27 giugno 2016

"I quadri con i quali si può vivere" rileggendo Mario Praz




di Davide Pugnana

Godibilissimo anche, e soprattutto, per gli aneddoti autobiografici, questo "fiore fresco" di Mario Praz non ha perso il suo profumo di colta conversazione. L'interrogativo di sociologia del gusto estetico popular-'snob' - se così si può chiamare un fenomeno variamente screziato - ruota attorno alle intenzioni (non estetiche, ma di 'presenza' e 'convivenza') che guidano l'acquirente nel momento della scelta dell'oggetto d'arte.

 Che cosa muove l'elegante signora che vorrebbe "acquistare un quadro di valore" e rifiuta il piccolo paesaggio olandese da venticinque lire? Oppure, quale impulso cerca di placare il "non molto distinto" signore, "senza dubbio facoltoso", che entra dal libraio per acquistare un indistinto "mezzo milione di lire di libri"?

Perché vi fu un'ondata collezionistica nella quale gli americani facevano a gara per appendere alle pareti delle loro ville un Filippo Lippi non "cieco", ossia provvisto di uno sfondo paesaggistico? E perché un "illustre amico" tiene appeso in "camera da pranzo una scena d'ospedale di Subleyras, grande da occupare tutta una parete", inibendo ogni stimolo di appetito negli ospiti? Nessuna analisi formale degli accordi cromatici o della composizione - continua Praz - varrebbe a mitigare o giustificare l'insopportabile presenza/convivenza di queste iconografie funeree. Diverso sarebbe se alle stesse pareti ci fosse un Morandi: "le cui eteree bottiglie, le cui larve di mezzine di rame veramente offrono un minimo di suggestione contenutistica". La "Giuditta" del Caravaggio, a Palazzo Barberini", fu portato da una signora nel negozio dell'antiquario Sebasti, in via Fontanelle Borghese Borghese a Roma, perché "la vista in casa sua le era divenuta intollerabile per via della orribile testa recisa di Oloferne"; ma l'antiquario la rifiutò.

 Ci ritroviamo, così, nella logica di un giudizio di gusto che confonde la vita con l'arte e giudica la seconda col metro pratico della prima: l'opera 'non mi piace' perché la presenza del suo soggetto è sgradevole, ossia non può essere esibita su quel palcoscenico mondano che vede la teatralizzazione della parete, fatta schermo ameno per il pubblico dei miei ospiti. Continua Praz: "Eppure anche quadri in apparenza così difficili a viverci insieme ci è capitato di vedere nell'appartamento di persone che, lasciate a se stesse, probabilmente non avrebbero chiesto di meglio che di decorare le pareti con vedute di montagne e di marine. Codeste persone, delle più modeste pretese estetiche, un giorno imparano a 'saper vedere'; e non c'è nessuno come lo snob per spingere alle estreme conseguenze una voga."

Lo snob ha bisogno di mostrare al pubblico dei suo ospiti opere esaltate "dall'infatuazione del momento". Alla radice di ciò c'è la moda, la quale opera il miracolo di rendere "desiderabile vivere con cose  in apparenza destituite d'ogni attrattiva sociale". Un quadro non è un libro che, una volta letto, viene riposto sullo scaffale. Il quadro "rammemora perennemente". È un corpo; una presenza oggettuale che può essere letta a colpo d'occhio e d'un subito, nella sua potente eloquenza non verbale. E allora perché lo snob appende i quadri alle pareti? Perché sono "espressioni d'arte"? Per il tasso di artisticità, al di là del che cosa rappresentano? Non del tutto. Conclude Praz: "Perché, infine, i quadri che appendiamo alle nostre pareti non li appendiamo soltanto, siamo sicuri, perché espressioni d'arte: i quadri domestici son  come i sogni, proiezioni di desideri, di aspirazioni. E chi vorrebbe vivere sempre con sogni angosciosi? Lo snob potrà per un momento reputarsi felice tra un'acida congrega di geometriche nature morte, finché un giorno, risvegliato da un cambiamento della moda, si spaventerà di esser vissuto in mezzo a una congrega di lamie, di a un aver amato soltanto una testa d'asino, come Titania."

25 giugno 2016

"Breve storia di Domenico Tiburzi, il re della boscaglia e della guazza" di Luciano Luciani


Al confine tra Lazio e Toscana, nei territori ancora selvaggi compresi tra la provincia di Viterbo e quella di Grosseto verso la seconda metà dell’Ottocento, per l’esattezza al 23 ottobre 1867 Domenico Tiburzi, detto Menico o anche Domenichino, è ancora un pacifico suddito della Stato Pontificio. Vive nella piccola comunità di Cellere e fa il pastore: una vita, la sua, povera, anzi poverissima, ma onesta. Fino a quando, la sera di quel giorno maledetto, un guardiacaccia del marchese Guglielmi, un proprietario fondiario del posto, lo sorprende con una balla d’erba sulle spalle. Erba del marchese, e, il guardiacaccia, ligio, multa Tiburzi a una somma che supera di gran lunga il valore del povero gregge, che era l’unica ricchezza, l’unica possibilità di sostentamento per il nostro pastore.

