27 agosto 2015

"Tipologie" di Patrizia Manganaro



L'uomo che tiene gli spiccioli nel "tacco", quella sottospecie di borsellino in pelle o similpelle, a forma di ferro di cavallo o di tacco, appunto, creato una ventina d'anni fa, credo, o almeno così mi suggerisce la memoria, in corrispondenza dell'ingresso in Italia dell'euro...forse? ...non so.

Ma, a parte l'oggetto che è antiestetico in sé, non vorrei più vedere gli uomini compiere il gesto di frugare- spidocchiare dentro il tacco, alla strenua ricerca delle monetine per pagare il caffè, ma le monetine quelle più piccole di rame, da un centesimo e due centesimi...

E li vedi arraffare con le due dita che nemmeno gli ci entrano in quella fessura così minuscola per la mano di un uomo che in genere è grande come una pala e ci mettono un quarto d'ora nel racimolare il misero tesoro e lasciano immaginare di essere in preda all'avarizia, ai confini con l'avidità e che questa sia estesa anche nei rapporti affettivi, nella socialità, nell'umanità...

E anche ci leggo, nel gesto, una insopportabile mancanza di rispetto verso chi il caffè glielo ha servito, perché devo dire che compiono quel gesto come se non ci fosse nessuno. Infatti, nello sguardo che non mi vede, c'è lo stesso intimo piacere di chi con le dita si stia scavando una galleria nelle narici, in una toilette pubblica, ma in segretezza privata...invece, davanti ai miei occhi di barista, discreti, sì, ma vivi...

 E non sono sessista, semplicemente il "tacco" è un oggetto, ripeto, orrendo, mai visto nelle mani di una donna. Il portafoglio è più dignitoso per tutti.


24 agosto 2015

"La giada cinese" di Raymond Chandler



nota di Gianni Quilici

Leggo uno dei primi racconti – anno 1937-  di Raymond Chandler “La giada cinese”, quando il suo detective privato si chiamava John Dalmes, antesignano, per molti aspetti, del detective forse più famoso della letteratura mondiale  Philip Marlowe, affascinante anche nel suono della parola.



Senza entrare nel merito del racconto (modesto) vorrei sottolineare un aspetto soltanto del suo stile narrativo: la distanza, ossia uno sguardo freddo innervato di un’ ironia grottesca spesso acida, che utilizza l’iperbole, tramite similitudini e metafore, e qualche volta forse anche abusandone.



Alcuni tra i diversi esempi possibili.

Ecco come tratteggia l’indiano Second Harvest, un tipaccio che farà una brutta fine:

… pareva colato nel bronzo…un nasone carnoso che pareva la prua corazzata d’un incrociatore… spalle d’un fabbro ferraio… dilatò le narici, già abbastanza larghe da farci passare una coppia di topi…

Oppure la segretaria di Soukesian, il metapsichico:

“…un sorriso secco, appassito, che si sarebbe polverizzato al tatto… le mani erano piccoline, brune, avvizzite, adatte agli anelli quanto le zampe di una gollina… 



Una distanza anche verso personaggi positivi, come risulta essere la ragazza, Carol Pride, che lo aiuta nell’inchiesta e che lo desidera; una distanza che attua innanzitutto il protagonista, John Dalmes, spavaldo fino alla provocazione, solitario ma amato, squattrinato ma incorruttibile, coraggioso e brutalizzato ma alla fine vincente. Una figura, che si presta, come sarà con Marlowe, alla mitizzazione  per il sottofondo di romanticismo che incarna. Ma questo è un altro discorso ben più profondo.



Raymond Chandler. La giada cinese. Traduzione di Attilio Veraldi. Il sole 24 ore. 






























"Non è che l'inizio" di Gianni Quilici



                                                               foto gianni quilici
lettera di Susanna Pellis

Caro Gianni,
                        ho finalmente letto il tuo libro, che scorre veloce, si fa leggere molto volentieri.

Delle cose che mi sono più piaciute, su tutte senz'altro Lucca. Non so se ci sono altri romanzi così fortemente ambientati nella tua città, di certo il tuo è intrinsecamente lucchese, la città non è solo presente, è essenziale nel racconto, e poi descrivi tutti i posti per immagini anche vivide: sarà perché a Lucca sono stata più di una volta, e sarà perché Lucca mi piace, ho trovato tutto addirittura familiare, vicino.

La scelta di inserire le foto funziona molto anch'essa, inutile dirti che la mia preferita è a pagina 90, una foto meravigliosa, per la diagonale oltre che per il soggetto.

Poi mi è piaciuta l'attenzione alle sensazioni, se non ai sentimenti, la scelta di certi  aggettivi, la descrizione dei dubbi, delle urgenze, delle delusioni, del girare a vuoto del protagonista. Mi è piaciuta l'ironia (o almeno di ironia mi pareva si trattasse) con cui riporti i dialoghi in sezione, che sono anche molto realistici, senza dubbio e purtroppo.

Per come sono fatta io, non ho sopportato invece i rapporti con le donne, tanto meno la loro descrizione; ma si sa che per me questo è un argomento delicato, e che il mio modo di pensarla non è precisamente dentro gli schemi. Il tuo
racconto insiste molto su questo aspetto, eppure questa insistenza non mi ha impedito di apprezzarlo. 

Sono curiosa di sapere, piuttosto, fino a che punto il romanzo è autobiografico; e come mai lo hanno letto in anteprima solo donne? 
Bravo. Coraggioso, anche. 
Un abbraccio
sus

Gianni Quilici. Non è che l'inizio. Tra le righe libri. Euro 13,00



21 agosto 2015

“Inganno” di Philip Roth



nota di Gianni Quilici


Non essendo un critico, ma soltanto un lettore critico molto farraginoso, senza studi metodici alle spalle, e per di più impossibilitato allora a prendere appunti, mentre leggevo per un infortunio contingente alla spalla,  ho letto Inganno di Philip Roth attraversato da pensieri e sentimenti contraddittori: dalla noia all’interesse, dalla sorpresa infine a quella ammirazione che ti suggerisce la parola grandezza.

Ed è il penultimo capitolo ciò che mi ha colpito fino all’entusiasmo: il dialogo tra il protagonista, uno scrittore americano ebreo, Philip, che vive a Londra, e la sua moglie. La donna ha letto casualmente le pagine del romanzo (un taccuino dice lui), quelle che abbiamo letto anche noi, in cui lui si intrattiene dialogando di tradimenti e di sesso, di antisemitismo e di psicanalisi , dopo o prima l’amore, con una donna inglese più giovane di lui, bella, acuta e colta, ma rassegnata a un matrimonio insoddisfacente.
La moglie dello scrittore, dopo giorni di silenzioso rimprovero, sollecitata da lui, esplode:
“Tu non vai nel tuo studio a lavorare, tu vai nel tuo studio a scopare! Tu vedi una donna nel tuo studio”. “L’unica donna presente nel mio studio è la donna del mio romanzo, sfortunatamente”, la sua risposta.

Da qui inizia uno scontro tra lei che lo accusa di mentire, perché le cose che lui rappresenta sono davvero accadute e lui che obbietta che ciò che scrive è un accurato esercizio di memoria e un altro accurato esercizio di immaginazione e che immaginare una relazione amorosa è niente altro che il suo lavoro. Questo scontro tra la realtà delle cose scritte ( rivendicata dalla moglie) e la finzione letteraria (rivendicata dallo scrittore) è filtrato attraverso sottili sfaccettature psicologiche e ideologiche che culminano nel momento in cui lei gli chiede di  togliere, se questi taccuini dovessero essere pubblicati, il nome Philip, come se il protagonista fosse lo stesso Roth,  con l’altro, spesso utilizzato come alter ego da Roth, cioè Nathan, per evitare a lei pettegolezzi e vergogne.

