25 dicembre 2015

“Documenti e studi” e la Grande Guerra




Pochi avvenimenti nella storia del mondo moderno hanno avuto un impatto così profondo e sofferto sulla cultura europea come la Grande Guerra.
Con il primo conflitto mondiale, infatti, la morte di massa irruppe sullo scenario della storia europea. Tra l’estate 1914 e l’autunno 1918 una striscia di terra, ora larga solo poche centinaia di metri, ora estesa per qualche chilometro, divise in due l’Europa. Era la "terra di nessuno”, dove si avanzava o si arretrava di pochissimo e ogni piccola modifica era il risultato di una tragica contabilità di morti, feriti e distruzioni. Il primo spazio di violenza della storia novecentesca: dove milioni di uomini si affrontarono con tutti i tipi di armi messe a loro disposizione dal legame, tecnicamente necessario ed economicamente vantaggioso, stabilitosi tra grande industria e produzione bellica. Già conflitto totale, la Grande Guerra era destinata a trasformare dal profondo “il mondo di ieri”, quello uscito dal lungo Ottocento, modificandone non solo le strutture sociali e politiche, ma anche la mentalità l'immaginario e i comportamenti: a ragione, negli anni successivi storici l'avrebbero definita ora come “l’età della catastrofe”, ora come l’inizio della “guerra civile europea”.

Quella vicenda, le sue cause e le sue ragioni, i suoi protagonisti tornano oggi a essere indagati in occasione degli anni centenari di quegli eventi con una sempre maggiore consapevolezza critica e l'uso di categorie interpretative e di giudizio fattesi, nel corso di un secolo, via via più raffinate e capaci di cogliere relazioni, significati, nessi in grado di illuminare logiche rimaste ancora nascoste  e contesti più ampi.

Questo numero 38 di “Documenti e studi” comincia a dare conto delle iniziative già attuate dal nostro Istituto per favorire una riflessione, la più documentata e aggiornata possibile, su quella vicenda; su come essa fu vissuta nella dimensione locale e su come si configurarono cento anni or sono nel territorio provinciale le ragioni di chi quella guerra volle e di chi a essa si oppose.

Per esempio, il convegno tenutosi, con lodevole tempestività, nella città capoluogo il 12 maggio 2015 intitolato “1915 – 2015: Lucca e l'Italia di fronte alla Prima Guerra Mondiale”, con una prima sessione, la mattina in Palazzo Ducale (presiede Gianluca Fulvetti, direttore Isrec Lu, interventi di Umberto Sereni, Università di Udine, Le ragioni dell'intervento; Marco Manfredi, Università di Pisa, Le ragioni della neutralità; Gian Luca Fruci, Università di Padova, Una guerra di immagini: neutralismo e interventismo illustrati; Pietro Finelli, Isrec Lu, Cent'anni dopo: note sulla Public History della Grande Guerra) e proseguito nel pomeriggio, presso la Biblioteca Civica Agorà, con una seconda sessione seminariale sul tema “Lucca e la Prima Guerra Mondiale (presiede Stefano Bucciarelli Presidente Isrec Lu; comunicazioni di Berto Corbellini, La repubblica di Apua; Nicola Del Chiaro, Le carte dell'Archivio di Stato di Lucca, Roberto Pizzi, Note su Lucca e la guerra; Gianluca Fulvetti, Pregare per la pace; Andrea Ventura, Il fronte interno).

I testi delle comunicazioni presentate nella seconda tornata del convegno - tranne quella di Gianluca Fulvetti - con alcuni modesti adattamenti, costituiscono la maggior parte delle pagine che seguono. A esse si sono aggiunti ancora due contributi: uno di Stefano Bucciarelli, Neutralisti e interventisti a Lucca e in provincia, l'altro di Feliciano Bechelli, Le peripezie di un fante garfagnino in guerra, che inizia un'indagine, che saremmo intenzionati a proseguire nei prossimi numeri della Rivista, su come l'evento della Grande Guerra fu vissuto e rielaborato (in questo caso poeticamente e secondo la tradizione tosco-emiliana dell'ottava in endecasillabi) da esponenti del mondo popolare e illetterato.

