29 marzo 2012

Appunti in margine a "Poesia che mi guardi" di Antonia Pozzi

di Davide Pugnana

Spiare cenni arcani di partenza”: silenzio e parola in Antonia Pozzi.

Anche perché l’anima dell’opera non è poi così diversa dal soffio vitale dell’artista, la cui pulsazione di respiro trapassa nell’enunciato. Tale soffio articola cioè una forma, crea una voce, più voci. L’opera riesce, quando ricrea nel silenzio della parola scritta il suono della vita che l’ha generata.” (Nadia Fusini)

Mentre la materia prima da cui viene ritagliata la letteratura è la parola, il mistero della poesia è costituito da silenzi che le parole si limitano e circoscrivere e valorizzare. Il mistero non è però mai nebuloso.Esso comincia al di là, non al di qua della trasparenza.” (Ana Blandiana)


Sulla soglia dell’ultima e più organica raccolta pubblicata in Italia sugli scritti, in poesia e in prosa, di Antonia Pozzi, Poesia che mi guardi, luca sossella editore, Bologna, 2010, pp. 650, euro 20, troviamo una nota in corsivo che tocca un punto nodale della storiografia letteraria: invita a riflettere intorno alla presenza di un “catalogo delle rimozioni”, una galleria di figure deraciné che conta un numero altissimo di agnelli sacrificali proprio sul terreno della ricerca lirica femminile. Questo oscuramento dei percorsi poetici femminili si fa visibile soprattutto a partire dall’esclusione sistematica delle poetesse italiane durante la formazione del cànone poetico novecentesco, cristallizzato dalle due antologie più famose, quella di Pier Vincenzo Mengaldo (che include un manipolo di testi di Amelia Rosselli) e quella di Edoardo Sanguineti. Nel corso di questo processo di periodizzazione e di sistemazione delle poetiche del Novecento, i nomi delle poetesse italiane sono totalmente assenti. Salvo due non trascurabili eccezioni: la Lirica del Novecento (1961) di Anceschi-Antonelli accoglie alcuni testi di Sibilla Aleramo e, rubricandole in area ermetica, tre liriche di Antonia Pozzi; mentre un altro accenno a questa produzione marginale si collocava, dieci anni prima, all’altezza del 1951, nell’antologia Poetesse del Novecento, allestita da Giacinto Spagnoletti e rimasto celebre atto di nascita della carriera poetica di una giovanissima Alda Merini. Questa zona di silenzio, e, di riflesso questo “catalogo delle rimozioni” letterarie femminili, è oggi colmata dalla pubblicazione dell’antologia L’altro sguardo. Antologia delle poetesse del Novecento” , un bacino di testi che coprono più di un secolo di storia letteraria mondiale. È utile segnalare questo florilegio non solo perché la sua comparsa in Italia potrebbe innescare una rilettura, o perlomeno un allargamento, del cànone poetico novecentesco in direzione femminile; quanto perché al suo interno, tra Elsa Morante e l’americana Muriel Rukeyser, compare Antonia Pozzi con otto liriche.

Accanto a queste poetesse della scena mondiale, Antonia Pozzi si arricchisce di sfumature nuove. Affiancata ad altri percorsi, la sua direzione di scavo e di ricerca si dilata e partecipa all’alterità di una ‘sguardo’ poetico tutto votato allo scavo del dolore e alla ricerca di una parola assunta su di sé, sul proprio corpo, come scheggia nella carne. Come le altre poetesse, sebbene diverse per contesto e formazione, Antonia crea testi viscerali che spaventano per la loro radicalità conoscitiva; per quel sottosuolo, oscuro e doloroso, che una parola ‘crudele’ interroga e spinge verso scenari notturni e perturbanti, attraversati da presenze, voci, figure, luoghi, ma anche da un senso della perdita e della precarietà. Da una presenza del tempo interno, a cui Eugenio Borgna ha dedicato pagine di estrema acutezza, intrecciando queste tensioni sotto la luce nera della malinconia. Le preziose pagine di diario presenti nell’antologia Poesia che mi guardi svelano il lievito filosofico delle liriche e parlano con gli accenti acuti e ardenti dei documenti di vita. Il pensiero del 4 febbraio 1935 è frammento rivelatore del diario di un’anima che ha conosciuto presto lo svuotamento pietrificante della mente: “Il mio disordine. È questo: che ogni cosa per me è una ferita attraverso cui la mia personalità vorrebbe sgorgare per donarsi. Ma donarsi è un atto di vita che implica una realtà effettiva al di là di noi: e invece ogni cosa che mi chiama ha realtà soltanto attraverso i miei occhi e, cercando di uscire da me, di risolvere in quella i miei limiti, me la trovo davanti diversa e ostile. […] Anche in me gli schemi si dissolvono e nasce il realismo umano. O piuttosto vorrebbe nascere e non può, in nessuna forma della realtà può esprimersi, come un pianto che non trova gli occhi per cui sgorgare, un sorriso che non ha un volto in cui aprirsi. Rifiuti, da tutta la realtà, ad ogni passo. E ad ogni passo, nuove ricerche per una foce che non esiste. E che non deve esistere.” Una diagnosi che suona, per l’estrema lucidità, come spietata autoanalisi di una personalità d’artista alla ricerca del proprio essere-nel-mondo. Per Antonia Pozzi scrivere nasce o presuppone una ferita. Una ferita e un donarsi percorrendo catene di versi “senza dirigere le ginocchia, ritrovate per istinto una strada abbandonata da tempo”. Due lembi di pelle surriscaldati e il rosso che freme nello sbrego scoperto: ferire e donarsi non si escludono; sono sinonimi di apertura e sacrificio. Sono essenza segreta della scrittura-sacrificio. La parola poetica scava nel disordine di questo cuore opaco; cerca nello svuotamento feroce delle proprie certezze (“Gli schemi della mia personalità si sono rotti”, scrive Antonia) il germe fecondante dove l’interrogazione si fa sì più contorta e oscura; ma dove il pensiero, lucido e potentemente tentato, trova un polo irrinunciabile di materia. Comincia qui, in questo ombelico dell’inconscio, lo sbrego interiore che alimenta la pagina scritta. È lì che i punti di riferimento (le “cose vive che sfuggono” ad ogni tentativo di costruzione e di aggiustamento razionale) o le direzioni prestabilite saltano e si incurvano in una vertigine che scava buche di silenzi; in cui affiora lo spettro della malinconia. E tuttavia, come per una feconda contraddizione, è in questa breccia che lavora lo sguardo interrogante; è nello strappo che improvviso si dischiude, traslucida, la sfera del senso: quell’archeologia di oggetti del mondo interno da organizzare in prosodia poetica. “Ma che diritto ho io di parlare dei miei versi, come di qualche cosa che giustifichi la mia inerzia, la mia inattività pratica? Quando proprio dal dubbio, dalla sfiducia radicale nel valore delle mie pagine, mi è nato questo stato d’animo d’oggi, questa febbre di vedere chiari i miei limiti, questa volontà di accentramento?”. Il flusso interno di esistenza si ingolfa e si fa diaframma di rocce in gola, che impedisce il canto poetico. Spesso ci si piega sulla pagina con una sensazione di orfanità molto simile a quella che si prova entrando “in una casa da cui ci si è staccati per colpa nostra”. L’orfanità del malinconico non nasce da un abbandono esterno o da un trauma biografico; ma da un’incapacità interna di abbandonare, o, meglio, di accettare il lutto delle cose; da una sorta di impossibilità di messa a morte degli oggetti interni. E sulla quale s’allunga l’ombra di un senso di colpa della cui natura ancora sappiamo poco. Il viaggio del poeta è un eccesso di consapevolezza delle cose: la “febbre del vedere” che acutizza lo sguardo di Antonia diventa attraversamento della ferita, la cui intensità condanna a scrivere. O a cercare la morte volontaria, come sarà per molte poetesse del Novecento. Come sceglierà Antonia, a ventisei anni.

Nella notte di San Silvestro del 1937 Antonia apre il diario e scrive. Siede nel silenzio della stanza; sempre implacabile nel frugare la ferita. Davanti a sé la chiarità della piccola lampada: “E questo terrore: mi perdo, non mi ritroverò, non mi riguadagnerò più. Piccole cose mi scalpellano, miserie mi corrodono.” Dal silenzioso scalpellio interiore delle ‘piccole cose’ nascerà il canzoniere di Antonia. È lavorando nella fusività, apparentemente antinomica, di parola e silenzio che troviamo uno degli impulsi generatori più profondi della poesia di Antonia. Ma per coglierlo appieno credo sia utile spostarsi sul versante della poesia straniera contemporanea. Cercare corrispondenze e conferme in un altrove geografico, in un’altra vita in versi, spiritualmente affine. Viene dalla poesia rumena la possibilità di una comparazione che - per la sua forza teorica e la sua affinità di registro con lo scavo poetico di Antonia Pozzi - permette di illuminare trasversalmente alcuni punti forti dell’uno e dell’altro processo creativo. Ciò a riprova di quanto sosteneva Madame de Stael circa l’utilità feconda della traduzione: per cui l’immissione di una voce poetica eccentrica rispetto al contesto avrebbe la capacità di innervarlo di linfe nuove e nuove prospettive di visione. Ecco che lo spunto interpretativo si appoggia proprio allo scritto in prosa di una poetessa rumena, Ana Blandiana, dal titolo La poesia, tra silenzio e peccato. Silenzio e peccato riecheggiano, per inconsci vincoli semantici, ferita e senso di colpa presenti nella tavolozza lessicale del diario di Antonia. Non è raro, leggendo i testi di Antonia, trovare la dimensione del ‘silenzio’: un silenzio restituito per figurazioni metaforiche e simboliche; in scenari ctoni e spazi nudi; attraverso certe fratture di ritmo che staccano le pause del dialogo amoroso tra l’io e un tu fantasmatico, muto e lontano; oppure nel recupero memoriale di luoghi d’intensità (la piccola stazione di Torre Annunziata dove le “a tratti parole si frangevano/ in sfumature lunghe di silenzio”); fino a toccare soluzioni opposte, meno intimiste e più aperte, come lo slancio di certi vocativi modulati sotto la notte o davanti a orizzonti marini; o, sul piano stilistico, con la scelta dell’esilità strutturale di certi versicoli, dal profilo di guglie eleganti.