A questo punto lo scrittore esplode, rivendicando la libertà di scrivere senza condizionamenti reali o immaginari, perché il vero delitto per lui non è la vergogna, ma arrendersi alla vergogna. Dice:
“Io scrivo ciò che scrivo nel modo in cui lo scrivo e, se e quando questo dovesse accadere, pubblicherò quello che pubblicherò nel modo in cui lo vorrò pubblicare, e non ho nessuna intenzione di cominciare adesso a preoccuparmi di cosa la gente potrà travisare e capire male!”

Rimane tutta l’ambiguità tra realtà e finzione, in questo continuo gioco di rimbalzo tra l’autore Philip Roth e il personaggio Philip Roth, in un romanzo complesso non sempre risolto, ma originale e libero, ironico e drammatico. 

Philip Roth. Inganno. Deception. Traduzione di Raol Montanari. Einaudi.


19 agosto 2015

"Non è che l'inizio" intervista a Gianni Quilici

  di Angelica D'Agliano
"Ho avuto l'opportunità di leggere "Non è che l'inizio" quando era manoscritto e poi riscoprirlo romanzo, sempre coerente nella forma ma stavolta ampliato e rinvigorito da contributi fotografici e poetici che mi hanno piacevolmente colpita. C'è ritmo, ho pensato, c'è freschezza, c'è effervescenza. E in effetti questa per me è una narrazione che corre sotto un qualche segno ideale e solare, una narrazione che gioca e combatte, che invita. Non c'era molto da fare, bisognava lasciarsi andare, bisognava concedersi il lusso della scoperta. E così ho fatto."
 
                                          Gianni Quilici
"Non è che l'inizio", un titolo che è quasi una citazione, che apre e chiude un cerchio: per parlare del tuo libro cominciamo da qui?
“Non è che l’inizio” mi si è imposto subito e così naturalmente che non ne ho pensato neppure le ragioni. Ti rispondo ora così. In Zeta, il protagonista, c’è una continua tensione che ha varie valenze. Una molto istintiva e potente: scopare. L’altra profonda: trovare l’altro da sé, quel connubio di corpo-anima che possiamo definire con parola abusata “amore”. E infine c’è un desiderio perenne di inventare, di creare se stesso e situazioni creative nella supplenza scolastica, nell’iniziativa abortita con il PCI, ma anche nel rapporto con se stesso: mangiare, pensare, correre. Nessuna di queste tensioni si risolve, tutto rimane sospeso. C’è un orizzonte ancora aperto: la lotta continua. 

Perché Zeta?
Banale! Zeta nasce dal più grande contrasto che personalmente vivo: tra il Tutto e il Nulla. Il desiderio di essere Tutto e la percezione di essere Nulla. In questa  antinomia ho scelto realisticamente il nulla, rappresentato simbolicamente dall’ultima lettera dell’alfabeto, Zeta. Una scelta tutta istintiva, soltanto adesso ragionata.     
 
 Angelica D'Agliano e Marco Bellagamba( Quilici foto) 
In questo libro Lucca si svela e si nasconde, presenza quasi femminile, quasi una mappa dei desideri spirituali e carnali di Zeta, che si muove a due gambe e a due ruote, spera, progetta e pretende nell'arborato cerchio. Quanto Lucca fa parte della storia di Gianni Quilici? 
Molto. Nel periodo in cui è stato ambientato il romanzo… anni ’80… moltissimo. Vivevo, infatti, in affitto in un appartamento minuscolo, ma arioso in pieno centro storico e quelle stanzine erano anche un punto di incontro politico… il manifesto prima, il PdUP dopo .. .in congiunture sociali, in cui fare politica voleva dire esprimere forti passioni: incontrarsi, discutere, confrontarsi, approfondire, decidere, organizzare, organizzarsi per agire. In più Lucca è ai miei occhi una città che oscilla tra il realismo e l’onirico, per le mura che delimitano senza chiudere e per la struttura architettonica dove si fondono armoniosamente rinascimento e medioevo. E soprattutto la notte o al crepuscolo, in certe serate mute e solitarie, evoca un’atmosfera sognante e poetica, quasi metafisica come pochissime città in Italia.
                                                foto Gianni Quilici

 Non è che l'inizio" per chi lo sfoglia è un libro con molte (belle) foto in bianco e nero, per chi lo legge è un libro rosso, decisamente rosso. Zeta si scontra con un partito comunista alla fine, un partito "posato", "realista", quasi demotivato. Sei d'accordo con questa lettura? ce ne vuoi parlare? 
Sì, sono d’accordo, però va ricordato, perché oggi di questo non si ha per niente consapevolezza, che il Pci è stato nella storia italiana un grande partito  non soltanto perché ha contribuito alla vittoria sul nazi-fascismo o alla stesura di una costituzione di altissimo livello, ma anche  perché è stata una  scuola decisiva per milioni di uomini e donne poveri e semianalfabeti, che nelle sedi del Pci hanno trovato un’identità e una consapevolezza di sé e dei propri diritti. Nel romanzo Zeta rappresenta simbolicamente il desiderio di mutamento in un momento in cui il Pci deve decidere come rifondarsi: se a sinistra o verso una deriva moderata come è successo da D’Alema-Veltroni fino al partito di Renzi. Zeta nel romanzo esprime il cambiamento nel desiderio di creare una comunicazione viva e che sorprenda contro le abitudini consolidate.

In questo romanzo di donne ce ne sono tante, ma le più importanti sono tre. Una separata, una sposata e una, forse, un poco idealizzata. Solo una ha un nome ed è forse la più misteriosa di tutte, perché?
E’ la più misteriosa di tutte perché, pur essendo disponibile, non si concede, è fuggitiva. E rappresenta, invece, per Zeta l’aspirazione alla simbiosi, al desiderio sempre irrisolto, dell’unicità. Che sia idealizzata è vero ed è, a volte nella vita, inevitabile. Ma non è un’idealizzazione romanticheggiante, perché Eloisa interagisce, ha una sua personalità e determinazione. 

Zeta è un post adolescente ma è anche un supplente, un precario in lotta, che vede i problemi, li affronta e ci si scontra entusiasmandosi e rompendosi, talvolta, anche le scatole. Vogliamo parlare dell'insegnamento?
E’ un insegnamento che pone domande e che aiuta a dare risposte, che cerca di attivare conoscenze e immaginazione, desiderio di esplorare i sentimenti e i linguaggi, creandone anche di propri. Tutto l’opposto della “cattiva scuola” di Renzi.

Ma che cos’è un post-adolescente?
Rispondo con una battuta: è un’adolescenza responsabilizzata di sé e del mondo. Non è ancora, se mai lo sarà, la maturità.

Come è nato il romanzo?
Da un film dal titolo “1985: a zonzo per Lucca”. Un video molto amatoriale, in cui tre giovani sono incaricati dal PCI di fare un film sui problemi di Lucca. Un film sul film dunque, ironico alla Nanni Moretti, che venne proiettato in Piazza Guidiccioni di fronte a una marea di gente. Dopo un po’ di tempo sulla falsariga di quello, ma mutandolo e approfondendolo è uscito dopo circa 20 anni Non è che l’inizio.

