22 aprile 2020

"Lo strano silenzio di questi giorni amplifica" di Maurizio Della Nave


             
foto di Gianni Quilici
 

                 Stamattina dal terrazzo si sente la campagna lentamente fiorire. Quasi davanti a me due tortore volano veloci giocando. Si notano sempre più insetti di nuovo affaccendati tra una pianta e l’altra. Una delle gatte esplora le differenze del giardino tra ieri ed oggi, l’altra si gode il sole sugli scalini. Una coccinella sul muro, una lenta fila di formiche, due o tre cornacchie dall’alto di un albero, un piccolo ragno sulla sua tela, uccellini zigzàgano nel cielo, una farfalla bianca…

                Lo strano silenzio di questi giorni amplifica i discorsi degli uccelli e la leggera brezza tra le foglie.

               Gli strani pensieri di questi giorni amplificano i colori della campagna. Amplificano la bellezza di ciò che posso sentire di ciò che posso vedere di ciò che sempre è stato attorno a me troppo spesso oscurato dalle impalpabili ma dense tende della quotidianità vissuta di corsa all’ultimo respiro.

              Lo strano trascorrere del tempo di questi giorni amplifica la voglia di creare di progettare di dar vita a belle idee e bei desideri. Di ri-costruire diversamente molte cose fino a pochi giorni fa garbatamente accettate per nutrire quel famelico caotico coacèrvo di compromessi imposto in cambio d’una sopravvivenza affaticata ed incolore.

             Lo strano isolamento di questi giorni amplifica quell’energia da troppo tempo respinta e soffocata nelle stanze intossicate dalla violenta economia globale senza senso e senza speranza. Amplifica quell’immaginare forti decise appassionate colorate pennellate per ridisegnare un’esistenza piena di umanità condivisa, lungo la nostra meravigliosa comune strada tra l’arrivo e la partenza.

           Lo strano dirompente mutare di questi giorni amplifica una sensazione nel contempo terrificante e liberatoria di irreversibile cambiamento. Di ri-nascita. Di riconquista dei sensi delle emozioni, del ragionamento, del pensiero logico, della natura, dell’essere noi stessi assieme a tutti gli altri, senza molti di quei compromessi maledettamente intrinseci a quell’arrancàre tra falsi valori e tradimenti di comodo che fino a pochi giorni fa ci rendeva accondiscendenti sùccubi d’un insaziabile mòloch posto ad emblema della nostra presunta paradossale immortalità.

          Lo strano fluire della ragione, in questa mattina di marzo, m’amplifica fortemente la convinzione d’esser testimone, assieme a tutti gli altri esseri umani di questo maltrattato pianeta, di un lunghissimo momento d’enorme entità da noi stessi seminato e coltivato per lungo tempo. Un momento che ha nella sua essenza il movimento, l’impulso, la dinamica temporale, che vogliono portare obbligatoriamente altrove.

         Lo strano silenzio di questi giorni amplifica il desiderio, la volontà, la speranza, la improcrastinàbile necessità di uno spostamento globale verso maggior percezione del mondo, maggior consapevolezza della nostra esistenza, maggior valutazione dell’esser tutti mutuamente vincolati, dopo aver attraversato questo nuovo straordinario momento di crescita e di trasformazione.

        Molte cose diverse devono esserci nel prossimo futuro, molte cose devono inesorabilmente cambiare. Altrimenti tutto ciò che sta accadendo si riduce ad una insostenibile inutilità tra le braccia della più agghiacciante mostruosa mondiale umana idiozìa. Altrimenti forse semplicemente non ci meritiamo di continuare l’essere umano.