La sezione dedicata alle indicazioni di lettura intorno a libri e riviste significativi chiude questo numero 38 di “Documenti e studi” affidata, come sempre, alla  lettura e alla critica, ci auguriamo benevola, dei Soci dell'Istituto e dei Lettori.

redazionale

"Documenti e Studi", rivista dell'Istituto Storico della Resistenza e dell'Età contemporanea in Provincia di Lucca, n. 38, I 2015, Maria Pacini Fazzi editore, Lucca, pp. 125, Euro 20,00

11 dicembre 2015

"Viaggio a Gualdo (Massarosa) " di Gianni Quilici



Al gabinetto decido dopo tanto titubare. Davanti ho la cartina della Provincia di Lucca, vedo Gualdo e decido di andarci. E’ abbastanza vicino per il poco tempo che ho a disposizione.  Ci sono stato una volta. Molto tempo fa. Mi ricordo chiesa e paesaggio, ma forse mi confondo, non ne sono certo.

Strada verso Camaiore, svolta a sinistra verso Pieve Elici-Massarosa e dopo qualche centinaio di metri, una strada stretta e tortuosa porta rapidamente al paese. Si parcheggia all’ingresso. Seduta su una panchina di pietra una bambina sembra parlare con se stessa. La tentazione di fotografarla è pungente. Fotograferei innocenza e bellezza, genuinità e inconsapevolezza. “Ciao” le dico. “Ciao” risponde. “Come ti chiami?” “Rebecca” “Rebecca?” “Rebecca” ripete lei. Mi dice qualcosa, ma non capisco. “Sei una bambina chiacchierona” le dico. “Sì io so molte cose”  “Per esempio sai quanti anni hai?”. Mi fa segno con le dita… quattro.

Prendo un vicolo dei due presenti. Pavimentazione curiosamente in sampietrini, case ristrutturate, alcune stuccate con pietra in vista, con una presenza massiccia del nuovo, una galleria con travi di legni, due forni a legno segnalati come se fossero  archeologia, un ristorante chiuso. La chiesa: una facciata banale con ai lati qualche lapide di marmo fine ‘800; il campanile di pietra e mattoni con la campana e una terrazzina sulla sommità. Dal muretto della chiesa un bel panorama con i dossi delle colline che si accavallano e in uno sfondo azzurro il mare che sbuca.


Un cartello segnaletico disegna un percorso circolare, che attraverso un sentiero tocca il paese vicino di Montigiano per ritornare a Gualdo. Infatti dopo un centinaio di metri inizia una strada sterrata. Una di quelle strade che ti viene  voglia di percorrere, anche per la luminosità del mattino. Una strada dapprima con l’erbetta centrale come spartiacque, che diventa poi un miscuglio tra terra, ghiaia, sassi e fogliame, che sale con curve che aprono non si sa che scenari.  Si vede camminando la chiesa più in alto e l’insieme del paese che scende nella sua compattezza racchiusa dalla natura e si percepisce appena il fruscio di foglie che lievi scivolano a terra.

Al ritorno mi siedo su una panchina e scrivo

Là dove siede la panchina
che comodamente posa
senza problema alcuno
rivedo in rapidi lampi
ciò che sono stato
come fosse film
che si srotola a ritroso
ciò che appena visto
velocemente si perde:
la villettina grigia troppo squadrata nel contesto
il cane biancastro che la catena mal sopporta
l’olivo appena nato sull’olivo appena morto
la foglia d’un giallo fulgido luminoso 
caduta

Gualdo comune di Massarosa. Martedì 8 dicembre 2015.

10 dicembre 2015

"Giannetto Salotti" di Maria Teresa Landucci


                    Foto di  Maria Teresa Landucci

Nell'atelier della casermetta San Martino, sulle mura urbane di Lucca, l'arte del maestro Giannetto Salotti ... ovvero l'amore per i corpi, le innumerevoli declinazioni dei volti (e relative psicologie), l'astrazione della forma, che ora diviene linea spigolosa, ora superficie sinuosa.