Il guardiacaccia è irremovibile e Tiburzi, convinto che tra disperati ci si debba aiutare e maltrattare, giudica il guardiacaccia, Angelo Del Bono, un traditore e lo ammazza. Tiburzi ha poco più di trent’anni. Resta per quasi due anni, libero, alla macchia, poi è preso, processato e condannato a 18 anni che sconta nelle saline di Corneto. Tre anni più tardi, nell’estate del 1872, riesce a fuggire e da allora inizia la sua leggenda di brigante inafferrabile.
 

Non agisce da solo, ma con un luogotenente, il fido Biagini detto il Curato perché in gioventù è stato in seminario, e un cane di pelo rossastro, Toppa, un botolo ringhioso con tutti, ma devotissimo ai suoi padroni.

Non uccideva quasi mai, Menico, se non costretto, e non rubava: aveva istituito una specie di legge sul brigantaggio. A pagare erano i signori del luogo e, in cambio, il bandito prometteva di vigilare sui loro beni, difendendoli dalle scorrerie dei briganti. Una sorta di assicurazione, oggi diremmo che pretendeva il pizzo. Tiburzi si sentiva un giustiziere. Il suo motto era: “Ne tolgo dove ce ne sono troppi e ne metto dove 'un ce n’è punti” e così giustificava a se stesso e agli altri i furti e i ricatti, le minacce e le estorsioni, i rapimenti e le aggressioni a mano armata.
Per chi non pagava c’era prima un’ammonizione, poi una bastonatura, eseguito dal suo fidato luogotenente, e solo per ultimo, e solo se necessario, il colpo di fucile.


Aveva fama di uomo giusto e buono, nomea probabilmente usurpata e dovuta alle deformazioni che opera spesso la cultura popolare.
Col tempo si fece sempre più esigente e raffinato; abiti costosi, biancheria finissima, si portava sempre dietro saponette e asciugamano. Galante verso le donne: tutte o quasi. Amori fugaci da brigante; duravano un giorno, una settimana… La moglie del brigante, Veronica, sapeva e lasciava correre. Anche perché, a dire di Menico, erano le donne ad andarlo a cercare e così gli spezzavano la monotonia delle lunghe giornate passate a giocare a carte col Biagini…
Le donne, volendo, lo trovavano. I carabinieri, mai.


Aveva una vastissima rete di “simpatizzanti”, di informatori che Tiburzi premiava e pagava. E uccideva spietatamente quando tradivano.


Amava mangiare bene e spesso si sedeva in qualche osteria e consumava pasti abbondanti, lasciando anche pagato da bere per i carabinieri che lo inseguivano. La voce popolare diceva che si fosse spinto fino a Parigi a fare la vita del signore e che potesse usufruire di facoltà soprannaturali, sparendo e riapparendo a suo piacere nel cuore dei roveti più fitti ed impenetrabili.


Il suo declino inizia verso la fine degli anni ottanta.
I carabinieri gli uccidono il Biagini nell’estate dell’89 e lo feriscono a un ginocchio. La sorpresa e il dolore sono tali che diventa paranoico: vede traditori dappertutto, macchinazioni, insidie... E il suo nuovo luogotenente, Luciano Fioravanti di Bagnoregio non è certo all'altezza del leale Biagini: soprattutto non gli è amico. A poco a poco con i suoi sospetti finisce col distruggere il mito che egli stesso  si era costruito.


Nel 1893 la “botta” decisiva. Contro di lui viene istituito un processo – secondo il capo del governo, Giolitti, lo scandalo delle connivenze e della coperture doveva finire – e centinaia di persone vengono convocate a Viterbo. È il colpo di grazia. Quelli che negli anni d’oro si erano vantati della sua amicizia ora lo sfuggono e lo disprezzano. Sulla sua testa pende una taglia di 5000 lire, una cifra che poteva fare gola a molti.
Ormai vecchio e stanco Tiburzi si rende conto che quell'aura di difensore dei deboli e degli oppressi che gli aveva garantito una fitta trama di connivenze e complicità e, di conseguenza la libertà, rischia di diventare la sua prigione.


Arriviamo al 1896. Più per vincere la solitudine che per reale necessità insieme al Fioravanti si arrischia a entrare a una casa di campagna nei pressi di Capalbio. Il contadino li accoglie,  apparecchia, dà loro da mangiare e da bere. Forse avverte anche i regi carabinieri che si aggirano da quelle parti. Prudentemente le Fiamme d'argento chiedono rinforzi, circondano la casa, cominciano a sparare. Tiburzi si fa sull’uscio. Lo feriscono. Quando i gendarmi si fanno sotto urla: “Sono Tiburzi. Uccidetemi”.  Ma le forze dell'ordine lo vogliono vivo. Allora Tiburzi cerca di mettere mano alla pistola. I carabinieri lo finiscono a colpi di fucile.


È il 23 ottobre 1896. Dopo 22 anni Tiburzi, ormai sessantenne, chiude la sua carriera. “Il suo corpo, portato in paese, fu legato ad una scala dritta per essere fotografato… Una processione di gente corse a vederlo; molti erano sinceramente addolorati e qualcuno lo rimpiange”.
Le sue spoglie vengono raccolte nel piccolo cimitero di Capalbio.


