16 ottobre 2022

“La felicità degli altri” di Carmen Pellegrino

 


  • di Giulietta Isola
     
    Sono nata in una casa infestata dai fantasmi. Allampanati, tignosi fantasmi da cui non si poteva fuggire.”
     
           ll dolore dell’abbandono, nella mia personale esperienza , è indicibile, forte, radicato e profondo, lascia cicatrici insanabili e, spesso, una solitudine invalicabile. 
          
            Questo dolore lo ha raccontato con sensibilità rara Carmen Pellegrino. La sua Clotilde poi diventata Cloe, e in seguito Anais ed Esoluna è nata in una famiglia maledetta dal non amore, di sé dice “Come si conviene alle vite che vanno avanti, gli anni bene o male sono passati, anche se qualche volta ho sperato di crepare”. Cambia nome quasi a dare nuova forma al suo passato e alleviarne il pesante fardello di dolore. 
     
           Lei e il fratello Emanuel hanno vissuto con la madre Beatrice, una perfida virago che, ossessionata dai tradimenti del marito Manfredi , sfogava il suo costante debito d’amore sui figli indifesi. Cloe oggi è un’adulta in cerca di se stessa. È cresciuta in una comunità in collina, la casa dei timidi, affidata alle anime gentili del Generale e di Madame, il cui unico scopo è non lasciare indietro nessuno, far sentire amati i bambini e i ragazzi che sono stati rifiutati da chi avrebbe dovuto prendersene cura. A diciotto anni Cloe se ne va. inizia una peregrinazione nel mondo ed in se stessa alla ricerca di qualcuno che la veda, che la definisca come persona e la renda presente a se stessa. 
           
           Dopo un matrimonio fallito velocissimamente, si rifugia a Venezia, dove con l’aiuto di Madame, studia, esplora e conosce il Professor T, insegnante di Estetica dell’ombra all’Università , in cui riconosce la sua stessa oscurità. Sono due anime affini che si avvicinano per trovare se stessi e si riconoscono in un comune dolore. Passeggiano , parlano poco, le poche parole che usano sono selezionate, chiarificatrici e salvifiche. Il professor T comprende il dolore mai superato di Cloe che, con il ritorno in collina, riuscirà a ricostruirsi ed a pacificarsi. 
           
           Il silenzio di Venezia nell’oscurità della sera, le vie del paese di origine di Cloe su cui si affacciano dimore ormai abbandonate, sono l’ambientazione naturale di queste storie di solitudini che si avvicinano e si uniscono per vincere la loro fragilità di fronte alla durezza della vita. 
           
          

    Carmen Pellegrino, una delle voci più significative della letteratura italiana, vanta una scrittura elegante, pervasa di nostalgia, vede ed interpreta l’abbandono non nei luoghi, ma nelle persone, accarezza e rincuora con un romanzo che lascia il segno ed è particolarmente adatto a chi cerca di ricostruirsi e ritrovarsi nel mondo. 
           
            Riflessioni : non sono convinta che i figli siano di chi li mette al mondo, ma di chi li cresce e li ama abbandonando un’irriducibile idea di possesso, l’amore non può essere imposto, non so se e quanto ne spetta ad ognuno, ma è successo che se qualcuno non mi ha amato è arrivato qualcun altro che lo ho fatto al posto suo, o ha almeno provato a farlo. Ho sopportato, come tutti, i tormenti del dolore, ad un certo punto ho sentito l’urgenza di dire a coloro che hanno avuto ragione d’essere nella mia esistenza che li ho amati, ho cercato di comprendere, ho fatto i conti con il passato e cercato di vincere i pregiudizi e mi sono convinta che si può sempre ricominciare, ho visto i giorni più bui illuminati da una flebile luce di speranza, ho fatto tesoro dei piccoli sforzi, ho ascoltato, ho teso la mano, qualcuno mi ha afferrata saldamente e non mi ha fatto volare, ho trovato spazio per altri inizi perché “Là dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva”. Una splendida lettura.
     