                        foto di Maria Teresa Landucci
È un lavoro di sintesi quello del maestro Salotti, il cui soggetto viene asciugato nella forma, espresso in volumi sintetici, liberato da quei dettagli superflui che distolgono dall'essenza.

                    foto di Maria Teresa Landucci
 Non forme inanimate, cristallizzate nella materia, ma corpi che prendono vita, in posture sempre naturali, spesso pudiche,  talvolta ostentate. Flessuosi e slanciati come statuette etrusche, formosi e sensuali come Veneri preistoriche. Corpi bambini o corpi maturi, plasmati dalle potenzialità espressive dei diversi materiali da lui sperimentati. Pietra, metallo, legno, terracotta, gesso, comunicano e trasmettono quello slancio vitale insito nelle sue opere.
                                               foto di Maria Teresa Landucci
Ed ora questi corpi attendono una loro collocazione, un degno contesto dove continuare a vivere. Ce lo auguriamo noi, suoi concittadini, oggi,  trascorso un mese dal giorno della chiusura al pubblico del suo atelier, nella casermetta San Martino, luogo che per lungo tempo ha accolto il maestro ed ha rappresentato il contesto ideale per il concepimento di numerose delle sue opere.

08 dicembre 2015

La guerra dei "non morti" contro i vivi: 
nuove cronache dalla resistenza italiana 

di Luciano Luciani

Rivendico, con qualche orgoglio, la mia appartenenza alla generazione diventata adulta con l’immaginario plasmato dalla Notte dei morti viventi (1968): mille volte meglio crescere con dentro le stupende immagini in bianco e nero di George Romero, che quelle colorate e sciocchine della Notte prima degli esami (2006) di Fausto Brizzi.

Sono stato fortunato e il libro Italian Zombie 2, nuove cronache della resistenza, 80144 Edizioni, pubblicato a quasi 50 anni di distanza, me lo conferma: sì, per nessun merito particolare se non quello anagrafico, ho avuto la possibilità di assistere alla nascita di un nuovo genere, un nuovo continente fantastico, con i suoi codici, con le sue convenzioni, che, rielaborato e aggiornato da alcuni giovani scrittori italiani, è riuscito ad arrivare a oggi, al nuovo secolo e al nuovo millennio. Pagine che ripropongono una nuova radicale riflessione sul tema della morte, che ha investito il cinema, la televisone, la scrittura, la cultura popolare: dietro l’idea dei morti viventi, dietro la metafora dei "morti non morti", c’è la dialettica, eterna, universale, genuinamente tragica, dell’uomo che cerca di dimenticare se stesso come essere mortale, come creatura caduca e peritura; dell’individuo che rifiuta di riconoscersi parte di una incessante vicenda di distruzione e dissipazione simile a quella degli animali, delle piante, della materia tutta.

La novità di questa riflessione viene poi modulata attraverso alcuni patti narrativi ricorrenti e condivisi:

per esempio, l’assedio. Una dimensione insieme epica e claustrofobica in cui si esercita il conflitto, la resistenza, si pratica una faticosa sopravvivenza, meglio se di gruppo anche se questo spesso è infido e percorso da fratture e contraddizioni;

il mistero: perché quell’attacco? Perché quel contagio, quel ribaltamento dell’ordine naturale delle cose e delle relazioni? Assolutamente privo di significato, non ha spiegazioni.
la mostruosità: la vicinanza tra uomini e mostri rende gli uni simili agli altri; sfumano le categorie di bene e di male. Sono più mostruosi i mostri, i morti viventi, agitati da una pulsione inconoscibile, o quelli che accanitamente danno loro la caccia?

Le storie, le "cronache di resistenza" collocate sui verosimili scenari contemporanei di alcune nostre  città -  Torino, Lucca, Milano, Genova, Roma - raccontano con delirante lucidità i bassifondi della modernità a noi più vicina; sono, questi racconti, gli specchi ustori della faccia nascosta della ragione dominante, descrivono il lato in ombra dei nostri anni, la sua metà oscura... E sono davvero bravi gli Autori - Euro Carello, storia di Carlo Zulian; Maurizio Antonetti, storia di Luca de Luca; Francesco G. Lugli, storia di Francesco Agliardi; Anna Bruni, storia di Luca Bisio e Manfredi Giffone, lettera di Manfredi Giffone - a declinare lo spettacolo desolato delle nostre città in mano ai morti viventi, al crollo repentino di ogni relazione civile, parentale, amicale e i suoi imprevisti risvolti, le inattese torsioni morali e culturali di un mondo dominato dai dagli "italian zombie".

Una possibile conclusione? Anche nel Bel Paese gli uomini vivi non sono migliori dei morti viventi; peggiori, se possibile. Meschini, arroganti, incapaci di concepire il nuovo e di adattarsi a esso, per loro sarà davvero difficile  sopravvivere.