Della natura di questo ’silenzio’ connaturato alla poesia, e così costante nel timbro di Antonia, cosa ci può dire la riflessione di Ana Blandiana? Prima di tutto che esso è un silenzio pieno, prossimo all’ascolto, o, meglio, ad un’attesa carica di tensione, porosa e assorbente verso i segnali del mondo esterno e dell’interiorità. In questa attenzione fluttuante prende corpo la parola poetica. Come nelle liriche di Ana Blandiana, così nella poesia di Antonia il silenzio agisce per circoscrivere e valorizzare il mistero, per rivestire la parola di funzioni poetiche, ossia dotarla di significati e polivalenze, ambigue e trasparenti a un tempo. Il silenzio da cui prende le mosse lo “sguardo” di Antonia è un margine sottile sul quale le percezioni si raccolgono a fascio: gli steli di tulipani “inarcati sul vuoto pesantemente”; il suono delle campane che riempie l’aria e incurva i pioppi; il “singhiozzo/ rattenuto, incessante della terra”; le grandi negazioni delle latitudini umane e metafisiche (“Non avere un Dio/ non avere un tomba/ non avere nulla di fermo/ ma solo cose vive che sfuggono”), o quei gouffres dai bordi sfrangiati che incrinano l’orizzonte di senso di tanti testi. Tutti questi elementi configurano e tematizzano questo ’silenzio’ di fondo. Basti pensare ad un testo esemplare come Novembre, nel quale il silenzio si asciuga nel tono fermo e desolato dell‘io lirico, vicino a diventare allegoria della precarietà esistenziale: E poi - se accadrà che io me ne vada -/ resterà qualche cosa/ di me/ nel mio mondo -/ resterà un‘esile scia di silenzio/ in mezzo alle voci - /un tenue fiato bianco/ in cuore all‘azzurro” .

Le affinità tra Ana Blandiana e Antonia si stringono. Scrivere versi, per entrambe, significa trovare “toni chiari e parole chiare”; lavorare affinché quell’oscurità, corteggiata da tanta poesia moderna, sia tradotta in un dettato di alta politezza formale, piano e comunicativo, ma, nel contempo, così dentro le cose da evitare il rischio di pizzicare corde ingenue e sentimentali.

L’istanza del silenzio, intesa dunque da Ana Blandiana come molla generativa della parola poetica, ritorna infine in un verso emblematico di Antonia: “spiare cenni arcani di partenza”. Di nuovo, la febbre del vedere che accompagna lo sguardo poetico di Antonia. È questo un verso che, per la sua potenza e la sua densità figurale, si impone come la più efficace definizione del pensiero poetante che permea il canzoniere di Antonia Pozzi. È come se in questa catena di parole fosse riuscita a chiudere la sua più lucida dichiarazione di poetica. Immerso in una porosità silenziosa, lo sguardo ‘spia’; si colloca nei tagli e nelle ferite della realtà e guarda fissamente, pronto a fermare i segni misteriosi, le cose minime, i sussulti latenti, a trovare i legami lontani. I “cenni” sono definiti, con aggettivo leopardiano, “arcani”; come venissero da un loro corso naturale, segreto, talvolta incifrato; sono oggetti emersi da un fondo oscuro, intermittenti, scheggiati. Sembrano aver concluso il loro viaggio, prossimi a disperdersi nel mondo; ma vengono raccolti per una nuova “partenza”, un viaggio conoscitivo che intende dimostrare qualcosa, dando ascolto al pensiero poetante che scova nessi profondi ed eleva le cose più semplici e quotidiane a poesia.


(questo scritto su Antonia Pozzi, qui ripreso e ampliato per LR, figura nel Registro dei progetti editoriali, a cura di Paolo Gervasi, luca sossella editore, Bologna 2011, pp.118)


22 marzo 2012

" Conversazione su Dante" di Osip Mandel´stam,

di Davide Pugnana

“La sua poesia continuava a migliorare; la prosa
anche. Questa prosa, così poco udita, dimenticata,
comincia appena adesso ad arrivare al lettore,
ma io sento dire continuamente, soprattutto dai giovani,
che ne vanno matti, che in tutto il XX secolo non ce ne
è stata l’eguale.” (A.Achmatova, Mandel’stam)


“spesso un verso [di Dante] richiede forza e tempo quasi
impossibili prima di schiudere qualcosa di
quello che vi è contenuto; ma quando si è
riusciti ad avere una visione d’insieme, allora
i cento canti, nello splendore delle terzine, nel
loro sempre rinnovato intrecciarsi e sciogliersi,
svelano la leggerezza di sogno e l’inattingibilità
della perfezione, che sembra librarsi senza fatica,
come una danza di figure ultraterrene ”
(Erich Auerbach, Dante, poeta del mondo terreno)


I

Seguire le tracce sparse di un Novecento dantesco all’estero significa accedere, a poco a poco, in un vertiginoso spazio d’avventura intellettuale. Il destino della poesia di Dante fuori dall’Italia ha seguito una linea di consacrazione del poeta: una venerazione multiforme, percorsa tutta da voci e punti di vista, da teorie estetiche e luminose intuizioni. È questo un culto di Dante che coinvolge prima di tutto il versante degli scrittori americani ed europei. Scorrere rapidamente alcuni nomi aiuta a non intendere come unicum, ma a calare in un’aria di famiglia, la Conversazione su Dante (il melangolo, Genova, 2003, pp.152, euro 9), il saggio sulla Commedia che il poeta russo Osip Mandel’stam scrive in terra di Crimea a partire dagli anni Trenta. Parte quindi dagli scrittori una lectura dantis che, osservata da vicino, ci getta dentro un’esperienza di educazione alla lettura articolata su più livelli. Un approccio nel quale spregiudicato scavo ermeneutico; piacere della riscrittura; riflessione sull’inizio della conoscenza poetica e sul complesso meccanismo dello strumento espressivo; scoperta della struttura interna della propria poetica, misurata alla luce del presente storico e dell’attualità bruciante, si muovono assieme, fino a formare i tratti di una cifra indelebile e feconda, carica del mistero e della bellezza dei debiti d’amore. Questo Dante degli Scrittori ha la radicalità di un debito d’amore. Debito che vale come riconoscenza e dedizione; ma anche, in profondità, come atto di risarcimento, risposta ad una mancanza o ad una perdita.

Non è stato George Steiner il solo ad insegnarci che l’atto critico più complesso come la più innocente lettura di gusto scaturiscono da un identico debito d’amore; quando, in modi evidenti e tuttavia misteriosi, le grandi opere “ci attraversano come venti di tempesta, spalancando le porte delle nostre percezioni e investendo l‘architettura delle nostre convinzioni con la loro potenza trasformatrice”. Lo stesso T.S.Eliot, dopo una lectura dantis lunga trent’anni, decide di far chiarezza nel viluppo di quel rapporto viscerale che ci lega, per oscuri vincoli, a singoli autori della tradizione letteraria. Autori talmente costanti da incarnare una cifra identitaria. Il debito di Eliot è tutto rivolto all’opera di Dante. Proprio Eliot - che aveva siglato la Terra desolata blasonando le finissime limature di Pound quali scalpellature del “miglior fabbro” - torna a prendere la penna in mano e ad interrogarsi su che cosa per lui abbia significato l’opera di Dante; quali tracce essa abbia depositato nella sua opera poetica; e, più latamente, quale filo rosso ci leghi ai poeti del passato. Perché la nostra bussola di lettori dirige l’ago verso Dante, Shakespeare o Pasternak? Qual è la ragione della lunga frequentazione di un territorio poetico? Perché sentiamo di doverlo abitare? Brucia ogni egocentrica presunzione di possedere fino in fondo un testo come la Commedia leggere le parole di Eliot, il quale, dopo quasi quarant’anni di decifrazione esegetica e di assalti al poema dantesco, “quando pensavo di aver afferrato il significato di un passaggio che mi piaceva in modo particolare lo imparavo a memoria; così, per alcuni anni, fui in gradi di recitarmi buon parte di questo o di quel canto stando a letto o durante un viaggio in treno. Sa il cielo come avrebbero suonato, se li avessi recitati a voce alta. Tuttavia fu questo il mezzo per addentrarmi nella poesia di Dante. […] Ma ritengo di non poco interesse, per me stesso e forse per gli altri, cercare di puntualizzare in che cosa consista il mio debito verso Dante.” Ci sono debiti d’amore che vivono alla luce della superficie, tatuati nella memoria e recitati, incisi al fondo di ogni parola del nostro vocabolario; e ci sono debiti d’amore che seguono vene carsiche, e, nel loro passaggio, non fanno rumore ma si ispessiscono di linfe e sali minerali. Ci sono autori che diventano marchi d’amore nel sangue; sono i meno evidenti, idoli interrati, e per questo di più lunga durata. Non c’è pagina saggistica di Eliot che non rechi impresso il nome di Dante. Inoltrandosi nel ‘bosco sacro’ dei suoi scrittori, troviamo Dante mescolato a spiriti magni di un personale canone d’autori: è lui la pietra angolare che fa rilucere Shakespeare, Ben Johnson, William Blake; ed è sempre Dante a imbastire le fila della riflessione eliotiana sui rapporti fra tradizione e talento individuale, attraverso un esempio di uso diretto dell’emozione in arte, quella provata dal Dante personaggio quando ficca l’occhio nel volto ustionato di Brunetto Latini e d’improvviso l’immagine memoriale della giovinezza fiorentina si anima in vigoroso sentimento filiale. E sono convinto che se tornassi a compulsare, lente alla mano, i pezzi su Marlowe e su Swinburne vi troverei, se non proprio il nome di Dante a chiare lettere, almeno profonde tracce della sua presenza, in spiragli minimi: un profilo di figura; un certo tenore polemico; un lascito metaforico; una similitudine o un isolato aggettivo. Il Dante di Eliot rappresenta il caso di un debito d’amore attivo per lo più nell’inconscio: sorta di parziale punta d’iceberg, affiorata alla coscienza critica dello scrittore quando alcuni problemi creativi gli suggerivano la necessità di una soluzione la cui risposta doveva essere attinta nel bacino dei poeti antichi. E in queste scorrerie col rampino, Dante fu per Eliot il maestro che si scopre lentamente. Il dialogo con i suoi testi fu un esercizio di pazienza mista a ostinata fedeltà. L’apprezzamento della sua poesia, scrive Eliot, “è lavoro di tutta la vita”, perché a ciascun livello di maturazione “si impara a capirlo meglio”. Per chiudere questo primo esempio, si può dire che quello di Eliot è stato un debito d’amore talmente incorporato da diventare, nel 1950, aperta confessione di un recupero del modello dantesco nella versificazione della Terra desolata, titolo che porta in sé una sfumatura semantica vicina a “paese guasto”, sintagma che, nel canto XV dell’Inferno, designa Creta: “Ci sono altri debiti, innumerevoli debiti di altro genere verso i poeti. Vi sono poeti che ci sono rimasti nell’inconscio, o forse sono affiorati alla coscienza quando ci sono stati problemi da risolvere, per i quali qualcosa che essi avevano scritto suggerisce il metodo.[…] Ho spaziato tra alcuni tipi di ’influenze’ allo scopo di impostare, per contrasto, un’indicazione di quando Dante abbia significato per me. Certamente ho preso a prestito da lui alcuni versi, nel tentativo di riprodurre, o piuttosto di ridestare nella mente del lettore, la memoria di qualche scena dantesca, e di stabilire così una relazione tra l‘inferno medioevale e la vita moderna”. Vedremo che questo atteggiamento sarà, per certi versi, proprio del dantismo di Mandel’stam nella Russia degli anni Trenta. Il dato fondante è che i livelli di attraversamento del testo dantesco furono per Eliot lezioni di mestiere poetico, di linguaggio, di esplorazione della sensibilità. Di elaborazione teorica culminata nel ’correlativo oggettivo’.