Perché così tanto tempo?
Perché ho una visione sacrale del romanzo e del libro in genere. Di più: per essere pubblicato oggi,in questa iper-produzione editoriale, un libro deve avere un grande senso. Il mio romanzo non ha un grande senso, ma un senso, credo, ce l’abbia e per me è stata una liberazione, la rottura di un tabù che potrà farmi bene.

Nel senso che…
Nel senso che non è che l’inizio. Immagino, infatti, di avere ancora qualcosa da dire, forse più articolato e profondo.

E perché lo hai diviso in dieci giornate?
Perché è un romanzo al presente, sull’attimo in cui si pensa, si parla, si agisce; perché in poche giornate si può intravedere un’esistenza in movimento ma per niente risolta; perché mi piacciono i numeri e enumerare le cose; perché mi attira il disordine nell’ordine e viceversa.
 
                          Gianni Quilici foto
Le immagini che scandiscono questi giorni sono tue? In base a quali criteri le hai scelte?
Certo che sono mie, compresa la copertina, come forse sai. Le ho scelte collegando i palazzi, le vie, le piazze, le mura ai suoi abitanti: uomini e donne, cani e gatti.

E quanto Zeta fa parte della storia di Gianni? Si può parlare di romanzo autobiografico?
Sì Zeta sono io e non sono io. Del resto Io chi sono? Questa è la prima risposta e solo apparentemente una battuta.
La seconda: si può certamente parlare di romanzo autobiografico, perché c’è un io (Zeta) e delle situazioni, che mi appartengono profondamente, anche quando non le ho vissute. L’importante è : non confondere l’io del romanzo con l’autore. In altri termini lo scrittore  Quilici ha più consapevolezza  di quanta ne abbia il personaggio Zeta e non tutto ciò che fa e dice Zeta è condivisibile da chi lo ha creato.

Cos'è un taccuino da combattimento?
E’ un mini-quaderno tascabile, facilmente portatile e utilizzabile nel quotidiano vivere, che serve a Zeta sia per rappresentare che per riflettere, spesso contro se stesso.

"Non è che l'inizio"... se fosse un film , che film sarebbe?
Sarebbe un film realistico ed insieme onirico, dove l’onirico non è soltanto nei sogni, ma anche in quell’utopia, che è la ricerca dell’altrove, che è, credo, il sottotesto più profondo del romanzo.

Quali scrittori e poeti, se ce ne sono, ti hanno ispirato?
Devi sapere che ho cercato, diversi anni fa, di scrivere, sull’onda di un libro di Henry Miller, “gli scrittori della mia vita” dando però alla parola scrittori un significato ampio: non solo romanzieri o poeti, ma filosofi, psicoanalisti, sociologi e perfino politici. Ho iniziato così a fare una lista di coloro che mi avevano, in qualche misura, influenzato o interessato. Iniziai, ma ben presto mi fermai.
La mia risposta dunque è duplice.
La prima: sono tanti coloro che mi hanno intrigato e però nessuno veramente fino in fondo. Accenno brevemente, per dare un’idea, a Sartre per la filosofia della libertà; a Moravia per la capacità di costruire l’azione anche attraverso il flusso dei pensieri; a Pasolini per l’acutezza semiologica e per quel “gettare il mio corpo nella lotta”; a Leopardi per quei versi visionari che camminano e insieme cantano; a Edgar Morin per il tentativo eroico di cogliere la complessità del Pianeta unificando le molteplici discipline; a Lucio Magri per la limpidezza e lucidità nella ricerca delle radici ultime nell’analisi politica e potrei continuare con Tolstoj e Dostoevskij, Rimbaud e Stendhal, Henry Miller e Anais Nin, Gramsci e Roland Barthes, Hammett e Patricia Highsmith, Philip Roth e Bukowski….
Secondo: nessuno forse mi ha veramente influenzato, almeno stilisticamente. Perché ho una mia voce, che scrivendo ricerco, ed è una voce che deve trovare un ritmo, una musicalità, il cui timbro ritrovo anche in ciò che malamente scrivevo nell’adolescenza. Ed è una voce che ha in sé un imperativo categorico: un immaginario lettore, non necessariamente colto, ma che vuole capire, che vuole sentire.

Che cosa stai progettando, se non è una domanda indiscreta?
Ho tante poesie. Troppe. Vorrei pubblicarle. Dovrei fare una scelta. Dare un’unitarietà e andando oltre il libro di poesia.
Ho tante foto. Vorrei fare il mio secondo libro su Lucca. Ci vuole un finanziamento, oggi difficile da trovare. Però . . .
Ho iniziato il secondo romanzo, sull’oggi.
Mi piacerebbe promuovere un libro sui poeti a Lucca, perché sono tanti ed alcuni di grande valore.
E poi ci sarebbero  i 70 anni del Circolo del Cinema di Lucca nel 2018 e il cinema su cui ho scritto tanto. Ed allora: riuscirà il nostro eroe? . . .
  













18 agosto 2015

Quer pasticciaccio brutto de via Merulana" di Carla Emilio Gadda



    

 di Emilio Michelotti
                                                                                        


                                  E' uno dei romanzi più letti e dibattuti del Novecento italiano. Perché parlarne ancora? Perché, similmente al topazio di cui vi si narra (della contessa Menegazzi-menacazzi), ha molte sfaccettature, come le ha la psicologia di Don Ciccio (il malinconico commissario Ingravallo, per il quale “le catastrofi sono un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo”), la sessualità di Liliana Balducci (la bellona assassinata in questa parodia del giallo), e delle sue “nipotine” servizievoli: Virginia – la probabile assassina dalla “pubertà facinorosa” -, Assunta, Milena, Gina, tutte dalla “sensibilità diffusa e delicata ovaricità” . Sì, perché “Er pasticciaccio” sta a questo genere come il testo di Cervantes ai romanzi cavallereschi: irrisione e ammiccamento. Se ne può parlare ancora perché, come accade ai libri insoliti, unici, ognuno vi può trovare del nuovo, dell'originale e, come in un brano di musica classica, ultraeseguito, ogni lettura svela parti segrete.

Il narratore (soggetto nascosto) ha uno sguardo vivisezionatore, lucido, implacabile, ravvicinato, analizzatore (da ingegnere elettrotecnico quale Gadda era) sulla sfarzosità del barocco romano. E ne è contagiato: l'oggetto permea di sé il soggetto, come sempre. Sono occhiate ironiche, beffarde, quelle del Gadda, e a tratti innamorate, ma anche inquiete e inquietanti, maniacali, come quelle, quasi necrofile, sul “segno carnale del mistero”, sulla “solcatura di voluttà” che Ingravallo accarezza con gli occhi sul cadavere di Liliana Balducci.

Occhiate espressioniste (quindi deformate): su un barocco che, com'è ovvio, si nutre di classicismo. Ma di una classicità teatrale, stravolta, insistita, esasperata, un po' stucchevole nella sua ridondanza esibita. E geniale. So poco del Belli, ma è l'autore stesso a citarlo come ispiratore. A chi distingue ancora fra forma e contenuto (io direi “sostanza”, ma ci s'intende) rivolgo l'invito a ripensarci. C'è una forma diversa per dire quel che a Gadda urgeva dire? Se tutto appare costruito (e lo è), dalla lingua – raccattata qua e là, in quasi tutti i dialetti della penisola e filtrata in neologismi vertiginosi – alla sintassi, fino agli aspetti morfologici e semiotici, hai l'impressione di una costruzione razionalissima, per nulla arbitraria, perfettamente logica e coerente nella sua follia.