AA.VV, Italian zombie 2 - Nuove Cronache dalla resistenza, 80144 Edizioni, 2015

07 dicembre 2015

“Minetti” di Thomas Bernhard, con Eros Pagni, regia di Marco Sciaccaluga





di Gianni Quilici

Per una fortunata combinazione ho avuto la possibilità di assistere ad un evento teatrale di primo ordine Minetti di Thomas Bernhard con Eros Pagni per la regia di Marco Sciaccaluga.
L’evento ha due nomi, forse tre.

Il primo è Thomas Bernhard e la sua opera “Minetti”, personaggio reale, considerato da molti il più grande attore di teatro tedesco del secondo dopoguerra, che, tuttavia, lo scrittore austriaco ha trasfigurato a sua immagine e somiglianza, trasferendo in lui quei caratteri disperatamente ossessivi, di cui è percorsa tutta la sua opera.

Un’ossessione paranoica che assume una forma circolare, tornando di continuo su se stessa. Questa paranoia non è però fine a se stessa, perché da un lato allarga il personaggio e lo approfondisce, ce ne fa comprendere le ragioni individuali, sociali ed estetiche, senza però definirlo una volta per tutte; dall’altro questo martellamento ossessivo, che mescola tragedia e ironia, diventa anche musica, sia pure paranoica.

Il secondo dei nomi è Eros Pagni, che da solo regge la scena per più di un’ora e mezzo, impresa psico-fisica già considerevole, tanto più che a sorrisi complici o cattivi alterna scoppi furibondi di ira e maledizioni senza appelli.  
Di più, Eros Pagni non recita, ma interpreta un personaggio difficilissimo, un attore-artista che rivendica la sua arte contro tutto e tutti, contro il teatro e la letteratura classica consolatoria, contro la società stupida e feroce e contro il pubblico stesso.
E lo interpreta con una modulazione della voce e del volto, intrisi di molteplici sfumature: la nostalgia del ricordo, l’ironia intessuta di disprezzo, l’esaltazione di sé e della sua grandezza fino all’esplosione di urli terribili di rabbia e di dolore.
 Eros Pagni ha il merito di evitare l’istrionismo dell’attore che celebra se stesso, la sua bravura gigionesca, come altri, di lui più famosi, hanno fatto e fanno; si fa invece personaggio, ne comunica la sua dolorosa, intima verità. E’ l’attore che si nega in quanto attore recitante nel momento stesso che nega il teatro in quanto teatro celebrativo.

Ho immaginato vedendolo un film che raccogliesse la pièce con la mobilità del suo linguaggio, che avvicina o allontana, con il montaggio che dà un ritmo ulteriore. Ho pensato ad  uno dei numerosi film da camera di Bergman o a un film tipo Le lacrime amare di Petra Von Kant di Fassbinder, dove il teatro diventa cinema, nell’alternanza tra primi-primissimi piani e campi medi-piani d’insieme.

Il terzo nome va insieme alla regia di Marco Sciaccaluga, che ha colto lo spirito profondo dell’opera, alla scenografia minimalista  di Catherine Rankl, alle musiche di Andrea Nicolini funzionali al dramma con un  interrogativo. La società dello spettacolo con le maschere vuote e schiamazzanti, prive di parole e di senso, che fanno da contrappunto alla tragedia di Minetti è povera cosa rispetto alla grandezza del monologo. Ma qui, credo, entrano in gioco le risorse economiche, insufficienti forse a creare  uno spettacolo degli occhi, sia pure artificialmente vuoto.

Nella notte di San Silvestro con maschere e luci, musica e petardi il vecchio grande Minetti indugia nella hall di un albergo di Ostenda, dopo 32 anni, mentre fuori infuria una tempesta di neve. Attende un direttore di teatro che vuole riportarlo sulla scena nel ruolo da lui celebrato fino all’identificazione di Re Lear. Nella lunga, inutile attesa parla di sé e della propria arte, evoca frammenti della sua vita (reale o immaginaria?), inveisce contro l’arte classica, il pubblico e la società tutta,  rivolgendosi al personale dell’hotel, a una signora prima e a una ragazza dopo.