Tarsie dantesche, per nulla esornative, le troviamo anche nell’opera di Oscar Wilde. Ne Il critico come artista (1890), mentre il seducente timbro di conversazione di Gilbert, portavoce delle tesi di Wilde, svolge la questione della potenza dell’arte che arricchisce la vita, l’esempio cade sulla Commedia di Dante: “e io so che se l’apro in un certo punto, sarò colmato da un fiero odio, per qualcuno che non vedrò mai. Non esiste amore o passione che l’arte non possa darci, e chi di noi non ha scoperto il segreto può stabilire in anticipo quali saranno le nostre esperienze.” Per chi non avesse letto un solo verso del poema dantesco, in poco più di tre pagine troverebbe una magistrale sintesi dell’intero poema. È in questa alta capacità di sintesi che si manifesta il debito d’amore di Wilde verso l’opera dantesca, segretamente letta con assiduità, come ben testimonia la sua capacità di condensare interi canti in un serrato e pulito giro di poche frasi. Un esempio è la resa dei canti III-XIII: “Varchiamo la porta con l’iscrizione fatale a ogni speranza, e pieni di pietà e di gioia contempliamo l’orrore di un altro mondo. Passano gli ipocriti, coi loro volti dipinti e con le cappe di piombo dorato. Dai venti incessanti che li spingono ci guardano i lussuriosi, e noi fissiamo l’eretico che si strazia la carne, e il goloso sferzato dalla pioggia. Schiantiamo i rami secchi dell’albero nel boschetto delle Arpie, e ogni rametto fosco e velenoso stilla del sangue rosso vivo davanti a noi, e leva forti grida amare.”

Dante poeta tutto cose. Rifletteva su questo un poeta cieco di ottantasei anni, durante la seduta di un’intervista a Buenos Aires, mentre sillabava la bellezza formale di alcuni versi. Riandava con la memoria alle bellissime, necessarie ambiguità semantiche che lo avevano portato ad interessarsi a Dante fin da giovane. Borges diede respiro al suo debito di venerazione con Dante leggendolo, rileggendolo proprio quando gli sembrava di aver detto tutto; comparando glossatori antichi e commentatori moderni, mettendoli in discussione e aggiungendo anelli mancanti all’interminabile catena dell’esegesi dantesca. Molte delle invenzioni poetiche di Dante, date per scontate o incrostate sotto secoli di erudizione, hanno ritrovato nuovo vigore nelle intuizioni, ancora oggi così vive e danzanti, di Borges, lettore di Dante. Il suo debito d’amore è sfociato, nel 1982, nei Nove saggi danteschi. Borges aveva il dono di illuminare ex-novo luoghi testuali della Commedia, sui quali pareva non ci fosse altro da aggiungere; mentre di alcune soluzioni inventive non si era colta tutta la portata. Ne è un esempio l’incipit del III canto dell’Inferno: quelle terzine, incise sull’architrave della porta a lettere di fuoco, dal significato così oscuro, non fungono da semplici epigrafe. Aggiunge Borges: “Dante poteva dirlo in terza persona, ma ha qui un’intuizione straordinaria: la porta che parla in prima persona.” Allo stesso modo, Borges ci porta là dove pulsa il cuore del dramma narrato da Francesca, correggendoci sul fatto che il suo racconto non indugia in compiaciute evocazioni d’amor cortese; ma ci fa sentire la sua pena nel ricordo che balestra da lontano e punge: penoso andare alla radice di un piacere antico, sentendo in sé i segni dell’antica fiamma; un brivido che ancora scuote e diventa tortura di desiderio vivo che non può più essere soddisfatto. E il culto appassionato, mai sopito, di Borges per Dante arrivava a rimpiangere l’interruzione delle lezioni e del commento di Boccaccio; oppure si spostava, con un guizzo d’evasione, a immaginare le discussioni del celebre Circolo Dante, fondato da Longfellow nel 1865, autore di una traduzione della Commedia in inglese nel 1867. Come altri scrittori e poeti, come sarà per alcuni passaggi della Conversazione di Mandel’stam, anche Borges concepisce e coltiva un proprio sogno di Dante uomo: “Doveva essere difficile conversare con Dante: me lo immagino troppo severo, pronto al sarcasmo e non incline all’ironia.”

La presenza e la lezione di Dante corrono dentro tutto il Novecento. Non si intende a pieno il continente del Dante degli Scrittori se non ci si ferma a considerare le singole stazioni, i modi e le risposte di questa funzione-Dante tolta dalle mani degli accademici e letteralmente rivissuta, talvolta riscritta, da poeti e narratori. Eliot, Borges, Wilde; ma anche gli spagnoli: pare che Ortega y Gasset citasse Dante nel mezzo di ogni sua lezione e la filosofa Maria Zambrano ci ha lasciato due saggi di straordinaria bellezza, uniti in un dittico dal titolo Dante specchio umano. Troviamo tracce di Dante anche nel poeta Seferis, intento a meditare sull’ultimo verso del canto di Ulisse (infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso), per confessarci poi che questo lacerto, più di ogni altro, gli lasciava “l’indelebile cicatrice della scomparsa del mondo antico.”

II

È da questa cicatrice di Seferis, mai definitivamente chiusa, dolorosissimo segno e fecondo, che nascerà uno degli scritti più belli dedicati a Dante. Non è un saggio organico, metodicamente critico; è una “conversazione” che condivide con i precedenti esempi di Eliot e di Borges un approccio obliquo, a tratti eretico e arbitrario, al testo dantesco. L’autore di questa Conversazione su Dante è un poeta russo di origine ebrea. La sua esistenza è ricoperta di cicatrici. Come Dante, la sua vita porta in sé le stigmate terribili del XX secolo. È un temperamento ontologicamente inquieto; un randagio che ama viaggiare, ogni volta tornando a disegnare una mappa di nomi e luoghi sempre identici; ma investiti di un’intensità lirica capace di trasformarli in tappe d’una geografia visionaria, fisica e spirituale. Mosca è il suo centro di quiete; l’Itaca fedele da abbandonare, per ritrovarla più bella ad ogni ritorno. Questo poeta di piccola statura, dalle movenze goffe, soffriva come un flagello la condizione dell’uomo come animale sociale. Mandel’stam non concepiva che si dovessero avere legami col potere politico, con un‘istituzione che pretendeva di collocarsi al di sopra della libertà e della ragione umana. Avrebbe percepito l’investitura gramsciana di intellettuale organico come una tunica di Nesso; al contrario di Dante uomo, che non abbandonò mai l’abito politico, imparato a proprie spese nell’arena delle aspre lotte municipali; né la sua ostinata parola letteraria, nella Commedia come nei trattati e nelle Epistole, tradì mai la funzione profetica. Malgrado la mobilità geografica della sua vita, Mandel’stam non poté fuggire il potere del suo tempo; lo conobbe anzi nella sua forma più estrema: la dittatura staliniana. Nella sua officina poetica si condensano versi dotati di incisiva bellezza e politezza espressiva, mai scombaciata dal lievito etico che li nutre: “Col mondo del potere non ho avuto che vincoli puerili”. Sono versi che Pasolini ripeterà spesso.

È annodando queste giunture biografiche che possiamo ricostruire il sostrato, umano e intellettuale, che regge il debito d‘amore di Mandel‘stam per Dante. Seppur lontane nel tempo e diverse per contesti storici, queste due vite si richiamano. Le stringe una linea destinale che va sotto il comune segno dell’esilio. A parlarci di questa condizione non ci soccorrono solo i testi poetici; esiste una preziosa fonte documentaria che testimonia l’identificazione di Mandel’stam con il sentimento dell’esilio vissuto da Dante. Si tratta di una pagina autografa di incerta datazione: un cartiglio sul quale il poeta russo ha trascritto le prime terzine del canto VIII del Purgatorio, proprio le terzine che Sapegno ha definito “l’elegia dell’esule”. E’ un autografo parlante. A distanza di secoli, in pieno Novecento, Mandel’stam opera un ripiegamento: parla di sé attraverso Dante. Legge la Commedia e si ferma a trascrivere quei versi struggenti nei quali Dante intona il pianto elegiaco che punge di malinconia il cuore dei pellegrini d’amore: i “navicanti” delle incerte rotte dell’esilio, sospinti verso l’ignoto e condannati a sentire in lontananza il pianto musicale della “squilla”, la campanella dell’ultima ora che fa tremare l’aria di tenerezza e porta il ricordo dell’addio ai “dolci amici” in patria. Come in uno specchio, Mandel’stam fa suoi questi versi del Purgatorio, li metabolizza e li proietta nel suo canto lirico, prosciugandone l’afflato elegiaco in un timbro più fermo e desolato. Se ne ricorderà quando la sentenza di Stalin cadrà su di lui, più terribile d’una condanna a morte: tenerlo in vita ma isolato. Certamente l’esilio non era una condizione estranea all’esistenza errabonda di Mandel’stam, che si sentì da sempre esule in patria; ma quando essa non fu più naturale cifra di un destino e divenne espulsione e persecuzione di una politica dittatoriale, ostile al libero pensiero, aprì in lui una ferita insanabile, che lo porterà vicino al suicidio. Da questo humus nasce l’incipit forse più famoso della poesia mandel’stamiana: “Ho imparato la scienza degli addii / nel piangere notturno, a testa nuda.” Questo poeta, nato nel secolo della caducità, delle dittature, dell’io straniero e plurale; nel secolo delle ferite inferte alla coscienza umana; della negazione della lezione illuminista; secolo di belve e di cane lupi; secolo della negazione della poesia e della sua impossibilità d’esistere dopo Auschwitz - questo poeta russo ha trovato il giro di parole non letterarie, ma completamente opache e metalliche, capace di riassumere il dolore del secolo. Cos’è la “scienza degli addii”? Non è solo il punto terminale di un secolo impoetico. È la formula di resistenza etica che il poeta oppone allo scialo del dolore e del male nella Storia. Commuove la testimonianza dei compagni del lager, dove Mandel’stam fu internato nel 1938. In questo spicchio di arcipelago Gulag si diffuse la leggenda di un poeta che non accettava di farsi ridurre a bestia e “consolava i detenuti cantando o recitando con il melodioso timbro di voce descritto da Lidija Ginzburg le sue traduzioni di Petrarca, vicino al fuoco…”. La poesia dantesca penetrò come una lama di luce anche in un altro tristo carcere: il lager. Quello di Primo Levi; e sarà la struggente rievocazione memoriale del canto di Ulisse, narrata in Se questo è un uomo. La “scienza degli addii” è la presa di coscienza che non esiste scrittura tessuta sulla gioia, perché la gioia parla una lingua povera e manchevole. Lo sapeva Mandel’stam e lo sapeva Dante. Si inizia a scrivere imparando la lingua del dolore e della perdita; guardando le cose da lontano, trafitti da una puntura malinconica. Cercando di assottigliare il peso di orfanità che ci abita. Cavando dall’esistenza una ‘scienza’ che nel poeta è ammaestramento del cuore in lotta contro l’aridità.