Come fosse uno sguardo su una tela seicentesca, dai riccioli dorati della cornice, ai personaggi rappresentati (scalzi, nudi, sporchi o nelle vesti sontuose del trionfo), ai paesaggi cupi o illuminati da una luce accecante, la lente che ne ingrandisce i particolari svela a tratti nuvole strapazzate da tempeste o nitori cristallini. Oppure come fosse l'indagine di un dipinto fiammingo, mettiamo le “Quattro visioni” di Hieronymus Bosch che Gadda avrà analizzato a Palazzo Ducale di Venezia, o la “Veduta del porto di Napoli” di Brueghel il Vecchio che sta proprio a Roma, a villa Doria-Pamphilj. Anche lì, come nel “Pasticciaccio”, il particolare diventa ossessivo, intrigante, spiazzante. Oppure come in un'incisione di Piranesi, il “Portico d'Ottavia” o “Piazza del Pantheon”, con popolani e straccioni accostati a rovine maestose.

Dicevo della classicità, e teatralità: dai nomi virgiliani (Enea, Ascanio, Anchise) o della romanità (Venere, Diomede, Clelia, Camilla), alla chiamata in causa della musa Melpòmene, in riferimento alle galline, come sue ex alunne, alla trasfigurazione del popolo romano in coro da tragedia greca.
Un continuo slittamento dal basso verso l'alto del linguaggio, quasi una neolingua formata da vocaboli spuri, presi in prestito da varie discipline tecniche e argutamente “risciacquato” con inserimenti vernacolari anche fiorentini. Ambientato nel '27, è anche un (tardivo) sbeffeggiamento del Regime del Mascellone e dell'ambiente popolare che lo sosteneva, un sottobosco spiato con disgusto misto a pietà. I “fatti” hanno poca importanza, ne ha molta il modo nel quale vengono raccontati. Due “delitti”, un furto e un omicidio, s'intersecano e si sdipanano avvinghiati. Ho detto “tragedia”, però è tragedia mimata, dove tutto è rappresentato e quindi nulla ha un peso.

E ora vorrei dire soprattutto del “pandemonismo della terra intera” (animismo, se si preferisce) e dei suoi oggetti biologici o meccanici. Sono daimones talvolta benevoli. La campana di Santa Maria Maggiore è animata da uno spirito di protezione:

“Intrappolata dentro il suo gabbione, la campana grossa de li scolari principiò dondolare a sua volta, dagio adagio, con un fremito quasi inavvertito in sulle prime, con un rombo tuttavia sospeso nei cieli, come d'un'ala metallica. L'onda si dilatava lieta sui penzieri, sui terrazzi, ne vibravano i vetri chiusi delle case, ogni più addormita finestra. Una vecchia nonna su la canofiena, che prendesse ritmicamente l'aìre: e grattugiava fuori il suo susurro dolce e un tantino acquoso...Vrùn, vrùn, vrùn, vrùn!...quer segnale de calabrone a pendolo t'oo mollava con tutto er core, a ogni corpo de tutto culo che je dava, da poté pijà la spinta in avanti...Quella perorante cautela avvicinava il male per gradi, in una modulazione sommessa:..il male del ridestarsi a conoscere e a rivivere la verità d'ogni giorno...Ce durava na mezz'ora a cresce, dagio adagio, e n'antra mezzora a piantalla.” (cap.X)

 La bicicletta  del brigadier Pestalozzi (nome carabinieresco) è “una scatola di musica cro-cro, macchina dei denti rotti da sgranocchià il torrone”, i  cani, figure demoniache dai “sanguinolenti occhi di belva”, dalle “bocche come spelonche d'inferno”, le galline “spiritate sofonisbe” e il treno (tutto nero) come vortici demoniaci , mentre “da un olmo giungeva l'appello implorante del cucù”.

“La sagoma affumata del trenetto rimpicciniva in quel momento verso un arco lontano: accreditò di sé, del suo vanire, la fuga prospettica delle due rotaie convergenti: e somigliò il Nero Personaggio, e la garitta del vagone di coda il codònzolo, allorché ha licenza dalla incantatora e dispare con un sibilo a' suoi portici, sotto nero archivolto, nel monte: e nel silenzio della campagna e nel muto stupire delle cose, d'un'impronta di piè di capro è rimasto al sollo il sigillo, e poco solfo per l'aria” (cap.X)


E, ancora, le streghe nel loro antro, il “laboratorio” della Pacori Zamira “alli Du Santi” (otto incisivi mancanti): una sorta di cantina-bettola con funzioni di rammendo e recupero di vecchie maglie e tessuti, oltre che di divinazione e lancio-allontanamento di malocchio e sortilegi, vaticini e responsi. Due o tre “rammagliatrici”, tenere novizie con facoltà di prestazioni extra per carrettieri dell'Appia e carabinieri in perlustrazione. E una gallina, legata con uno spago, eccitata e scachicchiante, completa il quadro. Ovviamente fra questo sottomondo urbano e i delitti del quartiere medioborghese il legame c'è: le “piccole rammendatrici” hanno i loro “fidanzati”, o amorazzi vari, ragazzotti bulli e squattrinati, disposti a “a delinquere” per pochi spiccioli o, magari, per manciate di gioielli custoditi in appartamenti tutt'altro che inviolabili.

E' stato rilevato che l'uccisione di Liliana da parte di una quasi-nipote è un mezzo-matricidio, come nella “Cognizione del dolore” la morte per mano del figlio è soltanto suggerita. Intrecci drammatici, giochi intellettuali e ironia sui medesimi si mischiano senza tregua, soprattutto a partire dall'VIII capitolo, il più famoso, dove umorismo e tragedia si alternano. L'incipit è una grottesca modificazione del cap.IV dei Promessi Sposi, cui segue una descrizione “manzoniana” di Roma mattutina. E' il capitolo dell'intervento della gallina guercia della Zamira, “come evocata di tenebra”. Da qui alla fine del romanzo è un crescendo d'invenzione linguistica e di virtuosismo stilistico. Su tutto sovrasta l'onnipresenza di Zamira, punto d'incontro delle forze negative del romanzo, l'altro polo era occupato da Liliana, ingenua e perennemente addolorata per non aver figli. Le altre donne stanno per l'inerzia e l'istinto. L'unico valore riconosciuto è il maschile. Ma le donne sanno quel che cercano, i maschi no, ad eccezione del commissario Ingravallo, che ha piena coscienza di sé: sa di non piacere alle donne e s'è rassegnato. E' l'osservatore, il moralista, l'unico che agisce ponendosi problemi esistenziali. E' un romanzo per iniziati e per raffinati. È un vero rebus intellettuale.