       La campagna, i fiori, le piante, Le tortore, gli insetti, le gatte, la coccinella, le formiche, le cornacchie, il ragno, gli uccellini, la farfalla, le foglie, tutti gli altri esseri viventi, il pianeta, forse non se ne accorgerebbero neppùre e continuerebbero modestamente naturalmente il loro meraviglioso viaggio attraverso i loro arrivi e le loro partenze, istintivamente godendo per un àttimo del pianeta e della loro breve intensa esistenza, permeàti da questo incomparabile mondo che solo e soltanto noi abbiamo torturato continuativamente fino ad oggi…

19 aprile 2020

“Il cane di Benares” di Ferdinando Scianna


nota di Gianni Quilici

“Perfetto” penso al primo sguardo.
Il cane  che si avvita forse per mordersi la coda in una postura bizzarra nella sua contorsione, con la coda arricciolata, sorreggendosi su una zampa soltanto, mentre l’altra pare sparita.
Lo spiazzo piastrellato e disordinatamente disegnato, che si affaccia sulle acque del Gange con un cielo vagamente inquietante… una nuvolaglia scura e pennellate con squarci di luce.

Una foto, mi viene da pensare, teatrale.
Un palcoscenico, l’attore, lo sfondo scenografico.
Pochi elementi e essenziali.
Ma è soprattutto l’attore, il cane di Benares che si imprime visualmente. Indimenticabile!

Come ha detto Ferdinando Scianna: “Questo è il tipo di “azzardo obiettivo” , molto raro, che da quasi mezzo secolo inseguo facendo fotografie. Una folgorazione ragionata in tempo reale".

Ferdinando Scianna. Benares. India 1972 






17 aprile 2020

“La frontiera scomparsa” di Luis Sepúlveda




di Simona Fazzi
"Le storie non si limitano a staccarsi dal narratore, 
lo formano anche: narrare è resistere"
 João Guimarães Rosa

Il romanzo narra di un giovane cileno in cerca di se stesso, delle sue radici e di una frontiera scomparsa in tempi in cui la dittatura, la paura, il terrore non permettono più l'accesso a territori un tempo raggiungibili.
Che cosa è questa frontiera scomparsa? Dove porta? E grazie a chi il ragazzo ha incominciato a sognarla? Quali sono i compagni di viaggio? Qual è il prezzo da pagare? E quali sono i risultati di questa ricerca?

Molte storie si intrecciano in questo viaggio dal grande fascino, che attraversa Cile, Argentina, Ecuador, Colombia per approdare in Spagna. Un viaggio che ha fermate forzate anche in stazioni buie, luoghi di dolore, ma sempre è rischiarato dalla luce di un lampione, una luce fraterna, un chiarore che non fa disperare, come un sorriso che non abbandona, che resta, un sorriso che non si fa pianto né si fa ghigno. Un viaggio lungo, a tratti pesante, ma che non perde mai la grazia leggera del volo...È il volo di un uomo che ascolta la voce della sua incompletezza e vuole trovare un controcanto, cercare un'esistenza piena e di condivisione, di fratellanza

E Luis Sépulveda questo volo lo sa narrare con maestria, con la potenza della sua storia e della sua terra, delle sue radici, dei suoi incontri e con l'ironia feconda di chi ama e celebra la vita narrandola, perché narrare è resistere.


La frontiera scomparsa” di Luis Sepúlveda. Traduzione di Ilide Carmignani. Ugo Guanda editore.  


13 aprile 2020

“Ragazzi che giocano tra le onde” di Martin Munkacsi


nota di Gianni Quilici

Questa foto scattata dal fotografo ungherese Martin Munkacsi (1896-1963) considerato ai suoi tempi uno dei più famosi e pagati fotoreporter del mondo, morto però povero e dimenticato (così va la vita ), è famosa per due ragioni.

La prima e decisiva è la foto in sé.
Raramente è stata espressa così efficacemente la pura e semplice gioia in uno scatto.
Perché è una gioia adolescenziale e fisica, nuda e primordiale, immediata e collettiva con una motivazione viva: la corsa verso un orizzonte seducente, appena fatto baluginare, l’acqua di un lago, il lago Tanganica, in Liberia.

Osservando con sguardo più analitico l’immagine si possono cogliere alcuni dettagli che sviluppano ancora di più il vigore espressivo dello scatto.
Innanzitutto la disposizione dei ragazzi in corsa, colti senza sovrapposizioni a formare quasi un triangolo,  con al vertice il primo ragazzo, con la mano sollevata quasi salutasse inebriato l’impatto con l’acqua; ed ancora più vibrante il ragazzo  in primo piano: corpo ondeggiante e  piede sollevato nella corsa. Infine l’elemento cromatico: le silhouette dei ragazzi nudi e neri, che correndo si stagliano contro la spuma bianca e schiumosa dell’onda del lago, illuminata dal sole.