III

Scrivendo la Conversazione su Dante Mandel’stam avrebbe fatto proprie le parole di un altro poeta del Novecento, Paul Celan: “Il poema è solitario. Solitario e in cammino. Chi lo scrive gli rimane inerente. Ma allora il poema non si colloca, proprio per questa ragione, dunque già a questo punto, dentro l’incontro - dentro il mistero dell’incontro? Il poema tende ad un Altro, ne ha bisogno, ha bisogno di un interlocutore. Lo va cercando; e vi si dedica. Il poema - tra quali condizionamenti! - diventa l’opera di qualcuno che tuttavia continua ad usare i sensi, rivolto a tutto quanto appare integrandolo, apostrofandolo; diventa colloquio - spesso colloquio disperato.” Leggendo le pagine sul poema di Dante, si avverte, come un lavorio sottostante, l’impulso di Mandel’stam a cercare un interlocutore. È la ricerca di un poeta che si percepisce assente nel proprio secolo. Che ha lasciato la propria cetra appesa alle fronde dei salici. E allora il destinatario va cercato nel passato. Questa figura di poeta, ricco di nobiltà, solido e fraterno; modello etico oltre che estetico; compagno di strada col quale condividere un colloquio, questo destinatario Mandel‘stam lo scoprirà in Dante. E anche’egli poeta educato dalla Storia alla “scienza degli addii”. La Conversazione, scritta gridando “colla faccia levata” nella Crimea degli anni Trenta, è punteggiata di apostrofi, di interrogativi, di aperture emotive. Di camuffate identificazioni autobiografiche che portano questo poeta russo a immaginare il cammino di Dante in esilio, a seguirlo passo passo in un suo intimo sogno, come sarà più tardi per Borges e Mario Tobino: “A me, sul serio, vien fatto di domandarmi quante suole di pelle bovina, quanti sandali abbia consumato, l’Alighieri, nel corso della sua attività poetica, battendo i sentieri da capre dell’Italia” (pp.50-51) Su questi sentieri da capre dell‘Italia, dalla cadenza dei passi dell’esule, nasce per Mandel’stam il nucleo generatore del mezzo espressivo su cui si disporrà l’interna materia della Commedia: “L’Inferno, e ancor di più il Purgatorio, celebrano la camminata umana, la misura e il ritmo dei passi, il piede e la sua forma. Del passo, congiunto alla respirazione e saturo di pensiero, Dante fa un criterio prosodico. Egli designa l’andare e venire ricorrendo a un gran numero di espressioni multiformi e affascinanti. In Dante, filosofia e poesia sono sempre in cammino, sempre in piedi. Anche la sosta è una varietà di movimento accumulato: la piattaforma per una conversazione viene creata a prezzo di sforzi da alpinista. Il piede metrico è inspirazione, ed espirazione è il passo. Un passo che deduce, vigila, sillogizza.” (p.51) All’origine di quell’invenzione tecnica straordinaria che è la terzina a rime incatenate c’è la camminata dell‘homo viator: il passo dell’esiliato Dante si trasmuta in incedere metrico. Ecco il disporsi degli endecasillabi, a grappoli di tre; fluidamente trascinati dal sistema di rime: in questa zona di assoluta tensione fonica si legano il 1° e il 3° verso; mentre il 2°, che sembra rimaner chiuso nel suo alveo, si annoda al primo verso della terzina successiva e diventa rima di punta. Un incastro senza fine di vocaboli-guida: spie del genio linguistico dantesco; lì si fondono pensiero, enunciato, risonanze ritmiche; si modulano archi sintattici, serrati o dilatati; si squaderna la pluralità stilistico-lessicale del poema. Lì si direziona quel variatissimo fascio di scorrimenti profondi di cui è innervata la Commedia. Nella Conversazione Mandel’stam riflette a lungo sull’invenzione della terzina come elemento unificatore della materia poetica: “Cercando di penetrare, per quanto possono le mie forze, nella struttura della Divina Commedia, giungo alla conclusione che tutto il poema costituisce un’unica strofa, unitaria e indivisibile” (p.70) Essa non è solo eccezionale veicolo espressivo capace di reggere il peso di tanta figurazione. Ma la terzina dantesca crea una concatenazione che ordisce il discorso poetico. Se torniamo a leggere i versi della “scienza degli addii” troviamo che l’immagine-metafora scelta da Mandel’stam come cuore geometrico del testo è la tessitura (“E io amo i gesti quotidiani della tessitura:/la spola ordisce, il fuso ronza/e già, peluria di cigno,/la scalza Delia vola incontro!”). Risolta prima sul piano della prassi creativa questa metafora della tessitura passa poi all’interpretazione del testo dantesco; ma, più in generale, approda ad una definizione complessiva dell’idea di testo poetico già presente, in nuce, all’altezza dell’incipit della Conversazione, là dove si dice che il “discorso poetico è un processo incrociato” che diverrà poi “tappeto, con un gran numero di orditi che si distinguono l’uno dall’altro solo nella tinta impiegata per l’esecuzione, solo nella partitura del comando”; “un tappeto resistentissimo, fatto di sostanza liquida - un tappeto un cui le correnti del Gange, percepite come tema tessile, non si mescolano ai campioni d’acqua presi dal Nilo o dall’Eufrate, ma conservano la loro policromia - nei cordoni, nelle figure, negli ornamenti” (p.45). In questo passaggio emerge un’altra costante della saggistica di Mandel’stam. Non deve stupire che fonetica, scienza biologica, musica, geologia si intreccino da un capitolo all’altro della Conversazione. Era il sogno di una prosa stratificata su più linguaggi, come ci viene descritto da Angelo Maria Ripellino nella sua Nota sulla prosa di Mandel’stam: “Il sogno di Mandel’stam è di costruire una prosa-Ermitage, o meglio (con locuzione a lui cara) cattedrali verbali, che siano luogo di convergenza e compendio di varie arti e branche dello scibile. E perciò comprime insieme ed incastra eterogenei strati culturali, trasponendo ora la musica in ottica, ora in botanica la pittura, con un’attenzione spasmodica al particolare, ai piccoli nulla. […] un pingue calligrafia a forti inchiostri, in cui le cose acquistano coscienza dei propri contorni e sentore di imprevedibili contiguità.” Su questa convergenza dialogante di linguaggi, appartenenti ad ambiti differenti, si struttura la Conversazione su Dante.

IV

La prima dimensione di analisi del poema dantesco è quella fonetico-musicale. L’orecchio di Mandel’stam è finissimo nel notomizzare e classificare sia la più piccola corolla di sillabe che l’ampia orchestrazione formale, propria del dettato di un intero canto. Terreno privilegiato e ricchissimo, lo sperimentalismo linguistico di Dante, la sua babelicità lessicale, gioca a favore di un’analisi di questo tipo. E abbiamo visto come il nucleo profondo della parola “suono” come “processo incrociato” sia talismano deposto sulla soglia della Conversazione. Il discorso poetico, afferma Mandel’stam in queste righe d’esordio, si compone di due specie di suono: la prima di esse è “il cambiamento che possiamo percepire attraverso l’udito”, scorrendo la tessitura fonica del testo; la seconda è “il discorso vero e proprio, ossia l’attività che, sul piano dell’intonazione e della fonetica, viene svolta da tali strumenti.” (p.42). Suono e fonetica costruiscono un’orbita semantica di partenza, sulla quale l’analisi di singoli canti della Commedia allargherà fino all‘assimilazione del testo a strutture musicali più complesse. Dante, “provetto forgiatore di strumenti poetici”(p.43), conosceva in sommo grado la scienza di trasformare e incrociare innumerevoli suoni attraverso le figurazioni del suo poema: i lottatori nudi e luccicanti che si avvicinano per battersi; i moscerini d’acqua che cedono il posto alle zanzare, e insieme alle lucciole danzano per la vallata; il rombo di urla e bestemmie che riempie l’aria nera del vestibolo dell’Inferno; il battere dei denti dei traditori, in nota di cicogna; l’affettuoso grido di Francesca; il virtuosismo scabro, ruvido, abrasivo del canto di Pier delle Vigne - sono solo alcuni sparsi esempi della prosodia dantesca come “tappeto” fonico percorso da infinite screziature. Il lessico di Dante, il suo genio combinatorio, i suoi inauditi neologismi, sono, per Mandel’stam, un modo per accedere all’officina poetica del poeta. Il plurilinguismo continiano ritorna, seppur in forma più libera, nello stupore di questo poeta russo messo di fronte all’orchestrazione prosodica della Commedia: “lessico da astronauta, da concerto, da uditorio popolare, da predicatore”, mescidato all’infantile “cinguettio dei bambini”, al tecnicismo botanico, al sofisma teologico. Dante porta “la parlata italiana” del suo tempo “sull’arena mondiale” : “La più dadaistica delle lingue romanze si insedia così al primo posto in campo internazionale” (p.49)

Mandel’stam prende le mosse dai mattoncini della lingua poetica. Dalle cellule sonore che si aggregano in sillabe, alle sillabe accordate in alchimie numeriche di undici. Senza questa minima radice non si coglie la portata dello sperimentalismo dantesco. Mandel’stam sposta l’analisi fonetico-musicale all’architettura di interi canti. Vuol penetrare nel loro intimo principio compositivo. Prende le mosse dai primi canti dell’Inferno. Dopo l’epigrafe parlante incisa sull’architrave della porta, Dante è messo dentro le segrete cose. C’è un vestibolo immerso nell’oscurità. Dante personaggio è ridotto a cecità. Ficca l’occhio nel buio, ma non scorge nulla. La sua lingua poetica deve farsi porosa registrazione di suoni. Grida e lamenti; orribili idiomi, parole acute e irose che si slegano per l’aria fatalmente muta di luce. La sola bussola è l’orecchio. In questa notte senza tempo i sensi del pellegrino si azzerano e tutto si concentra nella tensione dell’udito. Mandel’stam ci restituisce il senso profondo di questa condizione del viaggio dantesco con una metafora di grande impatto e letterarietà: “Le forme di luce fendono a stento la via come denti.” Quando Dante varca le rosse mura turrite della città di Dite una vasta campagna punteggiata di arche roventi gli si apre davanti. Terra rossa di eretici tormentati in culle di fuoco. Si colloca qui l’analisi mandel’stamiana del canto X: l’episodio di Farinata degli Uberti e Cavalcante Cavalcanti, padre di Guido. L’orchestrazione dialogica del canto è, prima di tutto, “un denso calamizzarsi di forme verbali“, in tutto il loro spettro di risorse espressive: improntato al presente e al futuro è il tono fieramente sdegnoso del capo ghibellino; mentre la vena, accorata e malinconica, dell‘imperfetto sostiene la voce del padre che si leva a cercare il figlio; mentre il passato remoto e il condizionale passato sostengono la narrazione dei fatti, fino a sfumarli in un congiuntivo che conferisce loro una patina morbidissima di desideri. Sul movimento di questi tempi verbali si articola la schermaglia dialogica tra il capo ghibellino e il viandante di schiatta guelfa. In questo corpo a corpo verbale è incastonato l’intermezzo dolente di Cavalcante Cavalcanti, che “si dissolve come un oboe o un clarinetto, che hanno finito di suonare la loro parte” (p.58). Il suo compagno di pena, Farinata, senza scomporsi, può allargare il timbro del suo discorso in un “arioso”. Come lo sviluppa Dante nell’episodio? “Molto tempo prima di Bach, e in un’età in cui non si costruivano ancora i grandi organi monumentali, ma solo modestissimi prototipi embrioni del futuro mostro, un’età in cui lo strumento principe restava ancora la cetra usata per accompagnare la voce umana, l’Alighieri costruì, entro lo spazio verbale, un organo di potenza smisurata, e già si deliziava di tutti i suoi possibili registri e ne gonfiava i mantici, e lo faceva mugghiare e tubare da tutte le su canne.” (p.64) La voce di Farinata proviene da un registro basso, ampio, rotondo (l’apostrofe a Dante suona voluminosa: “O Tosco…”); non si mescola al tremulo clarinetto di Cavalcante, ma prosegue insinuandosi in “un tondo finestrino acustico” e si libera in un monologo che ha la potente solennità di un organo.

