15 aprile 2012

“Amore Non Ne Avremo” di Peppino Impastato

di Gianni Quilici

          Peppino Impastato è diventato un eroe dell'immaginario politico di una parte della sinistra italiana, quella forse più vitale, sicuramente quella più extra-istituzionale.
        Merito della sua storia, ma inevitabilmente anche di Cento passi, il film di Marco Tullio Giordana, che, cogliendo e esaltando la figura di Peppino, l'ha trasmessa a migliaia di giovani e non, che si sono riconosciuti non solo nel coraggio della sua testimonianza, ma anche nelle qualità estetiche del messaggio, che, attraverso Radio Aut, trasmetteva contro la mafia di Cinisi e il suo boss Gaetano Badalamenti, colpendoli profondamente con l'ironia feroce del suo eloquio.

          Questo libretto di poco più di 50 pagine ci comunica flash della personalità complessa di Peppino in grande trasformazione. Sono una 20ina di poesie alternate ad immagini di Peppino.

           La prima impressione è la presenza nel giovane di una ferita profonda, di un dolore tenace, di un rapporto vivo con la morte. La ragione? Impossibile dirlo.
Non credo sia sufficiente quel verso dominante: Amore Non Ne Avremo, che lascia intravedere una solitudine di sentimenti e mancanza di una donna particolare (Anna come potrebbero far pensare quelle maiuscole).

               Ci sono versi che che non vanno oltre la riflessione; altri che diventano poesia. Una delle più belle:
Fiore di campo nasce
dal grembo della terra nera
Fiore di campo cresce
odoroso di fresca rugiada
fiore di campo muore
sciogliendo sulla terra
gli umori segreti.

            Ed anche molto ispirate questi versi gioiosamente danzanti:
Stasera voglio tagliuzzare
ogni mio sentimento
in mille coriandoli colorati.
Poi li getterò
nella calca dei convenuti
per allietare le danze.

              Una poesia spesso intima e dolorosa, che era diventata nell'esistenza di Peppino Impastato anche azione, teatro, sarcasmo, lotta politica, se non un'antitesi, un'articolazione profonda della sua personalità. L'amarezza che sia stato ucciso a 30 anni nel pieno di un'eruzione poetico-politica è ancora più grande.

A cura di Guido Orlando e Salvo Vitale. Amore Non Ne Avremo. Poesie e Immagine di Peppino Impastato. Navarra Editore. Euro 5,00.

"Una bistecca" di Jack London

di Gianni Quilici


Bellissimo racconto. Un pugile, Tom King, alla fine della sua carriera e con un brillante passato alle spalle, si trova, a qualche ora dal combattimento, nella sua casa con la moglie, i due figli a letto senza cena, a mangiare l'ultimo pezzettino di pane, turbato da un acuto senso di fame, senza quella bistecca, di cui avrebbe avuto bisogno e che non gli era stata data in credito.

Così dopo due miglia di strada fatta a piedi inizia quell'incontro fondamentale per conquistare quella trentina di sterline, che gli consentirebbe di mangiare e di pagare i debiti.

Jack London descrive con straordinaria acutezza analitica il combattimento, che ha come un doppio binario: i colpi ricevuti e, qualche volta, dati, con i loro effetti e risonanze e però anche la regia con cui il protagonista conduce i round contro un avversario non solo potente, ma molto più giovane: farlo spremere fisicamente, quasi unicamente difendendosi, per poi, persa egli l'energia iniziale, assestare qualche colpo micidiale... E per poco, per una bistecca mancata, lui pensa, non ci riesce.

Racconto esemplare, perché delinea dall'interno con un linguaggio asciutto e preciso di chi conosce bene la boxe, una parabola di dolore, ma anche di compassione e di empatia per altri, che solo ora il protagonista comprende.

Nel finale, esemplare, Tom ritorna a casa senza un soldo in tasca, debole, dolorante, stanchissimo, affamato, senza prospettiva alcuna, con la donna che lo aspetta per conoscere l'esito del combattimento. Allora, traversando un parco, “si lasciò bruscamente cadere sopra una panchina...Si coprì il viso e, piangendo, ricordò Stowsher Bill e come lo aveva ridotto quella sera d'un passato tanto lontano” Solo ora Tom King comprende perché allora Bill, il vecchio pugile, avesse pianto nel vestibolo.


Jack London. Una bistecca. Ortica Editrice Società Cooperativa. Pag. 31. Euro 2,50.



13 aprile 2012

"Vivere la musica- un racconto autobiografico" di Roman Vlad

di Maddalena Ferrari


Nel 2009 Roman Vlad ha compiuto novant’ anni. In questa occasione è nato il progetto di scrivere il racconto della sua vita, da cui è scaturito il libro “Vivere la musica”, curato da Silvia Cappellini e Vittorio Bonolis, che hanno raccolto interviste e conversazioni con il Maestro e dato una struttura alla documentazione.

Il titolo recita “Vivere la musica – un racconto autobiografico”. E’ piuttosto una serie di ricordi, confessioni, digressioni, riflessioni, quando non addirittura brevi saggi didattici, che si intrecciano fra loro, seguendo diversi fili, all’interno di un impianto a grandi linee cronologico, lungo il quale si snodano 90 anni di vita e di Storia.

Nella prima parte, quando vengono rievocati gli anni del periodo del secondo conflitto mondiale e, a ritroso, alcuni squarci dell’infanzia e dell’adolescenza del Musicista, prevalgono gli episodi e gli aneddoti. Vlad arriva a Roma nel ’38, diciannovenne, con passaporto rumeno e con una modesta borsa di studio per frequentare all’università di Roma la facoltà di ingegneria (il padre lo voleva ingegnere) .Proviene da un piccolo centro nei pressi di Czernowitz, antica capitale del ducato di Bucovina, dove è nato il 29 dicembre 1919.

Questa regione nel 1920, dopo un’appartenenza più che centenaria all’impero Asburgico, era stata restituita alla Romania; ora è entrata a far parte dell’Ucraina.

