31 marzo 2010

"Il pescatore di sassi" di Beppe Calabretta


di Luciano Luciani
Partiamo dal protagonista. È un uomo di mezza età, lavora presso la questura di una città di provincia e ha deciso di ritagliarsi una pausa dal lavoro, anche perché la sua compagna lo ha lasciato: nel senso che la bella Elina ha scelto di seguire la propria vocazione professionale, quella di archeologa. Una campagna di scavi l’ha portata nei deserti del Medio Oriente armata di piccozza, paletta e pennello, a ritrovare “qualche traccia di un passato antico rimasto sepolto per secoli”. È la prima volta che accade e il nostro protagonista, Bruno Carcade, non è che l’abbia presa benissimo: non è più abituato a stare da solo ed è in un certo senso un po’ geloso perché sente di essere secondo rispetto alla passione della moglie per il proprio lavoro. E, così, approfitta di questa pausa per ritornare a Sud, al proprio paese d’origine: mentre è lì, tra mare, sole e pensieri lo raggiunge la telefonata di un collega, suo omologo nella questura locale. Chiede aiuto. È alle prese con un caso misterioso e non sa come sbrogliarlo… È stato trovato ammazzato un uomo con la testa fracassata da un sasso. È un professore di storia dell’arte in pensione, vedovo, senza figli. Viene dalla stessa città di Carcade e ha eletto il piccolo borgo del Sud a suo domicilio privilegiato per l’ultima parte della sua vita. È un collezionista di sassi che adopera per decorare la sua ultima casa: “un vero incanto”, dove i sassi, appunto, e i fiori giocano un ruolo decisivo in un ambiente organizzato con estremo gusto, misura, equilibrio. Relazioni di questo professore con il contesto quasi nessuna, moventi zero. Un mistero fittissimo. Obtorto collo, più per amicizia che per intima convinzione o, forse, per il gusto della caccia, Bruno si mette all’opera, coadiuvato nell’indagine dalla Sovrintendente di Polizia Vanessa Pezzoli, un personaggio destinato a rimanere nella memoria e nel cuore. Giovane, attraente, intelligente, operosa come Bruno Carcade è, però, con la testa tutta da un’altra parte. Ha, infatti, appena scoperto di aspettare un bambino, e, per quanto si sforzi di essere efficiente, questa condizione la distrae dagli impegni investigativi. Simpatici i contrappunti tra la nostra Vanessa e il ‘duro’ Bruno che, apparentemente brusco, burbero e sbrigativo, è in realtà un uomo provvisto di grande umanità e di un altrettanto grande bisogno d’affetto.
Ci sono ovviamente nel libro altre figure femminili (Valentina, magistrato dal doloroso passato; Anna che gestisce un piccolo negozio di delikatessen) e tutte contribuiscono a delineare una personalità del morto complessa e sfuggente, mentre, a complicare le cose, sulla vicenda si allungano inquietanti sia le ombre dei poteri criminali che dominano la zona, sia quelle di un passato della vittima che sembra irreprensibile, ma forse non lo è proprio del tutto. E quando ogni ipotesi è stata formulata e scartata, ecco il colpo di teatro finale che sorprende e spiazza i Lettori
Bravo l’Autore è a realizzare la difficile alchimia tra una scrittura – sobria, asciutta – e una storia che si rivela capace di evocare atmosfere di mistero e di intrigo, di trasgressione e di faticoso ristabilimento dell’ordine, dell’equilibrio: ovvero l’essenza di ogni romanzo poliziesco.
In più Beppe Calabretta aggiunge alcune “nuances”, del tutto personali. Per esempio una robusta sensualità che si rivela con un’acuta attenzione a tutte le manifestazioni della bellezza: quella dei luoghi della “Casa del Paradiso”; quella delle forme femminili e una spiccata sensibilità per i cibi, il loro sapore, il modo migliore per gustarli. Bella la battuta sul caffè che va bevuto con tre esse: a sorsi, seduti e scottante. Dati edonistici che, per chi ama le catalogazioni, arruolano l’Autore all’interno del “poliziesco mediterraneo”, quello che ha grandi tradizioni e grandi padri, come Vasquez Montalban e Andrea Camilleri, per intenderci. Beppe Calabretta non sfigura affatto nel confronto con i Maestri: anzi, ci aggiunge del suo e ne condivide, si leggano le battute finali, le profonde intenzioni civili.

Beppe Calabretta, Il pescatore di sassi, Bonaccorso editore, Verona 2009, pp. 160, Euro 13,00

30 marzo 2010

"Amore che vieni, amore che vai" di Fabrizio De André

di Gianni Quilici


Fabrizio De Andrè è un poeta?” “Sì” mi sono risposto.
Allora scelgo per motivarlo brevemente un testo da lui scritto -uno dei più famosi- “Amore che vieni, amore che vai”.
Eccolo.








Amore che vieni, amore che vai

Quei giorni perduti a rincorrere il vento
a chiederci un bacio e volerne altri cento
un giorno qualunque li ricorderai
amore che fuggi da me tornerai
un giorno qualunque ti ricorderai
amore che fuggi da me tornerai

E tu che con gli occhi di un altro colore
mi dici le stesse parole d'amore
fra un mese fra un anno scordate le avrai
amore che vieni da me fuggirai
fra un mese fra un anno scordate le avrai
amore che vieni da me fuggirai

Venuto dal sole o da spiagge gelate
perduto in novembre o col vento d'estate
io t' ho amato sempre , non t' ho amato mai
amore che vieni , amore che vai
io t' ho amato sempre , non t' ho amato mai
amore che vieni , amore che vai

Mi sono trovato a leggere il testo di fronte ad un centinaio di persone e dalla lettura sentivo che “arrivava”.
Inizio ad analizzarlo.

L'analisi è tanto più efficace -penso- quanto più essa stessa si avvicina alla poesia, diventa cioè “criticamente poetica”.

I primi due versi sono magnifici e sono forse i più belli dell'intero testo.
Provate, infatti, a immaginare di filmare “Quei giorni perduti a rincorrere il vento” e capirete che non è un'immagine realista, ma mentale e esaltante.
Esprime l'insaziabilità dell'amore e del desiderio (“a chiederci un bacio e a volerne altri cento”),
l'impossibilità di esaudirlo, di saziarsi (“a rincorrere il vento”), la perdita ( “quei giorni perduti) e forse una nostalgia improvvisa, quando un “giorno qualunque ti ricorderai”.
Da sottolineare la nettezza e la forza visionaria di quel “a rincorrere il vento”: il vento impalpabile, che corre, non si può raggiungere, afferrare, fare nostro.