Ma dove la chiave interpretativa fonetico-musicale tocca il suo punto più alto è nell’analisi del canto XXXIIII dell’Inferno: la tragedia personale del conte Ugolino. Non c’è scrittore, sia italiano sia straniero, che accostandosi al poema dantesco non abbia subito il fascino di questo episodio. Tutti i dantisti, ad esempio, ricordano perfettamente la sensazione di straordinaria leggerezza portata dalle pagine di Borges dal titolo significativo de Il falso problema di Ugolino. Sul celebre verso 75 (“poscia, più che ’l dolor poté ’l digiuno”) si addensano le nebbie, oscure e raffinate, della secolare esegesi dei commentatori. Il problema racchiuso nel verso è così riassunto da Borges: “Il problema storico se Ugolino della Gherardesca abbia esercitato nei primi giorni di febbraio del 1289 il cannibalismo è evidentemente insolubile”. Troppo spesso gli studiosi dimenticano che le ambiguità semantiche connaturate al testo letterario non sono frutto del caso e del calcolo, ma seguono la logica rovesciata delle ragioni d’arte, persino quando i fatti hanno per base la Storia. Le conclusioni di Borges sono chiare: “Volle Dante che pensassimo che Ugolino (l’Ugolino del suo Inferno, non quello della storia) mangiò la carne dei suoi figli? Io arrischierei la risposta: Dante non ha voluto che lo pensassimo bensì che lo sospettassimo. L’incertezza è parte del suo disegno. […] Di Ugolino dobbiamo dire che è una testura verbale che consta di una trentina di terzine. Dobbiamo includere in questa testura la nozione di cannibalismo? Ripeto che dobbiamo sospettarla con incertezza e timore. Negare o affermare il mostruoso delitto di Ugolino è meno tremendo che intravederlo.” E infine la spiazzante conclusione: “penso che Dante non sapesse di Ugolino molto di più di ciò che riferiscono le sue terzine. Schopenhauer dichiara che il primo volume della sua opera capitale consta di un solo pensiero, e che non trovò una maniera più breve di comunicarlo. Dante, al contrario, direbbe che quanto immaginò di Ugolino sta nelle discusse terzine.”. Lo studioso (ma ciò vale per qualsiasi lettore di Dante) deve coscientemente muoversi in questa ambiguità: accettare che nella tenebra della Torre della Fame “Ugolino divora e non divora gli amati cadaveri, e questa ondulante imprecisione, questa incertezza, è la strana materia di cui è fatto. Così, come due possibili agonie, lo sognò Dante, e così lo sogneranno le generazioni.” Lo stesso episodio, nella lettura di Mandel’stam, non è meno affascinante. Siamo nel VII capitolo della Conversazione su Dante. Bellissimo l’attacco: “I canti danteschi sono partiture di una speciale orchestra chimica, in cui per un orecchio estraneo sono meglio percepibili le similitudini, che coincidono con gli slanci, e gli a solo e gli ’ariosi’ […]” (p.114) L’Ugolino di Mandel’stam è una partitura musicale scritta per violoncello. L’intero canto trentatreesimo è “avvolto in un timbro di violoncello, denso e grave come miele rancido, avvelenato. La densità del timbro di violoncello è destinata a rendere come meglio non si potrebbe il senso di attesa e tormentosa impazienza” (p.115). In questo registro timbrico si articola il racconto di Ugolino, “una della più significative arie di Dante”. Racconto di eccezionale irripetibilità perché, come quello di Francesca, è vivo una sola volta: “uno dei casi in cui un uomo al quale è concessa un’unica possibilità di essere ascoltato, mai più ripetibile, si trasfigura completamente sotto gli occhi dell’ascoltatore, suona la sua infelicità come un virtuoso e trae dalla propria sciagura un timbro mai udito fino ad allora e a lui stesso sconosciuto.” (pp.115-116). Per Mandel’stam quindi la tragedia di Ugolino è fatta di una materia che può essere narrata solo col timbro del violoncello; e il nome stesso del figlio Anselmuccio è “un aspro nome da violino”. Timbro che acquista rilievo drammatico perché calato nello spazio della prigione: “Il carcere completa e condiziona il lavorio discorsivo del violoncello autobiografico” (p.116). Il monologo di Ugolino diventa così “largo di violoncello” e quando giunge alla narrazione della morte dei tre figli si snoda come una “ballata”, intarsiata dalle voci dei fanciulli e culminata nei “sordi ululati del violoncello”. Tutta la partitura del canto collabora a creare una perfetta fusione di timbro (tematico) e struttura, che non vengono sovrapposti “come su una forma da scarpe” (p.120), ma risolti con sapiente calibratura stilistico-tonale.

L’intuizione di Mandel’stam circa una composizione musicale di alcuni canti della Commedia non è senza fondamento. “Dante stesso - scrive Marco Santagata nel suo ultimo saggio - in una formulazione teorica fondata sull’analisi del linguaggio poetico, definisce la poesia come ’cosa per legame musaico armonizzata’, vale a dire come una tessitura verbale organizzata armonicamente in forma musicale.” Dante vi torna sopra nel De vulgari eloquentia: “se consideriamo che cos’è a rigore la poesia: la quale non è altro che una composizione ad arte fatta di retorica e di musica.” Non è peraltro facilmente dimostrabile se e in che misura Mandel’stam conoscesse il Convivio di Dante, da cui il primo passo è tratto. L’assenza, nella Conversazione, di riferimenti, di citazioni e di confronti del poema con le altre opere dantesche, cosiddette ’minori’, rendono difficile ogni ipotesi. Tra le poche fonti esterne c’è la testimonianza del testo di lavoro: una Commedia tascabile, quasi unico avere di Mandel’stam. Né altro è ricavabile dalle preziose memorie della moglie Nadezda. Più realistica, ma altrettanto discutibile, è forse l’idea che ad un metodo di lettura del testo dantesco in chiave fonico-musicale il poeta russo sia pervenuto per via intuitiva; per finezza d’orecchio poetico; per un autonomo studio della lingua italiana; o, infine, per obliquo influsso di una temperie culturale imbevuta di dettami avanguardistici. Dettami tra i quali spiccava la tendenza al sincretismo dei linguaggi artistici.