     
MINETTI
di Thomas Bernhard
versione italiana Umberto Gandini
con Eros Pagni, Federica Granata, Marco Avogadro, Nicolò Giacalone, Giovanni Annaloro, Mario Cangiano, Marco De Gaudio, Roxana Doran, Daniela Duchi, Michele Maccaroni, Daniele Madeddu, Sarah Paone, Francesco Russo, Emanuele Vito
scena e costumi Catherine Rankl
musiche Andrea Nicolini
luci Sandro Sussi
regia Marco Sciaccaluga
13 ottobre - 1 novembre 2015
Teatro Duse. Genova.




"ilMorandini 2016" di Laura, Luisa, Morando Morandini

di Mimmo Mastrangelo

Era sottilmente ironico anche con se stesso Morando Morandini. C’era un tempo che si presentava in critico cinematografico “nato a Milano nel 1924 da famiglia lombardo veneta”, ma  quando poi ha fatto irruzione sulla scena politica la Lega di Bossi a quel marchio, ” da famiglia lombardo veneta”, non volle far più riferimento. Non voleva sentirsi  un intruppato anche per solo dicitura  delle camice verdi della Padania.

Il maestro, il decano della critica è morto lo scorso ottobre nella sua Milano, che non aveva voluto mai lasciare per trasferirsi a Roma che è sempre stata la città ideale per  chi si occupa di cinematografia.   Recensore (iniziò  alla Notte di Milano, nel 1965  e per trent’anni  lavorò al Giorno), saggista,   fondatore di cineclub, interprete di se stesso in film (”Remake” di Ansano Giannarelli) e direttore di festival e rassegne (ha guidato “Anteprima Bellaria” dal 1984 al 1997), ma negli ultimi tempi il suo nome era legato al dizionario dei film “ilMorandini” che curava con    passione e professionalità  insieme alle figlie e, fin quando è vissuta, alla moglie Laura.

Sempre con  ironia diceva che faceva un mestiere da parassita in quanto  un critico opera sul lavoro  degli altri, ma con serietà  andava sostenendo  che la virtù prima di un critico  deve  essere  l’umiltà e, poi, sempre con autorevolezza  andava marcando che per scrivere sui film  non basta interessarsi solo di  cinema, si deve necessariamente aprire  l’interesse  ai libri, all’arte, al teatro.

Formatosi  sulle visioni francesi degli anni trenta-quaranta, amava gli “sguardi altri” di Eizestein, Keaton, Sokurov, e non per caso le sue recensioni si concentravano innanzitutto  sul lavoro  del regista.  Del suo dizionario – scelto e consultato da molti cinematografari  anche per non allinearsi all’altra    “corrente” filmica, quella del dizionario Mereghetti -  è appena uscita la diciottesima edizione. Con la copertina di un fotogramma dell’ultimo film di Sorrentino, “Youth-La giovinezza”, ilMorandini” 2016. (Zanichelli Editore, pag. 2062), seppur  non presenti  particolari novità rispetto a quello dello scorso anno, quando furono potenziate fortemente le schede  delle serie tv e dei cortometraggi, fa piacere ritrovare di Laura e Morando Morandini  un netto giudizio sul cinema di casa nostra che “nonostante le solite eccezioni continua a comportarsi bene  e questo ci fa ottimisticamente pensare che sia il segnale di una rinascita culturale generale”…

Per quanto riguarda le cifre “ilMorandini” 2016 presenta una rivisitazione degli spaghetti wester e viene incrementato di  trecentosessanta schede di nuovi film.

Laura,  Luisa e Morando Morandini. ilMorandini 2016. Zanichelli 2015

27 novembre 2015

"Lucio Magri: due osservazioni" di Gianni Quilici



         Giustamente si è ricordato, rappresentato, discusso Pasolini, a 40 anni dalla sua morte, perché ancora ci “parla”, ci “tocca”, ci è “utile”. Pochissimo si scriverà invece di Lucio Magri, a quattro anni (soltanto) dalla sua morte (per scelta). Forse neppure ne Il manifesto, che pure gli deve molto.

         E Magri possiamo certo leggerlo (e non è poco), ma, a differenza di Pasolini, non possiamo vederlo, né sentirlo nel flusso della sua esistenza.  Quanti saranno stati i comizi, gli interventi, le interviste televisive fatte da Magri! Di tutto questo in rete si trova soltanto la presentazione de "Il sarto di Ulm" a Bologna, che  certamente non rende l'idea del Magri degli anni '70, '80, '90, gli anni, in cui abbiamo potuto vederlo e ascoltarlo pubblicamente!
 