Senza sottoporre il testo ad un'analisi particolareggiata c'è in esso una nostalgia che la musica e la voce limpida e grave, partecipe e distaccata di Fabrizio De Andrè ben sottolineano, ma di cui non c'è alcun compiacimento sentimentale. La nostalgia è l'attimo contingente di amori perduti, che vengono e vanno via in un carosello che potrebbe ricordare la famosa commedia di Arthur Schnitzler “ Girotondo” e più in generale ciò che la letteratura del Novecento ha messo al centro della sua rappresentazione: la precarietà dei sentimenti. (“io t' ho amato sempre , non t' ho amato mai”. Oggi nella società dell'uomo ad una dimensione e della società liquida più evidente ancora.

28 marzo 2010

“Gitani” foto di Josef Koudelka

di Gianni Quilici

Guardo la foto. E' una foto famosa di Josef Koudelka. La conosco da tempo. L'avevo guardata fino ad ora con gli occhi, senza però fermarli, come si dovrebbe.
Per fermarli non basta trovare il piacere del primo sguardo. Ci vuole la pazienza del Tempo.
La prima impressione: mi piace l'atmosfera di libertà che trasmette. In tutti i protagonisti. Particolarmente nel cavallo con le briglie, sciolto. Una libertà dei corpi, una libertà dell'aria.
La seconda impressione: la terra come habitat naturale.
Oggi siamo, nell'Occidente, metropolizzati, villettizzati, macchinizzati, atomizzati. Solo certe vacanze possono trasmetterci l'illusione di un rapporto stretto con la terra. Qui, invece, l 'habitat naturale dei protagonisti, lo spazio quotidiano, in cui si muovono, è la terra.
Con elementi specifici per ognuno. Il giocoliere camicia bianca su vestito scuro, con l'occhio puntato sulla pallina sospesa, forse non sta giocando, ma esercitandosi; il giovane disteso sull'erba non esprime forse soltanto un rapporto carnale con la terra, ma anche l'idea di un tempo non legata all'orario; il terzo uomo, chinato lievemente in avanti, non ha ruolo, ma perché dovrebbe averlo? ed è questa “incomprensibilità teatrale” la sua bellezza.
C'è poi una terza impressione più sottile, perchè legata alla storia dei gitani, che tuttavia la foto comunque richiama: il viaggio. Infatti: non abitazioni, ma uno spazio aperto e un cavallo; certamente un senso di stabilità (occupano davvero lo spazio), ma anche di provvisorietà (niente sembra legarli comunque a quel luogo).
Koudelka ferma l'attimo irrecuperabile con quella pallina sospesa, al di sopra della collinetta, nell'aria. E' questo dettaglio nei dettagli, il più mobile. L'attimo fra gli attimi.
La foto è stata scattata in Francia nel 1973 e fa parte di un libro “Gitani” (e poi di molti altri), pubblicato originariamente in Francia “Gitans: la fin d'un voyage” nel 1977.


26 marzo 2010

. Alla ricerca di Penelope Mozart. di Eduardo Rescigno

di Maddalena Ferrari

Nella collana “Art Stories” l'editore Skira ha pubblicato nel 2006 “Alla ricerca di Penelope Mozart” di Eduardo Rescigno, musicologo e drammaturgo. A prescindere dal titolo, assai intrigante, la copertina è già un invito alla lettura: riproduce un particolare di un dipinto del 1896, “Donna con medaglione”, detto anche “Mistero”, di Lucien Lévy-Dhurmer, che raffigura un profilo di giovane donna, in parte coperto da un velo che le avvolge la testa, con due dita di una mano inserite nella cordicella che essa porta al collo, a mostrare appunto un medaglione da questa sostenuto. Dai diversi toni di verde che riempiono l'immagine, spicca il biancore della pelle di questa figura, dall'atteggiamento davvero misterioso.

E il mistero è la cifra di un racconto-non racconto, un po' finzione e un po' resoconto autobiografico di una ricerca dell'autore, alla cui origine c'è un bisogno di sfuggire alla noia, di fare qualcosa, di avere un progetto. E all'inizio la ricerca di un progetto segue un percorso voluto, ma anche casuale ed in qualche modo fuorviante, che non si precisa se non in un secondo momento.

Un'estate calda e umida a Venezia; una chiesa di scarso valore artistico; il pensiero associativo, che, nell'approssimarsi del 250° anniversario della nascita di Mozart, insegue una pista: la presenza del musicista e di suo padre a Venezia e la loro frequentazione di una famiglia tedesca che risiedeva qui, la famiglia Wider. Inizia la ricerca su di essa e, di documento in documento, si arriva a scoprire la registrazione della morte, il 9 giugno 1819, ad appena cinque mesi, di un bambino, Giacomo Gasparo, figlio di Penelope Mozart.

Rescigno si chiede quale rapporto ci sia tra questa Penelope ed il grande salisburghese, che ha frequentato la stessa zona di Venezia per circa due mesi, fra la fine di carnevale e la Pasqua del 1771, intrattenendo stretti rapporti con i Wider, padre, madre e sei figlie. Ricostruisce i primi giorni del soggiorno di Wolfgang e Leopold, servendosi delle lettere di quest'ultimo alla moglie, con i p.s. di Amadé, della topografia della zona, degli spettacoli di quel periodo, a cui padre e figlio possono aver assistito. E fa congetture, soprattutto sul modo in cui un adolescente probabilmente ha vissuto la vicinanza con le donne di casa Wider: la madre Venturina, la “perla ricona”, come la chiama Amadé in una lettera all'amico Hagenauer, e le sei figlie, le altre “perle”.

Il libro è quindi, in parte, il racconto di un'investigazione: l'autore scopre indizi, elabora congetture, fa scoperte; scorre i documenti d'archivio, legge le lettere (e riporta tutto con maniacale precisione in fondo al testo); si muove in una Venezia che conosce bene e che confronta con il passato: il fondaco dei tedeschi, la chiesa di San Cancian, il chiostro di Sant'Apollonia con l'archivio della Curia Arcivescovile, la biblioteca del museo Correr...e poi i campi, le calli, i luoghi canonici, assediati dai turisti e toccati solo di striscio.