Roman Vlad trascorre gli anni del secondo conflitto mondiale quasi interamente nella capitale, vivendo per lo più come clandestino, perché, dopo l’invasione tedesca della Russia e della Bucovina, l’addetto militare rumeno in Italia lo convocò e lo pose di fronte ad un aut-aut: o arruolarsi nell’esercito di Romania, divenuta nazista, o entrare nelle SS, altrimenti sarebbe stato considerato disertore passato al nemico e passibile di fucilazione.

Questo ricordo, come anche quello di un fatto antecedente, l’avventurosa fuga dalla Bucovina nell’estate del ’41, insieme ai genitori, alla sorella e alla nonna, quando i Sovietici stavano per arrivare e Vlad era tornato da Roma nella tenuta dei suoi per le vacanze estive, sono un esempio di come la lunga vita del Maestro sia stata attraversata dalla storia del ‘900, senza che egli ne sia rimasto prigioniero. Si ha l’impressione che gli avvenimenti storici lo abbiano visto osservatore attento, ma distaccato, anche se dalla parte “giusta”. In realtà il suo mondo è un altro, la musica. La musica che egli ha respirato, toccato fin dalla più tenera età, quando viveva con i suoi in un vasto possedimento terriero.

Il Musicista, raccontando, si sofferma su tematiche, episodi, personaggi che egli ha vissuto e vive con intensità, ampliando il discorso, tornando indietro o andando avanti, senza sentirsi troppo vincolato dall’ordine temporale.

Alla sua vita privata, con gli affetti, l’amore per la sua Licia, si intrecciano gli eventi pubblici, ma soprattutto il suo indissolubile rapporto con la musica, basato “sull’amore per essa; un amore totale, sentito sin dall’infanzia, nutrito dell’iniziale carriera pianistica, onorato e difeso svolgendo a tutto campo la ‘professione Musica’, vivendo in perfetta simbiosi con essa”.

Man mano che si procede nella lettura e nel tempo del racconto, si precisano e si approfondiscono la vocazione e la storia musicale del Maestro, personalità poliedrica: pianista, compositore, studioso, critico, docente, organizzatore e promotore di attività culturali musicali, ha lavorato per la Radio e per la Televisione, ha ricoperto ruoli di primo piano in Istituzioni di prestigio; ha incontrato e conosciuto i grandi artisti del ‘900, e non solo in campo musicale.

A Roma, la città a cui si è legato per sempre, proprio agli inizi della sua permanenza, conosce Alfredo Casella, con il quale nasce subito un rapporto di reciproca stima ed il cui magistero sarà fondamentale.

E poi seguono gli altri incontri: Igor Sfravinskij, a cui sono dedicate pagine di intense riflessioni musicali ; Sergej Prokof’ev, Arturo Benedetti Michelangeli, Leonard Bernstein, Riccardo Muti; Giuseppe Sino poli, oggetto di un ricordo di grande stima e affetto e di dolore per la prematura scomparsa.

Emerge la predilezione dell'autore per la musica del ‘900: Schoenberg, visto nella sua novità rivoluzionaria, ma senza rigidità; Stravinskij, un genio libero, non il “reazionario” dipinto da Adorno; Béla Bartòk e la sua ricerca di creare musica nuova studiando e rielaborando la tradizione folklorica...Lo stesso Vlad, da compositore, afferma di avvalersi delle conquiste musicali del ‘900, ma stando attento sempre alla tradizione; e, pur sentendosi vicino alla dodecafonia e al metodo seriale, egli dichiara di essere nettamente contrario a sovrapporre rigidi criteri razionali alla genuinità dell’ispirazione, nella convinzione che, come scrive Ferruccio Busoni, “la Musica è nata libera e divenire libera è il suo destino”. La libertà però non è quella dell’Estetismo simbolista decadente.

Per lui l’estetica coincide con l’etica: la sua ispirazione profonda nasce da una ricerca di assoluto, che rimane senza risposta, come dice egli stesso, facendo riferimento ad una sua composizione tra le preferite, la cantata “Le ciel est vide”.

L’amore per la musica è rivolto a tutta la musica, non solo quella “classica”: egli apprezza il Jazz, la musica elettronica, la musica leggera (ad esempio, la canzone di Modugno “Nel blu dipinto di blu”), le tradizioni popolari... a patto però che non ci siano rigidità, meccanicità, che non manchi una base di preparazione culturale; oggetto di disprezzo sono l’analfabetismo, il dilettantismo, la volgarità e la banalità della commercializzazione.

Vlad dà un saggio del suo molteplice sapere nel capitolo, in cui analizza le tecniche cabalistiche usate da Bach nelle sue composizioni, come anche in quello dove affronta i rapporti tra musica e matematica. Ma soprattutto nella vitalità e vivacità, nel coraggio, con cui ha operato nelle miriadi di incarichi autorevoli affidatigli nel corso degli anni; memorabile l’organizzazione, nel 1964, di un Maggio Musicale Fiorentino tutto dedicato all’Espressionismo, che gettò nello sconcerto una gran parte del mondo cuturale dell’epoca.

Parlando della sua attività di docente, il Maestro dà un’ulteriore prova della sua ampiezza di vedute e duttilità: impostava le lezioni su un doppio binario, l’applicazione delle regole accademiche, ma anche la sottolineatura della loro mancanza di valore assoluto, in quanto le grandi opere di creazione non nascono dalle regole, ma sono queste ultime a essere constatazioni a posteriori di atti creativi.

La curiosità, l’entusiasmo, che si rilevano nel rapporto che il Musicista ha con la vita e con ciò che la esprime, appaiono un po’ affievoliti negli ultimi anni, ma non tanto per l’età o per vicende familiari: nella “Conclusione” egli fa una riflessione amara sulla “crisi” attuale e sulla civiltà di massa, riconoscendo giuste le idee della Scuola di Francoforte. L’industria culturale, che controlla i mezzi di comunicazione, egli dice, adegua la cultura al gusto delle masse, opportunamente manipolate. E poi fa sua l’affermazione di Schoenberg , secondo cui “L’artista non deve cercare la bellezza, ma la Verità. Se raggiunge quella, la bellezza gli si concede come sovrappiù”; e aggiunge: “L’unico compenso certo per un autore è la consapevolezza di aver fatto ciò che egli doveva fare, ciò che la sua coscienza gli dettava”.


