22 dicembre 2005

SANDINO, IL GENERALE DEGLI UOMINI LIBERI di Maurizio Campisi

di Nadia Davini
“Dedicato a coloro che almeno una volta nella vita hanno lottato per un ideale”. -


Ogni tanto, più o meno ogni due anni, dalla Costa Rica torna in Italia un figlio della città di Rivoli che ha scelto di fare l’emigrante al contrario e di trasferirsi all’ombra del tropico. Per andarsene da un Paese che non gli ispirava più fiducia, soprattutto. Per amore, anche. Maurizio Campisi ha più di quarant’anni (Rivoli, TO, 1962). Vive al tropico, vive da «tico», cioè da costaricano verace, ed è la dimostrazione che, in fondo, giornalisti non solo si nasce o si diventa, ma si rimane.

Campisi è stato cronista del giornale “Rivoli15” negli anni Ottanta, direttore della “Gazzetta di Venaria” (di cui è stato co-fondatore) e di “Rivoli15” tra il 1991 e il 1992. Nel 1993 ha lasciato l’Italia, destinazione San Josè e collaboratore di “Dario”, “Narcomafie”, “D di Repubblica”, oltrechè corrispondente dall’America Centrale per il quotidiano “La Juventud” di Montevideo. Nel 2002 ha pubblicato, per Fratelli Frilli Editori di Genova, “Centroamerica – Reportages”, una raccolta dei suoi lavori giornalistici.

È in uscita, per lo stesso editore, la sua traduzione in italiano di Adiós muchacho, memoria della rivoluzione sandinista scritta da Sergio Ramírez, ex vicepresidente del Nicaragua sandinista. E proprio su Sandino, eroe nicaraguense simbolo della lotta rivoluzionaria, Campisi ha concentrato le sue ultime attenzioni letterarie scrivendone la biografia Sandino, Il generale degli uomini liberi. Eroe tragico e romantico, Sandino è entrato negli anni passati nella storiografia marxista. Invece il Sandino di Campisi viene proposto in una nuova veste, che ne riscopre il significato popolare, il suo spirito nazionalista ed anti-imperialista. Augusto César Sandino, è stato il precursore della lotta all’Impero. È cresciuto in un Paese occupato che ha preso le armi per reclamare il diritto all’autodeterminazione del suo popolo. Una figura attualissima nel panorama internazionale.

Riscoprire Sandino è come rivedere, alle origini, l’azione di una potenza imperialista, gli Stati Uniti, che a distanza di un secolo continua ad usare gli stessi metodi e la stessa politica di inizio Novecento. Oggi come ieri, lo scontro tra gli Stati Uniti e i suoi nemici è uno scontro tra culture, una che vuole predominare su un’altra, imponendo prima con la persuasione e poi con la forza le proprie prerogative. Una biografia ricca di particolari, in cui spiega in modo chiaro le intricate vicende della guerra civile nicaraguense. A delineare la figura di Sandino sono le sue gesta, ma anche le corrispondenze e gli scritti lasciati, da cui trapela il radicatissimo amore per la propria terra e per l’ideale cui voterà tutta la vita. In moltissimi lo seguirono e ancora oggi il suo nome è un simbolo ed una bandiera. Sandino, però, non fu mai un mito irraggiungibile: Campisi ce lo descrive piuttosto come un eroe popolare, concreto e testardo, “il generale” degli uomini e delle donne comuni, capace di restituire unità e identità a un popolo provato da decenni di sudditanza nei confronti dello straniero e dei tiranni locali ad esso venduti. Forse la magia di Augusto Cesàr Sandino stava proprio in questo: i suoi tratti regolari non denunciano una bellezza cinematografica; ha il volto segnato di qualunque contadino centroamericano; il cappello, poi, bianco alato con una striscia alla base, è quello di tutti i lavoratori che si recano a lavoro sotto le stelle mattutine. La sua grandezza è la sua ribellione.