E’ una di quelle foto, in cui tu riesci a fermare l’istante o altrimenti sei fregato; ciò che hai visto non c’è più. Munkacsi non ha avuto tempo di pensare. L’ha intuita e l’ha realizzata con una buona dose di fortuna, necessaria sempre, in queste situazioni.

Non a caso, ed è la seconda osservazione, che Cartier-Bresson fu colpito da questa immagine, tanto da abbandonare la pittura e a trasformarsi in fotografo.
Scrisse, infatti, il grande fotografo francese: “Per me è stata la scintilla che ha acceso il mio entusiasmo. Ho capito improvvisamente che la fotografia, catturando l’istante, poteva raggiungere l’eternità. E’ stata l’unica foto che mi abbia influenzato: ha una tale intensità, una tale gioia di vivere, un tale senso di meraviglia, che ancora mi affascina”

Martin Munkacsi. Liberia lago Tanganica. 1931.   

"Jesus Christ Superstar" di Webber e Rice



di Mimmo Mastrangelo

LONDRA 1970: CINQUANT’ANNI FA  USCIVA IL DOPPIO 33 GIRI “JESUS CHRIST SUPERSTAR”  CHE RIVOLUZIONERA’ LA PERCEZIONE DELLA MUSICA POP NEL MONDO…PRESENTA CRISTO COME MESSAGGERO DI UN DIO CHE SALVA TUTTI, NON SOLAMENTE ISRAELE. DA QUESTO DISCO ARRIVERANNO LA VERSIONE TEATRALE E CINEMATOGRAFICA                            

Londra fine degli anni sessanta: il clima musicale nella capitale britannica  è naturalmente inondato dal successo planetario dei Beatles che, però, stanno avviandosi verso la separazione.  Per la testa del  compositore   Andrew Lloyd Webber e del paroliere Tim Rice frulla l’idea di allestire un musical sul Gesù che ha cambiato la storia del mondo.
Weber e Rice - all’epoca rispettivamente ventuno e venticinque anni – non dispongono dei soldi che ci vogliono per mettere su il loro ambizioso progetto, decidono così di ripiegare su un disco dalle venature rock e che vuole essere anche una scommessa sul loro futuro di artisti. E così,  ispirati ai Vangeli sinottici e al magistrale saggio “Vita di Cristo” del vescovo ausiliare di New York, Fulton J. Sheen (Papa Benedetto XVI l’ha dichiarato venerabile nel 2012)  registrano “Jesus Christ Superstar”, un doppio 33 giri che arriverà sul mercato nel 1970  e verrà accolto con entusiasmo, specie nelle piazze   della protesta studentesca.
Ma l’album rappresenterà, innanzitutto  una rivoluzione nel mondo della musica, tanto che influenzerà la cultura pop non meno di quando ci fu l’avvento dei Beatles.  In vari Paesi  europei scalerà i primi posti dell’ hit-parade, negli Stati Uniti si aggiudicherà il disco d’oro e agli inizi degli anni ottanta  avrà raggiunto il record di sette milioni  di copie vendute.   
Registrato all’Olimpic Sound Studio di Londra, il disco contiene ventitre brani che  miscelano i generi in voga in quel tempo  e drammatizzano musicalmente l’ultima settimana della vita Cristo, dalla sua entrata a Gerusalemme alla Crocifissione.
Nella “pianificazione” del lavoro un’orchestra sinfonica viene affiancata alla Grease Band, un gruppo rock nato in supporto dei concerti di Joe Cocker, mentre Ian Gillan  è la voce di Gesù, Murray Head quella di Giuda  e Yvonne Elliman quella di Maria Maddalena. 
 Diversi sono brani  che  più degli altri fanno da pilastro alla  narrazione e al dialogo serrato tra i protagonisti  tra questi titoli non si possono non citare, visto che col passare dei decenni sono diventati anche dei cult-music”, gli  splendidi “I don’t know how to love him” ed “Everything’s alrights”, la ballata jazz-rock   “Heaven on their minds” e gli insuperabili antem-inni “Superstar” e “Hosanna”.
Il disco verrà molto contestato in alcuni ambienti  conservatori della Chiesa, come del resto una pioggia di critiche  si riverserà sia sul musical che  Rice e Webber porteranno in scena dal 1971 ( la prima il 12 ottobre da Brodway)  che sulla versione cinematografica girata nel 1973 da Norman Jewison  con  protagonisti Ted Neeley (Gesù) e Carl Anderson (Giuda).
A distanza di mezzo secolo  ormai “Jesus Christ Superstar”  tanto nella sua veste discografica che in quella teatrale (e cinematografica) non fa più scandalo, e non poteva essere diversamente.  E’ umano, caritatevole il Cristo di Tim Rice e Andrew Lloyd Webber, sceglie di stare con chi è perdente,  innova  l’immagine di Dio, del Padre non più severo ma  comprensivo, pronto a soccorrere gli uomini  piuttosto che a giudicarli, a salvare tutti i popoli  e non solamente  Israele.

