di
Elisa Bertoni
Occhiatina
a San Pietro e altre fughe è una raccolta di trenta
racconti che colpiscono per l'estro creativo e la fecondità verbale
con cui Enzo Guidi gioca con la lingua.
Leggere i suoi racconti è come
entrare in un fantasmagorico teatro “che ha il languore/ di un
circo/prima o dopo lo spettacolo”, per usare le parole di Ungaretti
nella poesia I fiumi. A volte sono i personaggi ad imprimersi
nella mente del lettore come maschere caricaturali che paiono uscire
dalla pagina.
E' il caso di Rubino e Frankie del primo racconto, il
più lungo ed articolato della serie che dà il titolo alla raccolta.
Essi sono tratteggiati con maestria dall'autore tanto che al termine
della storia si vorrebbe che le loro avventure continuassero.
Appaiono clown un po' svampiti e strampalati, ma nello stesso tempo
sognatori determinati, pronti ad affrontare viaggi con mete irreali
alla Sussi e Biribissi, degni di Rabelais per le pantagrueliche
abbuffate finite in un ben poco edificante ed inarrestabile vomito
nel sacro tempio della cristianità a San Pietro. Questa comicità
plautina non si esaurisce tuttavia in una grassa risata condita di
frivola spensieratezza, perché il clown non esita a trasformarsi in
un Pierrot con la lacrima disegnata sul volto nella chiusa elegiaca
del racconto.
Altre volte si entra
nella stanza con gli specchi deformanti della memoria, per cui il
baccalà lesso può acquistare lo sgradevole sapore di carne di
cobra, oppure la deformazione può avvenire nella naturalezza con cui
si presenta al lettore un evento tutt'altro che comune: “una
mattina io e mio padre decidemmo di portare mia madre
dall'esorcista”.
C'è poi la stanza dell'illusione per cui una
fontana, da simbolo di una attesa concretizzatasi finalmente in
esperienza straordinaria, svanisce dando la netta sensazione di non
esserci mai stata.
Ci imbattiamo infine nella stanza della
trasformazione in animale, così cara alla letteratura, da Apuleio a
Collodi e Kafka, solo per citare alcuni autori rappresentativi. Nel
racconto Licteratu alla Coop, Licteratu, amico scrittore
dell'io narrante, ma nello stesso tempo suo chiaro doppio per il
“fanatismo istintuale per la scrittura”, “gemello oscuro,
ossessivo e importuno eppure così necessario a completare i miei
momenti di sconforto” diventa all'improvviso un pipistrello dalla
natura ben diversa rispetto al più noto Dracula-Nosferatu.
“Licteratu è davvero un pipistrello solare: più ilare che
macabro, un pipistrello mediterraneo all'ora del giornale radio e
dell'abbronzatura...al tempo del bagno in mare e della caprese. Ilare
come il pipistrello del proverbio: mezzo topo e mezzo uccello”.
Il
racconto centra alcuni aspetti fondanti della scrittura di Guidi:
innanzitutto la gustosa comicità nel dissacrare i momenti di rito
della cultura nazional-popolare. Non secondaria è poi la riflessione
sul ruolo dello scrittore. Così come l'alcione di Baudelaire era
specchio del poeta, il pipistrello solare diviene simbolo dello
scrittore, mezzo topo e mezzo uccello dotato di una doppia natura che
lo porta in volo nel cielo, ma col bisogno di squittire sulla terra,
apparentemente disadattato all'uno e all'altra, eppure perfettamente
integrato nel suo disadattamento, mentre sta per terminare il suo
romanzo fra “sibili di metallo fuso e aspri miasmi autobiografici”
come una sorta di futurista romantico che si nega quando si afferma.
Centrale in questo teatro di racconti sono proprio le parole stesse,
che diventano funambolici equilibristi o spericolati trapezisti come
aerei che volteggiano nei cieli e possono di colpo precipitare sulla
terra. Il flusso di coscienza ben riconoscibile in Blia
diviene una sorta di narrativo blob, originato da uno zapping sulle
esperienze di vita, che unisce la scelta al caso creando spettacolo.
Lo afferma Guidi stesso: “ci sono già state cose così che
accadono come parole”. La parola da essere emissione di suono
portatrice di significato diventa accadimento, fatto, mentre le cose
paiono svaporare in parole.