In Maremma, ancora mezzo secolo fa, c’era qualche anziano che raccontava, con una punta di orgoglio, di averlo conosciuto o almeno visto da bambino.

"Il burattinaio dell'ultimo zar: Grigorij Rasputin" di Marco Natalizi




 
di Luciano Luciani

Una coppia di sovrani maledetti. E anche religiosi storditi, nobildonne confuse e insaziabili nelle loro voglie, ministri incapaci, politici inadeguati, giornalisti prezzolati... E i più esclusivi salotti di San Pietroburgo nel momento più tragico di un impero, quello zarista, mentre un pellegrino, lussurioso e astuto, emerge dalla più profonda provincia siberiana e muove alla conquista di un pezzo di paradiso. Si chiama Grigorij Efimovič Rasputin ed è destinato a esercitare un potere straordinario, al limite del plagio, sulla coppia più ricca, illustre e importante del mondo di un secolo fa, lo zar Nicola II e sua moglie, la zarina Alessandra.

Quale lo strano maleficio esercitato alla corte dello zar e nell’impero dal “monaco errante” giunto dalla Russia remota?  Di quali protezioni gode? Quali  alleanze lo sostengono? Quale il suo ruolo nella catastrofe che, pochi mesi dopo la sua morte, travolgerà i Romanov?

Problemi ancora non del tutto messi a fuoco, fitti di zone d’ombra, sostanziati di dati, magari abbondanti, ma contraddittori, di fonti d’informazione tanto copiose quanto incoerenti. Accostarsi a Rasputin oggi, a cento anni dalla sua tragica fine, significa avvicinare una leggenda nera. Raccontarlo significa narrare insieme un'epica straordinaria e mettere a nudo il cuore occulto di oltre un secolo e mezzo di storia della Russia, lo sterminato Paese tra Europa e Asia retto da un imperatore forte di un dominio illimitato. “Il Signore ci ha dato il potere imperiale sul nostro popolo”, afferma lo zar Nicola II ai suoi ufficiali nei primi giorni del gennaio 1900 per festeggiare l'inizio del nuovo secolo XIX “e solo davanti a Lui noi risponderemo dei destini della potenza russa”. L'autocrazia russa viveva, dunque, apparentemente ignara, su un vulcano in ebollizione e sul punto di esplodere anche se agli occhi dei circoli dominanti e all'opinione pubblica internazionale mai, come in questa occasione, la dinastia dei Romanov aveva offerto un'immagine di sé così solida e intangibile.

Ma si trattava, come confermano gli storici, anche i più benevoli, di un gigante dai piedi d'argilla.
Masse rozze, superstiziose e ignoranti crescevano sia nelle campagne sia negli agglomerati proletari delle città, segnate da una secolare indifferenza e immaturità politica mentre una ristretta minoranza di fortunati godeva dei vantaggi del regime: privilegi fiscali, posizioni di rendita in campo agricolo e industriale, alti incarichi nell'amministrazione statale, nel sistema d'istruzione o nella burocrazia dell'esercito.  Ne erano consapevoli solo alcuni spiriti più avvertiti e lungimiranti che riscontravano con preoccupazione come tra le ristretta classe dominante e la collera popolare si frapponessero ormai solo “le prigioni e le baionette”. Ma per la gretta minoranza che deteneva il potere l'ordine sarebbe tornato a regnare, però, solo se fosse stato restaurata, e in tutta la sua pienezza, l'autocrazia: quella forma di governo nella quale il potere  è riservato a un unico soggetto, indipendente tanto dai governati, quanti dagli altri soggetti governanti, il solo e l'unico a poter garantire diritti e benessere a tutti.  Pieno di buone intenzioni, sinceramente preoccupato per i malesseri sociali che agitano i suoi sudditi, il regime zarista, però, sembra capace solo di fornire risposte che guardano all'indietro, alla tradizione di un potere  tirannico e paternalista che intende governare su un Paese arretrato e rurale. Ed è su questo scenario - un tempo  che muore e uno nuovo che non riesce a nascere - che va inserita la straordinaria avventura di Grigorij Rasputin. Figlio di poveri contadini siberiani, illetterato e quasi analfabeta, grazie alla sua fama di taumaturgo, riesce a entrare a corte e a intervenire con autorevolezza negli affari di Stato. Il suo formidabile ascendente sulla famiglia imperiale si esercita in modo particolare sulla zarina Alessandra e si fonda sul suo potere, vero o presunto, di curare Alessio, il figlio della coppia imperiale e successore al trono, affetto da emofilia. Un ciarlatano o un uomo dotato davvero di poteri fuori dal comune? Un impostore o un veggente che riusciva a vedere più lontano dei suoi contemporanei? Un ciurmatore o un santo? Di sicuro, lui e la sua vicenda rappresentano bene la crisi di un'epoca: sospesa tra una tradizione intrisa di superstiziosa religiosità e una modernità ancora più feroce, violenta e spietata del vecchio mondo.