11 aprile 2020

"Dalla terra tradita"di Giuseppe Cordoni




Versi contro l'oblio del nostro passato

 di Luciano Luciani

Letterato, critico d'arte, saggista di lungo corso, Giuseppe Cordoni, sulle soglie di una maturità che arriva sempre a tua insaputa, regola, a suo modo, da poeta, i conti con la società e con la storia che gli sono state proprie e all'interno delle quali è nato, vissuto, si è plasmato e definito come uomo e intellettuale. Versiliese “di terra” e giovanotto nel secolo scorso, da quando lo conosco - e sono quasi quarant'anni -, Beppe Cordoni è sempre stato impegnato in una dura battaglia da lui combattuta con le sole armi pacifiche della parola, del verso, della poesia: ovvero, contrastare l'oblio e la smemoratezza degli uomini intorno alle vicende e alle persone, ai modi di vita, ai comportamenti e anche agli oggetti, le cose, gli strumenti per il lavoro del passato di appena ieri. In una parola, la civiltà, quella rurale, di cui la stragrande maggioranza degli italiani è ancora figlia. Al centro dei suoi interessi, che sono insieme poetici e documentari, c'è l'antropologia del popolo della campagna versiliese: nel caso specifico quella di una Versilia interna, la Villa Rossa, Podere 9 della Tenuta Aurelia. Terra di coloni, di mezzadri da tre generazioni, dove l'Autore è nato e ha trascorso gli anni fondativi della fanciullezza e della prima adolescenza. Un mondo. Piccolo, ma dalle radici antiche e tenacissime. Popolato da un'umanità semplice, legata a una terra fertile perché strappata dalla fatica umana alla boscaglia e alla palude. Donne e uomini le cui esistenze erano scandite dai cicli stagionali e dai relativi lavori nei campi. Vite segnata da dure, difficili, ormai desuete, condizioni materiali di lavoro.
È il tema di questa trilogia in versi, Dalla terra tradita, Quaderni di Erba d'Arno, 2019, tre narrazioni poetiche, L'insipida abbondanza, L'ombra del fico, Il pane in prestito, ognuna preceduta da una breve premessa poetica. Testi di lunghezza diseguale per versi ora di tono elegiaco, ora più incalzanti, battenti, polemici in cui, in maniera lucida e accorata, sferzante e insieme dolente, l'Autore denuncia gli orrori, materiali, morali, estetici, di una modernità “usa e getta”; un tempo che dura ormai da oltre mezzo secolo, in cui si è rotto, e in maniera irrimediabile, l'antico patto tra l'uomo e la terra, forse madre, forse matrigna, ma sempre provvida di doni: da conquistare a fatica, certo, ma durevoli. E, di generazione in generazione, capaci di soddisfare non solo le concrete necessità dei suoi abitatori, ma anche le esigenze di una bellezza semplice che alberga sempre nel cuore di tutti.
Descrivendo le pene e le complessità che intervenivano sino a non molto tempo fa nella produzione dei semplici e faticati beni degli uomini, Beppe Cordoni racconta un mondo che non c'è più e che non sembra destinato a tornare, a meno di qualche apocalisse da medioevo prossimo venturo che pure, proprio in questi giorni, sembra affacciarsi di nuovo tra le pieghe della storia: motivo di più, si potrebbe dire, per farne memoria intelligente e creativa. Perché, venendo progressivamente a mancare la generazione nata tra gli anni compresi tra le due terribili, tragiche guerre del "secolo breve", con essa sparirà qualsiasi traccia di quelle donne e quegli uomini che con disagio, ma con tenacia, intelligenza e pratico buon senso, riuscivano a strappare alla terra, anche la più aspra, anche la più avara, il pane quotidiano e anche qualcosa di più, per sè e per gli altri.
Oggi, quando mille rughe sembrano sfigurare la facciata ottimistica del nuovo a ogni costo (cemento, asfalto, plastica, vetro, alluminio, Centri commerciali come nuove cattedrali della dilagante religione del consumismo a tutti i costi, disastri ambientali...), oggi che non siamo più così sicuri di noi stessi e della direzione e del significato di certa presunta contemporaneità, ci accade spesso di sentirci disorientati e smarriti. E allora torniamo a ricercare le abitudini, i colori, i saperi, i sapori, i suoni di una volta. In questo recupero di un passato importante che poi, in fondo, è appena dietro le nostre spalle, i versi di Beppe Cordoni ci aiutano e non poco. Perché, al di là della scaltrita sapienza letteraria che li sostiene sempre, sono stati scritti intingendo il pennino nell'inchiostro della "simpatia piena d'amore" per il mondo di ieri e dei suoi umili e dignitosi protagonisti. Perché, se è vero che la maledizione degli uomini è che essi dimenticano, l'unico antidoto possibile a tale maleficio è ricordare, ovvero tornare di nuovo a percorrere le strade del cuore.