    LA FELICITA’ DEGLI ALTRI di CARMEN PELLEGRINO LA NAVE DI TESEO EDITORE

14 ottobre 2022

"Questo ondulare della terra" di Marisa Cecchetti

 

di Elisa Bertoni

        E' una sfida oggi proporsi al pubblico attraverso un poemetto, non solo perché affidare il racconto di fatti esterni ed interni ai versi piuttosto che alla prosa può apparire tramontato, ma anche perché ritornare al passato senza apparire anacronistici comporta lo sforzo di trascendere abitudini, convenzioni, cliché, in altre parole significa liberarsi di una tradizione per tornare alla tradizione. E un ritorno, non potendo trascendere dall'esperienza della modernità respirata inevitabilmente fino all'asfissia, apre le porte all'originale: recuperare una forma rendendola nuova.

       Marisa Cecchetti osa e vince la sua sfida, perché, pur collocandosi nel solco pascoliano dei Poemetti ed in particolare dei Nuovi Poemetti, ambientati nel contesto di una campagna che sembra rimanere sempre antica ed immobile, lo rinnova, non solo attraverso l'irruzione dell'attualità con i suoi irriducibili drammi, ma anche presentando se stessa in un linguaggio nello stesso tempo leggero e ricercato, che accenna al verismo dei termini propri della campagna senza tuttavia rinunciare al lirismo di aggettivi preziosi che frusciano tra le pagine come il vento tra le tuie descritte nel testo.

       L'orizzonte in cui si muovono i protagonisti, fratello e sorella, ed i loro fu evocati dai ricordi, è la campagna della Valdera, in un'estate di fuoco (“trentotto gradi” è ripetuto per ben due volte come dato oggettivo cui potersi riferire) che rende la terra assetata nelle sue crepe. Un dolore serpeggia a fianco della dolcezza che la memoria stessa di quei luoghi evoca nella Donna con il duplice effetto consolatorio suscitato dalla vita dei campi e dalla parola che può cantarla. 

        Tuttavia non si assiste ad una idealizzazione bucolica perché appunto della campagna non si nascondono mai le fatiche e le oscure incognite del presente e del passato proprie della terra nel suo ondulare che pur affascina e ammalia, verbo questo “ondulare” presente nel titolo e che ben riflette anche l'andamento ad onde della memoria, indubitabilmente una delle protagoniste astratte del poemetto. E se la campagna si nutre di ambivalenza tra fascino e affanno, è la parola, alla fine, che con la sua capacità di dare voce ai sentimenti e alle impressioni più profonde scatena la magia consolatoria che nemmeno le zolle, i frutti e i fiori sono in grado di donare in modo assoluto per il non sempre risolto rapporto tra essere umano e natura; una parola che sembra guidare lei stessa la mano dell'autrice nel trovare in modo autonomo la sua via espressiva. 

       Si leggano i versi: “ora che la parola avanza/tra il prima e il poi/perdo il senso del tempo/alzo gli occhi oltre il vetro/al cielo bianco di calura/e non so più/se è pomeriggio o no”. Così come il mare confonde in sé le sue onde che pure si riconoscono nelle pause di schiuma bianca e nelle impennate con cui il vento le alza nel cielo, allo stesso modo le parole confluiscono nell'unica distesa di una sintassi con punteggiatura quasi del tutto assente, ma che non impedisce l'evidenza delle singole frasi agganciate le une alle altre in un fluire armonico. 

       La parola -e la parola scritta in particolare- sono dunque l'antidoto principe a lenire la sofferenza: “qualcosa/si deve escogitare/per non spezzarsi dal dolore/ e la parola scritta/è una cura per l'anima/quando la parola nell'aria/diventa vuota e vana”. La parola, perché sia efficace, richiede cura; non stupisce quindi che Cecchetti abbia trovato in modo naturale la sua forma nei versi del poemetto, dal momento che poesia necessita di dedizione formale nella ricerca di una sintesi significativa che, fornendo contenuti per evocazione, consente al lettore di sintonizzarsi in modo libero alle vicende rappresentate, tesoro prezioso come palestra emozionale.

        La storia si apre con una domanda: “che cosa hanno in comune/la ragazzina di quel giorno lontano/-lo chiamerò giorno dei peri-/con la donna che spegne il motore/sotto le tuie parlanti?”.