Per un'altra parte il libro ci immerge in scene, dove vivono per brevi attimi i due Mozart, padre e figlio, i Wider, in particolare le sorelle Rosa e Caterina, e poi anche Penelope, un po' sullo sfondo, Penelope che frequentava teatro e locande...

E' interesante il lavorio investigativo dell'autore, che procede tra la ricerca storico-scientifica e la ricostruzione fantastica, permettendosi anche il lusso di una falsa lettera di Mozart alla sorella, scritta secondo lo stile vivace e a tratti giocherellone usato spesso dal compositore; e particolarmente godibili risultano le intrusioni in una storia lontana, che ha la vitalità dell'esistenza reale e dà ogni volta l'impressione di sfuggirci nella sua misteriosità. A conclusione del percorso, ci troviamo di fronte ad un'ipotesi affascinante, ma il mistero rimane, proprio perché il tempo, fattore determinante del racconto, assorbe e travolge tutto, lasciando trapelare solo qualche sprazzo di verità.

Eduardo Rescigno. Alla ricerca di Penelope Mozart. Skira. Euro 15.00


24 marzo 2010

"Stampa etica: L'altra città"


di Luciano Luciani

Pensa globalmente e agisce localmente, “L’Altracitta - Giornale della periferia” promossa dalla Associazione di volontariato “Il Muretto” di Firenze. 4500 copie mensili diffuse nel quartiere fiorentino delle Piagge per “raccontare la città dimenticata, esclusa, quella che il perbenismo dominante cerca di nascondere o, peggio ancora, di rimuovere. E’ la città degli stranieri, dei senza casa, dei disoccupati, dei bambini lasciati a se stessi, degli anziani, degli emarginati. E’ la città che sperimenta, che diventa cantiere sociale per individuare e sostenere quelle forme di esperienza partecipata che partono dal basso.. E’ la città che non subisce la globalizzazione economica e lotta per sistema alternativo, più equo e rispettoso della persona e degli equilibri Nord/Sud del mondo”.

Laboratorio informativo, usufruisce di una redazione strutturata composta da Cristiano Lucchi, direttore responsabile; Cecilia Stefani per il coordinamento redazionale e da un nutrito e combattivo gruppo di redattori: Alessandro Santoro, Andrea Mugnaini, Anna Veronese, Camilla Lattanti, Dario Orlandi, Elena Bossio,, Elena Martelli, Floriana Pagano, Giovanni Agresti, Ilaria Raspanti, Leonardo Landi, Maria Ranieri, Marta Benettin, Massimo Mangani, Massimo Parrini, Maurizio Sarcomi, Mirco Zanaboni, Serena Goracci, Tiziana Cappelli, Valentina Baronti. Le pagine di questa significativa esperienza di giornalismo di base sono a disposizione di tutti coloro che abbiano qualcosa da dire: la redazione è aperta e per partecipare alla costruzione del mensile basta telefonare allo , oppure inviare un e mail a: redazione@altracitta.org

Chi paga “L’Altracittà”? Intanto i soci, raccolti attraverso una sottoscrizione popolare permanente; poi, istituzioni ed enti pubblici e privati ( per esempio, l’Ente Cassa di Risparmio di Firenze) che si riconoscono negli obiettivi del giornale e nei suoi principi ispiratori; quindi gli inserzionisti: di una pubblicità, però, “eticamente sostenibile”, questione di qualche complicatezza che evidentemente non spaventa i coraggiosi redattori.

Interessanti anche le sinergie che “L’Altracittà” è riuscita a realizzare:

- dall’unione del giornale con il Box Sepe è nata l’Agenzia di Base “che informa via e mail su notizie, appuntamenti, incontri dei gruppi di base e delle associazioni dell’area fiorentina” (iscrizione gratuita, previa e mail a: adb@altracitta.org);

- il venerdì, alle ore 13, “L’Altracittà” è presente dai microfoni di Novaradio sui 101.5 per Firenze e dintorni.

Per informazioni rivolgersi all’Associazione Il Muretto, via Lombardia, 1p 50145 Firenze

"Il rovello e l’utopia" di Memo


di Luciano Luciani

Un’ispirazione che si alimenta delle esperienze emozionali proprie di una condizione umana degradata e miserabile; scenari urbani e angosce esistenziali; i colori forti e ribaditi di una scrittura incisiva e marcata: queste le caratteristiche salienti della poetica espressionista di Memo, il fil rouge che lega i racconti di Attenti all’uomo bianco, la sua opera prima risalente al 1995, alla successiva piece teatrale, Le altre isole, a questo suo ultimo Il dono, racconto lungo col respiro del romanzo.


Pagine in cui l’Autore reitera, in maniera quasi ossessiva, un nucleo tematico sempre presente alla sua immaginazione e costantemente rielaborato e rimodulato: le donne e gli uomini “diversi”, “irregolari”. Il popolo sempre più vasto dei poveri tra i poveri, coloro per i quali non bastano più le definizioni sociologico / burocratiche di “povertà relativa” o “povertà assoluta”. Quelli che non hanno nulla: nessun lavoro e nessuna risorsa, niente casa e scarsa salute. Vivono in mezzo a noi nelle città, ma sempre e solo sulle strade. Di giorno, dimorano in certe piazze malfamate e ad orari fissi occupano le sale d’aspetto delle stazioni ferroviarie. Cacciati, trovano rifugio nei rari centri d’accoglienza e assistenza. Di notte, la loro esistenza è tutta dentro una scatola di cartone. Quando li incontriamo li scansiamo, li scavalchiamo. Sono le vittime delle logiche feroci dell’economia e del mercato, gli scarti degli inesorabili intrecci tra Storia grande e fragilità esistenziale: barboni, matti, prostitute, profughi ed esiliati di ogni tipo, figli di ogni precarietà e di tutte le dipendenze. Esseri umani già dentro il cono d’ombra di miserie assolute e irrimediabili, le vecchie e le nuove e, per di più, ròsi dalla memoria pungente di un ruolo sociale una volta posseduto e poi perduto o rifiutato.

In una società rischiarata solo da luci tanto accecanti quanto artificiali, sono proprio gli abitanti dell’area opaca e illune della precarietà e della deprivazione a rappresentare per l’Autore il paradigma umano più adeguato a comprendere la nostra natura profonda e il futuro che ci aspetta.