Giuseppe Cordoni, Dalla terra tradita. Trilogia in versi, Quaderni di Erba d'Arno, Fucecchio (Fi), 2019, pp. 178, Euro 15,00

07 aprile 2020

"Anche i Pisani sono esseri umani" di Luciano Luciani (tredicesima puntata)

                                         Silvio Guarnieri

memorie autobiografiche del secolo scorso
               e dell'ultima ideologia progressiva.
                            Un giovane Romano nella città “vituperio de le genti”.

I compagni dirigenti. Quelli della Federazione.
Dovrebbe essere da qualche parte e se mi decidessi a cercarla con un po' di zelo e sistema non potrebbe che rifare la propria apparizione. Sto parlando di una vecchia fotografia, rigorosamente in bianco e nero, di quelle che si ottenevano non con un telefono ma con una macchina fotografica e che avevano bisogno di una pellicola da 24 o 36 pose da impressionare con i tuoi scatti e poi di un fotografo che stampasse le immagini ottenute.
 

Bene, in questa foto vintage appariamo io e il compagno Riccardo Di Donato seduti, sorridenti. ai tavoli di quella che sembra essere un festa dell'Unità e probabilmente lo è. A dargli una data direi l'estate del '73, il luogo lo spiazzo tra le case popolari dove si celebravano questi rituali politici annuali. Io, il compagno di base recentemente acquisito, meglio reclutato, dalla sezione del Pci “Antonio Gramsci, lui il dirigente politico inviato dalla federazione del Partito per il comizio d'apertura o di chiusura. Tutti e due giovani in maniera imbarazzante, allegri, ottimisti. La festa è andata bene; c'è stato un discreto afflusso di iscritti. Simpatizzanti e semplici cittadini non sulle nostre posizioni, ma attratti dall iniziative; il tesseramento ha raggiunto e superato l'agognato 100/100; al di là di ogni aspettativa la diffusione dell'Unità che ha dato fondo a tutte le copie previste... Almeno alla Cella, il Partito gode di buona salute e il compagno Di Donato lo riferirà domani in federazione.
 