        Perché è sia nei suoi libri, articoli, saggi, sia nei suoi interventi orali che trovo due aspetti, che mi hanno sempre colpito di Lucio Magri: la complessità e insieme un'idea estetica, portata al perfezionismo, come osservava Valentino Parlato, sia nello scrivere e nel parlare, che nel presentarsi e nell'esistere.
 

        La complessità in Magri viveva nella ricerca ossessiva della causa ultima delle cose, che era spesso la molteplicità delle cause, con tutte le conseguenze che ne derivavano. Un ragionamento che scavava per successivi approfondimenti, che ti prendeva per mano e ti faceva toccare con limpidezza lo "stato delle cose".
 

         Il senso dell'estetica, invece, era nella chiarezza e nella limpidezza, nel ritmo dei periodi fluenti e nella ricerca del vocabolario giusto, che cogliendo la profondità, coglieva anche ciò che ci tocca della profondità: il "cuore delle cose".
Un suo comizio o la conclusione di un convegno erano quasi sempre "illuminanti",  ma anche "commoventi", facevano fermentare energie dinamicizzandoti.
 

        "Illuminanti", perché vedevi il tempo della storia, grandi spazi nei conflitti delle classi, possibili idee forza da trasmettere; "commoventi", perché toccavano le viscere dell'umano: la profondità del dolore, l'utopia possibile.
 

        L'estetica era anche nell'arte del discorso, nella voce sottile e musicale, che sapeva essere sferzante e appassionata, distaccata e divertita.
 

         L'estetica era inoltre anche nel volto da "attore americano", ma di quell'attore che trascende la bellezza dei lineamenti e diventa "artista", creatore di un'immagine forte di sé, una commistione, cioè, di energia intellettuale, di eleganza e di mistero.
 

        Per questo il migliore modo di "commemorare" Lucio Magri è "scoprirlo", o “ripensarlo” cioè leggerlo e utilizzarlo, per ciò che ci ha lasciato per il nostro futuro, perché sono d'accordo con Alberto Burgio che sul manifesto scrisse: "...Questo gli ha permesso di portare a termine, nonostante un dolore inemendabile, uno dei libri più belli e importanti su di noi -sui comunisti italiani e sul comunismo novecentesco- che siano mai stati scritti"; e con Perry Anderson che osserva: "Lucio Magri era una figura unica nella sinistra europea"
                                                                                

24 novembre 2015

" Il grano: dal chicco al pane. Sulle montagne dell'Appennino reggiano" di Odino Raffaelli

L'unico antidoto all'oblio

di Luciano Luciani

Giovanotto del secolo scorso, Odino Raffaelli, classe 1931, è impegnato da tempo in una dura fatica: contrastare l'oblio e la smemoratezza di uomini, fatti e cose di appena ieri. Al centro dei suoi interessi, narrativi e documentari, l'antropologia del popolo della montagna, nel caso specifico quello di Ligonchio nell'Appennino reggiano, dove è nato e ha trascorso gli anni fondativi della fanciullezza e della prima adolescenza: un'umanità semplice, elementare le cui manifestazioni erano scandite dai cicli stagionali e l'esistenza segnata da dure, difficili, ormai desuete, condizioni materiali di vita.

Le stesse che abbiamo rifiutato collettivamente più o meno sessant'anni fa in nome di un maggiore benessere, di migliori opportunità, di consumi più larghi. Certo, qualcosa, o forse anche più di qualcosa, abbiamo acquistato... Molto, però, rischia di andare perduto, e definitivamente, su altri versanti. Per esempio, quello dell'etica: il senso di solidarietà; il sentimento della continuità familiare; lo spirito comunitario; e quello, più concreto, dell'operatività umana: la perseveranza; la pazienza; il senso dell'autonomia nell'organizzare il proprio lavoro; la capacità di sacrificarsi... Insomma, abbiamo creduto di poter sostituire l'anima col prodotto interno lordo o col reddito pro capite e ci siamo comportati come i rampolli viziati di certe casate aristocratiche dell'Ottocento usi a dilapidare i beni di famiglia ai tavoli di tutti i Casinò d'Europa: così, abbiamo sperperato un patrimonio di moralità fatto di tradizioni, credenze, riti, valori, senso del sacro...