V

“Dante non ingaggia mai duelli con la materia senz’aver messo a punto un dispositivo per catturarla, senza essersi armato di un misuratore per il conteggio del tempo concreto che gocciola o fonde. Nella poesia, dove tutto è misura e tutto procede dalla misura e ruota intorno ad essa e grazie ad essa, i misuratori sono strumenti di una qualità tutta particolare, che adempiono ad una particolare funzione attiva. Qui il tremolante ago della bussola non solo asseconda la tempesta magnetica, m è lui stesso a provocarla.” (p.56) Nella concezione che Dante ha della poesia, il “dir” - la parola che si organizza in discorso poetico, in stile - non deve essere “diverso” (letteralmente ’disgiunto’, ‘non corrispondente’ ) dal “fatto” - ossia la cosa della quale intende parlare, la materia rappresentata: “sì che dal fatto il dir non sia diverso” (Inf., XXXII, v.12). Il perfetto aderire del linguaggio poetico al suo oggetto; l’ansia di far combaciare vocabolo e cosa, era anche il rovello della ricerca di Mandel’stam. Ed è su questo assunto portante della Commedia che egli, nella sua Conversazione, costruisce un secondo livello d’analisi: quello incentrato sulla natura e la tenuta del realismo dantesco. Il tema dell’assoluta, quasi fisica, aderenza della poesia dantesca alla materia del canto era già presente nelle riflessioni degli antichi commentatori; ma viene fissato mirabilmente da Auerbach quando definisce Dante “poeta del mondo terreno”. E’ incrociando le sue riflessioni con quelle di Mandel’stam che si inquadra il metodo critico della Conversazione. Aldilà matericamente terreno quello della Commedia dantesca: “immagine del mondo terreno: con tutta la sua ampiezza e la sua profondità […] completo, non falsato e ordinato definitivamente; la confusione del suo corso non è taciuta e nemmeno mitigata, o privata della sua qualità sensibili, ma mantenuta in piena evidenza e fondata su un piano che lo comprende e lo libera da ogni apparenza casuale”: per Auerbach, come per Mandel’stam, la rappresentazione dantesca, la sua inaudita mimesis, è realismo risolto in un nodo inestricabile di dottrina e fantasia, storia e mito. Il naturalismo di Dante è nuovo marchio di fabbrica. Scrive ancora Auerbach: “l’immediatezza con cui egli solleva nell’aldilà qualsiasi uomo dalla folla dei vivi, per interpretarvi la sua realtà e la sua essenza, come se fosse tanto celebre quanto una figura mitica, o almeno storicamente fissata, di cui tutti sanno cosa significa, questa immediatezza sembra essere stata ignota prima di lui.” Un dispositivo retorico capace di portarci nel corpo vivo del realismo dantesco è l’uso della similitudine. Dante è poeta che tende alla chiarezza; vuole che la limpidità concettuale sia ottenuta dalla massima politezza formale. Fissa episodi, voci, figure con poche linee, di estrema esattezza; ma se ciò non basta allora diventa analitico e compie un giro più largo. L’ampiezza argomentativa non complica il dettato, ma lo solleva a estrema chiarificazione. Su questo ideale di poetica si costruiscono le similitudini dantesche, sulle quali il lettore è portato a riflettere, rallentando la lettura. Tra l’immagine del naufrago che affannato si volge indietro a scrutare il pelago minaccioso e il perdersi nella vista di Dio, si apre l’infinita ricchezza delle similitudini che hanno la funzione di incarnare fatti e sentimenti: “ animali e uomini, destini e miti, idilli, azioni di guerra, paesaggi, descrizioni naturalistiche tratte dalla strada, il più generico avvenimento periodico che sia legato alla stagione o al mestiere, il ricordo più personale, tutto vi è contenuto; le rane gracidanti alla sera, un ramarro che sfreccia attraverso la via, le pecore che si spingono fuori dal chiuso, una vespa che ritrae il pungiglione, un cane che si gratta, pesci, falchi, colombe, cicogne; un improvviso turbine che sradica gli alberi, il paesaggio di una mattina di primavera, quando è caduta la brina, il cadere della sera al primo giorno di un viaggio per mare, un monaco che ascolta la confessione di un omicida, una madre che salva il figlio dal fuoco, un cavaliere che balza solo avanti agli altri, il contadino sbalordito a Roma”. Questa vertiginosa lista di Auerbach rubrica l’apertura a ventaglio delle similitudini presenti nelle tre cantiche e mette l’accento sulla loro cifra espressiva: esse non devono decorare o scorrere parallele alla narrazione in versi; devono chiarire. Le similitudini dantesche sono cavate da concreti lembi di realtà e a questa tessitura devono ricondurre. Il “fatto” deve rivivere, incorporato, nel “dir”: è l’impalcatura portante dell’idea e della funzione poetica in Dante. Lo stesso Borges rifletté molto sul realismo minuzioso che permea le figurazioni della Commedia. Notò ad esempio che a Dante non bastava dire che l’uomo, abbracciatosi ad un serpente, si metamorfosa in serpente, ma sente di dover paragonare la trasformazione al fuoco che divora la carta, preceduto da un alone di bruno in cui muore il bianco ma che ancora non è nero (Inf., XXV, 66); né gli è sufficiente dire che, nell’aria nera del settimo cerchio, per scrutarlo i dannati socchiudono gli occhi, ma li raffronta a uomini che si guardano sotto una vaga luce lunare, o al vecchio sarto che infila l’ago nella cruna (Inf., XV, 21). Mandel’stam dedica molte pagine della sua Conversazione al realismo delle similitudini dantesche. Numerose sono le analogie con le conclusioni di Auerbach. Nel capitolo III, Mandel’stam trova un’efficace “segno concreto per definire l’istinto creatore di forme con il quale Dante accumula e fa slittare le sue terzine.” (p.71) Per sintetizzare la ricchezza delle similitudini del poema l’immagine più pregnante è quella di un poema-poliedro composto da tredicimila facce, opera di “api dotate di un geniale intuito stereometrico”; capaci di rifinire tante piccole “facce” senza mai perdere di vista l’insieme. Le similitudini dantesche, come l’intera strumentazione retorica del poeta, sembrano nascere dal lavorio di queste api: l’intima geometria che le sostiene non porta a risultati “descrittivi” o “puramente figurativi”; ma esse “hanno sempre il concreto scopo di rendere l’immagine interna della struttura o della tensione.”(p.72) E’ il caso del “vastissimo gruppo delle similitudini ’ornitologiche’ - tutte queste lunghe carovane ora di cicogne, ora di gracchi, ora le classiche falangi militari delle rondini, ora l’anarchico e disordinato stormo dei corvi, incapace di mantenere la formazione chiusa romana” (pp. 72-73): un nucleo di similitudini queste che rimandano al campo semantico del cammino, dell’istinto di pellegrinaggio, del viaggio proprio dell’esule Dante. Per Mandel’stam, l’ossessivo ruotare dell’immaginario del poeta sul viaggio, o sulle similitudini fluviali incentrate sull’Arno, rivelano la presenza, nel testo, dell’importo traumatico della perdita, la confessione, più vera di ogni autobiografia, dell’addio forzato alla patria, sofferta come espulsione dolorosa dall’Heimat: “Questo gruppo di similitudini, che mostra un’eccezionale ricchezza e vien giù gradualmente di terzina in terzina, conduce sempre a un insieme di cultura, patria e cittadinanza sedentaria, a un complesso politico e nazionale condizionato dagli spartiacque non meno che dalla portata e dalla direzione dei fiumi.” (p.73). C’è in questo studio appassionato di Mandel’stam la presenza di un debito d’amore che prosegue fin dentro una ricerca non più saggistica ma poetica. Il caso dell’ampia similitudine del contadino che risale il pendio, mentre i moscerini d’acqua cedono il posto alle zanzare e vanno in un’unica danza con le lucciole, lungo la vallata (Inf., XXVI, vv. 25-42), è quello di una tarsia dantesca che finisce nelle maglie del processo creativo di Mandel’stam, diventando parte di uno smarrimento esistenziale pienamente novecentesco. Seguire questo travaso alchemico, da un testo medievale ad uno moderno, significa andare alla radice dell’inconscio del poeta; o, per citare Eliot, al dialogo fecondo tra talento individuale e tradizione artistica. La bellezza della scena dantesca, dove in un silenzio di vallata campestre si agita, inavvertito, un pulviscolo di moscerini d’acqua, cacciati dal ronzio di zanzare, si fissa nella memoria poetica di Mandel’stam. Riappare nella lirica Minimo con minime ali, proiettata dal poeta russo su uno sfondo cosmico, nel quale ruota la poesia, figlia del sole. Questo “corpicino” minimo è dotato di “minime ali”, ma abbastanza forte da innalzarsi “nell’empireo” e lì brillare come “lente ustoria”. Questo corpicino lanciato nel cosmo è il suono della voce umana, la sua esile traccia fisica: “un niente di zanzara” lanciato allo “zenith”; un sibilo di pianto che geme come scheggia nell‘azzurro, subito coperto dal “fioco ronzare di càrabi”. E’ il nudo silenzio della condizione umana. Ci passano dentro gli stellati mondi evocati da Bruno, Pascal e Galileo; il pensiero fingente di Leopardi che naufraga per un istante nel mare dell’essere e viene richiamato alla terra dallo stormire del vento. Mandel’stam lo impara leggendo Dante. Lo immagina come un silenzio allo zenith incrinato per un istante dal pianto poetico: elegia sfregata nell’aria con un minimo ronzio d’insetto, coperto da altri insetti che grideranno più forte. È questo il testo poetico mandel’stamiano che forse più di tutti condensa l’esperienza di assimilazione del realismo visionario, racchiuso da Dante nelle sue lenticolari similitudini.

VI

Leggere il poema dantesco con l’ausilio degli strumenti scientifici, chimici, biologici e geologici, intrecciati alla linguistica, alla fonetica, alla composizione musicale. Era questo l’ideale di un’ermeneutica-Ermitage coltivato da Mandel’’stam nella Conversazione su Dante. Accedere ai livelli profondi del testo poetico significa andare al fondo dell’ “incessante metamorfosi del substrato di materia poetica, teso a conservare la propria unità e a cercar di penetrare all‘interno di se stesso” (p.83). Nelle architetture della Commedia, Mandel’stam cercava la chiave del poema-poliedro, calibrato sulla perfetta unità tra poesia e struttura. L’intuizione critica capace di unificare tutte le precedenti lo raggiunge lungo l’itinerario di esule e viene raccolto dal poeta direttamente sulla superficie della terra. La moglie Nadezda ci racconta che a Koktebel’, in Crimea, tutti avevano la mania di raccogliere i ciottoli che la risacca spingeva sulla spiaggia. La pietra privilegiata di questo collezionismo naif erano le corniole. Nel villaggio, la corsa alla ricerca di queste pietre serpeggiava come passione comune, al limite della competizione. Un giorno, Nadezda e Osip camminano sulla spiaggia. Lui la segue in silenzio. Rimane indietro. Guarda ostinato i ciottoli sparsi sulla riva. Ma le sue tasche non si ingrossano di preziose corniole da mostrare durante il pranzo; si intestardisce a raccogliere certe pietre strane, anonime, scheggiate, più simili a scarti e residui che a tesori. La voce di Nadezda lo raggiunge: “Gettale, che te ne fai di quelle?”. Lui non l’ascolta. Passano altri giorni, forse mesi. A Koktebel’ i Mandel’stam riescono ad avere la carta e una risma di fogli grigi. Benedetto contrabbando! All’epoca dei loro pellegrinaggi da Leningrado a Mosca, tra Caucaso e Crimea, trovare la carta era un miracolo. Sulla carta grigia, simile probabilmente a quelle usate oggi per incartare alimenti, in una Crimea anni Trenta Osip comincia a dettare alla moglie la Conversazione su Dante, intercalando il ritmo orale della stesura con litigi e insulti. Ad un certo punto, racconta Nadezda, arrivò la frase: “chiede apertamente consiglio”. A chi? Proprio ai ciottoli di Koktebel’: per penetrare la struttura della Commedia. “E tu che dicevi, gettali!…Ora hai capito a cosa mi servivano?”.
A Koktebel’ sappiamo che Mandl’stam passò settimane “d’assidua lettura dei poeti italiani”. Oltre a Dante, leggeva Petrarca, Ariosto e Tasso. Scrisse un ciclo di poesie dedicate all’autore dell’Orlando furioso. Dobbiamo arrivare all’ultimo capitolo della Conversazione su Dante per trovare, incuneato nel vivo del tessuto argomentativo, l’unica scheggia scopertamente autobiografica del saggio: “Le pietruzze del Mar Nero gettate a riva dall’alta marea mi sono state di non poco aiuto mentre veniva maturando la trama concettuale di questa mia conversazione. Con molta franchezza ho domandato consiglio ai calcedoni, alle corniole, ai gessi cristallini, agli spati, ai quarzi ecc. Ho compreso allora che la pietra è una specie di diario del tempo meteorologico, una specie di grumo meteorologico. La pietra non è altro che il tempo meteorologico stesso, sottratto allo spazio atmosferico e nascosto dentro lo spazio funzionale. Per comprendere questo, bisogna immaginarsi che tutti i cambiamenti geologici e le stesse dislocazioni geologiche si prestino benissimo a venir scomposti in elementi del tempo meteorologico. La meteorologia è, al riguardo, più primordiale della mineralogia, l’abbraccia, la bagna, le dona antichità e significato.” (p. 143) E costruzione stratificata di pietra, di minuti cristalli, è, per Mandel’stam, il poema dantesco. Le metafore, le similitudini, lo snodarsi incatenato delle terzine, il corpo proto-meccanico di Gerione, le coreografie di danze e canti del Paradiso; l’unità di luminismo, fonetica e fluidi, le architetture orchestrate in forme musicali, la volumetria conica dell’Inferno, sono strati, fasce testuali di una geologia minerale nella quale i singoli canti ed episodi si muovono come “cambiamenti geologici”, “dislocazioni” suscettibili di altrettante infinite scomposizioni interpretative: “Leggere Dante è prima di tutto un lavoro interminabile, che a misura dei nostri successi ci allontana dalla meta. Se la prima lettura non dà che un po’ di affanno e un sana spossatezza, per quelle successive munitevi d’un paio di scarponi svizzeri ben chiodati.” (p.50) Nasce da questo retroterra il terzo livello di lettura del poema dantesco: la cristallografia. Lo spunto arriva a Mandel’stam dalla scienza che studia la configurazione strutturale dei cristalli; la loro storia, la loro formazione; il segreto dei loro rabeschi. È questo il filtro critico che carsicamente corre dentro la Conversazione e unifica lettura fonetico-musicale e riflessione sul realismo dantesco. Penetrare nella cristallografia della Commedia: è questo l’obiettivo estremo dell’esegesi mandel’stamiana. Bucare la superficie testuale come fosse “pietra” significa accedere alle cristallizzazioni del ’tempo’, ossia - fuor di metafora - alla combinazione delle terzine, poi dei canti, poi agli anelli di congiunzione degli episodi, poi ai monologhi. Dante fa della Commedia un poema di cristalli: scaglie luminescenti ritagliate dalla materia del vivente e collocate in uno “spazio funzionale”, la cantica, luogo dove i canti si muovono come “cambiamenti geologici”. Accedere alle strutture profonde della cristallografia del poema significa, per Mandel’stam, ricostruire il “diario” del processo creativo di Dante, perché ogni grumo geo-testuale è strato composito: pellicola del tempo della scrittura. In questo senso, scrive il poeta russo in un altro passaggio, i “brogliacci di Dante, va da sé, non ci sono pervenuti. Noi non abbiamo la possibilità di lavorare sulla storia del testo. Ciò non implica, naturalmente, che non ci siano stati dei manoscritti ricoperti di scrittura e di correzioni e che il testo sia sgusciato fuori già pronto come Leda dall’uovo o come Pallade Atena dalla testa di Zeus. […] Da secoli, ormai, si scrive e si parla di Dante come se egli si fosse espresso direttamente su carta bollata.” (p.86). Ma l’assenza di autografi danteschi e di varianti capaci di immetterci nel laboratorio del poeta non rimane cruccio e perdita; ma per Mandel’stam è “cosa che non ci riguarda”. Anche se i “brogliacci” di Dante non ci soccorrono nella ricostruzione della storia e della formazione del testo, le scalpellature del “martelletto geologico” del lettore ci portano dentro il “diario” del testo: attraversare l’intera cristallografia della Commedia - come suono, luce, realismo, figure retoriche, invenzioni di rime ecc.- significa approdare ad un diario della funzione e del meccanismo poetico; ad un tipo particolare di sguardo sul mondo, nel quale il tempo non fugge, ma resiste abbracciato, conficcato come minima scheggia, nel corpo del testo. La cristallografia della scrittura poetica diventa, nel contempo, cristallografia del metodo critico, anch’esso diario di bordo di un tempo da lettori. Tempo di pagine piene di parole raccolte come calcedoni, corniole, spati, quarzi, depositati con pazienza nella bisaccia per essere ricongiunti nel secondo tempo della riflessione ermeneutica.