Sandino imparò a dire di no agli americani in Messico, coi rivoluzionari di quel paese, e vide che si poteva mantenere la dignità e la vita contemporaneamente. Avvolto nella sua dignità, Augusto Cesàr Sandino va incontro alla morte. Lo uccidono di notte, sotto il cielo pieno di stelle, e la sua figura resta sospesa, come un’aura sopra la testa dei suoi uccisori. Conoscere la storia di questo eroe semplice è imparare cos’ è il Centroamerica e dove scorrono le sue arterie più nascoste, là dove la gente ricorda e recupera il suo statuto di umanità. È per questo che il libro di Campisi riempie una necessità, e allo stesso tempo, racconta in uno stile scorrevole, piacevole e incantato la storia di un orgoglio e di una libertà.

Maurizio Campisi, Sandino, il generale degli uomini liberi, Fratelli Frilli Editori, Genova 2003, pp.191, euro 13,50.

La prova del pozzo di Mbacke Gadji, Kelefa,

Un romanzo per raccontare l’incomprensione tra le culture - recensione di Nadia Davini

Mbacke Gadji ha 39 anni, è nato a Nguith, in Senegal e si è scoperto scrittore dieci anni fa, quando è approdato in Italia dopo essere vissuto già otto anni in Francia. Kelefa La prova del pozzo è il suo quarto titolo, dopo Numbelan: il regno degli animali, Lo spirito delle sabbie gialle e Pap, Ngagne, Yatt e gli altri. Libri che tessono leggende, ariose o cupe, del suo Senegal, con il tema fondamentale dello straniamento e del confronto tra culture, sviluppato con la sensibilità di chi si pone come mediatore tra due mondi diversi con il timore di essere estraneo a entrambi. “Cerco di essere un interprete” spiega infatti Gadji. È partito dal suo paese natale con un diploma di maturità in tasca, in Francia ha preso una laurea breve in economia e qui, in Italia, ha cominciato a scrivere, mosso da un sentimento/risentimento, dalla voglia di tornare alle sue origini e informare su idee e affetti che nel nostro paese talvolta sembrano non essere capiti o peggio accettati.
Kelefa La prova del pozzo è la conferma della frustrazione del patrimonio culturale di una generazione: Kelefa Sane è il nome di una famiglia che ha avuto una grande importanza nella vita delle popolazioni del Senegal meridionale. Un passato glorioso rispetto al quale gli esponenti del mondo attuale reagiscono in modi diversi: disinteresse o passione; indifferenza o fastidio, negando oppure cercando nel recupero delle tradizioni un radicamento più profondo perché, come afferma uno dei personaggi, “ la storia e il passato dell’umanità devono avere uno spazio nella nostra vita, non sono né da rimuovere né da riscrivere, vorrei tanto che potessimo pescare in questo patrimonio per fronteggiare i nostri problemi di esistenza”. Così cultura e tradizione si scontrano con il mito del progresso creando una lacerazione profonda e conflitti sulle possibili prospettive di sviluppo.
La prova del pozzo non è solo un ritorno al passato alla riscoperta di antenati e di verità, ma può essere letta anche come una metafora che coinvolge tutto il libro dalle prime descrizioni. Infatti, gli abitanti dei luoghi descritti dall’ Autore vivono ammassati gli uni ridosso agli altri come se fossero racchiusi dentro a un pozzo. Le nostre certezze (banalmente un distributore, una rete autostradale) spesso sono messe in discussione perché sulle strade africane è dai carretti dei bambini, dagli asini e dalle pecore, dalle buche profondissime, dal caldo impossibile che devi guardarti e soprattutto abbandonarti.
Non sono scivolati via i lunghi anni di colonialismo che ancora oggi, anche se in modo non diretto, influenzano la vita di queste persone fino a far apparire il modello occidentale come l’unico possibile. Per questo spesso l’obiettivo diventa la migrazione, la ricerca di fortuna da parte di almeno un membro della famiglia, capace poi, attraverso il lavoro e il nuovo status non sempre ottenuto facilmente, di contribuire al mantenimento di tutti. Ma tutto questo ha un costo: si cambia e spesso non si è riconosciuti dalla nuova comunità di appartenenza e neppure né da quella d’origine.
Il romanzo documenta anche questo. Racconta di come ciò che era è stato perso, e ciò che è sia lontanissimo da quello che si è diventati per necessità e sopravvivenza. Ecco la difficoltà, ma anche l’interesse, che può suscitare la lettura di un libro scritto da un autore senegalese, immigrato da molti anni, con il cruccio di tornare, prima o poi, a vivere nel suo Senegal.
Il libro è pervaso da un senso nostalgico nei confronti della tradizione: si valorizza più l’investitura di un re su un trono fittizio e un regno frantumato in mille pezzi piuttosto che accertare la potabilità dell’acqua o impegnarsi a limitare le povertà diffuse in ogni angolo del paese. Di grande interesse la descrizione del percorso quasi rituale, attraverso il quale il lettore sperimenta e comprende la sensazione di spaesamento, di perdita di punti di riferimento che l’immigrato sconta nel momento in cui si confronta con un paese diverso e così distante dal suo e al quale spesso non può tornare. Ci si può adattare senza perdere i propri valori? Si può rimanere ancora intimamente legati alla propria terra, pur permeati dalla cultura occidentale? Si rifletta sulle parole del protagonista del libro: “se moderno è rimuovere la storia e sviluppo è fare solo ciò che produce ricchezza, io mi astengo dalla creazione di una tale società”.