Il binomio cosa-parola diviene così
inscindibile in Guidi, dal momento che non c'è parola che non sia
cosa e cosa che non sia parola. Non stupisce quindi che i giochi di
parole, come quello tra “importanza” e “portanza” nel
racconto Festa dell'aria, abbiano la sinistra magia di
interagire con la realtà, facendo collassare un aereo. E così pure
in Pesce i pesci avevano “pescato” il protagonista ad
esagerare, per il fatto che aveva osato pronunciare due parole
inutili (guepière e interfaccia), costringendolo a fargli vivere il
contrappasso della loro punizione, in un tragicomico dominio ittico
sulla presunzione umana: “i pesci che dominavano il mondo col loro
sguardo vitreo e allarmante, col loro silenzio sapiente, misterioso e
leggero, ora lo condannavano a boccheggiare come un pesce fuor
d'acqua, perché lo avevano pescato per l'ennesima volta a fare due
parole”. Parole che diventano anche patetico bisogno di
pedagogizzare risolvendosi di fatto in incomunicabilità: “Si fermò
per essere ascoltato e, mentre parlava, con la punta del piede
cominciò a tracciare nella ghiaia bagnata quelle poche linee. Voleva
spiegare in modo semplice e cristallino l'ineludibile, l'ineffabile
fatalità del limite”. Con le movenze di un neo-Cristo, profeta del
nichilismo, il protagonista di Aloigi incorre in una scontata
sconfitta perché il bisogno di esprimere l'ineffabile lo rende
inascoltato e inascoltabile. Vincere il limite con la parola che è
costruita con il limite sonoro o grafico della sua stessa natura è
un paradosso che rende i personaggi come donchisciotte imprigionati
nella costante “attesa dell'inestimabile, della superiore
specialità, della visione più grande e terribile”. La parola e la
scrittura restano tuttavia salvezza, in quanto riescono a dare sfogo
al rovello dei pensieri che si aggrumano impietosi nella mente dei
protagonisti: “E così camminare è quasi un voler fronteggiare il
pensiero... canticchiare il proprio rovello in una tiritera lenitiva
che regola sordamente passo e respiro, mentre scorrono vicino gli
impercettibili pericoli della città torva e repressa, in quel nulla
che accade intorno sempre allo stesso modo poco rassicurante”.
E
parte di una cura è anche la “logorrea nel vuoto” praticata da
Bavetto, nell'omonimo racconto: pronunciare il suo nome veniva
percepito come “parola-larva alla guida di altre larve di parole”.
Bavetto riusciva a curare la paura della vita e della morte con un
terrore ancora più grande, quello del silenzio. Per questo il suo
trattamento consisteva “nel far parlare le persone fino
all'esaurimento” mentre lui rimaneva sempre in silenzio. La
sensazione era quella di trovarsi “in caduta libera nella vacuità
insopportabile del nulla”. La parola rassicura temporaneamente
dalla paura dell'esistenza ma per paradosso sarebbe l'assenza di
parola ad essere risolutiva.
La spettacolarizzazione
della sua scrittura si ottiene dunque in molteplici modi, grazie a
personaggi caricaturali e a deformazioni della memoria, ad un uso
dirompente e vitale delle parole, fino ad una comicità che nasce
spontanea nello sguardo ironico e sornione con cui si osserva la
realtà ed i suoi costumi: “l'inferno è un caseggiato urbano di
prossima demolizione. Occhiaie vuote di finestre, infissi sdruciti su
un involucro cadente al fondo di una piazza. Dentro inaspettatamente
il centro estetico “Paradiso Fitness” modernissimo ed elegante”.
In questa satira dissacrante della modernità non è strano scoprirvi
un Dante fruitore della palestra che gioca a palla in modo coatto,
trovando lì un suo spietato contrappasso rispetto alla sacralità
del suo nome e del suo ispirato viaggio della Commedia.
Guidi sa
cogliere nella realtà quel contrasto paradossale che la rende
risibile, come nel racconto Durren...matt?, in cui l'ilarità
da nano boschereccio di un personaggio svizzero, incontrato per caso
dal protagonista, crea stupefazione perché nessuno avrebbe potuto
crederla in sintonia con l'“austera fama letteraria” di Ignazio
Silone, di cui dichiara di essere molto amico.
Non stupisce dunque
quello che si legge nel racconto Graffito di Udo: “Nonostante
il dramma, lo spettacolo continuava”. Se la morte di Tenco non
fermò il festival di Sanremo, niente, nemmeno l'assurdità della
vita, potrà fermare la scrittura-spettacolo di Guidi capace di
creare racconti che con la carica eversiva di un sagace umorismo, con
l'uso sapiente e funambolico delle parole hanno il potere di
interrompere la percezione di insensatezza che è l'esistere.
L'importante, come si legge In cella, è “scrivere tutto”.
La ricerca di una narrativa è un imperativo irrinunciabile per
l'autore: “scrivere tutto”, una follia necessaria alla vita, una
prigione che libera.
Enzo Guidi. Occhiatina
a San Pietro e altre fughe. Maria Pacini Fazzi.Euro 15