Il Professore, Enzo, Marisa, Maria, il Pittore, il Segaligno, e tutte le altre figure e figurine che animano e riempiono del loro intenso afrore di umanità i luoghi cari a Memo (angiporti, osterie, pensioncine da quattro soldi, case popolari di quartieri periferici, viuzze di città di mare…), incarnano un tormento interiore e una speranza: il rovello, bruciante, dell’ineluttabilità della nostra società attuale, profondamente sfregiata dall’ingiustizia e che per riprodursi non trova di meglio che divorare i propri figli più deboli; l’utopia per la quale, in mancanza di un’ azione collettiva capace di realizzare l’armonia sociale, possano comunque schiudersi i fiori della dignità, della solidarietà, della condivisione. Dell’amore, insomma, e proprio tra i meno fortunati.
Certo, nella realtà, quella degli uomini e donne in carne e ossa, le cose non vanno mai come nei romanzi e Memo è troppo esperto della vita e delle persone concrete per ignorarlo ed illudersi.

Però, è bello raccontare storie che prevedano il dispiegarsi di sentimenti forti tra i più deboli, narrare di riscatti e risarcimenti, magari parziali, modesti, precari, ai soprusi e alle iniquità di sempre.
Consapevoli, l’Autore e i Lettori, che “La vita… è fatta di tante storie, e le storie finiscono”.


Memo (Domenico Izzo), Il dono, ETS Pisa, pp. 108, E. 7

18 marzo 2010

“Lettere alla fidanzata” di Fernando Pessoa


di Gianni Quilici

“Tutte le lettere d'amore sono
ridicole
Non sarebbero lettere d'amore se non fossero
ridicole”


Così scriveva Fernando Pessoa in una (famosa) poesia. E leggendo le “Lettere alla fidanzata” si potrebbe affermare che anche qui si coglie una delle caratteristiche profonde dell'autore stesso insieme ad una (relativa) novità.

La caratteristica nel suo essere spietatamente autocritico, esserlo al punto da vivere isolato (o quasi), agendo e vedendosi agire, sdoppiandosi, dandosi più identità, qui quella di Alvaro Do Campos.

La novità in queste Lettere è che in esse si coglie la forza del desiderio, un desiderio più forte del controllo che Pessoa continuamente operava su se stesso.

Siamo nella Lisbona degli anni '20, in una società chiusa e bigotta, in cui i rapporti tra i sessi sono difficili, perché rispondono a convenzioni di onore e di rispettabilità, borghesi, repressive. Pessoa incontra Ophélia Queiroz nell'ufficio in cui egli stesso lavorava. “Risposi ad un annuncio del Diario de Notìcias. Avevo diciannove anni, ero allegra, sveglia, indipendente e, contro la volontà dei miei familiari, decisi di trovare un impiego”.
Ophélia è carina ed ha un carattere sensibile e appassionato. Pessoa ne è subito attirato e, almeno dalle lettere, si intravede un rapporto erotico-paterno-protettivo. “Mio Bebé piccolino, mia Ninhina” “Cara piccola” “ a domani boccuccia dolce” “cicini cicini cicini”. Sono alcune espressioni che evidenziano una certa sicurezza di sé, un abbandono, che sono in antitesi (o quasi) alla filosofia dell'essere di Pessoa.

E tutto il rapporto si gioca su un incontrarsi segreto, quando l'accompagna sul treno o sul tram, o semplicemente la vede alla finestra di casa o le scrive lettere veloci ed affettuose, “ridicole” , appunto, come Pessoa acutamente osserverà. (“Anch'io ho scritto ai miei tempi lettere d'amore, come le altre/ ridicole”). Non c'è traccia di rapporti sessuali nelle lettere; ci sono baci. Soprattutto desideri di baci.

Ambedue sono liberi da legami, ma P. mai propone un legame ufficiale alla ragazza; al contrario, dopo pochi mesi le invia una lettera in cui chiude ogni rapporto con lei. “Il mio destino” scrive “appartiene ad altra Legge, della cui esistenza lei è all'oscuro, ed è subordinato sempre più all'obbedienza a Maestri che non permettono e non perdonano”.

Dopo nove anni ci sarà un riavvicinamento, ma durerà poco. Soprattutto in questa ultima fase le condizioni psicologiche di P. sono peggiorate: da una parte “si è rotta la molla della mia vecchia automobilina che ho dentro la testa ed il mio senno che già era inesistente, ha fatto tr-tr-r-r- r...” è così alterato che folleggia, gioca con le parole e i sensi, si sente nulla, si disprezza; dall'altra scrive: “Del resto la mia vita gira intorno alla mia opera letteraria -buona o scadente che essa sia o che possa essere. Tutto il resto della mia vita ha per me un interesse secondario...”

Osserva Antonio Tabucchi (1) che anche questo amore fu un pensiero, così come anche la vera vita di Pessoa sembra un pensiero, cioè un testo. Eppure in queste Lettere si intravede in Pessoa anche una storia: un prologo (il primo incontro), uno svolgimento (gli incontri e la ricerca di essi) e la conclusione (la fine di questo amore). Una relazione, insomma, a cui Pessoa, malgrado tutto, ha prestato corpo e sentimenti.

Quale migliore prova che questo passo della lettera (la n. 45) del 9 ottobre 1929 :
“...e vorrei baciarla sulla bocca, con passione e ghiottoneria e mangiare i bacini che vi sono nascosti, e poggiarmi sulle sue spalle e arrivare alla tenerezza dei colombi, e chiederle scusa, ma scusa per finzione, e ricominciare molte volte, e punto daccapo per poi ricominciare...”
Desiderio, tenerezza, gioco... Corpo e anima...

Fernando Pessoa. Lettere alla fidanzata (Cartas de Amor de Fernando Pessoa) con una testomonianza di Ophélia Queiroz. A cura di Antonio Tabucchi. Adelphi Edizioni.

(1) "Un Faust in Gabardine" post-fazione di Antonio Tabucchi

"Il paese che non c’è più" mostra di Angelo Fruzzetti


di Luciano Luciani













Una mostra di quadri naif! Sì, questo Il paese che non c’è più dell’ultrasemicentenario Angelo Fruzzetti fa proprio venire in mente un’esposizione di tavole, venti deliziose tavole, di quegli artisti autodidatti, quei pittori dell’istinto che ebbero il loro momento di gloria – e di moda – all’incirca trent’anni fa, aggirandosi tra arte popolare, folclore, vagheggiamento dell’infanzia e aspirazione a una cultura figurativa alternativa.