Il compagno Riccardo Di Donato: cattolico, normalista, un filologo classico e uno storico della cultura antica prestato alla politica era una delle figure emergenti della sinistra pisana. Un intellettuale a cui, evidentemente, non faceva paura il lavoro pesante del rapporto con le sezioni, anche le più rigide ideologicamente e La Cella era davvero così. Una di quelle in cui, ancora dopo vent'anni, si manteneva un legame fideistico con l'Urss, vissuta, nonostante i ripetuti misfatti, sempre come la patria del socialismo e non pochi compagni conservavano gelosamente nel cuore il mito di Stalin. Non doveva essere facile riportare in sezioni di quel tipo, la linea politica del partito Berlinguer, dell'incontro tra comunisti, socialisti e cattolici, il cosiddetto “compromesso storico”, e l'idea di una “terza via” tra capitalismo e socialismo autoritario e burocratico, ma Di Donato ci provava, con pazienza, umiltà, rispetto per tutte le posizioni: una passione pedagogica che non era proprio nelle corde di tanti ufficiali maggiori e minori del Partito pisano di allora. Di lui conservo un ricordo positivo insieme a quello di altri pochi dirigenti.
 

Per esempio Marcello Di Puccio, anzi meglio l'on, Di Puccio. Operaio (Saint Gobain, mi pare) orgoglioso delle sue origini proletarie, uomo della Resistenza, possedeva il dono di rendere semplici le questioni complesse e di saper stringere, con garbo e fermezza, quando si trattava di arrivare a prendere una decisione.
 

Ancora una presenza mai più dimenticata, almeno da me, alla  Cella: quella del prof. Silvio Guarnieri, decente di letteratura moderna e contemporanea all'Università di Pisa e consigliere comunale. Si trattava di una assemblea precongressuale, di routine, che si trasformò in una splendida lezione su Gramsci, gli intellettuali e il loro ruolo nella costruzione di una via italiana al socialismo. Guarnieri riuscì nella magia di trasformare quella sala della periferia pisana abituata a dibattiti ben più grossolani in un'aula universitaria dove si ragionava con pacatezza di temi alti e importanti per i destini di tutti. Chiuse, Guarnieri, con appello accorato perché i comunisti non trascurassero per supponenza o per un antico pregiudizio anticlericale quanto andava accadendo nel mondo cattolico in cui si moltiplicavano i segni di insofferenza circa lo stato di cose presenti e l'obbligo, politico e morale, per i comunisti di trovare relazioni con quei movimenti e quei protagonisti, non lasciarli soli, aiutarli a trovare sbocchi e soluzioni. Una bellissima serata, che, a quanto mi è dato di ricordare, al di là dell'emozione del momento, non si trasmise ai giorni e alle attività successive. 

04 aprile 2020

," Malgrado tutto" di Iulián Fuks


Quello strano fratello adottivo

 di Luciano Luciani

Di pagine sull'argomento famiglia sono piene le letterature d'ogni tempo e latitudine. Quindi, potrebbe far meraviglia che uno scrittore, considerato oggi tra i più promettenti giovani narratori brasiliani, abbia scelto di cimentarsi proprio con un tema così consueto e consumato, collocabile meglio nel solco della grande tradizione del romanzo ottocentesco europeo. 
Ma Julián Fuks, con il suo Malgrado tutto, recentemente apparso tradotto in italiano per la ben nota sensibilità dell'editore quarup a rivolgersi a prodotti di alta qualità letteraria provenienti dai quattro angoli del mondo, ci disorienta. Perché rielabora e aggiorna gli eterni materiali delle infinite, complicate dinamiche domestiche alla nostra contemporaneità e alle sue tragedie, quelle di appena ieri e dell'oggi. Nelle sue pagine compare un nucleo familiare borghese, socialmente collocato nella parte agiata di un continente latinoamericano perennemente considerato in via di sviluppo. Siamo in Brasile, a São Paulo, una delle città più popolose e avanzate del mondo: un padre, una madre, due persone colte, due psicoanalisti di origine argentina, due figli naturali e uno adottivo. 
Ed è proprio lui  l'estraneo, che diventa il prisma attraverso il quale l'Autore, per approssimazioni successive, scompone la luce di quella famiglia, ne rilegge le vicende recenti e remote e così riattraversa quasi cinquant'anni di storia recente del proprio Paese d'origine, l'Argentina. 
È solo attraverso vecchie foto, spezzoni di discorsi dei genitori, battute di dialoghi rimaste a metà e sempre interrotti all'approssimarsi dei figli, che l'Autore ricostruisce il dramma vissuto dalla propria famiglia e la tragedia in cui, nella seconda metà degli anni Settanta, una congrega di militari macellai precipitò un intero Paese, perché ne braccò, annichilì e disperse un'intera generazione di giovani. La sterminò programmaticamente e sistematicamente forte di non poche, né poco importanti, connivenze internazionali. E quel fratello adottivo, così diverso, così strano, così enigmatico è l'ennesima vittima di quella guerra mai dichiarata e tanto ferocemente praticata. 