      Entrambe, la donna e la bambina, il presente e il passato di un unico io, hanno conosciuto fino in fondo la precarietà, ma l'immersione nella sofferenza ha acuito la loro capacità di collegarsi al dolore universale ed in pari grado ha potenziato quella di gustare il sapore potente delle cose semplici, quelle che crescono spontanee al sole e al vento, in una tenerezza fraterna che partendo da un legame di sangue ritrovato arriva francescanamente ad abbracciare natura ed umanità tutta. Alla fine ciò che resta è un messaggio di speranza: “ed è nata una bimba/da madre afghana/dopo l'atterraggio//vita che vince sul terrore/futuro che si salva/grappolo profumato/che darà vino ancora”. Un messaggio di speranza anticipato dall'immagine del “basilico triste” che resiste “col capino all'insù”, mentre “la terra tutta crepe/grida pioggia”: in questa immagine di resistenza, sulla scia della leopardiana ginestra che ricresce sulle pendici del Vesuvio, possiamo vedere un'allegoria della donna-bambina, mai domata dagli eventi, ed anche un messaggio in cui poter riconoscere la condizione umana. Resistere oltre l'aridità diffusa che frantuma le zolle della nostra fertilità vitale ed oltre la fatica inscritta nella vita stessa in cui anche il sole, simbolo positivo per eccellenza, non nasconde la sua veste ambivalente, necessario e terribile, costante monito dell'impossibilità dell'uomo di proporsi come dominatore della natura, facendosi sole. 

        Ecco perché “sole” è senza dubbio una dei termini più ricorrenti nel testo, sia come mezzo per contestualizzare un momento della giornata (“con il sole d'estate ancora basso”) sia come sfida imposta all'uomo (“devo innaffiare a gara con il sole” e anche “a mattina ha potato/il gelsomino lei/quello sul confine/che ha strinato il sole”) sia come valore aggiunto di cui si nutre una vita che nasce (“ma Lei ti aveva dato il sole/che batteva sui campi col vento/che arrivava dal mare/tu spingesti le radici/nella vita fonde”). Ed hanno la luminosità del sole anche i versi in cui Cecchetti con una rapida pennellata disegna il paesaggio ed in pochi tratti è capace di creare una atmosfera: “ridono/scricchiola la tuia/a un soffio destato/salgono le risate il sole/svela la valle alterna/di boschi e di mietuti/con gli oliveti/lunari sui pendii/e abbracciato al colle/un paese e il campanile ritto”. E' questa atmosfera alla fine che avvolge il lettore e che gli lascia nell'animo il desiderio di scoprire e di scoprirsi nel mondo antico e pur sempre vivo della vita dei campi, che non fa sconti ma nemmeno inganna con seduzioni inautentiche. E' questo l'ondulare della terra in cui vorremmo farci cullare. 

Marisa Cecchetti. Questo ondulare della terra. Il giovane Holden. Euro 9,00

12 ottobre 2022

“Questo amore così vero” di Olivo Ghilarducci

 


di Marisa Cecchetti

       Il romanzo di Olivo Ghilarducci ci porta da Lucca all’Argentina, a Buenos Aires e Mendoza, ma l’attenzione è centrata su un paesino arroccato ai piedi delle Ande, a due giorni di cammino da Mendoza, da farsi a piedi o a dorso di mulo: “Dopo aver raggiunto Mendoza in treno si doveva inerpicare a piedi lungo la montagna. Lo spettacolo più bello della capitale si coglieva proprio spingendo lo sguardo verso ovest quando ci si trovava di fronte all’imponente cordigliera andina, al massiccio dell’Aconcagua che sembra dominare la ridente città”.

       Nome di fantasia Soligo, paese di pochi abitanti ma di grande fede, dove si allevano capre, si strappano alla montagna piccoli orti, si collabora in ogni situazione e nessuno muore di fame. C’è una chiesa molto frequentata e una maestra per un pugno di bambini: “La fierezza e la fede degli abitanti di Soligo mitigavano un po’ le difficoltà di chi continuava a vivere in quello sperduto villaggio nelle Ande da cui poche persone erano partite per perdersi nelle grandi città alla ricerca del miraggio di una vita migliore. Questi, il più delle volte, erano stati risucchiati dalle favelas attorno alla capitale  Buenos Aires”.

       Carlo, di una famiglia benestante di commercianti lucchesi, accetta di fare il medico a Soligo, che un medico non l’aveva mai avuto. Grande cuore aperto alla accoglienza ed alla condivisione, di fede profonda, Carlo prenderà i voti e sarà anche il sacerdote di Soligo:Mai si sarebbe aspettato tutto questo dalla vita, mai avrebbe pensato di poter vivere un amore così vero e così forte come quello che provava per il suo popolo, ricambiato in modo commovente”.