Concludo con una dichiarazione dell'autore a proposito delle sue scelte linguistiche:

“La lingua dell'uso piccolo-borghese, puntuale, miseramente apodittica, stenta, scolorata, tetra, eguale, come piccoletto grembiule casalingo da rigovernare le stoviglie, va bene, concedo, è lei pure una lingua: un “modo” dell'essere. Ma non può diventare la legge, l'unica legge”. (In “Lingua letteraria e lingua d'uso”)

Carlo Emilio Gadda – Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. - Garzanti, 1957

16 agosto 2015

"Dialogo fra Bateson e Chomsky" di Emilio Michelotti

                                                                      Noam Chomsky

                                   Per il quarto incontro vorrei provare ad aprire uno scenario diverso dai primi tre, quello del pensiero analitico americano, caratterizzato da un approccio non mediato, diretto, con la vita pratica, la lotta politica, l'etica e la concretezza del metodo. Mi piace far incontrare due dei massimi rappresentanti di questa cultura: Gregory Bateson e Noam Chomsky. Collochiamo l'evento nella primavera del 1980: Bateson ha compiuto i settantasei anni, ha pubblicato da poco Mente e Natura, che terremo come binario, insieme a Il linguaggio e la mente di Chomsky, e  come argomento per una interrelazione non semplice. Chomsky, cinquant'anni o poco più,  è già al grado più elevato della scienza linguistica, oltre che attivissimo sulle questioni civili, come fu per la guerra nel Vietnam. Da qui l'avvio del confronto:
 

Chomsky:- Partirei da argomenti che condividiamo, dalla valutazione della situazione sociale in Occidente. E' in atto la solita strategia della distrazione, atta a deviare l'attenzione del pubblico, a creare problemi fittizi per offrire soluzioni demagogiche. Una gradualità che possa rendere accettabile misure inaccettabili, mediante la sua applicazione a contagocce (ho, in passato esposto la teoria della rana bollita: aumentando la temperatura poco alla volta, la rana viene cotta senza che riesca a sfuggire). “Misure dolorose ma necessarie” (differite abbastanza perché il pubblico si abitui), manualistica da “guerra pacifica”: rivolgersi a un adulto come a un bambino scemo, usare emotività e non riflessione (un tema sul quale mi sei maestro), tanto da provocare un circuito nel senso critico, mantenere il pubblico nell'ignoranza, stimolare la mediocrità, autocolpevolizzarci, facendoci credere di essere noi stessi la causa della sofferenza di molti. Insomma, hai capito quali sono i temi ai quali ho voluto accennare, prima di entrare nello specifico delle nostre competenze.



Gregory Bateson

Bateson:- Ti ringrazio per aver messo in primo piano uno dei problemi che più mi sta a cuore: l'errore più grande della postmodernità è aver separato la ragione dalle emozioni. E' una mostruosità e altrettanto lo è separare la mente esterna da quella interna e, di conseguenza, l'individuo dalla società, e l'umanità dalla natura. La mente, come scrivo nel testo appena uscito, non è prerogativa degli individui, anche la società e, soprattutto, l'ecosistema sono una mente. L'ecosistema va considerato come “la vasta mente” di cui l'individuo è un sottosistema. E' una concezione dalle immediate ripercussioni etiche e che ha strette correlazioni con il generativismo da te propugnato. C'è una sopravvalutazione della coscienza. Questa considera solo una piccola parte delle informazioni della mente e questa selezione è fatta secondo una finalità: la coscienza così rivendica “in esclusiva” il carattere di mente. La finalità cosciente è semplificante e non mira alla saggezza. E' stolta, perché ignora la natura sistemica del mondo. Si deve, per una “ecologia della mente” ricongiungere la coscienza con l'inconscio, la mente individuale con la più vasta mente dell'ecosistema.

C:- C'è un deliberato tentativo degli intellettuali, del governo, dei mass-media di mascherare i fatti semplici con un linguaggio ottuso, in modo da tenere “la folla” fuori gioco. E' un deliberato oscurantismo dei fatti tipico – concordo – della postmodernità e che concerne il controllo sociale. Tutti vogliono dettare agli altri ciò che sarebbe nel loro interesse.

B:- Mi sembra di notare che anche tu abbia sempre più netta la convinzione che i fenomeni siano parte di una totalità organica (quindi governati da principi comuni), non frammentabile analiticamente. Anch'io sono incuriosito , come te, dalle risposte che la cultura Zen dà alla pretenziosità del mondo occidentale. Abbracciare in un orientamento interdisciplinare mente, natura e cultura, come fa la tua ricerca su una grammatica  universalistica, mi sembra avvicini il cuore del problema reale.

C:- Sì, fin dalle Strutture della sintassi, del '57, sto mettendo a punto una teoria generale della struttura linguistica, che renda conto di com'è possibile che, nonostante l'estrema complessità che contraddistingue qualsiasi lingua, i bambini possono apprederla da piccoli con tanta facilità. Ho indagato l'esistenza di strutture universali soggiacenti alla varietà storica delle lingue. Tale indagine mi ha fatto postulare la realtà di una grammatica universale innata sotto forma di attrezzatura bio-genetica implicita, che possa rendere questo fatto così evidente spiegabile. La teoria del meccanismo stimolo-risposta, tipica del comportamentismo di De Sussure, non rende conto della capacità di produrre frasi nuove. Questa competenza è universale e la sua spiegazione si fonda sulla necessità di escludere come irrealistiche certe grammatiche, allo stesso modo di come, in ambito fonologico, certe combinazioni di suoni vengono escluse perché impossibili da realizzarsi.

B:- Nella nostra epoca l'imperante concezione che tende a separare fra loro vari spezzoni del reale è pericolosissima, perché ha dalla sua, come ancella,  una tecnologia molto potente che consente di creare moltissimi danni, perfino di distruggere il pianeta. Da una parte abbiamo la natura sistemica dell'essere singolo e la natura sistemica della cultura nella quale egli vive, e la natura sistemica del sistema biologico, ecologico, che lo circonda; e, dall'altra parte, la curiosa distorsione nella natura sistemica dell'uomo individuale, per effetto della quale la coscienza è, quasi di necessità, cieca di fronte alla natura sistemica dell'uomo stesso.

C:- La funzione della memoria, ch'è parte importante della coscienza, non è poi così determinante come si crede. E', per esempio, la grande “matematica del linguaggio” che permette di comprendere frasi mai sentite prima. Questa struttura possiede già le componenti sintattiche, morfologiche, semantiche necessarie. Si deve distinguere, infatti,  fra una struttura superficiale (per esempio la parola “vieni”) e una profonda che produce la prima attraverso una serie di trasformazioni. La struttura profonda può contenere elementi assenti in quella superficiale (esempio l'elemento “tu”, che nel “vieni” superficiale è assente). Bisogna però guardarsi dall'equivoco di ritenere la struttura profonda qualcosa di metafisico e inaccessibile, e quella superficiale qualcosa di irrilevante. In realtà la fonologia, che riguarda la combinazione dei suoni, ossia la “superficie”, mette in luce la sua universalità al pari della sintassi che studia le regole


B:- La descrizione e codificazione di questi processi, come di quelli che descrivono ogni struttura mentale, rilevano l'importanza di comprendere la dimensione sistemica della realtà. Ciò significherebbe far compiere alla scienza una svolta epistemologica, dislocarla entro un nuovo paradigma. Se si continuano a seguire i dettami “sensati” della coscienza, si diviene, in realtà, avidi e stolti. Per stolto intendo colui che non riconosce e non si fa giudare dalla consapevolezza che la creatura globale è sistemica. La mia proposta dell'umiltà non vale come principio morale, ma come elemento di una filosofia scientifica. L'evoluzione è stata vista come la storia di organismi che apprendevano stratagemmi sempre più numerosi per dominare l'ambiente, e gli stratagemmi dell'uomo erano i migliori. Ma quell'arrogante filosofia scientifica è ora fuori moda ed è stata sostituita dalla scoperta che l'uomo è solo una parte di più vasti sistemi e che la parte non può in alcun caso controllare il tutto.