Un po’ lo stesso spirito che anima le pagine che seguono, attraverso le quali l’Autore, rivisitando gli anni della sua infanzia, rende anche un sentito, affettuoso omaggio al suo luogo natio, Castiglioncello di Balbano, per i paesani più familiarmente Castiglione, frazione del Comune di Lucca. Anzi, sua propaggine estrema, incuneato com’è tra i territori di Viareggio e Pisa, piccolo castello, come suggerisce il nome, posto a difendere un confine ancora oggi intriso della memoria di antiche lotte comunali.

Un frammento della Toscana di appena ieri dove l’Autore nacque, crebbe ed ebbe il suo imprinting: quando l’Italia era giovane e “povera, ma bella”, per chi c’era soprattutto povera.
L’Autore descrive il suo paese, riuscendo, a mezzo secolo di distanza, a riguardarlo ancora con gli occhi ingenui, curiosi e capaci dello stupore del bambino che è stato. Certo, “la carità feroce del ricordo” tende sempre ad arrotondare gli spigoli, né rari né poco puntuti, di quegli anni e a ricomporre i bordi lacerati di un’ allora difficile condizione materiale di vita: però, il racconto sincero di Fruzzetti sul “come eravamo” davvero, non può tacere della fatica di lavori durissimi e per di più incerti e precari; dell’isolamento del paese; del freddo invernale; dello strapotere della ideologia religiosa cattolica che si trasformava sovente in superstiziosa ritualità; dell’emigrazione all’estero di tanti figli di Castiglione alla ricerca di un’esistenza più degna; della mancanza di cultura e delle difficoltà di accedere all’istruzione e alla scuola…

Uno stato di cose appena sopportabile perché comune se non a tutti certo a tanti, e temperato da una, forse perduta per sempre, solidarietà tra persone, famiglie, generazioni: decisiva, nei momenti difficili del dolore, della guerra, della catastrofe naturale, quando una generalizzata, seppur decorosa, povertà rischiava di scivolare nella miseria.

Di Castiglioncello di Balbano, in bilico tra i rudi anni Cinquanta e gli imminenti, formidabili Sessanta, con garbo e misura, Angelo Fuzzetti ci racconta tutto questo e molto altro ancora, intingendo la sua penna di affabulatore paesano nell’inchiostro contenuto nel calamaio del cuore: per esempio, con ironica partecipazione descrive i modi delle strategie del corteggiamento adolescente; la comparsa della televisione; l’orgoglio di riuscire a schierare comunque una squadra paesana che poi sarebbe riuscita anche a farsi onore sui campi e campetti di calcio della provincia…

Un mondo piccolo, addirittura minimo ma, proprio per questo, capace di offrire all’Autore i materiali necessari a sbalzare alcune figurine degne della lunga tradizione letteraria del bozzetto toscano. Donne e uomini di un tempo che ci appare lontano, quasi velato alla vista dall’opacità degli anni trascorsi, ma che, a pensarci bene, è appena il nostro ieri: quando nei prunai dietro le ultime case del paese ci si poteva ancora perdere; esistevano ancora i ciabattini col deschetto che esercitavano la loro attività sulla porta di casa e per ammazzare il maiale, lungo le strade del paese e sotto gli occhi di tutti, grandi e piccini, arrivava da fuori nientemeno che un famoso norcino con una borsa così piena di strumenti di lavoro da assomigliare a quella di un famoso chirurgo…
Quando tornando a casa da scuola, la sera, a buio, si cantava a voce spiegata per farsi compagnia e scongiurare la paura.

14 marzo 2010

"Figlie con e senza madri" di Anna Vezzoni


di Luciano Luciani

La nostra editoria non ama il racconto e tende a considerarlo quasi un genere minore, al più un esercizio di apprendistato letterario rispetto al “padre nobile” della narrativa, il romanzo.
Non c’è direttore di collana che non storca la bocca davanti a una raccolta di racconti, che non aggrotti pensosamente la fronte quando l’autore, chiunque sia, alle prime armi o già famoso, gli propone un’antologia di narrazioni più o meno lunghe… Eppure, il racconto, legato strettamente alle tradizioni orali, ai miti e alle leggende, ha radici antichissime che affondano in profondità nella notte dei tempi della letteratura del genere umano. Esso, il racconto, costituisce quasi un organo vitale del nostro essere biologico: il narrare è strettamente connaturato all’esistenza stessa dell’uomo.

Raccontare storie è intraprendere un cammino verso un territorio condiviso e oggettivo dove s’ incontrano le conoscenze, le emozioni e i valori che forniscono senso all’esistenza, tanto di chi racconta quanto di chi ascolta o legge. È narrando che gli uomini entrano in comunicazione tra loro e imparano a conoscere più e meglio se stessi e il mondo circostante. E, per condurre questo cammino, è il racconto il modo più naturale, perché il suo sguardo è sempre personale, soggettivo e quindi selettivo, parziale, di scorcio…
Come ha detto Domenico Starnone il racconto permette di “aggiustare il tiro” invece di abbandonarsi alla “folla dei fatti”…

Tutte caratteristiche che ritroviamo nelle 29 brevi storie che ci propone Anna Vezzoni nel suo Figlie con e senza madri, la sua seconda raccolta di racconti dopo Anime d’ali strappate, pubblicata dieci anni fa a conferma di quella che potremmo definire una vera vocazione per la narrativa intensa, concentrata, che non ama, però, il procedimento a effetto del colpo di scena finale, dell’esplosione nelle ultime righe che sorprende e spiazza il lettore, la cosiddetta “metamorfosi dell’impensato”…

Anna Vezzoni privilegia piuttosto il finale interlocutorio, sospeso, problematizzante che non risolve la questione al centro della storia, ma la ripropone, l’allunga, sollecita ulteriori domande, propone ancora altri interrogativi, complica e non conclude.

Protagoniste assolute di tutte le storie di Anna, le donne, distribuite su tre generazioni, su tre fasce d’età: donne anziane, le nonne; donne adulte; donne giovani, adolescenti, giovanissime, bambine e alle prese con vicende di violenza fisica o psicologica; di malattia; di un’infelicità quotidiana legata alla dimensione domestica e al microcosmo familiare; storie di incomprensioni tra le generazioni, tra le culture, tra le classi sociali diverse.