       Aiutato dalla famiglia e dal Comune di provenienza, elabora il progetto di far studiare nella capitale un ragazzo di quel paesino sperduto, perché ne faccia il testimone, per aprirlo alla cultura e al mondo esterno: si orienta verso la “scuola internazionale italiana Cristoforo Colombo della capitale. Nata come legame culturale concreto tra Italia e Argentina, aveva anche il riconoscimento legale del Governo Italiano. In poco tempo si era affermata come ottimo centro scolastico”. 

       “Era Luis Cardena il ragazzo prescelto. Orfano di entrambi i genitori, non aveva fratelli e fino ad allora la sua famiglia era stata l’intero villaggio che non gli aveva mai fatto mancare il calore e l’affetto”.

       Ghilarducci segue Luis, il pupillo di padre Carlo, negli studi, nella crescita, negli interessi culturali: unico ragazzo di origini umili in un Istituto frequentato da figli di famiglie alto borghesi, si fa notare presto, pur nella sua riservatezza ed umiltà, per intelligenza, rapidità di apprendimento, curiosità. Ha una grande fede, come tutti gli abitanti di Soligo e come il suo padre spirituale. Non sfugge alle ragazze la sua bellezza, soprattutto a Mara, figlia di un docente universitario che militava nel partito di Peron.

       Sono gli anni ’70  in Argentina: Juan Peron rientra dalla Spagna dove era fuggito in seguito al colpo di stato del 1955 che l’aveva destituito, e ritorna al governo, per poco, perché muore un anno dopo, nel ‘75. Ma Juan Domingo Peron “era inviso ai colleghi militari perché espressamente favorevole ad una politica di apertura verso le classi meno abbienti del paese richiamandosi alla dottrina sociale della Chiesa Cattolica”. Niente può fare la terza moglie Isabelita  -Evita, la seconda moglie, era morta nel ’52-  contro il terribile golpe che porterà al potere Videla.

       Luis e Mara attraversano tutto questo periodo, negli studi, nel volontario, nell’impegno politico -lei- nel suo ruolo di sacerdote -lui: è una vocazione nata per amore di don Carlo, che mette in second’ordine ogni altra scelta di vita e porta dei risvolti inattesi, con scelte coraggiose di entrambi: “Aveva necessità di chiarire tutto dopo questa folgorazione che di fatto sconvolgeva la sua vita, cambiava nettamente la prospettiva su cui si stava incamminando. Non era una decisione che riguardava solo lui perché Mara con il suo affetto vivo, con la sua passione, aveva fatto scelte di vita precise”.

         Nel romanzo di Ghilarducci, nel sua narrazione chiara che si sviluppa con una struttura temporale lineare, si individuano dei grandi temi, come colonne portanti: prima di tutto la fede profonda, che si rivela non solo nel vissuto di tanta gente, ma soprattutto nell’opera convinta del missionario, che fa scelte così totali, fino al suo ultimo giorno.

       In secondo luogo -ma solo nell’elenco- la situazione politica dell’Argentina, comprese le atrocità della dittatura, che Ghilarducci affronta con ampio respiro e competenza, così come la divisione della Chiesa Argentina, con una parte decisamente schierata a fianco del potere, e l’altra impegnata a favore degli ultimi, perseguitata perché in odore di comunismo.

       Una tematica che ritorna nei suoi romanzi è l’amore tra persone di classi sociali diverse- è sempre l’uomo a essere inferiore economicamente e socialmente: “Non avrebbe mai pensato che in Argentina vi fossero famiglie con un tenore di vita e delle opportunità così elevate. I convitati, per lo più compagni di classe di Mara, venivano serviti da persone inappuntabili vestite di bianco candido, con uno splendido fiocco al collo della camicia”. All’uomo è dato il riscatto attraverso l’intelligenza o comunque le capacità, che lo portano ad elevarsi sulla scala sociale.

       Ma la tematica predominante è quella relativa a un amore così vero, così profondo, così rispettoso, nato tra Luis e Mara quando ancora lui non pensava al sacerdozio- una chiamata improvvisa e motivata a cui sente di dover rispondere- e la loro impossibilità di viverlo.