In grandi città come Roma o Bologna, libri come La prova del pozzo vengono venduti per strada, senza passare per l’intermediazione della libreria, dagli stessi immigrati che si trasformano in piccoli imprenditori: comprano uno stock di copie della casa editrice al cinquanta per cento del prezzo di copertina e alla vendita guadagnano l’altro cinquanta per cento. Insomma, con sei euro e novanta, abbiamo comprato un bel libro, sostenuto un modo originale di praticare l’ editoria e fatto guadagnare tre euro e quarantacinque centesimi al “libraio” senegalese. Che, prima di uscire per strada a proporre la sua merce, i romanzi di Mbacke Gadji se li deve leggere e meditare: perché, forse, sono stati scritti proprio per lui.
Nadia Davini



Mbacke Gadji, Kelefa, La prova del pozzo, Edizioni dell’Arco-Marna, Milano 2003, pp.125, Euro 6,90.

"Storie di senegalesi inToscana" di Giuseppe Cecconi

di Nadia Davini

La parola è molto più ricca di quanto appaia. Ogni parola è una sinfonia di suoni, reca potenti depositi storici e racchiude un intero mondo di concetti. Il suo vero significato ci appare nello momento stesso in cui la pronunciamo. È l’apice della maturità di ogni processo, il grado ultimo della soggettività e il primo dell’oggettività. I nomi propri hanno perfino una natura metafisica, si presentano con un’energia intrinseca e, dal punto di vista ontologico, con un essere proprio: perciò occorre che il nome acquisti fama e gloria.
Sulla storia di ogni parola si potrebbe scrivere un libro.

Questo è ciò che fa Giuseppe Cecconi, nato nel 1947, nome datogli dal padre forse in onore di Stalin, oppure per riconoscenza nei confronti di un frate camaldolese che gli salvò la vita, aiutandolo a ottenere una provvidenziale licenza, mentre era sul fronte iugoslavo nella seconda guerra mondiale.
La sua raccolta di storie dei senegalesi in Italia: Le parole per guardarle è un romanzo che racchiude in ogni sua espressione, in ogni sua singola parola, un mondo vastissimo, colorato e pieno di vita benché grande sia il disagio per l’ambientazione in un nuovo paese.
È un sapiente, Eraclito l’Oscuro che si proclama scopritore e possessore di una legge divina che incatena gli oggetti mutevoli dell’apparenza e lui, per primo, dà il nome di logos a questa legge.
Stando agli studi di Ivan Illich ( Nella vigna del testo) questo intreccio tra il fisico e il metafisico continuerà fino al 1128, quando il teologo Ugo da San Vittore, compilò il suo Didascalicon con il sottotitolo De studio legendi ( Le disciplina del leggere).

