuni suoi famosi reportage; e riflette sul fotografo e la fotografia con una critica (giusta a mio parere) alla fotografia creativa e concettuale che “pecca spesso proprio per eccesso di cerebralismo o di estetismo fine a se stesso” e rimarcando, invece, che la sua poetica fotografica è quella che nasce “tra forte pensiero, intenso sentimento, fantasia formale”.   

Il secondo aspetto: Scianna ha realizzato, in questo come in qualche altro volume, ciò che ha sempre desiderato fare. Un libro in cui “ le immagini, le parole, i pensieri sono strettamente e indistricabilmente connessi”. In questo autoritratto più importante è la parola; le immagini accompagnano il testo dall’interno esemplificandolo. 

Proprio per questo Autoritratto di un fotografo suggerisce una ricerca tutta da fare, che concerne sia gli scrittori che hanno usato (dentro o fuori il romanzo) la fotografia; sia fotografi, che inversamente hanno utilizzato (dentro o fuori la fotografia) la scrittura. Una ricerca in una cornice contemporanea, in cui la tendenza è la contaminazione dei linguaggi, che potranno dar luogo, come sta accadendo, a libri di fotografia o di letteratura mai visti. Uno degli esempi, in cui i due linguaggi meglio si fondono, sono sicuramente i libri (poco pubblicati in italiano) del fotografo-regista francese Raymond Depardon.

In conclusione dal libro di Scianna viene fuori un autoritratto mai banale, fluido, sempre perspicace, che condensa racconto e riflessione con una scrittura chiara e “fraterna” per impiegare una categoria  utilizzata da Franco Cordelli.  

Ferdinando Scianna. Autoritratto di un fotografo. Bruno Mondadori.