Roman Vlad. Vivere la musica- Un racconto autobiografico. Einaudi. Pag. 231. Euro 14,00.










"Perché la poesia di Letizia Pantani deve continuare a vivere" di Gianni Quilici



Letizia Pantani. Per me è prima di tutto un volto, un corpo. Se la penso la vedo. Se la vedo è dolore. Il dolore della sua irrimediabile assenza nel tempo di massimo transito: gioiva e soffriva, si esprimeva e si interrogava, progettava.

Ecco, ci sono in queste parole: “assenza” “irrimediabile” “ transito” ciò che non ho accettato inevitabilmente accettandola: la morte. La morte può essere naturale e perfino desiderabile. La morte di Letizia non lo è stata. Non solo per i suoi 32 anni e per la sua vita in perenne movimento, ma per “qualcosa” di più profondo: la sua poesia.

Molti l'hanno conosciuta nei movimenti, nelle piazze, nelle sedi in cui c'erano di mezzo diritti, libertà ed anche festa. La Letizia appassionata, combattiva, testarda, dialettica, generosa, giocherellona. Ma c'era una Letizia più intima, fragile, preziosa, sconosciuta. La sua poesia ce la fa conoscere e ri-conoscere.

Le e.mail come laboratorio poetico

Leggo, ri-leggo le e.mail di Letizia.

Mi colpiscono innanzitutto lo stile, essenziale, e il suo respiro.

Oggi la tecnologia perennemente in divenire abitua, senza che neppure lo avvertiamo, ad essere veloci, a consumare nevroticamente, a tenere spesso corrispondenze sciatte e superficiali, perché facili, frettolose.

Non così è per Letizia. Le sue e.mail comunicano quasi sempre delle “necessità”, che nella loro essenzialità hanno il respiro proprio della poesia.

Provo a risponderti senza troppa punteggiatura/ come piace a me” scrive, infatti, acutamente “ma andando a capo/ come a dire/ riprendi fiato metti un respiro nel pensiero/ poi seguimi ancora).

Osservazione: la prosa è vicina alla poesia, perché cerca di cogliere nella comunicazione l'essenziale e a questo dà una scansione, una musicalità.

E dialoga. Le (sue) e.mail hanno un interlocutore preciso con cui si confronta, confida, ma appunto per questo il suo interlocutore diventa in ultima analisi qualsiasi lettore, una volta che ci sentiamo presi nel giro di questo dialogo.

Sopratutto le (sue) e.mail sono una sorta di laboratorio, in cui presenta, riflette e critica le sue poesie senza alcun compiacimento, anzi con molti punti interrogativi.

Le autocritiche sono sottili e forse ingenerose, come succede quando una poetessa ancora insicura di essere tale, riflette sulla sua poesia, che è anche inevitabilmente lo specchio che la riflette.

Letizia è comunque una intellettuale, perché ha uno spiccato senso critico, forse da lei stessa sottovalutato. Si legga come riesca a sintetizzare efficacemente, a mio parere almeno, il film di Paolo Sorrentino L'amico di famiglia: “ ... denso, oleoso, ombroso ricco di contrasti,barocco nel disegnare ambienti e personaggi e lineare ...”. Oppure come colga nella pellicola di Ermanno Olmi Centochiodi la forza evocativa delle immagini del fiume in un film però “...manicheo nella sua tesi natura/cultura come tesi contrapposte e inconciliabili”.

Certamente la poesia è il linguaggio che essa sente più affine e maturo per lei; tuttavia lo strumento linguistico che Letizia sembra privilegiare è la contaminazione multimediale. Immagina, infatti, continuamente fusioni con altri strumenti: la fotografia, il disegno, la mostra, il teatro, il video.

Le (sue) poesie non sono sentite ne' come autosufficienti, ne' isolate dal resto. Vive in Letizia una fortissima tensione a progettare. Progettare per contaminare, interagire, collaborare, corrispondere. Perché al fondo non solo estetico, ma esistenziale di Letizia c'è il desiderio del gruppo, dell'ambiente, della fusione. Il gruppo che respira una medesima affinità, che crea, si sviluppa, trasforma.

La poesia

La poesia di Letizia è qualcosa di più del suo laboratorio. Più pensato, elaborato, metaforico, misterioso.

Letizia aveva disposto le sue poesie in due raccolte separate: “At/tese” ed “Esilio”, nonostante che le avesse scritte in rapida successione. Forse perché, come suggeriscono i titoli, in At/tese c'è la nebbia, ma anche l'orizzonte, la speranza; mentre in Esilio speranza si attenua.

Nebbia”, sorta di poesia in prosa, come già accennato precedentemente, è una tentazione presente nelle corde di Letizia. Quella di trovare nelle parole quell'equilibrio sottile tra prosa e poesia. Lasciare, cioè, che il discorso si dipani, senza costringerlo dentro gli imperativi del verso per poi scivolare senza forzature, verso quel senso, che si fa più vicino, intimo, poesia appunto.

Ma è possibile raccogliere in una tematica la poesia di Letizia? No, perché essa rappresenta il flusso dell'esistenza nella sua mutevolezza ed articolazione. E' una poesia che si potrebbe definire, in modo generico, dialettica e complessa. Nella forma e nei contenuti.

E' dialettica, perché vive di opposti: rivolta-regressione, illuminazione-oscurità, amore-solitudine, felicità-angoscia, storia-natura.