       Il problema del celibato ecclesiastico attraversa il romanzo, sottolineando le rinunce, le sofferenze, eppure la fedeltà costante di entrambi, anche quella di Luis, che sa essere fedele a Dio e a Mara: “La sua risposta alla vocazione al sacerdozio, evento assolutamente oltre ogni pensiero, quale carico di sofferenza avrebbe prodotto in Mara? Cosa ne sarebbe stato della vita di lei? Il suo unico amore terreno era certamente Mara”

         Un amore fisico così puro non può togliere niente all’altro, quello spirituale. Luis non riusciva a spiegarsi perché “la Chiesa Cattolica ponesse in contrasto due promesse d’ amore”.

 

Olivo Ghilarducci, Questo amore così vero, Sicrea Editoria, pag. 170, € 15,00

 

 

10 ottobre 2022

"In che lingua sogno?" di Elena Lappin

 

di Marigabri

“La mia vita potrebbe forse essere descritta come ‘cinque lingue in cerca d’autore’: nata nella lingua russa, trapiantata nel ceco, e poi nel tedesco, introdotta all’ebraico, e infine adottata dall’inglese.”

        In questo memoir Elena Lappin ripercorre una vita di spostamenti da un paese all’altro, il travalicare frontiere senza mai sentirle ostili, pur essendo testimonianza viva delle sofferenze dei popoli. Racconta l’immersione nell’humus linguistico di ogni paese e di ogni cultura da lei vissuta e attraversata, con la curiosità e il piacere di comprenderne l’intima struttura.

        Narra una storia travagliata e complessa in cui le vicende personali e famigliari si intrecciano alla grande storia di popoli e nazioni.

        “Non si abita un Paese, si abita una lingua” affermava il filosofo Emil Cioran e l’autrice ne attesta il senso, raccontando insieme la fortuna di chi, come lei, pur appartenendo a diverse radici, ha potuto scegliere la lingua nella quale esprimersi, ragionare, scrivere.

E, forse, chissà, anche sognare. 

Elena Lappin. In che lingua sogno? Einaudi

 

09 ottobre 2022

“Non leggete i libri, fateveli raccontare” di Luciano Bianciardi

 


 

di Carla Rosco

       Un Bianciardi divertente e divertito dalla sua ironia pungente.

       Scrive Pino Corrias nell’introduzione: “Intuisce, molto prima di Pasolini, anche se più confusamente, i veleni del consumismo, il vuoto della omologazione, la solitudine dell’uomo dentro al rumore della folla. E mentre tutti cantano le lodi del supermercato e dei grattacieli, dell’utilitaria e delle creme solari, lui scrive da guastafeste”.

     “Non leggete i libri, fateveli raccontare” è un manuale in sei puntate, pubblicato nel 1966 sul settimanale ABC, eccentrico e schierato con il centrosinistra. E’ dedicato ai giovani che vogliano vivere e magari prosperare in quel tipo di attività umane, che vanno sotto il nome complessivo e vago di “cultura”. Bianciardi mette a fuoco soprattutto gli aspiranti mediocri, per i quali un campo vale l’altro, quello che conta è scalare, arrivare, primeggiare, non finire in un ufficio.

       se per fare questo occorre “marcare” gli altri per volgere a proprio favore il corso degli eventi, bisogna che si impari la tecnica per farlo: non si improvvisa e lui si pone come il dispensatore di consigli e insieme come il fustigatore di cattive abitudini umane, quelle che impediscono di vivere in pace e armonia.

      Luciano Bianciardi ha pagato un alto prezzo per i propri ideali di giustizia sociale e di libertà. Il successo ottenuto con “La vita agra” (1962, invettiva contro Milano e la frenesia calvinista dei milanesi per i soldi) lo inquietava: “Per me è solo il participio passato di succedere” e ancora “Invece di mandarmi via da Milano a calci nel culo, come meritavo, mi invitano a casa loro”.

      Rifiutò un ingaggio al Corriere della Sera che gli aveva offerto Montanelli; elogiò l’ozio; scrisse di rivoluzione sessuale nell’Italia bigotta.

      Tornando al “Nostro” giovane aspirante a partecipare alla vita culturale, nella puntata intitolata “Non leggete i libri, fateveli raccontare” si legge: ” Nessuna persona seria e pratica vuole oggi formarsi: basta informarsi. Egli (il Nostro) vive, come si è detto, in provincia, circondato da schiere di giovani ingenui e ansiosi che passano le giornate chini sui libri. Ebbene, li frequenti, li veda, li ascolti ... saprà da loro tutto quel che occorre sapere”.