Una vicenda oscura, densa di elementi indecifrabili, enigmatici, arcani ben raccontata da Marco Natalizi, preparato studioso della cultura e della storia russe. Con rigore di storico e pregevoli qualità affabulatorie, l'Autore ci racconta una storia sempre "al limite" tra politica e religione, tra pace e guerra, tra santità e abiezione.
Accaduta e conclusasi tragicamente cento anni fa, ma, lascia intendere Natalizi, ancora palpitante, vicina e attuale ai nostri giorni assai più di quanto possa apparire a un osservatore smemorato e distratto.


Marco Natalizi, Il burattinaio dell'ultimo zar: Grigorij Rasputin, collana Aculei, Salerno editore, Roma 2016, pp. 220, Euro 13,00

23 giugno 2016

Qualche pensiero su "Non è che l'inizio" di Gianni Quilici




“Il fatto che noi crediamo che un essere partecipi a una vita sconosciuta in cui il suo amore ci farà penetrare, è, di tutto quello che l’amore esige per nascere, ciò che più gli importa”.
Proust, “Un amore di Swann”

di Angela Palermo

Mi piace partire da questa citazione di un capolavoro proustiano per esprimere qualche pensiero sul primo romanzo di Gianni Quilici, “Non è che l’inizio”, in quanto l’essenza del romanzo (o il suo scopo essenziale?) sembra proprio il voler far entrare il lettore all’interno di una vita per molti versi sconosciuta anche al protagonista che la vive; e in questo risiede il fascino di questo “racconto di una vita”, costruito sulla magia anti-dualistica dell’essere e dell’esserci, vissuta con meravigliata assurdità dal giovane supplente protagonista: un post-adolescente dal cuore stravagante, pazzo, indocile, che teme l’insegnamento perché ne sente tutto il peso gravido di responsabilità sociale.

L’atmosfera generale che si respira leggendo, anche grazie alle bellissime foto di scorci lucchesi inserite tra le pagine, è piacevolmente esistenzialistica, di un esistenzialismo dichiaratamente sartriano e accesamente pasoliniano.

Ma “Non è che l’inizio” è anche il racconto di una dirompente passione politica tradita ma mai spenta, che permea ogni azione del protagonista,  che al lettore risuona quasi come un monito a fare, a impegnarsi, a reinventarsi, a esser-ci: “Non è vero che è tutto pronto. E’ vero che sono pronte le idee, i percorsi, gli strumenti necessari. Soprattutto, ho una grande energia dentro, ma non voglio scaricare nel vuoto (…). Lascio nel mio impegno molte riserve. L’incertezza diventa l’alibi per non fare” (pag. 39).

All’interno di questa proustiana vita sconosciuta, il nostro protagonista tenta di penetrarci e di farci penetrare, soprattutto attraverso una perturbante tensione erotico-sessuale che a tratti imbarazza il lettore per le descrizioni iper-realistiche, al limite del voyerismo. Vediamo il protagonisa abbandonarsi puntualmente al piacere con trasporto, vittima consapevole di passioni violente con donne che sono al contempo amiche, amanti, confidenti, che quasi sempre si prestano alle sue fantasie sessuali senza apparente felicità, senza il vero calore dell’amore: “Vuole, astrattamente vuole, pensai. Come me” (pag. 22).
  
E’proprio questo, credo, l’asse portante della  soggettività del protagonista: enigmatica, inquietante, paradossale, che attraverso un sesso raccontato senza alcun pudore, con una giocosità sempre al limite tra l’erotico e il trasgressivo, mette spregiudicatamente sul tappeto spinose questioni di carattere etico, dimensioni interiori con forti valenze culturali e filosofiche.

Le sue prepotenti passioni sessuali sono assimilabili a quelle di un libertino post-litteram che ha orrore della monotonia, dell’uniformità, che ricerca attraverso il sesso e la “sessualizzazione”, una molteplicità vitale irriducibile da dominare. Ma si capisce subito, dall’intonazione lirica con cui l’autore ne parla, che il primo a essere sedotto, rapito, travolto, dal flusso ininterrotto della molteplicità delle sue passioni, è proprio lui, l’autore.

Malgrado tutto questo, non riesco a non percepire una sensazione un po’ perversa che mi turba, pur nella consapevolezza che l’erotismo libertino, un po’ come il bambino in Freud, è polimorfo: è cioè per essenza trasgressivo e “perverso”. Il divino marchese de Sade ci ha insegnato  -e la psicoanalisi freudiana gli ha dato ragione- che la ricerca erotica del libertino, quando è totalmente estranea alla tenerezza e al sentimento, genera violenza e prevaricazione, attiva componenti aggressive e distruttive. Non è mai il caso del protagonista del romanzo di Quilici che, pur muovendosi in una dimensione di libertinaggio a tratti spersonalizzante e spersonalizzata, mantiene sempre in vita, attraverso l’incontro erotico, il principio di individuazione e di riconoscimento dell’Altro, evitando di aprire quella frattura radicale tra il e l’Altro, così ben descritta da de Sade che ha vivisezionato la dimensione scissa del libertino che abbandoni pericolosamente i circuiti della passione amorosa, a favore del piacere esclusivo della carne e della seduzione.