C:- Le cose che hai detto, anche se appena accennate per brevità, convincono e aiutano a capire anche chi, come me, parte da un diverso approccio agli stessi problemi. Del resto la passione per la linguistica ci accomuna, come la necessità di pensare gli argomenti in modo sistemico.  Permetti un'ultima nota sulle mie ricerche: la grammatica generativo-trasformazionale (o generativismo) è l'analisi delle strutture innate del linguaggio naturale. Esiste, come ho già detto ma credo utile ribadire, un limitato numero di parole e di regole, a fronte di una illimitata possibilità di creare frasi. Chiamiamole col loro nome: sono procedure algoritmiche capaci di generare tutte e sole le frasi di una qualsiasi lingua naturale. Queste procedure costituiscono una dotazione innata della mente umana. La grammatica genera enunciati, ma non li produce in maniera meccanica una volta per tutte. C'è un numero di parole e di frasi virtualmente infinito, e una grammatica deve darne conto.

Gregory Bateson: Mente e natura,  Adelphi (1979)

Noam Chomsky: Il linguaggio e la mente, Bollati Boringhieri (1968)
 

13 agosto 2015

"Il giardino di Luca" di Pier Luigi Ghilarducci



di Laura Menesini 

Libro di memorie? Non direi!

Si tratta piuttosto di amore, amore fortissimo e inconsolabile per il proprio paese, per quel posto dove si è trascorsa l'infanzia e la prima giovinezza, per quel paesino che ormai è cambiato, ma che nel secondo dopoguerra e poi negli anni '50 e '60 era un parco-giochi libero a tutti, dove i bambini e poi i ragazzini potevano sbizzarrirsi senza pericoli e dove la scarsità di giochi faceva sì che la fantasia di ciascuno inventasse qualcosa di nuovo, anche se sciocco (ad esempio il rametto di bosso in tasca).

Il “nostro” però non era così libero come si potrebbe supporre, in realtà una madre-tiranno lo teneva ben stretto sotto il proprio controllo e solo la sua buona stella ha fatto sì che abbia potuto allontanarsi e finalmente crescere, anche se il prezzo – salato – da pagare è stato questo struggimento interno che non  abbandonerà mai chi ha dovuto lasciare il proprio paese, sia pure per un posto più bello e vicino, e per di più ha fatto questo salto per amore.
Dire il nostro, però, non è esatto in quanto i nostri sono due, un'amicizia profonda e duratura che li ha fatti sentire fratelli e confidenti.

Chi ha vissuto quegli anni ritrova in queste pagine tutta la sua gioventù, la mancanza perenne di risorse, le lunghe passeggiate notturne quando, chissà perché, la lingua si scioglie e l'oscurità ti permette di dire cose che mai ti sogneresti di pronunciare alla luce del sole. Talvolta le parole  diventano discussioni, banali per noi adulti oggi, ma profonde e sentite per chi sta cercando di chiarire a se stesso innanzi tutto, e poi agli altri, la sua personalità e il suo volere e quell'andare in su e giù serviva proprio a questo scopo.

Tutti dovrebbero leggere queste pagine: ai molti che hanno vissuto quel tempo torneranno in mente le proprie avventure, ai più giovani che sono nati in un mondo tanto diverso servirebbero per capire cosa hanno perso, anche se hanno acquistato tutti i progressi dell'elettronica!

Anche il linguaggio e la forma sono adeguati agli anni descritti e se oggi appare strano sentir parlare di “spalle tornite” o di “fagottino urlante” perché gli SMS ci hanno abituati  a una sintesi estrema, in quei “lontani” anni questo era l'italiano che parlavano le persone con una certa istruzione.

Pier Luigi Ghilarducci. Il Giardino di Luca . Il giovane Holden Edizioni
  

12 agosto 2015

di Luciano Luciani

America2.0: tra musica e voglia di raccontare
Quante Stars and Stripes abbiamo nel nostro Dna?
Quanto cinema, musica, letteratura, fumetti made in Usa agiscono nel nostro immaginario e nei nostri stili di vita?


Almeno due generazioni, a dir poco, di europei venuti al mondo all'indomani del secondo conflitto mondiale hanno vissuto e vivono ancora emozioni e miti nati ed elaborati al di là dell'oceano: la loro straordinaria, formidabile pervasività ci ha resi tutti, chi più chi meno, se non figli almeno nipoti della Grande Nazione amata e odiata, desiderata e negata, imitata e contestata.

Giornalista e scrittore, l'italianissimo Fabio Cerbone (Lodi, 1975) di America, dei suoi valori e delle sue storie, è intriso fino alle midolla e ne utilizza con sapiente naturalezza convenzioni, codici e canoni. Così, in undici short stories spesso dure e  dai bordi lacerati e taglienti, collocate sugli scenari dell'America, irripetibile, degli anni Sessanta e Settanta, Cerbone ripropone il sentire diffuso, forse superficiale ma sincero e autentico, della generazione, generosa e sconfitta, che tentò l'assalto al cielo di farsi protagonista della storia e del mondo. Le pagine del suo America 2.0 Canzoni e racconti di una grande illusione, recentemente pubblicate dalla sempre attenta editrice Quarup, ci raccontano, infatti, di camionisti e reduci del Vietnam, di viaggi da costa a costa e di famiglie afroamericane alla ricerca di una faticosa dignità, di carceri disumane e motel tutti uguali. E poi storie di donne perdute e musicisti rock, di clandestini messicani e hippie on the road, di falliti in perenne tensione per una seconda occasione e di canzoni lanciate nella notte alla ricerca di orecchi e cuori attenti...

Sì, il filo conduttore di queste storie è la musica: quella che va da  Elvis a Bruce (passando per Tom Waits, Kris Kristofferson, John Prine...) quando gli States erano all'avanguardia nella ricerca, sempre attraverso la musica - ma non solo -, di un'identità generazionale: forse confusa nei suoi contorni, forse velleitaria, ma senz'altro pacifista, sensibile ai temi ecologici e alla giustizia sociale, insofferente a ogni forma e manifestazione di autorità, dal padre al professore, dal poliziotto al presidente degli Stati Uniti.

Le narrazioni di Cerbone, ognuna introdotta e attraversata dal verso di una canzone, sono organizzate nel Side one e Side two di un disco ideale in equilibrio tra le musiche interiori che ognuno di noi si porta dentro - la colonna sonora della nostra esistenza  - e il piacere ampio, disteso di raccontare vicende di uomini e donne, tempi e geografie insieme veri e favolosi, concreti e mitizzati: un'idea dell'America nutrita da un amore appassionato per la sua cultura e la sua musica. Per i suoi protagonisti, soprattutto: i più umili e indifesi, i meno fortunati, le vittime di quel sogno americano così spietato e così capace di tradire.

Fabio Cerbone, America 2.0 Canzoni e racconti di una grande illusione, Quarup, 2015, pp. 155, Euro 13,90

"Dialogo fra Foucault e Lacan" di Emilio Michelotti


Argomento del primo dialoghetto era “eternità e tempo”, quello del secondo “mito e fiaba”. Per quello di oggi, “desiderio e frustrazione” faccio incontrare due che la sapevano lunga: Jacques Lacan e Michel Foucault. Se il dialogo vi fosse stato, potrebbe essersi svolto in una saletta appartata della “Haute école des étudies”, nella città dei Lumi, intorno all'autunno del 1976.
Foucault:- In questi anni si tenta di contrapporre un potere repressivo a una sessualità autentica: Io non penso che la sessualità sia una natura originaria e ribelle che il potere tenterebbe di reprimere, ma un dispositivo creato e tenuto in vita dal potere stesso.