      E più avanti in “La tecnica matrimoniale di Lady Chatterly”: “Anche il  nostro Paese è in corsa verso il progresso, la democrazia, la socializzazione; anche in Italia, il Nostro può sperare nel successo mediante il sesso. Sesso e matrimonio, beninteso ... Sesso e matrimonio contano, ai nostri fini, solo nella misura in cui giovano alla carriera”.

      Suggerisce tutto Bianciardi, persino vestiti e gesti: ” Sarà bene munirsi di pipa, e magari imparare a fumarla, perché è un ottimo riparo. Quando manca la battuta, o si vuole prendere tempo, ecco pronta la pipa, da mettere in bocca, da levare di bocca, da riempire ... In casi estremi si può produrre una nube di fumo e nascondercisi dentro”.

 “Non leggete i libri, fateveli raccontare” di Luciano Bianciardi, Neri Pozza (13,50 euro)

 

 

 

05 ottobre 2022

"La figurante" di Pauline Klein

 

di Giulietta Isola

       «Io sono quella che siede in disparte, silenziosamente accanto al finestrino, mentre là fuori la vita sfreccia. Io sono quella per cui la vita, quella stessa vita che dovrei definire mia, è un’esperienza demandata – non saprei per quale ragione – che passa dalle azioni e dalle scelte degli altri. Io sono questa. Io sono la Figurante. E sto cercando di diventare un’altra fin da quando ho memoria.”

       Mi sono chiesta molte volte quali qualità, quali requisiti siano necessari per vivere una vita degna, mi fermo a riflettere su casi e situazioni che hanno provocato delle svolte importanti, mi affanno per capire se scelte, opportunità, caso hanno reso tutto più accettabile o meno peggio, poi alla fine mi rendo conto che ciò che è veramente importante è essere se stessi sempre. 

       Camille, protagonista di La figurante ha quasi trenta anni, è vissuta a Parigi con la madre single che le ha sempre dato “buoni consigli”, trova rassicuranti il suo carattere mite e la sua vita ai margini, cerca di crearsi un personaggio che le permetta di eclissarsi, è in costante lotta fra essere ed apparire chiusa in una sorta di auto-isolamento. 

       Dopo un’esperienza americana, torna a Parigi e tenta di costruirsi un’identità da raccontare a sé stessa ed agli altri, cerca di adattarsi a quello che gli altri si aspettano da lei, vive in maniera distaccata ed interpreta diversi ruoli in una società che secondo lei è fatta di maschere e di illusorie parodie. Camille è solo indolente o è una che si pone al di là delle convenzioni sociali? “La mia impronta sarebbe stata l’assenza di tracce. Meno ci si preoccupava del mio destino, meglio io stavo”. Di sicuro uno “strano soggetto” che sfugge alle categorizzazioni. 

       Pauline Klein imbastisce una trama movimentata da storie di solitudine, impazienza, voglia di conoscere e paura di mostrarsi che ha creato in me una certa aspettativa. Mi è piaciuta la struttura narrativa a tinte forti e gli eventi che obbligano alla scelta: si esce allo scoperto e ci si accetta o si continua a nascondersi. 

       La Klein affronta temi quali l’erotismo e la consapevolezza di sé in modo inaspettato, ha una prosa asciutta e tagliente e riflette con ironia sulle interazioni e le aspettative sociali, puntando l’attenzione sulle maschere che spesso ci troviamo a indossare come fossero vere e proprie identità. 

       I capitoli delle vita di Camille narrati in prima persona sono un’altalena di emozioni, mi sono sentita dentro un film nel quale ho alternato sentimenti contrastanti di amore e odio verso questa singolare protagonista, il finale è profondo e non è opportuno nè dare giudizi nè gridare al miracolo, ma ci si sente liberi e felici mentre “svolazza in cielo finalmente una farfalla.”

“ A un tratto gli altri stanno in sella. Avanzano con disarmante convinzione. […] Tutti danno idea d’aver conquistato quantomeno una parvenza di definizione. […] Non si può lottare in eterno per far sopravvivere l’incoscienza»

LA FIGURANTE di PAULINE KLEIN CARBONIO EDITORE