C'è la sfida verso le norme e le convenzioni, ma anche il desiderio di rinchiudersi nel guscio a cercare carezze e calore. Ci sono ricordi d'amore che esplodono come tempeste destrutturando anima e corpo. C'è una vita da carcerati sotto occhi cattivi ed una vita da carcerieri pronti a far male. Ci sono intese che diventano illuminazioni, ricerca di un nuovo sé, senza però che un orizzonte sia definito. Ci sono alternative apparenti come lampi nel buio e c'è bisogno di reinventarsi ogni mattina.


E' una poesia complessa nella fusione tra contenuti e forma. Letizia, nonostante che la sua pratica poetica fosse recente, dimostra, infatti, una notevole maturità espressiva di linguaggio.

Prendiamo una delle poesie più belle, “Scriptoria”, quella da cui abbiamo tratto anche il verso che dà il titolo a questo libro .

Sei la mano che cura

la ferita del tempo

e cascata che scroscia

liberando il pensiero

sei fiore che sboccia

sulla nuda scogliera

ed un vento che batte

ripulendo la mente

dall'unto dei giorni


Sei tamburo che rulla

nella viscera nuda

ed il passo di danza

del giullare di corte

sei la mano protesa

nel solstizio del giorno

e ossessione dell'oltre

che ritorna reale

dopo questa commedia

Colpisce ad una prima lettura la musicalità.

E' una poesia da leggere e rileggere a voce alta, da declamare. Scriveva Hans Georg Gadomar (massimo esponente dell'ermeneutica di matrice heideggeriana) “comprendere vuol dire anzitutto soffermarsi lungamente e ripetutamente sul linguaggio, saggiarne, esplorarne le possibilità di senso”. E “Scriptoria”, infatti, è intensa ed insieme musicale. Questo ritmo incalzante è dato dalle anafore (il verbo “sei” ripetuto matematicamente e ossessivamente quattro volte, due per ogni strofa, a cui si collega -dilatandolo- la congiunzione “e”), che danno a “Scriptoria” quella concatenazione musicale, altamente teatrale, che si ritrova in diverse altre poesie, sopratutto nella più disperata e magnifica “Solitudine di un naufrago”.

Colpiscono pure l'uso e la forza delle metafore. E questa poesia ne è piena. E tuttavia, anche senza comprendere fino in fondo il plurisenso delle metafore, la loro estensione simbolica, la poesia funziona lo stesso. Per la forza della parola nel suono ora forte, ora sensuale, ora musicale (cascata che scroscia, fiore che sboccia, sei tamburo che rulla, nella viscera nuda). Per la visionarietà, la dinamicità e la sonorità delle immagini.

C'è infine, sottile, lo spessore dialettico dei contenuti. Da una parte attimi di palpitante amore-protezione-esaltazione; dall'altra in un solo verso, alla fine, come una micidiale

stoccata, l'illusione di tutto quanto (“e ossessione dell'oltre/ che ritorna reale/dopo questa commedia”).

Scriviamolo chiaro: la poesia di Letizia non è, quindi, la solita raccolta, di chi ha qualche buon sentimento da spargere in un ambiente che la conosce e che le vuole bene (le amicizie, i parenti). E' poesia vera e, a volte, grande poesia, che rappresenta una crisi individuale e insieme sociale, con intarsi lessicali e metaforici inusitati e qualche volta suggestivamente enigmatici, con una sonorità e una visionarietà accorate e tambureggianti. Una poesia da non disperdere nell'oceano soffocante di carta di tanti velleitarismi poetici.

Letizia Pantani. Sei tamburo che rulla.


"Di Donne e Di Gatti" di Gemma Rota Surra

di Maurizio Della Nave

Tempo fa un’amica mi regalò un piccolo libriccino elegante e bello al tatto (come tutta la carta ed i libri che con essa si creano) ma era così piccino che si nascose tra tutti gli altri libri più grandi… Il caso (o il destino) ha voluto che uno dei due gatti che dividono con me la casa, giocando su un basso scaffale, facesse cadere un mucchio di libri sul pavimento e dunque raccogliendoli ecco che il piccolo libro scomparso volle farsi ritrovare…
Dodici novelline che si leggono in una sera sul divano, preferibilmente con accanto qualche piccolo felino, mischiando nel silenzio della lettura le emozioni e i misteri delle affinità tra la donna e il gatto. Ogni breve novella contiene in sé una lunga storia i cui significati e le cui sfumature emergono ancor più in una loro rilettura (che certo in modo minore può essere coinvolta dalle emozioni del primo incontro con i racconti)… Per di più illustrate con splendide riproduzioni di “gatti vestiti” recuperati da alcune cartoline disegnate da A. Dreher nei primi anni del ‘900.
Un libretto, forse unico nel suo genere, in cui i protagonisti sono gli amici gatti, ritratti, studiati, descritti, analizzati, semplicemente amati nelle loro mille diverse sfaccettature, e poi le donne, che della magia felina hanno spesso qualcosa. Seppur nella sua brevità, contiene tra le sue pagine storie intense e capaci di suscitare forti emozioni, indagando sulle tematiche della solitudine, dell’amore, della vita…
L’essenza di gatti imprevedibili e possessivi, compagni tenerissimi acrobati pigroni giocolieri, la quotidianità di donne sensibili che potevano confondere la propria vita con quella dei felini; sul “valore aggiunto” dai gatti alla vita degli umani non ci sono evidentemente dubbi. Del resto, il musicologo tedesco Schweitzer diceva che “ci sono due modi per fuggire l’umana miseria: suonare l’organo e osservare i giochi dei gatti”. (Maurizio Della Nave)

Titolo: Di Donne e Di Gatti.
Autore: Gemma Rota Surra.
Editore: Neos Edizioni (Torino, 2008).