Lacan:- Per ritrovare il filo sconnesso dobbiamo, a mio parere, tornare all'insegnamento originario di Freud, travisato dagli sviluppi successivi della psicoanalisi. La rivoluzione freudiana è consistita nel detronizzare l'io, riconoscendo nell'inconscio la vera voce dell'individuo: chi parla non è propriamente l'io, ma l'inconscio. L'inconscio è strutturato come un linguaggio, è desiderio diveniente linguaggio.

F:- Non ho difficoltà a seguirti su questo terreno: una cattiva interpretazione ha collocato fra gli emblemi della nostra società quello del sesso che parla. Del sesso che si sorprende, che s'interroga e che, costretto e volubile a un tempo, risponde inesauribilmente. Questa china ci ha condotti a porre al sesso la domanda: chi siamo? E non tanto al sesso-natura (elemento del sistema vivente), ma al sesso-storia, al sesso-significato, al sesso-discorso. Ha fatto della sessualità l'elemento identificativo degli individui, la verità del soggetto.

L:- Il soggetto (o io) non è, peraltro, il dato originario della vita psichica dell'individuo, ma il risultato di una costruzione. L'ordine simbolico – ossia il linguaggio – si fonda sulla rimozione dell'immaginario, ossia su una scissione fra conscio e inconscio. Il simbolico è il luogo dell'inconscio impersonale, dove sono depositati simboli linguistici e sociali, finché non s'incarnano in un individuo. Si accentrano così in una unità immaginaria (il Me), che fa sì che si desideri quel che non si ha. In tal modo il reale diventa lo scopo irraggiungibile che perpetua eternamente il desiderio.

F:- La costituzione stessa delle “scienze umane” va sotto questo segno e deriva da una duplice frattura: quella avvenuta nel '600 con l'adozione di una teoria della rappresentazione (tutto il reale è simbolizzato da un sistema di segni), e quella, avvenuta nel XIX secolo, che ha visto la “comparsa dell'uomo”, del soggetto che pone se stesso come oggetto di un sapere specifico. Oggi però è giunto il momento della consapevolezza: l'uomo è preso all'interno di strutture che dominano il modo in cui gli individui pensano e agiscono. Per questo parlo di morte dell'uomo e della necessità dell'avvio di un pensiero antropofugale, nel quale ci si renda conto che egli non è più fondamento epistemico.

L:- La prima tappa della costruzione dell'ordine simbolico che c'imprigiona è lo stadio dello specchio: il bambino fra i sei e i diciotto mesi arriva a riconoscere la propria immagine allo specchio ed elabora un primo abbozzo dell'io, ma entro una relazione duale di confusione tra sé e l'altro. Tale identificazione è primaria, matrice di tutte le altre. Essa estranea l'io in una alterità idealizzata e conferisce al mondo un carattere antropomorfico.

F:- Io distinguerei quattro insiemi strategici, attraverso i quali il potere diffuso ha intrecciato la confusione che tu denunci con dispositivi specifici della sessualità: 1) isterizzazione del corpo della donna, 2) pedagogizzazione del sesso del bambino, 3) socializzazione delle condotte procreatrici, 4)  psichiatrizzazione del piacere perverso. Si è detto spesso che la società moderna ha cercato di ridurre la sessualità alla coppia, alla coppia eterosessuale e per quanto possibile legittima. Si potrebbe dire altrettanto bene che essa ha, se non inventato, accuratamente organizzato gruppi a sessualità circolante: una distribuzione di punti di potere, gerarchizzati o in urto fra di loro, piaceri “ricercati”, cioè a un tempo desiderati e perseguitati; sessualità parcellari tollerate o incoraggiate. La famiglia è una rete complessa, satura di sessualità multiformi, frammentarie,  mobili.

 


L:- Ridurre questa multiformità alla relazione coniugale, a costo di proiettarla, sotto forma di desiderio vietato, sui figli, non può render conto di questo dispositivo che è piuttosto un meccanismo incitatore e moltiplicatore che un principio d'inibizione. La nostra società è una società di perversione abbagliante e diffusa. E tutto ciò che ha lo scopo di ridurre e deviare, provoca l'aumento del desiderio di ciò che non si ha, in una catena viziosa. Frustrazione, senso di inadeguatezza e di insoddisfazione impossibile da colmare: è la fonte della massima infelicità.

F:- E questo nient'affatto nella forma dell'ipocrisia, perché nulla è stato più manifesto e prolisso, né perché, per aver voluto esigere contro il sesso una barriera, avrebbe dato luogo suo malgrado a una germinazione perversa e patologica. Si tratta piuttosto del tipo di potere che essa ha fatto funzionare sul corpo. Un potere che non ha né la forma della legge né gli effetti del divieto. Al contrario, procede con la moltiplicazione di sessualità insolite. Produce e fissa la diversità sessuale. E' una società perversa, non malgrado il suo puritanesimo o come una specie di contraccolpo della sua ipocrisia; è perversa direttamente e realmente.

L:- E' possibile che l'Occidente non sia stato capace d'inventare piaceri nuovi, e probabilmente non ha scoperto vizi inediti. Ma ha definito le nuove regole del gioco, il volto irrigidito delle perversioni. La domanda da porre non è dunque: perché mai il sesso è così segreto? Fra ciò che siamo e ciò che diciamo o pensiamo di essere sussiste sempre uno “slittamento di significati” che ci vede di continuo decentrati in noi stessi. Vorrei parafrasare il motto istitutivo della razionalità moderna: “Penso dove non sono, sono dove non penso”.  La domanda è, dunque, perché non facciamo che generare malintesi, dire altro da ciò che vorremmo? E, viceversa,  perché se ci proponiamo di parlare d'altro, dei fatti, delle cose della vita, finiamo sempre per rivelare noi stessi, confessare i nostri limiti?

F:- Sono queste considerazioni “sociali” che ti hanno fatto abbandonare l'Associazione di Psicoanalisi e fondare l'Ecole freudienne de Paris?

L:- Anche, e per la deriva astratta, statica e precostituita dell'associazione, che l'ha resa incapace di riflettere creativamente e agire praticamente sulle dinamiche dell'esperienza. Pensa a quel che più  avvicina il mio e il tuo pensiero: sono le parole (metafore, metonimie) più ancora che le immagini e i sogni, a tradire il significato inconscio. L'ambito in cui questo significato è rintracciabile si allarga così indefinitivamente. E' soprattutto negli scarti del linguaggio cosciente, negli interstizi fra un significante e l'altro che si può sorprendere la voce dell'Altro: una voce che parla attraverso pause, incertezze, cadute di ritmo e di tono. Una voce che costituisce quell'orlo di silenzio in cui trova senso la nostra voce, così come l'evento dell'essere trova senso nel nulla.

Michel Foucault: La volontà di sapere, in  Storia della sessualità, Feltrinelli, 1976

Jacques Lacan: Scritti, Einaudi, 1966

09 agosto 2015

"Dialogo fra Propp e Lévi-Strauss di Emilio Michelotti

                                                             Claude Levy Strauss
Nel 1958, con Antropologia strutturale, Claude Lévi-Strauss fonda, in pratica, una nuova disciplina. Già dal 1928, a Leningrado, nella giovane Unione sovietica, Vladimir Propp aveva dato alle stampe uno studio rivoluzionario sulla struttura della fiaba. Il coté culturale era quello del formalismo russo, ma Propp se ne distaccava per l'importanza data alle invarianze – strutture permanenti - che le sue ricerche andavano evidenziando.
 