Mandel’stam ha trovato nella cristallografia l’elemento di raccordo, il medium capace di condurre a unità gli altri due livelli entro una cornice esegetica armonica, disposta nella libera forma della ‘conversazione’. Una ’conversazione’ lampeggiante di flussi di coscienza, di intuizioni, di collage di parole-minerali; di versi citati e di associazioni di linguaggi. E la conformazione dei cristalli è diventata tutt‘uno con il “dire” del lettore critico. Mandel’stma ha configurato la Conversazione su Dante, la sua struttura interna, come un cristallo di rocca. Ha trasformato lo scavo della parola nel testo in un “martelletto geologico”, capace di condurci “all’interno del cristallo di rocca”, per mostrarci: “lo spazio di Aladino che vi è celato, il carattere di lampione, di lampada, di gocce pendenti da un lampadario, che è proprio delle stanze da pesci racchiuse in esso” (p.142) Il lettore mandel’stamiano della Commedia deve camminare sul testo come un geologo su di un terreno di sabbia e rocce. Chinarsi a raccogliere un sasso, in assoluto silenzio. Imparare “le venature, l’opacità, la granulosità” (p.94), la sovrapposizione di rocce; una coloritura, un deposito calcareo. E poi scegliere un punto nevralgico in cui conficcare il martelletto, in direzione di oscure vene profonde. Il finale della Conversazione su Dante non è un confine chiuso. È anch’esso diario di un tempo, quello dell’interpretazione testuale, assimilabile ad un processo cristallografico aperto a infinite aggiunte. Da questa disponibilità illimitata all’ascolto del testo prende le mosse l’ammaestramento ad un’altra scienza: la “scienza della poesia”. “Il lettore va messo al suo posto, e insieme a lui il critico che egli nutre. La critica, in quanto arbitraria interpretazione della poesia, non deve più esistere, deve cedere di fronte ad una obiettiva ricerca scientifica, alla scienza della poesia.”

Osip Mandel´stam. Conversazione su Dante. Il melangolo.

15 marzo 2012

"Intervista a Dariush" di Mira Giromini

A Lucca, in via Elisa n. 41, si trova una vero gioiello per gli amanti dell’arte: la galleria L’Arte del cordiale gallerista Pier Luigi Puccetti, che traghetterà chiunque lo voglia nel mondo della contemporanea pittura locale e non. Il gallerista Pierluigi, è stato così gentile da organizzare un incontro nella casa dell’artista Dariush, pittore di fama internazionale, nato a Teheran nel 1944, da oltre venti anni residente in Italia.

Se la casa è lo specchio dell’anima, vivere in un luogo tanto lontano dal centro cittadino, come nella casa di Dariush, stimola alla meditazione e alla riflessione, ed infatti Dariush è un filosofo di vita. La sua idea è tanto semplice quanto geniale: per lui “l’arte è un mezzo per guadagnare tempo per vivere”.

Tiziano Terzani affermava che “l’economia di oggi è fatta per costringere tanta gente a lavorare a ritmi spaventosi, per produrre cose per lo più inutili, che altri sempre lavorando a ritmi spaventosi comprano; questo meccanismo perverso fa si che le multinazionali si arricchiscano a discapito della felicità della gente”; sacrificare la vita al lavoro con ritmi insostenibili rende l’uomo schiavo pagando a caro prezzo la sua libertà; lavorare meno e guadagnare meno permette di coltivare le proprie passioni e conquistare “quel tempo” che conduce alla felicità, questo credo sia il senso che vuole trasmettere Dariush.

La casa di Dariush oltre ad essere accessibile solo attraverso una strettissima strada è strutturalmente rudimentale e molto vicina alle capanne di sasso che riempiono le campagne della Garfagnana. L’interno è invece accogliente e colorato, pieno di quadri, dall’ingresso fino al tetto. Oltrepassato l’ingresso, con un bel camino dove vi è la cucina, decorata alle pareti da piccole litografie, vi è una scala che conduce ai piani superiori dove vi sono le camere e lo studio. La cultura mediorientale prevede pareti dai colori caldi rosso-arancio e morbidi tappeti a terra per rendere, ogni singola stanza, tanto confortevole, che corpo ed occhio ovunque si muovano, si possano sentire protetti da questo horror vacui. A rendere le pareti ancora più ricche vi sono le molte espressioni artistiche di Dariush che nell’arco di tutta la sua vita ha accumulato, in diverse ricerche e stili fino all’esito attuale. Le pareti sono infatti, senza lasciare spazi vuoti, cariche di quadri di ogni forma e dimensione e disposti in modo che, come lego, si incastrino tra loro. Lo studio di Dariush si trova all’ultimo piano, sotto il lucernaio: rigorosamente predisposto sui tappeti colorati, circondati a terra da pile di fogli bianchi, disegni e materiale per dipingere.

Dopo aver visitato la casa, in modo da conoscere meglio la personalità di chi vi abita, ci si stupisce maggiormente quando si pensa che lui stesso è stato l’ attento restauratore del rudere, che si era trovato tra le mani, trasformandolo molto più di una capanna di campagna, in una vera casa d’artista. Dariush, stupisce ancora quando, da buon padrone di casa, prima di iniziare l’intervista e introdurci nel suo mondo, ci offre un the in una di quelle belle teiere in ceramica iraniana.

Quando ha iniziato a dipingere? Quando ha deciso di iscriversi alla scuola di arte decorative e di intraprendere il cammino dell’arte?

Quando io andavo a scuola, sono sempre stato bocciato in letteratura, addirittura nove volte. Di matematica andavo meglio ma la mia miglior materia era arti applicate; ero bravo in tutte le cose che riguardano l’ artigianato. Per esempio, durante la Pasqua è tradizione cuocere l’uovo sodo e colorarlo, io ero bravo a decorarlo. Anche in cucina ero assai bravo; mia madre mi dava il compito di rifare uguale le cose che lei cucinava; come per esempio le polpette, io dovevo rifarle delle stesse misure. Ero molto piccolo ma ero già bravo in artigianato. Ricordo che facevo anche le bamboline. Un’altra cosa che mi appartiene è il fatto che mi è sempre piaciuto lavorare senza riga, e soprattutto in maniera molto veloce; non penso che dopo cinque ore di lavoro questo diventi migliore; penso piuttosto che sia meglio lavorare velocemente senza pensare al disegno; è noioso studiare dove devo mettere il naso, dove la bocca, e l’occhio; io ho trovato un modulo veloce per disegnare veloce.

Cos’è per lei la pittura?

La pittura è per me un gran vantaggio per avere tempo, tempo per stare con mia figlia, che mi ha fatto imparare tante cose; io ero figlio maschio con tanti fratelli. Avere tempo da dedicare alle cose che mi piacciono. Ho avuto molta fortuna nella mia vita, avendo molto tempo per me. (Tocca legno come gesto scaramantico).

Quale Filosofia ispira il suo pensiero?

Voglio raccontare una storia orientale: un discepolo va da un maestro zen e chiede di prendere insegnamenti, il maestro gli risponde dicendogli “vieni il prossimo anno, perché quando tu sei entrato il mio gatto è uscito”. Questo significa che tutte le cose che succedono hanno bisogno di essere prese per quello che sono e renderle un atto positivo è un dovere, questo vuol dire essere uomo, questo vuol dire essere vivo. Scegliere da solo non è poi una cosa così straordinaria: una pianta che vuole uscire dalla terra, comincia a cercare la luce, sente il calore del sole che la guida e anche se una pietra ostruisce la sua crescita, se questa pianta è abbastanza forte, sarà in grado di aggirare l’ostacolo e uscire dalla terra verso la luce. Vi sono molti muri: il muro della religione, il muro della società, il muro dei genitori, il muro della scuola persino noi ci costruiamo un muro nella nostra testa, ognuno fa una censura da sé. All’inizio ero il primo figlio maschio della mia famiglia e mi caricavano di diverse responsabilità, io sono sempre stato sincero, se c’era qualcosa che non mi piaceva lo dicevo; questo atteggiamento mi ha permesso di non perdere niente e di essere sempre me stesso, non vado dietro alle mode, ai condizionamenti o alle circostanze, cerco sempre di fare di testa mia e scegliere.