Non è mia intenzione addentrarmi in tassonomie psicologiche del personaggio protagonista del romanzo, ma se ho richiamato de Sade e il libertinismo perverso, è soltanto per esprimere un po’ di amarezza nei confronti di un romanzo che anela a dirci che può esservi spazio per una visione che  considera la relazione amorosa come esperienza umana complessiva: tale, cioè, da includere, sullo sfondo di una fusione tra erotismo e passione politica, anche la creatività, la passione dell’intelletto con le sue avventure, le attività della ragione, ma che alla fine appiattisce questo suo enorme potenziale, sulla carne. E anche se quella che possiamo considerare la cifra più elevata di questo romanzo, il suo “differenziale sadiano”, ci porta alla fine a considerare la passione amorosa come armonia tra sensi, cuore e ragione, ammantata di propositi morali e pedagogici, in netto e irriducibile contrasto con ogni logica della scissione, ritroviamo comunque una visione dualistica del piacere e dell’amore, scopertamente ostile all’autore stesso che, privando il sesso del buio piacere del segreto e dell’intimità, della sua dimensione essenzialmente spirituale, di una spiritualità che io considero in senso spinoziano, lo riduce a un atto del puro sentire, privandolo di quella dimensione catartica essenziale che appartiene solo alla sessualità fusa col sentimento amoroso.

È davvero necessario, a spiegare i caratteri paradossali dell’amore, la presenza costante, nel testo,  di una chiara menzione delle pratiche sessuali che lo rendono accessibile al protagonista?
O non sono piuttosto le sue caratteristiche intrinseche -il suo essere abitato dalla scissione, il suo essere votato alla mancanza- a renderlo così pericolosamente indescrivibile anche a Gianni Quilici, perché più vicino alla malinconia e alla morte, di quanto egli osi ammettere nel suo romanzo?

22 giugno 2016

“Un ricordo di Paolo Bertolani” di Davide Pugnana



                        



Come molti, anch'io mi crògiolo nel desiderio di poter conversare con scrittori del passato. Che so, sedere qualche ora dimenticando il cadere silenzioso del tempo, in una stanza foderata contro i rumori del mondo, come quella di Proust. Un po' come racconta Woody Allen nel film "Midhnight in Paris": una sera Hemingway, un'altra Dalì, un'altra Mallarmé e via così, ogni notte una reverie diversa.
 

Nella realtà, avrei voluto conversare con alcuni scrittori liguri che avevo dietro l'angolo; ma per un soffio, li ho persi: Edoardo Sanguineti, Giovanni Giudici, per dirne un paio. Quelle parole che avrebbero riempito un pomeriggio o una serata non esisteranno mai se non nei dialoghi immaginari della mia mente.

Mi chiedo spesso di che cosa avrei parlato se Paolo Bertolani mi avesse dato appuntamento una mattina di qualche anno fa, lassù alla Serra. Avevo scoperto la sue raccolte nemmeno a Sarzana (dove sarebbe stato facile trovarle), quanto alla biblioteca della Normale di Pisa, vicino alla voluminosa produzione di Attilio Bertolucci. Di che cosa avremo parlato se ci fossimo incontrati? Forse di quei classici che, per puro caso, condividevamo senza saperlo. Avremo parlato della guerra descritta da Tolstoj, degli scintillanti occhi grigi di Anna Karenina; del mistero sacro che Dostoevskij ha chiuso nel principe Miskin; dell’erotismo esasperato e seducente di Emma Bovary; del mondo assurdo di Kafka e del suo romanzo America; dell’ “imprescindibile” Leopardi (l'aggettivo era di Paolo); del suo amato Faulkner e della sua abilità di “creatore di atmosfere”; dei saggi di Poe sulla poesia, dell’esotismo avventuroso di Salgari e degli oscuri Sonetti a Orfeo di Rilke, ricreati nella geniale traduzione di Pintor; sicuramente di Dante, di Porta e del microcosmo affettivo di Pascoli; del verso materico di Baudelaire e del misterioso silenzio creativo di Rimbaud; dell’America reale di Whitman e di quella immaginaria di Pavese; della poesia metafisica di Eliot e Montale, dei soggiorni liguri di Pound; e poi dei narratori che amavamo: Verga, Fenoglio, Gadda. Senza dubbio gli avrei chiesto di parlarmi di prestigiosi interlocutori, gli amici Vittorio Sereni, Franco Fortini, Attilio Bertolucci, Mario Soldati. Certo,forse avremo parlato di tutta questa bellezza.

Ma io lassù alla Serra ci sarei salito per farmi leggere quei suoi versi stupendi, inframezzati da strofe mozzafiato, rarefatti ed esatti come haiku. Ricordo, tra le tante, quella pennellata sui paesi in lontananza: "dove i paesi non sono più che incerte notizie di luce". Eccolo lì, Paolo, tutto in un verso. Ho avvertito subito come la sua verità stesse proprio nella profondità del suo radicamento tra quei sentieri, quei muri scrostati, quelle gole aperte sul mare e quei sassi franosi; come, cioè, il heimat nascesse da una sua irriducibilità a qualsiasi geografia astratta. Respirare l’aria mossa della Serra; lasciarsi intridere dalle sue brezze improvvise o scaldare dell’arsura dei suoi soli; sedersi tra le sue pietre secche o nei suoi uliveti falciati di fresco, perdersi tra la sue viuzze e i suoi sentieri, era l’esatto pendant delle immersioni quotidiane nella poesia di Paolo, tra le sue pieghe chiare e segrete, tra le sue faglie di luce e d’ombra, tra le sue apparizioni e i suoi intimi rifugi. Stare alla Serra voleva dire abitare, al contempo, nel corpo vivo del mondo e nella verità della poesia, potersi nutrire di cose semplici e di parole sapienti, procedere tra la terra e i sogni.