Per lui la pagina non era la registrazione della parola, ma la rappresentazione visiva di un pensiero e la lettura era una forma di pellegrinaggio, un atto di incarnazione anziché di astrazione. Il libro, a quel tempo, veniva portato solennemente in processione, come un oggetto di culto o una reliquia degna di adorazione. Durante la liturgia lo si illuminava con un cero particolare e era onorato con l’incenso. Ugo, però, si trova alla fine di una tradizione di lettura mormorata, meditativa, gustativa, che ha inizio con i Padri della Chiesa, specialmente con Agostino. Anche se fu proprio lui che una notte fece la scoperta che era possibile leggere in silenzio. Dopo Ugo cessò l’epoca della lettura borbottata dei libri, quando il denso del discorso restava nascosto nella pagina come dentro uno spartito musicale, finché non diventava fiato e suoni. Il libro che in precedenza si poteva leggerlo solo dall’inizio alla fine, ora diventa accessibile in qualsiasi punto e chi legge si sente spinto talvolta a abbreviare i passaggi. Così la scrittura perde la sacralità e si degrada a comunicazione.
Perciò, ogni qual volta che le parole sono di nuovo composte per essere mostrate e divengono cioè parole da guardare, è come se riacquistassero mille significati e profumi.

Nel libro di Cecconi, le parole da guardare sono quelle che il vecchio e saggio Kèbè (un personaggio del libro), scriveva sulla sabbia per suo nipote Tala, quando questi ripartiva dal Senegal per tornare a fare l’immigrato in Italia. Si tratta di alcune importanti frasi del Corano che chi parte deve fissare con gli occhi, un istante prima di andarsene, per essere sicuro di far ritorno a casa. Dunque Tala scrutò quei segni tracciati per terra, quasi specchiandocisi, poi, in ottemperanza agli antichi dettami, li saltò a piè pari e partì per mondi sconosciuti. Per questo ragazzo, mentre è in procinto di partire, la parola torna a essere un oggetto contemplato, egli può sorvolare sul suo contenuto specifico che è una traduzione diretta e perciò frammentaria e impropria dell’inesprimibile. Il tratto vale ormai l’espressione e basta soltanto un’occhiata che penetri lo scritto nel suo significato primario di ricordo e ammonimento, a fargli scoprire la trama nascosta delle cose; quell’occhiata cantata da Pindaro come il più diretto consigliere che tutto conosce e che nessuno può ingannare né con opere, né con disegni. D’altronde, secondo Pasolini, le impressioni visive hanno perlomeno la stessa dignità scientifica del sogno linguistico e per dimostrarlo, egli porta l’esempio personale del primo ricordo della sua vita: una tenda bianca e trasparente che pende da una finestra, sopra un vicolo triste e scuro. Secondo il punto di vista dello scrittore, quell’immagine stampata in modo indelebile nella sua mente, riassumeva alla perfezione, senza infingimenti o censure, l’universo borghese della sua casa natale di Bologna e la cultura perbenista della sua famiglia.
Guardare la figura un istante, senza leggere sarà stato quello che ha fatto Tala al momento della partenza. Lui per tutto questo tempo era stato zitto, lì in piedi accanto al nonno, e ha avuto quindi la possibilità di vedere le parole che, stando piegato a capo chino, quello vergava per terra.
E, mentre le guardava, chissà come avrà sgranato gli occhi.




Giuseppe Cecconi, Le parole per guardarle. Storie dei senegalesi in Italia, Bandecchi & Vivaldi Editori, Pontedera 2004, pp. 97, Euro 9,00.