Ci sono due modi diversi di fare arte: uno è quello che si basa sul dollaro, sul denaro, sulla moda commerciale, per capirci, l’altro è un tipo di arte che sopravvive nell’artigianato, nascosto ancora in qualche angolo della terra.

Dunque, per una combinazione di eventi succede qualcosa che va verso una direzione che porta ad altre combinazioni; come al fatto che io sia arrivato qui, in Italia, per una serie di combinazioni. Non è comunque dove nasci che apprendi le cose migliori anzi è lì che apprendi le cose peggiori. Nei miei cataloghi illustro sempre la mia famiglia, i miei genitori, per dimostrare che siamo uguali agli occidentali. Alcuni dei miei migliori cataloghi, veri libri d’artista, trattano di numerologia.

Mi spieghi meglio questa teoria della numerologia.

In realtà non ho letto nessun libro di numerologia, vorrei leggere Pitagora ma non l’ho ancora fatto. E’ importante e difficile leggere la letteratura dei Sufi e ciò che scrivono sulla numerologia; c’è un libro iraniano che sto leggendo che parla anche di Gesù, ma non di quelle cose che dicono in Occidente. Per esempio in questo libro si dice che, per amore della Conoscenza (Gesù), è giusto parlare con chi capisce, altrimenti fai del male alla Conoscenza, così come se parli con chi non capisce, allo stesso modo, fai del male alla Conoscenza: questo è un valore. A Natale scappo dalla Francia e dall’Italia; Natale significa un’altra nascita non significa commercio e consumismo.

(Prende un foglio disegna un quadrato con nove caselle)

Vi è un quadrato con nove caselle e nove numeri all’interno, nel centro vi è il 5 che è fisso ed ha la forma del cuore; nelle prime tre caselle in basso vi sono i numeri 1, 2, 3; oppure 2, 3, 1 oppure 3, 2, 1, sei modelli; poi c’è 4 e 6 o 6 e 4 con il 5 in mezzo, sempre fisso; nelle ultime tre caselle in altro 7, 8, 9 alternati in sei diverse combinazioni

Alla base del quadrato c’è quella che io definisco “la radice”, poi nel mezzo vi è “il tronco”, poi “foglie e frutta”. A sua volta può essere suddiviso nei diversi elementi: acqua con gli animali del mare, terra e gli animali della terra, ed infine il cielo, la luna, gli astri con gli animali che volano. Il 6 richiama la stella di David con sei punte, sei direzioni.

Poi la classifica può così continuare: davanti/dietro, destra/sinistra, est/ovest, oriente/occidente, passato/futuro, genitori e figli, sopra amore e sotto corruzione.

Tutti abbiamo l’ombelico, il Centro. Il fatto è che bisogna sempre, da qualsiasi direzione arrivare, al Centro, dopo aver abbandonato il 4 (simbolo del denaro). Bisogna rimanere saldi al numero 5; il 5 è il Centro è il Cuore, è il tronco, è più importante anche del Cervello, con il 4 e il 6 il 5 deve creare un equilibrio che permette di capire che l’Amore è la più importante forza dell’universo. La terra, il tronco, è assai importante, così come tutti gli animali che stanno sulla terra, è altrettanto importante del futuro, dei figli, dell’amore. Il numero 6 è il numero che ci deve guidare verso il Centro insieme al numero 4. Non bisogna avere solo un numero che ci guida, altrimenti vi è troppo materialismo o troppo astrazione. L’8 è il simbolo del tempo che può essere inteso come infinito oppure come l’immagine di una clessidra con la sabbia (il tempo che scorre).

La numerologia è molto interessante, io per esempio sono nato il 4-11-1944; il numero quattro ricorre nella mia data. Vi è un sito dove abbiamo messo in pratica queste teorie con i quali altri artisti si sono riscontrati (www.lilolalego.com). La numerologia è per me “un modo di vivere”, è una forma di comunicazione per sbagliare meno, non per perdere o per guadagnare ma per stare al Centro: E’ un modello che si può usare per tutte le scelte: per il settore del commercio così come per quello dei sentimenti, se durante una scelta dovessi spostarmi nel 4 (il denaro) rischierei di allontanarmi dal numero 5, di allontanarmi cioè dal mio Cuore che deve invece essere sempre la misura di riferimento di tutte le cose.

Quali sono i suoi maestri di pittura ai quali si ispira?

Klimt, Modigliani e un pittore iraniano di nome Nasser. Avevo un amico che mi ha fatto vedere Klimt, che non conoscevo. Dopo di lui la visione del nudo è cambiata, ho imparato a disegnare il “nudo-pulito”; non sapevo prima di studiare Klimt che si potesse fare un nudo così; poi l’altro mio maestro è Modigliani, l’artista della “forma pulita” che tanto adoro.

La protagonista di molte sue opere è la figura femminile, quanto è importante per lei la donna?

La donna è per me tutto. La donna più importante della mia vita è stata mia madre. Ho avuto un bellissimo rapporto con lei e con le mie sorelle. Vi è poi, all’interno della vita di un uomo, la figura della moglie, la donna che ha saputo infondere sicurezza famigliare e che mi ha dato mia figlia Mandana; la mia piccola donna che avrei voluto persino partorirla se fossi stato donna.

Per quanto riguarda invece gli animali, cosa mi dice dei gatti?

Cavallo e gatto, vanno inseriti in un paesaggio, ma non sono importanti, sono per me solo elementi decorativi. Sono assai legato ai miei gatti, pensa avevo una colonia di trentasei gatti, ora ne ho solo cinque, ogni tanto entrano in casa e mangiano, guardandoli, nell’arco della giornata che vivo con loro, posso osservare le loro molteplici posizioni riproducendo molte versioni.

L’altro soggetto che ricorre spesso nei suoi disegni è la coppia di innamorati, lei si sente innamorato?

Si sono sempre innamorato. Il soggetto della coppia, in pittura, non è comune, che io sappia lo hanno realizzato solo Klimt, vedi il Bacio e a volte Chagall.

A proposito di Chagall proprio in questi mesi c’è una sua esposizione a Lucca.

Vedere gli errori del passato ci permette di migliorare. Lucca è molto meglio da quando l’ho conosciuta io, ora è veramente cambiata. Lucca adesso è aperta agli artisti stranieri mi fa piacere che ci sia una mostra su Chagall.

Esiste un quadro che lo ha maggiormente soddisfatto?

Si c’è, è un quadro di una coppia appunto a cui tengo molto e conservo nascosto. E’ venuto così bene che non sono più stato in grado di riprenderlo e inoltre ne sono molto geloso.

E’ interessato ad altre forme artistiche oltre la pittura?

Ho conosciuto Dario Fo, ho fatto degli spettacoli di teatro con degli attori napoletani che dicevano tante parolacce; sembravamo una “banda” con la quale mi sono divertito tanto.

Mi sono dedicato anche alla poesia; in particolare in lingua francese, sono infatti cittadino francese da alcuni anni ma ho poi provato anche a scrivere poesie in italiano.

(Mi porge un catalogo dal titolo Un , Deux, Trois…)

In un catalogo ho scritto delle poesie in italiano che così, in parte dice: “I sogni sono passegeri come il vento/ c’era una piccola tavola rotonda/ guardavo il suo profilo… Un quarto di una donna; solo un quarto/ Una settimana al mese/ Non avevo nessun idea/Sognavo/ Svegliarci insieme… Le donne vedono gli uomini innamorati/come il vetro, trasparente… Amo il tempo, tempo che non capisco che ci separaMi ami?.... mi manca sempre anche quando è nelle mie braccia…. Mi manca… Mi manca adesso… Ma quanto mi ami? Mi manchi sempre…”.

Questa è la storia di un uomo che pensa al fatto di stare sempre con la sua donna, e gli manca così tanto che pensa ad un unione eterna con la sua donna che lo porti a sentirsi un “intero”, poi egli stesso capisce che prima di questa donna non aveva mai amato nessuno ed ora invece è pazzo d’amore. La poesia recita: mi hai fatto capire che non amavo nessuna donna/ Che non sapevo amare. Pensavo sempre a una intera. Ad un certo punto mi ispiro, come in un altro mio libro in francese, dal titolo Lou, Toutou, et leur Chat, ad Apollinaire. Mi rifaccio alla poesia “Andando in cerca di granate”, dove il poeta scriveva: “Sogno d’averti giorno e notte tra le mie braccia. Adoro la tua anima che sa di profumo di lillà”. Quest’ultima poesia ha ispirato un mio quadro e alcune frasi della mia poesia che prosegue dicendo: “Esistono farfalle che hanno solo un’ala, per volare devono poter trovare un altro a loro simile”. Per Apollinaire infatti esiste una farfalla con un ala sola che per volare ha bisogno di trovare l’altra sua ala. Apollinaire era un uomo che come me amava le donne e come me, conosce quanto sia difficile un’altra ala da trovare, non solo per il colore e la forma, ma anche il taglio e la misura; per me è importante amare senza paure e condizionamenti. Tante ispirazioni, dunque, ma una in particolare viene direttamente dalle parole di mia figlia, parla della pienezza della luna e di come sia bello che il suo amore seppur pieno, non finisca mai: “Amo la luna piena, pienissima. Amo il cielo, il cielo sereno o nuvoloso. Amo il sole… C’è la luna piena.”

Mostre e progetti per il futuro?

Ho fatto molte mostre nella mia vita: in Italia a Firenze, dove ho studiato architettura, tante in Francia ed in Iran. Nelle prossime due settimane sarò in Italia poi ho una mostra in Iran a marzo e successivamente partirò per una vacanza in India.

E cosa mi dice su Lucca?

Lucca è una città particolare con quelle mura che la caratterizzano. Inizialmente non posso negare di aver avuto un po’ di problemi come tutti gli stranieri, ma nel complesso mi hanno accolto meravigliosamente, Antonio Possenti mi ha coinvolto nelle sue vacanze ed altri artisti-amici mi sono stati vicini, per non parlare di adesso, Lucca è veramente cambiata.

4 Febbraio 2012

12 marzo 2012

“David Hemmings: l’inquietudine” di Gianni Quilici

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Di David Hemmings ho visto, tra i tanti film realizzati come attore, ma anche come regista, quasi soltanto Blow Up.

Esagero: fosse solo per questa interpretazione credo che egli resterà, per lungo tempo, “immortale” nella storia del cinema del ‘900. Perché il suo corpo mobilissimo, i suoi occhi sfuggenti, la sua recitazione introspettiva vanno oltre la bravura dell’attore, lo rendono simbolo ed archetipo di una fase storica: i felici anni ’60. Di più, di una tipologia esistenziale: l’inquietudine.

Più inquieto di Dennis Hopper in Easy Rider o di Jack Nicholson in Cinque pezzi facili. Perché la sua inquietudine è orizzontale, da fotografo di moda, e inaspettatamente anche verticale, da esploratore. Riguarda sia la facilità con cui gioca con oggetti e donne, che la profondità con la quale cerca e si interroga.

da La linea dell’occhio