Il tempo dei racconti corrisponde a questi nostri anni affacciati sul precario balcone del terzo millennio: un presente in cui sembra essersi consumata, dissolta qualsiasi idea di solidarietà – di classe, di genere, meno che mai familiare o semplicemente tra persone – per lasciare campo a una grande irrimediabile solitudine. Le protagoniste decidono, scelgono, sbagliano, complicano o talora, di rado, raddrizzano le proprie esistenze sempre da sole. I loro compagni, gli uomini, a cui l’Autrice riserva solo ruoli marginali, intrisi di mediocrità se non di negatività sono sempre lontani, distratti, non all’altezza, inadeguati.

Attenzione, però! Non vorrei con le mie parole aver suscitato l’impressione di un libri “a cielo chiuso” che, sempre e comunque, programmaticamente esclude dal proprio orizzonte la speranza nella possibilità di un tempo, se non migliore, almeno diverso dalla ruotine quotidiana, dal monotono e avvilente tran-tran dei giorni sempre uguali a se stessi.

Così Caterina, nel monologo interiore di Messaggio (p.77-79) non accetta più il suo ruolo, il suo destino di casalinga e sceglie, da sola, sola perché gli altri non capirebbero, di affrontare la conoscenza del mondo grande e terribile, ma comunque nuovo, “altro” rispetto a una vita piatta e sempre identica. Mentre Irene, la protagonista eponima delle due pagine del Giorno che Irene ha fatto la peperonata conclude la sua chiacchierata con se stessa, “Irene ha l’abitudine di parlare ad alta voce quando è sola”, scegliendo una maternità tardiva difficile e contraddetta, ma desiderata, voluta che acquista via via consapevolezza nei gesti ovvii, quotidiani della preparazione del cibo.

La lettura che l’Autrice compie della realtà non privilegia solo desolazioni emotive o debacle esistenziali: sa evidenziare anche – e direi bene, sono, a mio parere, le pagine migliori del libro – la complicata alchimia dell’attrazione fisica, il dare e ricevere dell’amore sensuale, il gioco sottile della seduzione fatto di silenzi più che di parole, di istinti e pulsioni che prescindono totalmente dal ragionamento, dalle comunicazioni, dalle sovrastrutture ideologiche (Il mio, il suo e – qualche volta – il nostro, p.82). oppure, con misura e ironia sa riportare alla luce il difficile processo del riconoscimento dell’umanità dell’altro (Incontrarsi, p.89)

Mi auguro poi di non aver sollecitato l’impressione di pagine magari calligrafiche ma autoreferenziali, tutte percorse da palpiti, vibrazioni rintocchi emotivi, turbamenti e struggimenti di tanta scrittura new age al femminile. In Figlie con e senza madri il rimedio, il confronto con la storia, anche con la Grande Storia, quella con la s maiuscola è costante e direi, anzi, che ne costituisce l’elemento caratterizzante e più originale soprattutto in tempi di preoccupante decadimento delle passioni civili.

Così ritroviamo le memorie degli anni Cinquanta, quelli poveri ma belli; il ricordo della Resistenza, una grande vicenda popolare che se cambia gli assetti politici, non è riuscita a trasformare nel profondo le vite e i modi degli uomini e delle donne; il “calore di fiamma lontana” dalla stagione delle lotte giovanili e il sequestro Moro; l’eco di guerre recenti e geograficamente vicine e in un racconto brevissimo, fulminante, C’è (p.92), l’orrore dei rapporti economici ineguali tra il Nord satollo del mondo e il Sud affamato.

Tutto questo e tanto altro ancora lo troviamo nell’ultima raccolta di racconti di Anna Vezzoni, Figlia con e senza madri, testimonianze di come, oggi, praticare una scrittura sensata e alta voglia dire occuparsi della fragilità umana, contrastare la perdita dei ricordi, l’elusività, la pigrizia dei luoghi comuni: in una parola indagare sulle ragioni della inabitabilità del nostro presente.

E Anna lo fa, con lo sguardo lucido e gli occhi asciutti, riservando la giusta dose di pietas solo a chi la merita: certi bambini, impegnati nella titanica fatica di crescere; certi anziani, certe figure marginali, erratiche (I belli e i brutti, p.87; Incontrarsi, p.89; Monologhi da marciapiede, p.94) metamorfiche… si presentano male, ma sono capaci di un’umanità più vera, sincera, profonda.

Senza appello, senza remissione Anna denuncia e condanna qualsiasi forma di violenza: da quella palese, bestiale che compare in Purezza, il primo racconto, a quella che si manifesta in forme più sottili, più raffinata di abuso e sopraffazione, annidata nei rapporti interpersonali, nelle famiglie, nel senso comune diffuso, nel microfascismo di tanti supernormali… E tutto questo la nostra Autrice lo fa con grande abilità narrativa, rivendicando sempre per i suoi personaggi un diritto all’opacità, ben consapevole che la condizione di tutti quanti noi è composita, multipla, contraddittoria e che un eccesso di trasparenza e nettezza non può che condannare all’impoverimento umano e di conseguenza artistico.

Così, del “gran guazzabuglio del cuore umano”, Anna ci descrive, ci racconta anche gli anfratti riposti, gli interstizi meno evidenti e illuminati, i retropensieri, le incertezze e le ambiguità che sovrintendono alle incertezze e alle decisioni.
E per rispondere al laborioso compito di raccontarci fuori e dentro, dentro e fuori un presente incattivito, incanaglito, con grande perizia l’Autrice taglia e rimonta i suoi materiali narrativi in maniera sempre nuova, originale, personale. E passa, senza fatica, il lettore quasi non se ne accorge, dalla descrizione oggettiva in terza persona al monologo interiore; dal dialogo alla confessione; dall’effusione lirico/sentimentale ai modi comunicatici dell’intervista. Ora assumendo il punto di vista e il linguaggio infantile, ora quello adulto, ora quello stereotipato e convenzionale della casalinga, ora quello più elaborato e consapevole delle signore borghesi…

Perché, altrimenti, come tutti sappiamo, le storie raccontate male aiutano i cattivi a vincere.