"La mia parte" di Carla Reggiannini

di Luciano Luciani

Una raccolta poetica di 65 testi potrebbe anche sembrare relativamente cospicua. Questo se non tenessimo conto della indicazione che ci viene dall’Autrice: le poesie comprese nella silloge sono state composte tra il 1985 e il 2009. Ovvero un arco di tempo di quasi 25 anni, un quarto di secolo: un battere di ciglia rispetto al respiro della storia, ma un tempo lungo nella vita di una persona. Un dato, questo, significativo di un pudore che si fa filtro severo nei confronti della propria parola poetica, del proprio lavoro di indagine e scavo interiore che sono rivendicati, con qualche orgoglio, nel testo che apre il canzoniere di Carla, Poesie scrissi e scrivo, che, come tutte le poesie poste in apertura di una raccolta, vuole fornirci le coordinate circa la poetica dell’autrice: il”cosa” e il “come” e il “perché” della sua ricerca tra le emozioni e le suggestioni della vita da trasformare in poesia.

Ovvero il raccontarsi: spiegare agli altri, e a se stessa, la propria vicenda umana dentro il segmento di storia che c’è stato dato da vivere. Riagganciarsi programmaticamente alla tradizione alta della nostra poesia: i padri fondatori, Dante, Petrarca; l’idea di una poesia classicamente governata di Leopardi e trasfigurata dalla specifica cadenza del canto; l’istanza autobiografica e narrativa di Saba e il segno montaliano della disillusione e dello scacco; riscattati l’uno e l’altra dai due figli della Speranza, Indignazione e Coraggio (come da citazione di sant’Agostino che apre l’introduzione di Carla). Perché, poi, scrivere poesie? Perché la poesia è “un’ancora di salvezza”: per esempio, dalla perdita di senso, direzione e significato che appare sempre più come il grave male dei nostri anni confusi e malmostosi.

65 testi: poesie di memoria, d’amore e d’amicizia, di bilancio esistenziale... Un omaggio alla città delle proprie radici, Lucca. Poesie familiari, il padre, la madre… Poesie di stagioni, di mesi dell’anno, di piccoli animali, cani, gatti, metafore trasparenti di stati d’animo, sentimenti, emozioni...

Forse un eccesso di elementi riflessivi appesantisce la freschezza dell’ispirazione e la libertà del canto lirico che ritroviamo, invece, in un paio di poesie d’amore: Nell’attimo supremo,(p. 22) e Come per caso,(p. 87), in cui le parole del pudore e della riservatezza si fondono con quelle della passione e si trasformano nel lessico del gioco amoroso, del trasporto erotico.

Intensi, di una carica emotiva forte e insieme controllata, i versi dedicati ai genitori, A mia madre (p.70), e A mio padre (p.71) in due testi separati e distinti. E, se è netta e positiva la simbologia arborea che identifica la madre e ne definisce la personalità e i caratteri morali, dolenti, invece, e percorsi da un senso diffuso di sofferenza e disillusione i versi rivolti al genitore, riscattati da un’affettuosa, quasi carezzevole clausola finale.

Meritevoli, poi, d’attenzione alcuni rapidi quadretti di sensibilità impressionistica, Ottobre sulle mura, (p. 33), Autunno, (p. 35), Ottobre, (p. 41) a conferma di una particolare felicità compositiva che l’Autrice ottiene quando il tratto è veloce, appena accennato, leggero e poco concede al controllo raziocinante o a una tensione un po’ declamatoria che, talora, sembra prendere l’Autrice nei suoi componimenti più strutturati.

Siamo comunque grati a Carla Reggiannini per questa sua operazione che è culturale e letteraria, civile e umana: quella di aver utilizzato le parole e le immagini della poesia per raccontarci della difficile abitabilità del nostro presente; per averci insegnato la sua come usarle, queste parole e queste immagini, per cercare di mettere ordine al tumulto del cuore; per aver realizzato con questa raccolta poetica un salutare antidoto, un benefico contravveleno agli umori cattivi di questi nostri anni “insensati”, disorientati, delusi. Un tempo in cui energie spaventose dormono sonni leggeri...

La parola, certo, non è l’unico deterrente, né il più potente, nei confronti della barbarie sempre in agguato, ma è quello che, a livello molecolare, ottiene i risultati migliori e i più duraturi.

Carla Reggiannini, La mia parte, collana Voci nuove, prefazione di Mario Lena, Maria Pacini Fazzi, Lucca, 2011