Alla Serra, Bertolani scrisse questa struggente poesia in dialetto, dedicata al "suo" Machado:
< chi nó me cava mai ‘r saluto
avanti de dormìme ‘nte ‘n mae
de vèti e de pien, ma donde i vèti
la fan da padrón,
er me Machado de luse e de pasiénsa,
chi me fa ‘n técio carmo e resénte
co’ ‘e sé parole lingée.>>

(Traduzione: "Il mio Machado che gli dico ciao, / che non mi toglie mai il saluto / prima di addormentarmi in un mare / di
vuoti e di pieni, ma dove i vuoti / la fanno da padroni, / il mio Machado di luce e di pazienza, / che mi fa un
tetto calmo e resistente / con le sue parole leggere")


19 giugno 2016

"A proposito di Nichi, Ed e del piccolo Tobia” di Patrizia Cadau





Ho letto con grande curiosità su Repubblica l'intervista a Nichi Vendola e Ed Testa, a distanza di qualche tempo dalla nascita di Tobia e da tutto il clamore fanatico che si era scatenato intorno all'evento.

Il racconto è emotivo, tenero, tradizionale come lo sarebbe quello di chiunque altro che si ritrovi ad essere genitore con tanto desiderio e trasporto, e si affida ad una narrazione di pancia che intenerisce. Non fosse per quella vocina che ogni tanto sussulta (immaginate pure di dire "sussulta" come lo direbbe Checco Zalone imitando Vendola). La vocina che riporta sulla superficie della coscienza l'origine della faccenda, la maternità surrogata, l'etica, le due madri coinvolte, il bambino è oggetto o soggetto, e così via.

L'impressione che ne ho avuto è quella di due persone che sicuramente tireranno su Tobia molto meglio di come ho fatto io coi miei figli o di altra gente che conosco. A prescindere rimango convinta del fatto che un bambino debba crescere con chi lo ami. Il problema sono gli altri, come sempre, quando si devono relazionare con quanto pare strano. Invece di capire si rinchiude ciò che non si capisce nel ghetto, autorizzando marginalità, bullismo, sofferenza.

                                          Ed Testa e Nichi Vendola. Foto di Gianni Quilici

Detto ciò, per non farmi mancare niente ho letto la risposta di Vittorio Sgarbi sul Giornale. Una risposta lucida, ragionevole, perfino umile nel dire "Ho cercato di vincere ogni pregiudizio, di superare l'antica polemica;" ammettendo quindi un limite. Sgarbi dice di vedere nell'immagine di Vendola con suo figlio, lo sguardo del possesso, non di protezione, e dice ancora che "l'amore della madre, come mostra Caravaggio, è protezione, non possesso... Un amore puro, disinteressato, non la proprietà di un bambino come un oggetto.".

E qui, Sgarbi mi casca. Conosco madri che hanno proiettato sui propri figli deliri di onnipotenza, aspettative irrealizzabili, manipolazioni infinite per tirare su copie di se stesse. Madri che hanno cercato di compensare i propri fallimenti realizzandosi sulle spalle di bambini costretti a diventare l'idealizzazione materna. Bambini distrutti dal possesso materno diventati adulti infelici. Conosco pochissime madri che si fermano alla protezione. Oltre è già possesso. Negarlo e dire che Nichi Vendola abbia lo sguardo diverso da una qualsiasi altra madre è scorretto..
Ma poi, vorrei capire meglio. Sgarbi ha dichiarato di avere quaranta figli illegittimi. Quindi per coerenza mi piacerebbe anche sapere, visto che giudica le esperienze altrui, cosa ci propone lui come famiglia o come genitorialità.
Fossi un bambino preferirei comunque Nichi e Ed, per casa, insieme alla nonna. Piuttosto che un padre assente, 39 fratellastri ignoti, e l'incubo di decine di matrigne pronte a presentarsi sull'uscio per rivendicare chissà che cosa.

09 giugno 2016

"Sidney, bambina sognante” foto di Alec Soth




di Gianni Quilici

Si potrebbe scrivere che la foto di Alec Soth colpisce immediatamente per la bellezza di Sidney, la bambina;  per i capelli rosa che le scendono appena mossi sulla fronte; per l’armonia dei dettagli e dell’insieme del volto; per la mano abbandonata con il braccio su cui la bambina riposa. Ma fosse solo questo non sarebbe altro che una delle tante foto estetiche-estetizzanti di bambine, che si possono incontrare comunemente nella pubblicità. 