Anna Vezzoni, Figlie con e senza madri, Florence Art Edizioni, Firenze 2009, pp. 120, Euro 13,00

“Il Duca nel suo dominio” di Truman Capote

di Gianni Quilici

E' un'intervista, di Truman Capote a Marlon Brando, magistrale. Anzi non è un'intervista. In un'intervista comunemente intesa ci sono domande e risposte.
Qui più che domande c'è un aprirsi, un monologo. O, conoscendo i fatti, c'è un segreto nell'arte di intervistare [Truman Capote la delinea così: “...far in modo che l'altro pensi che sia lui ad intervistarti. Tu cominci a raccontargli di te, e piano piano tessi la rete finché l'altro non ti racconta tutto di sé”], che mette in condizione Marlon Brando di aprirsi intimamente.

Qui più che domande c'è lo sguardo visivo prodigioso di Truman Capote che scruta in primo piano l'attore (nel volto, nella modulazione della voce, nei gesti) con il contesto gispponese (la camera dell'hotel lussuosa e piena di confusione, l'amico con cui scrive una sceneggiatura “piuttosto giovane, dall'aria dimessa”, le cameriere ridarelle, a passettini schettinanti, a causa del kimono) e tutto serve, confluisce a creare un ritratto, una situazione, una istantanea. Un reportage, un racconto di alta letteratura.

Marlon Brando scorre dinnanzi a noi come in un cinema verità tra il passato di attore sconosciuto e però già ribelle (Truman Capote lo aveva visto nel 1947, dieci anni prima, sconosciuto sdraiato sopra un tavolo sul palcoscenico della platea deserta e a quel corpo tarchiato da palestra si sovrapponeva -nel volto- “una raffinatezza e una gentilezza quasi angeliche”) e quel presente, in cui si rivela progressivamente con le sue spavalderie e insicurezze, inconguenze e ossessioni, insoddisfazioni e ricerche, dolori che vengono da lontano.

Andavo a zonzo per New York, camminavo per le strade a notte fonda...e non vedevo niente. Non ero neppure sicuro che recitare fosse quello che realmente volevo fare. Non lo so neanche adesso...”
“...ho preso in seria considerazione...ho pensato molto seriamente di..di lasciar perdere tutto. Baracca e burattini. A che serve...a cosa serve mai, essere un attore di successo se..se non si evolve...”
“Non ci riesco. Ad amare nessuno. Non riesco a fidarmi tanto di qualcuno per fargli dono di me stesso....”


Ma il momento più intimo è nel finale, prima che Truman Capote se ne vada, quando l'attore parla di sua madre.
“E poi un giorno non me ne importava più. Lei era là..in una stanza..e si aggrappava a me. E io la lasciai cadere. Perché non ne potevo più..Vederla andare in pezzi, di fronte a me, come un oggetto di porcellana. Le passai sopra, la scavalcai e via, me ne andai, uscii dalla stanza. Ero indifferente. Da allora, sono sempre stato indifferente”.

Sembra di sentire quei monologhi concentratissimi de L'ultimo tango a Parigi per ciò che dice e per il modo in cui Capote lo descrive: “ ...una voce pacata, in un certo qual modo coltivata, garbata, e tuttavia sorprendentemente adolescenziale, una voce che aveva un non so che di querulo, inquisitivo, fanciullesco parve provenire da una sonnolenta distanza..... come se parlasse per udire se stesso...”

Truman Capote. Il Duca nel suo dominio. (The Duke in His Domain) traduzione di Pier Francesco Paolini. A cura di Gigliola Nocera. Euro 6,80.

L'incontro tra Marlon Brando e Truman Capote ebbe luogo a Kyoto, in Giappone, nel 1956, dove l'attore si trovava per girare il suo decimo film Sayonara di Joshua Logan.

12 marzo 2010

“L'americano tranquillo” di Graham Greene


di Gianni Quilici

Poniamo questo romanzo nelle mani di un lettore che poco o niente sappia del Vietnam ed in particolare della colonizzazione francese, del paese spaccato in due, dell'avanzata dei Viet Minh, del progressivo coinvolgimento americano, attraverso un gruppo terroristico vietnamita ecc, ecc. Si troverà, in alcuni capitoli o parti di essi, spiazzato, forse disorientato.

Se tuttavia continuerà a leggere, rimarrà forse colpito da un sentimento che serpeggia e si insinua oltre gli occhi: la paura e il dolore per una possibile, probabile solitudine, la stanchezza di chi ha troppo vissuto, visto, provato...

Questo è il sentimento del protagonista, un giornalista inglese di lungo corso, cinquantenne, corrispondente dal Vietnam da più di due anni, sposato ma separato dalla moglie, che, narrando in prima persona, copre tutto il romanzo e porta con sé almeno altri tre elementi “forti”: la ragazza vietnamita che lui ama: giovane e bella, diversa per tradizione e cultura, in un certo senso servizievole, ma anche libera; l'americano, cosiddetto tranquillo, giovane e rivale in amore, idealista ed ingenuo, ma inconsapevolmente spietato e cieco su ciò che accade; e la guerra con i suoi attentati terroristici imprevedibili, con la sua ferocia, paura e inutilità.

Il romanzo di Graham Greene ha una struttura circolare: parte da un presente – il protagonista aspetta l'americano insieme alla giovane vietnamita, che non è più la sua donna - e poi ripercorrendo la storia a ritroso, con l'uso del flash back, ritorna magistralmente a quel punto come se fosse un thriller, però rovesciato, in cui scopri il mistero di ciò che è già accaduto. Scopri un mistero, non perché si scopre l'assassino, che non importa; si scopre, invece, attraverso la struttura complessa di un romanzo, un mondo e un sentimento di esso con dei capitoli magistrali: l'attentato terroristico a Saigon, il ritorno dal festival dei caodaisti quando la macchina, senza benzina, si ferma nel territorio controllato dagli Hua-Huo tra il buio fitto, le risaie, la paura di essere uccisi e questo dialogo privatissimo tra i due (protagonisti maschili), in cui si intrecciano amore e gelosia, ingenuità e stanchezza, paura.

Graham Greene. L'americano tranquillo (The Quiet American). Traduzione di Alessandro Carrera. Mondadori.

11 marzo 2010

"Tra gli scogli" poesia di Sabrina Tomei


di Gianni Quilici



















TRA GLI SCOGLI

Nascosti fra gli scogli
Ci ritroviamo noi,
in un abbraccio di sole,
col mare ai nostri piedi,
in un anfratto di isola deserta.
Così piccoli e così grandi
I nostri corpi alla grandiosità della Terra.
Sopra, dentro di te mi sento
E selvaggia la tua bocca in quel momento
Si apre come distesa senza confini.
Morbide labbra, lì sta il nettare degli Dei,
il segreto della vita racchiuso e non detto.