                                                                      Vladimir Propp

 Il dialogo, possibile ma non probabile, potrebbe essersi svolto a Parigi, intorno al 1961.
E' da notare che, mentre L.S. insiste nel classificare Propp come “formalista” questi si svincola e tende a collocarsi fra i precursori dello strutturalismo. Dopo i grandi studiosi del passato, dal Basile al Pitré, dai Grimm a Brentano, P., con Morfologia della fiaba, innova le ricerche etnologiche intorno alla tradizione orale del racconto di fiabe. Per P. “favola”, termine che durante l'intero colloquio L.S. usa quasi provocatoriamente, è del tutto inadeguato per il racconto popolare di magia. In un precedente confronto epistolare, L.S. aveva sostenuto che solo grazie al suo saggio La struttura e la forma, del 1960, Propp era uscito dall'anonimato di una sorta di damnatio memoriae, e giunto a notorietà. Questi aveva ricordato all'antropologo francese che nessuno ha il diritto di primogenitura e che, proprio anche per merito del suo “oscuro” lavoro, concetti come “invarianza” e “struttura” avevano preso posto nel dibattito contemporaneo.

Propp:- Se il pensiero logico-matematico è lo strumento principe di conoscenza e si avvale di astrazioni e procedure, per far luce nella complicata rete delle relazioni umane si deve ricorrere al pensiero narrativo, fondato sulla costruzione di storie. Miti, leggende, saghe e lo stesso teatro greco, sono sistemi narrativi che giocano un ruolo decisivo nella formazione del pensiero. Il racconto orale di magia, derivato dai riti d'iniziazione, non svela significati nascosti. Non è almeno questo lo scopo della ricerca in atto, come forse lo è, per lo strutturalismo di L.S. o della psicoanalisi lacaniana. Non è nemmeno quello di trovare elementi di differenziazione. E' quello di portare alla luce invarianze, elementi strutturali fissi, che formano la base del racconto popolare.

Lévi-Strauss:- Al contrario del formalismo, lo strutturalismo rifiuta di opporre il concreto all'astratto e di accordare a quest'ultimo una posizione di privilegio. La forma si definisce per opposizione a una materia che le è estranea, ma la struttura non ha contenuto distinto: essa è il contenuto stesso, colto in una organizzazione logica concepita come proprietà del reale.

P:- La linguistica strutturale americana dipende in buona parte dalle acquisizioni del formalismo russo.

L.S.:- Non può trattarsi di derivazione, perché il tuo libro del '28 è rimasto inaccessibile fino alla traduzione di Roman Jakobson degli anni '40. Se i temi del racconto mitico favolistico sono scomponibili e, come dici tu, ogni frase costituisce un motivo e quindi l'analisi deve essere spinta a livello “molecolare”, da ciò non si può dedurre che questo motivo sia privo di struttura logica indipendente. E' importante che tu abbia riconosciuto che, almeno “a prima vista” e “paradossalmente” tutte le favole siano riconducibili a un solo tipo, ad una unica antica madre di tutte le favole.

P:- Non ho detto questo: nonostante la pluralità delle parties, quando fra queste sussista una relazione funzionale si può parlare, forzando molto, di un'unica fiaba. Ma solo in questi casi. Se le funzioni non sono connesse logicamente si deve parlare di più racconti distinti. E' infatti necessario distinguere fra fattori variabili e fattori costanti. Gli invariabili rappresentano le unità elementari. La mia ipotesi, suffragata da tutte le ricerche successive, è che i “racconti di magia” sono una categoria particolare all'interno delle fiabe popolari.

L.S.:- Il numero delle funzioni da te individuate (31) è molto limitato. Inoltre coppie di funzioni, sequenze e funzioni indipendenti si organizzerebbero in un sistema invariante, tale da permettere di classificare ogni favola. Le 31 funzioni sono sostenute da un certo numero di personaggi. Dopo questo raggruppamento ulteriore, secondo la tua analisi, i protagonisti si riducono a sette (l'antagonista, il donatore, l'aiutante magico, il personaggio cercato, il mandante, l'eroe, il falso eroe).

P:- I personaggi e i loro attributi cambiano, non così le azioni e le funzioni. L'ordine di successione delle funzioni è sempre costante, tale da rappresentare una sorta di “metastruttura”.

L.S.:- Il termine “racconto di fate” è poi doppiamente improprio. Nulla impedisce di mettere insieme favole in cui compaiono fate senza che la narrazione si conformi alle norme che tu pretendi di aver scoperto: è il caso delle favole artificiali di Andersen, Brentano o Goethe.

P:- Non è mai il caso del racconto di tradizione orale. La formula più accettabile per te sarebbe forse: “fiabe a sette protagonisti” – visto che i sette formano un “sistema”?

L.S.:- Se si giungesse a dare una dimensione storico-scientifica alla ricerca si dovrebbe allora adottare il termine di “favole mitiche”.

P:- Dal punto di vista storico il racconto di fate, raggruppato su base morfologica, è in effetti assimilabile al mito.

L.S.:- Su questo d'accordissimo. Anzi, a mio parere, non solo dal punto di vista storico, ma anche psicologico e logico. Non c'è motivo fondato per isolare le favole dai miti. Per quanto prescrizioni e divieti impongano spesso di narrare i miti solo in determinate ore o stagioni, non c'è certezza che questa osservazione sia scientificamente fondata.

P:- La purezza della costruzione dei racconti è quella di una società arcaica poco toccata dalla civilizzazione. Ogni influenza esteriore altera il racconto popolare e finisce per disaggregarlo.

L.S.:- Perché allora la scelta di racconti così aleatori per sperimentare il tuo metodo? Forse perché non disponevi di materiale mitologico in piena padronanza? Per questo sei partito dalle favole popolari russe? Il tuo scritto appare dilaniato da un'antinomia: è chiaro che c'è una storia nelle fiabe, ma una storia praticamente inaccessibile, perché sappiamo pochissimo delle civiltà antistoriche nelle quali esse sono nate. Ma è davvero la storia a mancare?

P:- Siamo vittime di un'illusione soggettiva: non è il passato che ci fa difetto, ma il contesto. I miti più arcaici costituiscono il terreno dal quale la fiaba di magia trae la sua origine remota. Le usanze profane e le credenze religiose si integrano e nasce il racconto popolare. L'osservazione ci presenta in astratto un gran numero di fiabe, ma per classificarle una riduzione a tipologie concrete è indispensabile. Se vogliamo possiamo chiamarle “archifiaba”.

L.S.:- Nel presente miti e favole coesistono a fianco a fianco, quindi un genere non può essere considerato sopravvivenza dell'altro, a meno di non voler presumere che le favole conservino il ricordo di miti antichi, mentre questi sarebbero caduti in disuso. Questa ipotesi è indimostrabile, mentre è certo che mito e favola si nutrano di una sostanza comune, ognuno a suo modo. E' piuttosto una relazione di complementarità. La fiaba è un mito in miniatura.

P:- Nego che la fiaba possa essere considerata un mito residuo, anche se soffre di essere rimasta sola. La scomparsa dei miti ha rotto un equilibrio secolare.

Claude Lévi-Strauss, La struttura e la forma,1960 In Antropologia strutturale due,Il Saggiatore'78 Vladimir Propp, Morfologia della fiaba, 1928- Einaudi, 1966