Alec Soth coglie qualcosa di più intimo e ricercato, che rende lo scatto intenso e poetico: sono quegli occhi stanchi e insieme assorti in un sogno, di chi, inconsapevolmente, insegue un pensiero o una storia, a noi sconosciuta e  che è scolpita in quella espressione, dove la fisionomia rimane indefinita, forse malinconica, forse sottilmente dolorosa.



Su questo ritratto lo sfondo, scelto accuratamente è felicemente armonioso. La parete beige luminosa e  la tovaglia tra vele bianche, case vive ed acque azzurrine formano un seducente connubio tra il sogno disegnato su cui posa il volto sognante della bambina e la luce morbida, che si apre e va oltre le mura chiuse della  stanza.



Alec Soth. Sidney, bambina sognante. Florida 2004.

08 giugno 2016

"Storie di vita. Le canzoni possono ricordarti . . .” di Stefania Cardone



                                                 Stefania Cardone

La musica è un'ottima compagna di vita e le canzoni possono ricordarti momenti belli, brutti o a volte anche niente di tutto questo, pure istanti normali, che chissà perché si fissano nella mente.
Due di loro,ogni volta che le ascolto, mi fanno tornare alla memoria un determinato periodo della mia vita.
Così, senza nessuna pretesa di scrivere cose straordinarie.


Inverno 1983.
LA DONNA CANNONE -FRANCESCO DE GREGORI
E' sera, c'è molta neve, le strade sono bianche da tanto, le auto non tolgono nemmeno più le catene, mio padre sta preparando la cena, penne al ragù spadellate con besciamella (l'epoca di Masterchef è ancora lontana e le penne spadellate sono un piatto di tutto rispetto).
Siamo solo io, lui e mio fratello, mia mamma è all'ospedale per un piccolo intervento.
Papà si accorge di essere rimasto senza sigarette e mi manda al bar del paese a comprarle. Mi vesto, sotto al berretto le cuffie del mio walkman rosso, con "la donna cannone" in sottofondo. Arrivo sul ponte, guardo sotto di me l'acqua del Curone che scorre col bianco della neve, sembra uno specchio che tutto riflette.
Rimango lì ad ascoltare la canzone.

Estate 1984.
ANNA E MARCO - LUCIO DALLA
Sera d'estate. Siamo fuori, vicino alla piccola discoteca di Giarolo, pieno di gente, luci, risate, il bar, la musica in sottofondo, le sgommate delle moto e l'inconfondibile puzza di benzina.
Le vespe, i PX "elaborati", taroccati, con la radio nei cassettini davanti.
E' da una di queste che arriva "Anna e Marco", al mio amico piace una ragazza che si chiama Anna e non c'è momento in cui non ascolti questa canzone, neppure i juke box trovano scampo che Dalla sia!
Nel momento in cui passa la frase "poi c'è qualcuno che trova una moto..." un altro mio amico passa in impennata e assaggia l'asfalto poco dopo...
Fu così che "trova" diventò "prova una moto", perché si sa, ognuno le canzoni le fa un po' sue, in un modo o nell'altro.

02 giugno 2016

"La rivendicazione di Antigone" di Judith Butler

ANTIGONE: LA PARENTELA
                                 TRA LA VITA E LA MORTE

di Emilio Michelotti

Chi è Antigone? Per quali vie la passione può condurre all'autodissoluzione? Che sarebbe successo se la psicoanalisi avesse preso come suo punto di partenza Antigone anziché Edipo?

Antigone è in una ragnatela di parentela equivoca e maledetta: suo padre è anche suo fratello (madre comune Giocasta), i suoi fratelli sono suoi nipoti.

Parole e azioni si scontrano sulla scena familiare: Polinice era stato maledetto da Edipo (Sofocle, Edipo a Colono), il quale a sua volta è sovrastato dalla maledizione di Laio (scagliata da Pelipe a causa della seduzione del figlio). Le parole di Edipo (a Colono) alla fine della sua vita assurgono a loro volta il tratto della maledizione incestuosa (Da nessuno potrai avere più amore che da me, ne sarai priva per sempre). Antigone onora la previsione, amerà infatti solo Polinice, da morto, ossia nessun uomo.

Il desiderio di salvare i fratelli sembra naufragare di fronte al desiderio di unirsi a quel destino.

Quando Butler parla del mito come base della psicoanalisi, il riferimento è non più tanto a Freud quanto a Lacan. Il desiderio incestuoso non è solo del figlio verso la madre, ma anche verso il fratello, la sorella, il padre (necessariamente, se Antigone è al centro di un orrore parentale, di un ribaltamento mostruoso di ruoli).

Il cuore della tragigità si sposta così dall' Edipo re all'Edipo a Colono, andato in scena un decennio prima dell'Antigone. Come se gli spettatori dovessero sapere la fine della storia prima di assistere alla rappresentazione. Perché?

Nella lettura della Butler, la figura del mito assume un'impronta particolarmente ambigua e inquietante. L'autrice, in una riflessione coerente e conseguente, porta il lettore a una unificazione nella figura del “fratello”, oltre Polinice ed Eteocle, anche Edipo. E conduce altresì a  considerare il rapporto col “fratello” di natura incestuosa.