“American Dreamers” mostra a cura di Bartholomew F. Bland

di Mira Giromini

Wherever this flag’s flown
We take care of our own
B. Sp

L’arte contemporanea ha un duplice effetto: attrae e ripugna, questo perché è difficile avere un occhio critico sul presente. Come la vita di un uomo ha un passato da raccontare, un futuro da immaginare e un presente da vivere così gli artisti contemporanei, poggiano le loro basi culturali sui passi dei maestri del passato, con una sensibilità che li rende unici si fanno portavoci del presente, dal quale traggono nuove idee per progettare e qualche volta orientare il futuro.
American dreamers è una mostra realizzata dal CCCS (Centro Cultura Contemporanea Strozzina) di Firenze, curata da Bartholomew F. Bland mette a confronto undici artisti americani contemporanei che cercano di rispondere alla domanda: che cos’è, oggi, il sogno americano?.
La mostra è una riflessione critica di cosa sia stato il sogno americano statunitense, se esiste ancora e se avrà ancora un futuro. Molte sono le differenze tra la cultura italiana e quella americana in particolare gli Stati Uniti sono ancora conosciuti dagli europei come la nazione della libertà: attraverso un duro lavoro e la fede nelle potenzialità dell’individuo, qualsiasi uomo può raggiungere prosperità, successo e la possibilità di un riscatto sociale; il mito americano, che faceva parte di quel sogno è stato per tanto tempo e lo è ancora ora, la casa, simbolo per eccellenza di successo economico, possesso, sicurezza, luogo di ritiro per l’individuo e il suo nucleo famigliare.
A partire da alcune scelte politiche, dettate da questa ideologia, dalla bolla immobiliare dei primi anni del 2000 e la sua esplosione nel 2009 si è creato un duro screzio nella società contemporanea, con ripercussioni anche gravi sulla politica e sull’economia americana e di conseguenza mondiale. E’ inevitabile che gli artisti, sensibili al profondo disagio sociale mettano in crisi e riflettano sui valori e i credi su cui si faceva affidamento ed esprimono tutta l’incertezza di cui l’arte d’oggi si fa carico.
Il prima artista che si incontra in mostra è ADAM CVIJANOVIC (1960) che è stato invitato a fare un affresco ed ha rappresentato un paesaggio leso e contaminato, tutto il contrario di quello che in America era il mito del paesaggio della “terra promessa” inviolata. Il pittore mette in luce la fragilità della casa, introduce il tema del terrore delle catastrofi naturali oltre a quello della speculazione immobiliare, e della lacerazione del paesaggio, il tutto immerso in un cielo ancora terso, il sogno americano è la presenza insieme di bellezza e paura.
Il sottotitolo della mostra è “realtà e immaginazione nell’arte americana; il fatto è che il confine delle due si fa lieve nel momento in cui la realtà, così cruda e difficile si avvicina sempre più a uno scenario apocalittico e immaginifico; mentre certe figure idilliche, potremmo dire “caramellose” degli anni 50’ che l’America esaltava ed inseguiva si avvicinano sempre di più ad un esito drammatico, verso un possibile declino. Realtà ed immaginazione si confondo tra loro anche se su entrambe prevale la fantasia. Ai due estremi della mostra sono proprio THOMAS DOYLE (1976) e WILL COTTON (1965); mentre il primo costruisce con minuziosa precisione micro-mondi sotto vetro che rappresentano la vita quotidiana delle periferie urbane, il secondo, famoso per essere lo scenografo di Kate Perry, ritrae donne seducenti secondo uno stile fortemente realistico. Ad un occhio più attento sarà inevitabile osservare che le scene rappresentate da Doyle sono caratterizzate da un’atmosfera oscura e inquietante e sottolineano una tensione in bilico tra la visione idillica della vita di periferia e l’attrazione per gli spazi visionari, fantastici a volte horror. La ritrattistica di Cotton, invece, facendo continui riferimenti alla cultura del Settecento (nella grandezza delle tele, nella ricerca dei colori di Boucher e Tiepolo) si appropria dei desideri dell’America capitalista ambientando le sue figure in un mondo fatto di dolciumi e caramelle, assegnando così ai suoi frivoli soggetti una profonda contraddizione a metà tra la fantasia e il forte realismo.
Anche LAURA BELL (1972) rompe con la dimensione del reale per creare figure immaginarie; i suoi lavori sono acquarelli delicati ma complessi che alludono al sogno, al fantastico e al subconscio così come ADRIEN BROOM (1980) realizza fotografie che prendono spunto dalle fiabe e dalla fantasia e rientrano in una dimensione soprannaturale.
Un’altra componente dell’arte americana contemporanea è l’attenzione alla manualità, all’artigianalità, all’utilizzo degli elementi quotidiani; a questo proposito è NICK CAVE (1959) che alla sua esperienza di danzatore e artista contemporaneo unisce l’idea delle pratiche rituali collettive e nel teatro d’avanguardia e crea i cosiddetti soundsuits, sculture indossabili colorate e stravaganti. Questo tipo di arte ha le sue basi culturali nell’esplosione di vitalità degli eventi collettivi americani; che caratterizza parte del pensiero americano e che ha creato un vero proprio movimento che prevede di comunicare attraverso la rete internet e così condividere e organizzare il proprio tempo libero, cercando uno stile di vita alternativo. Il lavoro di Cave tenta di trasmettere l’idea di un’arte che sia più pratica che concettuale, e di sostituire l’idea di singolo artista detentore e produttore dell’Arte con quello di una collettività che condivide tecniche, tradizioni e la cosiddetta etica del fai da te (Do it yourselft: D.I.Y. ethos).
Si tratta di un concetto nuovo che introduce l’idea di “comunità”, anche virtuale, che opera esaltando l’atto creativo come espressione dell’interiorità di ciascuno in rapporto con gli altri e che ha fatto emergere fenomeni come il collective consumption o consumo collettivo.
A proposito di artigianalità e di lavorazione manuale, attraverso l’utilizzo anche di materiali quotidiani si possono introdurre due altri artisti, che si trovano in mostra: MANDY GREER (1973) e KIRSTEN HASSENFELD (1971); il primo crea degli spazi teatrali o installazione con l’uso di oggetti e materiali dismessi il secondo costruisce sculture modellando la carta (piegandola, arrotolandola, avvolgendo fogli) conferendogli il gusto di “fatto a mano”.
Un’altra differenza tra il pensiero americano e quello europeo sta nel credere veramente nelle proprie potenzialità; al di là di un disfattismo e un fatalismo diffuso, l’americano riconosce che dalle crisi ci si può rialzare e ricostruirsi da soli (vedi Bruce Sprinsting); si avverte, in mostra, l’individualismo e l’ottimismo quali tratti comuni della società americana, e l’ispirazione che dirige la tendenza a creare “cose belle” e non più disgustose. Vi è la ricerca nostalgica verso mondi interiori e spirituali; e il fatto che sono cambiate le ideologie, come per esempio l’idea economica di possesso, fa sì che si cambino anche le identità: essere trendy, in questo momento non vuol dire possedere ma condividere (vedi per esempio carsharing).
Le opere, in mostra, sono legate anche ad un’altra componente tipicamente americana che è quella della fantasia, della ricerca di una realtà alternativa che non abbia per forza un fondamento di paura, di critica alla società o peggio ancora di fuga dal mondo reale, quanto piuttosto e semplicemente la ricerca del gioco e “della gioia di vivere”.
Dunque chi sono oggi gli americani e cosa saranno è tutto da vedere in base alle nuove ideologie che cambiano e si costruiscono e che creano a loro volta scenari diversi e nuove identità.
Lievito antropologico, fornisce….inteto
American Dreamers. Mostra realizzata dal CCCS (Centro Cultura Contemporanea Strozzina) di Firenze, curata da Bartholomew F. Bland. 9 marzo-15 luglio 2012.