Figlio di una desaparecida collega di lavoro della madre, l'Autore, pur vivendoci assieme ogni giorno, non lo ha mai capito e lo ha sempre percepito come un corpo estraneo... Però c'era sempre stato qualcosa in lui che sollecita lo scrittore ad approfondire e a farsi delle domande: “So che lui mi proteggeva perchè c'è un suo gesto abituale che è rimasto impresso nella mia memoria: la sua mano posata sulla mia nuca, l'indice e il pollice che fanno pressione sul mio collo, a turno, senza fare forza, solo per indicarmi la direzione del prossimo passo”.  A mano a mano, faticosamente, lo riscopre, quel fratello adottato, interpretandone meglio gesti, reazioni, comportamenti... E così in un lento itinerario di piccole molecolari scoperte conosce meglio lui e comprende più a fondo il coraggio dei genitori; impara ad apprezzare nella giusta misura la grandezza della devozione della madre e riesce finalmente a dare un senso allo sradicamento, il proprio, che ancora bambino l'ha portato lontano.

Fuks scrive dopo un esilio che, a chi tocca in sorte, è sempre come raccontare dopo un devastante movimento sismico. Far riemergere dalle rovine delle incomprensioni, dei silenzi e dei non detti, la propria storia, quella della generazione dei padri e quella di una nazione sfortunata, insieme vittima e complice, comporta dolore, sofferenze, una tristezza acuta che ti percorre tutto, fin nelle pieghe più profonde dell'animo. 
Lo scrittore ormai brasiliano ricompone con mano ferma questo quadro che è insieme privato e politico. Lo aiuta una scrittura insieme sostenuta ed evocativa, che dice, non dice e si limita a suggerire le infinite possibilità, le infinite ambuiguità della Storia e delle storie.


Iulián Fuks, Malgrado tutto, quarup, Pescara 2019, pp. 128, Euro 18,90


01 aprile 2020

“ L'anima dei luoghi: Matera” di Simona Fazzi



foto di Simona Fazzi

 L'anima dei luoghi: Matera


Nell'ora del tramonto, come in sogno, giungo alla città dove la pietra è luce, dove la miseria della vita, incredibilmente, una sublime bellezza ha generato, tanto sublime da sembrare a prima vista esotica, anzi di più, fuori dal tempo e dalle leggi consumistiche che imperano nel mondo moderno, e incorruttibile, seppure invasa ormai da tanti turisti.

Matera mi commuove, perché narra e parla una lingua che ancora non mi è del tutto estranea...Essa dilata la sua anima e io vi entro scalza, muta, estatica, mi immergo e mi innalzo assieme a lei...
Con Ingegno, preghiera, con voce di polvere, di vento, di gorghi profondi, di maledizioni e benedizioni racconta Matera.

Canta Matera, canta ancora l' intima tua natura di sacra vena contadina, di campo santo delle cose umili.
Canta ancora l' intima e calda tua natura di stalla, di nido, di grotta, di ovile, rifugio di uomini e bestie, fiore rupestre, rifugio anche di dio