Con Lacan ella sostiene, però, che Antigone non ama il contenuto del fratello, ma il suo “puro essere”, un'idealità che appartiene all'orizzonte del simbolo, l'ordine simbolico essendo garantito appunto dalla negazione della persona vivente.

Antigone persegue un desiderio che non può che condurre alla morte, appunto perché sfida le norme simboliche. Anche il nome Anti-gone è costruito come anti-generazione. Edipo, che cosa ha allora generato? Quale sarà l'eredità di un Edipo che si forma in situazioni come la nostra attuale, con il padre assente, la figura materna occupata da varie altre figure, coi fratellastri che sono  anche amici, famiglie nella quali l'ordine simbolico non regge più?

Antigone sostiene di non aver vissuto, di non aver amato, non aver avuto figli, di aver servito la morte per tutta la vita, perché colpita, come i suoi fratelli, dalla maledizione di Edipo. Forse è il desiderio sottaciuto col quale convive, l'incesto stesso, che rende la sua esistenza una morte vivente? “O sotterranea dimora che mi custodirà, io vado incontro ai miei cari morti”. E' per la qualità mortale dei suoi amori che questo genere di amore non trova posto nella cultura greca e occidentale?

Antigone è figlia di un legame incestuoso e si consacra a un amore incestuoso e a un legame di morte col fratello.Il suo linguaggio si avvicina a quello di Creonte(quello dell'autorità e dell'azione),
privando il sovrano della virilità (l'editto di Creonte è un ordine imperativo, ha il potere di produrre ciò che proclama: divieto assoluto di seppellire quel corpo).

La fatalità dell'uccidersi nella tomba dove Creonte l'ha reclusa è per Antigone una necessità?
Antigone “non parla con voce incontaminata”. Essa non può rappresentare il femminile al di sopra o al di là dello stato. Non è espressione degli dèi del focolare, come vorrebbe Hegel, e forse neppure la sua morte è l'esito accelerato dall'insopportabilità simbolica del suo desiderio, come sostiene Lacan.

Il rapporto psichico con le norme sociali presuppone queste eterne e non trattabili, ma la configurazione come norme si verifica già in ciò che Freud ha definito “cultura della pulsione di morte”. Antigone è, quindi, solo in parte fuori dalla legge. E' intrappolata in una posizione in cui si vìola la legge umana per seguire la legge divina, e quella divina per seguire l'umana.

Non c'è giustificazione per la rivendicazione di Antigone. Quale sarebbe questa legge  al di là della legge che fa apparire il suo atto – e la difesa verbale di questo – null'altro che una violazione della legge? Non si tratta della legalità di ciò che è inconscio, ma di una rivendicazione che l'inconscio avanza nei confronti della legge.

Non solo ella ha commesso il crimine, ma ha l'audacia di proclamarlo. Ma ella è al di là della colpa, abbraccia il proprio crimine come abbraccia la tomba nuziale. Il suo reato è quello nel quale “il soggetto prepolitico rivendica un'azione furiosa all'interno della sfera pubblica”. Agisce in modo ambiguo, perché la sua rivendicazione non si oppone che apparentemente a Creonte.

Ella si appella infatti sia alle leggi della terra sia ai comandamenti degli déi. Il suo desiderio è tanto diverso da quello del sovrano? Entrambi sostengono di avere gli déi dalla loro parte. Di che tipo di déi si tratta, e perché hanno voluto la reciproca rovina?

Per Lacan, ricorrere agli déi significa collocarsi al di là della vita umana, insediare la morte nella vita, andare verso l'autodistruzione. L'invocazione di quell'altrove fa precipitare il desiderio verso la morte. Antigone “vìola i limiti dell'Ate”,e troppo a lungo: sfidando la legge pubblica, citando una legge che giunge da altrove. Agisce su istruzione della morte. Non si colloca, quindi, nell'ambito dell'ordine simbolico, trasmette quella catena ma ne arresta l'operare futuro, conformandosi alla maledizione in atto contro di lei.

E' il tabù dell'incesto che stabilisce la norma, la possibilità di trasgressione rende necessario e cogente il tabù. Antigone non produce una conclusione eterosessuale: forse una teoria psicoanalitica basata sulla sua figura potrebbe avere questo punto di partenza. Infatti sembra opporsi all'istituzione eterosessuale rifiutando di rimanere in vita per Emone, di diventare madre e moglie, abbracciando la morte e la tomba come camera nuziale.

Camera nuziale-tomba: la parola distrugge il suo oggetto. La parola opera la distruzione dell'istituzione. Antigone è una figura inammissibile all'interno del sistema parentale. L'umano confina col non umano, come risulta dall'unificazione in un solo luogo, il corpo esposto di Polinice, le figure simboliche di Eteocle e di Edipo. I proclami luttuosi gridati da Antigone presuppongono l'esistenza della sfera di ciò che non può essere pianto. Il suo crimine l'allontana dal genere femminile spingendola nell'hybris, in “quell'eccesso distintamente maschile” che fa dire alle guardie, al coro e a Creonte: “Chi è l'uomo qui?”


Judith Butler. La rivendicazione di Antigone, Bollati Boringhieri, 2003