03 aprile 2012

"Ogni pensiero vola. La storia racconta" mostra fotografica di Ginfranco e Riccardo Pensa

di Luciano Luciani

Sui muri si è sempre scritto. E disegnato. Dai graffiti del Paleolitico a quelli pompeiani, paleocristiani, altomedievali… Iscrizioni calligrafiche e disegni li ritroviamo nella Valle dei Re in Egitto e nell’Agorà di Atene, nelle caserme e nelle celle delle prigioni di tutti i tempi e luoghi, nelle cantine e nelle stive delle barche. Sui banchi di scuola e nei cessi pubblici: insomma, sin dalla notte dei tempi, asserzioni di fede e minacciose provocazioni, espressioni di rabbia e/o disperazione, insulti atroci e richiami amorosi, si sono inseguiti su ogni struttura e superficie verticale (e non solo!) che la civiltà ha saputo regalare agli uomini. E questo è avvenuto e avviene ai quattro angoli del mondo – dai diversi Bronx di New York alle banlieue parigine, dalle baraccopoli di Lagos e Calcutta alle stazioni della metropolitana di Mosca – in una misura che aumenta in maniera esponenziale a mano a mano che ci avviciniamo ai giorni della nostra contemporaneità.

Psicologi e sociologi hanno parlato di una sorta di “istinto segnico”, quasi una prerogativa della condizione umana: una pulsione oscura alla ricerca di una qualche forma di incerta immortalità attraverso “operette murali” fatte ora di rozze immagini, ora di parole, ora delle une e delle altre mixate assieme. E, come avviene nella letteratura popolare e nei fumetti, anche nell’universo dei graffiti si può trovare tutto e il suo contrario: ogni tanto, in mezzo a un mare magnum di pancottiglia convenzionale e ripetitiva, capita di scorgere la pepita d’oro di un piccolo gioiello verbale, di un ignoto capolavoro frammentista, di una trasgressione aforistica, magari violenta ma geniale. I meno giovani non potranno non richiamare alla memoria la grande fioritura “graffitara” della fine degli anni sessanta. Come dimenticare la straordinarie novità comunicativa rappresentata allora (e anche oggi!) da certe icastiche affermazioni che venivano direttamente dai boulevard parigini e dalle aule universitarie del maggio francese? Ricordate? “Proibito proibire!”; “Siate realisti, chiedete l’impossibile”; “Un uomo non è stupido o intelligente: è libero o non lo è”; “Non mi liberare, me ne occupo io!”

Ogni tanto qualcuno, disturbato da un fenomeno sempre più vistoso e che in taluni luoghi urbani ha raggiunto (e superato!) il limite del buon gusto per assurgere alla dimensione più grave della deturpazione, tende sbrigativamente a censurare il muro scritto come la “lavagna della canaglia”. Per questi benpensanti, per altro in nulla disturbati dall’ossessiva invadenza di scritte, slogan, manifesti e cartelloni pubblicitari che deturpano (quelli sì!) gli splendidi scenari del Bel Paese, tutta l’attività dei writers sarebbe da ricondurre sotto un’unica, grande categoria: quella del teppismo da affrontare solo e sempre con misure di ordine pubblico.

Non siamo d’accordo, ma comunque se ne può discutere. Così come si può ragionare intorno agli antidoti per evitare gli eccessi: un’educazione diffusa al buon gusto, per esempio; crescita del senso di appartenenza a una comunità, e quindi rispetto verso i suoi luoghi e i suoi spazi; ambiti deputati per contenere e regolare quello che appare come un incoercibile bisogno di soggettività. Ma questo compete agli amministratori, agli educatori e a tutti i cittadini forniti di buon senso civico.

Una mostra fotografica, invece, persegue altre finalità: documenta uno stato di cose e cerca di farci riflettere sulle cause e le conseguenze; richiama la nostra attenzione intorno a una espressività generalizzata e capace, talora, di non rari esiti di intelligenza e bellezza, a volte cercati, più spesso inconsapevoli. Questo ci raccontano gli “scatti” realizzati con la consueta abilità e competenza da Gianfranco Pensa, con la collaborazione del figlio Riccardo, a cui non fa difetto, per fortuna, un sano, sottile filo di ironia nella scelta e negli accostamenti delle tavole. Un percorso per immagini che ci aiuta a decifrare il lungo, dissacratorio, commovente, irridente, ingiurioso, minaccioso, sgrammaticato, poetico, “libro dei muri”. E nessuno dimentichi l’ammonimento chiastico, vergato a spray, che abbiamo letto recentemente in una piazza toscana: “Muro pulito, popolo muto”.

Mostra fotografica di Gianfranco e Riccardo Pensa. Ogni pensiero vola. La storia racconta”. Atrio del Palazzo comunale di Capannori. Piazza Aldo Moro – Capannori.

28 marzo – 12 aprile


"Un gruppo, un paese 1971 – 2011, Quarant’anni di vita e ricordi a Paganico" di Luciano Fanucchi

di Luciano Luciani

Ogni biblioteca, piccola o grande che sia, contiene sempre nel suo catalogo per argomenti la voce ”localistica”. Si tratta, in genere, di un corpus di pubblicazioni che trovano la loro ragion d’essere nella volontà di mantenere e difendere la memoria di una porzione circoscritta di territorio: un piccolo comune, oppure un borgo, una frazione, con la sua storia minore o addirittura minima e i suoi incroci con la storia grande, quella con la S maiuscola. I suoi personaggi memorabili, il dialetto, i proverbi, i modi di dire, le memorie familiari e quelle di lavoro e di emigrazione, le pratiche religiose e alimentari, gli usi e le abitudini peculiari che hanno reso quella piccola parte di mondo un unicum originale e irripetibile.