Immaginate di dover realizzare un video, un corto, su questa poesia.
La prima difficoltà sorgerebbe nel dover rendere la forza dell'immagine. Perché è indubitabile: è una lirica, questa, che, letta, si fa vedere.
Difficoltà non tanto nel reperire il luogo: degli scogli nascosti, in un'isola deserta, quanto nell'abbraccio di sole e in quella sottile sensazione del mare, che viene percepito dai due corpi ai nostri piedi.
Difficoltà, perché sono sensazioni non soltanto fisiche, ma psichiche. Ed allora per farle “sentire” in una visione non basta l'immagine purchessia, occorre che questa comunichi “calore”.

Come fare?
Decisivi, a questo punto, sono i due corpi nel rapporto tra loro e come, attraverso questo, avvertono il mondo circostante.
La bellezza e la verità della poesia di Sabrina Tomei è nel rappresentare la duplicità dei due corpi.
Per un verso la piccolezza rispetto alla grandiosità della Terra; per un altro questi corpi diventano ai loro sensi grandi, perché la loro fusione selvaggia (sopra, dentro di te mi sento) si dilata, diventa una distesa senza confini.

Ecco, qui può nascere la difficoltà dell'immagine a cogliere ciò che non si vede, perché semplicemente questa la si vive, la si sente internamente.
E qui può soccorrerci la Parola nel suo farsi verso, ritmo, musica, senso. E mi pare che Sabrina riesca a trasmettere questo contatto intenso tra un io che si fonde nell'altro e che, per un attimo almeno, si allarga (o ne ha l'illusione) col mondo.

Sabrina Tomei vive a Marlia e di se stessa dice:

La musica è la fonte principale nella mia vita, la mia linfa.. Seguono tutte le forme d'arte: dalla poesia alla fotografia, alla pittura (anche se non sono brava a disegnare..). Ho trovato nella musica, nel canto e nella poesia uno strumento per esprimere ciò che sento e sono, per dare spazio alla mia anima.
Mi piace conoscere culture nuove, stabilire contatti con il mondo animale, la natura. Tutto per me vive e si muove insieme a qualcosa di più grande, cosmico. Sono affascinata dalle filosofie orientali e dal popolo degli indiani del nord America. Non sopporto la falsità, la corruzione, la mancanza di profondità, mi considero una persona diretta e spontanea, molto sensibile. Penso che un mondo migliore sia possibile, ma prima di tutto dobbiamo cominciare noi
”.

Ma è nell'inizio di una sua poesia, che c'è forse la sintesi più affascinante:

Piuma nera, donna figlia delle stelle
ad ogni ostacolo ribelle..”

"Livida Luna" di Giovanna Gemignani


di Luciano Luciani

Tutti noi, più o meno intrisi di letteratura, siamo abituati a pensare alla luna come l’astro cantato dai poeti, pronuba per eccellenza degli amori felici o testimone muta di quelli infelici, motore di sentimenti teneri, delicati, malinconici…

Diversa da quella consolidata di tanta tradizione letteraria la luna che sovrintende alle pagine di Giovanna Gemignani che preferisce, invece, chiamare in causa la zona lunare della personalità umana, quella notturna, inconscia, crepuscolare. Quella dove risiedono le pulsioni istintive e primitive e si creano gli incubi e i fantasmi dell’immaginario.

E, infatti, com’è la luna della Gemignani? Livida! Quello sgradevole colorito blu - verdastro che assume la pelle dopo un colpo, dopo una contusione… Un colore che richiama, appunto, il livore, l’astio, il rancore, l’infelicità del cuore umano.

Forse il colore più inquietante di tutti: ve la ricordate la livida palude dell’inferno dantesco? Livida luna, dunque. Undici racconti, undici storie, tutte o quasi declinate al femminile, un repertorio di tristezze, sofferenze, scontentezze, quando non vere e proprie disperazioni, miserie umane con rare, rarissime possibilità di un faticoso risarcimento. Storie di violenze, estreme e fisiche, ma anche e soprattutto intime, psicologiche; storie di malattie morali che affondano le loro radici nella dimensione domestica, nel microcosmo familiare. La famiglia, la casa, i parenti (madri, padri, mariti, fratelli, sorelle…) non sono più la dimensione privilegiata in cui la donna agisce a suo agio come un pesce nell’acqua: nelle pagine di questa Autrice toscana al suo esordio letterario la casa, il focolare si trasformano in luoghi patogeni, forieri di dolore, nel corpo e nella psiche.

A ribadire l’ispirazione di una scrittura tutta al femminile, il ruolo riservato ai personaggi maschili: compagni, amanti, mariti, padri sono dei comprimari, mediocri, quando va bene, più spesso personaggi interlocutori intrisi di negatività. Da usare per riscattarsi, per emergere, per realizzare, sempre con sofferenza, una vita appena appena degna di essere vissuta in un mondo tutto costruito dagli uomini e per gli uomini.

Un lettore superficiale potrebbe essere tentato di apparentare i racconti presenti in questa antologia con una scrittura che oggi va per la maggiore: quella della narrazione d’indagine, poliziesca, gialla o noir che dir si voglia, thriller od horror. Sì, ci sono racconti che risentono della recente, e per certi versi anche meritata fortuna, della scrittura “di genere”, ma in Livida luna, oltre a qualche killer seriale, qualche indagatrice, al di là di qualche malavitoso c’è anche altro…

La Gemignani ci vuole rappresentare soprattutto l’inabitabilità del nostro presente e l’incarognimento diffuso dei tempi in cui ci è stato dato di vivere, riuscendo a illuminare, per la breve durata di un racconto, sia le parti basse, talora infime, della nostra società, quale si è andata deformando in questo ultimo quarto di secolo, sia i recessi del “ cuore nero” degli uomini e delle donne che popolano il nostro quotidiano.

Quindi, ‘letteratura del disagio’ la sua e specchi opachi, ma neppure troppo, di questo primo decennio del terzo millennio, i suoi undici racconti. Tutto raccontato con una scrittura scabra, essenziale, incisiva, capace di colpire sotto la cintura e con cattiveria.
Direi che il bello delle pagine di Livida luna è proprio questo!


Giovanna Gemignani, Livida luna, Pagliai editore, Firenze 2009, pp.80, Euro 9,00