Il buio sotto la candela di Giampaolo Simi

di Luciano Luciani

Lo aveva promesso e, dai e dai, è riuscito a mantenere l’impegno preso con tanti lettori appassionati di noir… Ebbene sì, Giampaolo Simi, per il Natale 2005 e l’anno che verrà, ci ha fatto davvero un bel regalo. Stiamo parlando della riedizione di quel Buio sotto la candela, la sua opera prima che, apparsa dieci anni fa per la viareggina Baroni editore, aveva sorpreso i critici e affascinato i lettori per la novità dei contenuti e la freschezza delle scrittura che in maniera del tutto originale mixava ingredienti assai diversi tra loro: l'horror noir, l'impegno civile, la memoria... La nostra migliore, quella dell'antifascismo e della Resistenza, calata nella concretezza di vissuti umani che grondano ancora sangue e, a oltre sessant’anni di distanza, chiedono finalmente verità e giustizia.
Al Male che sotto le apparenze paternalistiche ed efficientiste della metà degli anni '90 (siamo all’indomani della prima, scioccante affermazione elettorale di Berlusconi e i suoi alleati), si presenta in tutta la sua prepotente arroganza agli scarsi abitanti di un paesino sulle Apuane, luogo cinquant'anni prima di una delle più efferate stragi naziste, pochi hanno la forza morale di opporsi: non le istituzioni, compromesse quando non corrotte; non le autorità che latitano e si rifugiano dietro le lentezze della prassi burocratica o i fumi di un linguaggio politichese... Pochi resistono: un pugno di anziani che non vogliono e non possono dimenticare e alcuni bambini. Questi i deboli, fragili, incerti eroi positivi che si troveranno a gettare sabbia negli ingranaggi di quella che non è solo un'iniziativa di speculazione edilizia e finanziaria. Si tratta, invece, una vera e propria "trama nera" che coinvolge vecchi nazisti alla Priebke e giovani naziskin, estremisti di destra di mezza Europa e spregiudicati manager rampanti locali, invisibili perché sotto gli occhi di tutti.
Un progetto eversivo che non riuscirà, per ora, a realizzare i suoi obbiettivi solo per la tenace opposizione di pochi anziani dalla memoria forte e di tre bambini legati da un' altrettanto forte amicizia. E i mandanti e gli esecutori del disegno eversivo saranno costretti a venire allo scoperto, a svelare il loro vero volto violento ed ottuso, favorendo così la loro sconfitta finale: nel fuoco di un'esplosione rigeneratrice, come per ogni romanzo "di genere" che si rispetti.
Alla banalità del male si oppone e vince, per questa volta, la banalità del bene. Sarà però una vittoria pagata a caro prezzo, con costi umani alti e dolorosi. Come sempre, come ha insegnato la storia del nostro secolo e di tutti i tempi.
Il buio sotto la candela è, insomma, un romanzo politico aggiornato all'oggi travestito da romanzo horror: perché, per dirla con le parole di Brecht, "il ventre della bestia è ancora fecondo" e l'orrore si annida là dove meno te lo aspetti, tra le pieghe e gli anfratti del quotidiano, dell'ovvio, del banale.
Il testo è costruito per schegge, per frammenti che progressivamente, senza parere, particolare dopo particolare, addensano i materiali narrativi e svolgono i nodi dell'intreccio. Gli scenari sono quelli famosi della Versilia tra il monte e il mare, bella sì ma miasmatica per il passato tragico, velenoso ed irrisolto che ancora l'avvolge, e capace di generare solo pochi, modesti anticorpi: tre bambini e alcuni anziani che riescono faticosamente a prevalere perché sanno giocare con intelligenza le carte della cultura, dell'informazione, dell'amicizia.
Dieci anni fa, al suo esordio, l'autore pagò con misura qualche pedaggio a scrittori come Stephen King e William Golding, e non mancavano suggestioni da Calvino, Benni, Pennac. Ma già allora, e questa riedizione lo conferma, la materia narrativa appariva originale, disinvolta e priva di complessi. Anche i modi della scrittura di Simi, appaiono programmaticamente scelti tra quelli della narrativa popolare: il linguaggio, dunque, risulta volutamente basso e quotidiano nel lessico, denso e problematizzante nello scavo psicologico dei personaggi e delle situazioni, incalzante e precipite nei momenti giusti, lirico quando necessario.
Luciano Luciani
Giampaolo Simi, Il buio sotto la candela, Dario Flaccovio editore, Palermo 2005, pp.301, E. 14,00