Sono diffusissime le pubblicazioni di questo genere: ieri, tirate modestamente al ciclostile in poche decine di copie, oggi, grazie agli straordinari progressi della tecnica tipografica, prodotte in vesti grafiche più curate e appetibili, ricche di foto e colori. Alla loro stesura, ieri come oggi, hanno lavorato e lavorano legioni di eruditi locali, di oscuri ricercatori, di annalisti sconosciuti a cui, se va bene, toccherà, forse il riconoscimento di una nota a piè di pagina.

A questa editoria marginale, periferica gli storici di professione, gli addetti ai lavori della Grande Storia, gli Accademici guardano di solito (non sempre, ma di solito!) con un certo sussiego, con sufficienza, restii a concedere legittimità di materiale e di lavoro storico a tali esperienze.

E invece sbagliano!

Sbagliano perché in queste pagine, magari talvolta ingenue, talora non del tutto professionali, si accumulano tesori di informazioni dimenticate, patrimoni di notizie minime apparentemente trascurabili e invece importanti, dettagli a prima vista poco significativi, ma essenziali per ricostruire la vita quotidiana di una comunità, i rapporti culturali e sociali veri, concreti, materiali tra gli uomini in carne e ossa di un certo tempo in una data area. Pubblicazioni preziose soprattutto perché consentono di ricostruire il clima, la temperie “morale” e “sentimentale” delle sempre numerose piccole societas, delle tante “piccole patrie” che costituiscono ancora oggi, tanta parte della vita civile del nostro Paese.

Tutti elementi, questi, che ritroviamo nel libro Un gruppo, un paese 1971-2011. Quarant’anni di vita e di ricordi a Paganico.

L’autore, Luciano Fanucchi, attraverso le foto, in bianco e nero e a colori, ritagli di giornale, i disegni dei bambini, le riproduzioni di lettere, ha giustamente dato alla pubblicazione un carattere corale, collegiale, collettivo, che è, già di per sé, un’importante indicazione di metodo e di un clima culturale. L’Autore è un portavoce: uno che, per spirito di servizio riguardo alla memoria collettiva, parla di tutti e a nome di tutti. Ci sono i capitoli istituzionali, ma non per questo meno significativi, dedicati alla storia e alle attività del Gruppo Fratres: la raccolta delle donazioni e la loro organizzazione impossibile senza una veste partecipata e una ricca trama di relazioni. La stessa che ha favorito, che ha creato il “brodo di coltura” all’interno del quale hanno potuto prendere le mosse e realizzarsi tante e tante altre attività, manifestazioni, iniziative ludiche e conviviali come la Sagra del Taglierino o il Carneval/Paganico; senza dimenticare la recente inaugurazione del Monumento ai Caduti: esemplare per assenza di retorica, modalità di realizzazione (progetto ed esecuzione affidati ai docenti e agli studenti dell’Istituto “Giorgi” di Lucca) e novità di criteri estetici. Poi, non si trascurino alcune pagine “alte”: quelle che raccontano le esperienze di solidarietà internazionale di Paganico verso le ragazze di Cernobyl, i ragazzi di strada del Congo e i bambini della Costa d’Avorio. Gesti collettivi che dicono tanto circa il tono civile di una comunità, ma che sono destinati probabilmente a rimanere con poca o punta memoria, perché, di norma, chi fa il bene non si preoccupa granché di documentarlo.

Libro utile e bello, anche nelle sue pagine più tradizionali, ma non per questo meno dense dal punto di vista documentario e storico-antropologico: per esempio, le sezioni dedicate agli indovinelli, tiritere, scioglilingua, filastrocche, ninne nanne... Un repertorio umanissimo che ha fatto bene l’Autore a raccogliere e a passare ai lettori, soprattutto ai più giovani. Perché, una volta esauritasi la generazione anziana di coloro che hanno vissuto e operato nel mondo com’era prima della trasformazione in senso industriale e consumista della nostra società, questo patrimonio di parole, non di rado poetiche, rischia di disperdersi e zittirsi per sempre. Luciano Fanucchi con il suo libro lo salva, lo mette in memoria, lo affida, fiducioso, ad altri occhi, ad altri cuori nella speranza che leggano e, soprattutto, sentano come lui.

Ma il libro per i quarant’anni dei Fratres di Paganico si presta anche ad altre considerazioni, più impegnative. Queste pagine, infatti, rappresentano la “prova provata” di una vicenda più larga e ancora in atto: ovvero che la globalizzazione, intesa come massificazione e monocultura livellatrice, non è passata, non ha vinto, se non a livelli superficiali, marginali.

Perché di fronte alla spinta, apparentemente inarrestabile, formidabile della omologazione e dell’appiattimento culturale, a una osservazione attenta possiamo individuare controspinte, tendenze “altre” e originali. Un moltiplicarsi di fenomeni ed esperienze di opposizione alla monocultura: gruppi, movimenti, circoli, riviste, pubblicazioni on-line o di carta, manifestazioni, attività, iniziative molecolari, ma unificate nella comune intenzione di difendere la propria cultura come originale e individuale, valorizzare il dato locale contro la massificazione e sinceramente interessati a riscoprire identità apparentemente dimenticate o rimosse.

Quarant’anni di iniziative dimostrano che anche Paganico è all’interno di questo vasto e ricco movimento di esperienze di opposizione alla omologazione e alla massificazione e che la frazione capannorese fa parte, di buon diritto, di una auspicabile Federazione per la difesa delle Biodiversità culturali: unita a tanti altri soggetti nel considerare la civiltà umana non come un’unica vicenda organica, ma come una somma di realtà diverse, di differenti culture, di specificità, di eccezioni, di articolazioni: Un intero mondo di valori, memorie e buone pratiche: un mondo insieme a un milione di altri mondi diversi. Quello raccontato in questo libro si chiama Paganico, ha un cuore antico e, quindi, non potrà che avere un futuro.



Luciano Fanucchi, Un gruppo, un paese 1971 – 2011, Quarant’anni di vita e ricordi a Paganico, Gruppo Donatori di Sangue Fratres Paganico, 2011