Odino Raffaelli racconta un mondo che non c'è più e che non sembra destinato a tornare a meno di qualche apocalisse da medioevo prossimo venturo: motivo di più, si potrebbe dire, per farne memoria. Perché, venendo progressivamente a mancare la generazione nata tra gli anni compresi tra le due terribili, tragiche guerre del "secolo breve", con essa sparirà anche il ricordo di quelle donne e quegli uomini che faticosamente, ma con tenacia e intelligenza, riuscivano a strappare alla terra, anche la più aspra, anche la più avara, il pane quotidiano e anche qualcosa di più, per sè e per gli altri.

Oggi, quando mille rughe sembrano bruttare la facciata ottimistica del nuovo a ogni costo, oggi che non siamo più così sicuri di noi stessi e della direzione e del significato di certe presunte modernità, ci accade spesso di sentirci disorientati e smarriti. E allora torniamo a ricercare le abitudini, i colori, i sapori, i suoni di una volta. In questo recupero di un passato importante che poi, in fondo, è appena dietro le nostre spalle, ci aiutano anche alcuni piccoli libri come questo di Odino Raffaelli, Il grano: dal chicco al pane. Sulle montagne dell'Appennino Reggiano, scritto intingendo il pennino nell'inchiostro della "simpatia piena d'amore" per il mondo di ieri e del ricordo. Perché, se "la maledizione degli uomini è che essi dimenticano", l'unico antidoto possibile a tale disgrazia è ricordare, ovvero tornare di nuovo a battere le strade del cuore.

Odino Raffaelli, Il grano: dal chicco al pane. Sulle montagne dell'Appennino reggiano, La Grafica Pisana / Nodino, La memoria delle cose, pp. 64, Bientina (Pi), Euro 6,00

17 novembre 2015

Storie intrise di umanità

di Ivana Golda Binni

È un libro eccentrico che a ogni pagina ti sorprende e ti spiazza: perché là appare  un nembo di voracissime locuste che oscura il sole; qua un Garibaldi che non è più il Magnanimo Guerrigliero, ma, forse e sottolineo forse, un commerciante avido e un rapace trafficante di uomini; più avanti una tempesta squassa il cielo della Provenza e tiene a battesimo un piccolo Henrì Toulouse-Lautrec; qualche capitolo dopo ci sorprende un’alba rosata sul Bosforo, descritta dal grande romanziere e viaggiatore Loti... Provocatorio anche il titolo, La cacca che ci salvò dalla fame. Strane storie e tipi strani, e l'ha scritto Luciano Luciani, non nuovo a tali imprese bizzarre, per i tipi delle edizioni Ets, Pisa 2015.
 

 Diviso in due sezioni, la prima, Strane storie, comprende otto brevi saggi di vario argomento collocati in punti diversi del pianeta e in momenti differenti della Storia. Si passa dall’invenzione  e dall'uso della polvere da sparo a quella della mongolfiera; dalla diffusione del caffè come piacevole bevanda alla cacca degli uccelli come risorsa economica e fonte di ricchezza. Si indaga sul comportamento delle locuste e sulla possibilità che diventino cibo per l’umanità in un futuro non troppo lontano, come, peraltro, confermato di recente dall'Expò milanese… E poi ci sono le streghe, quelle cattive almeno secondo le Chiese - la cattolica e la protestante - della Controriforma, che non esitarono a bruciarne migliaia e poi ancora migliaia per salvare l’Europa dal potere del Maligno, e quelle buone, come la Befana, che, a cavallo della sua scopa, porta doni ai bimbi “a modino” ma carbone a quelli cattivi. E poi le buffe storie di quanti non accettano il nome del loro paese dando vita a comici pasticci toponomastici...

La seconda sezione si occupa dei Tipi strani. Sono sei veloci e fruibili biografie di personaggi inquietanti come Edgar Allan Poe; ingombranti come Domenico Barbaja, analfabeta ma appassionato di musica tanto da diventare il protagonista di tutti gli eventi artistici nella Napoli del secondo Ottocento; misteriosi come Gaetano Brunetti, violinista alla corte di Spagna e avversario del lucchese Luigi Boccherini. Un’altra storia parla del grande artista Henri de Toulouse Lautrec, che la malattia segnò crudelmente nel corpo, ma non ne fiaccò il genio. E ancora altre narrazioni vive nella memoria dei popoli più che nei libri come quella di Guy Fawkes o malinconiche come la vita romanzesca di Pierre Loti “che conosceva il mondo attraverso la bellezza delle donne”.
 

Racconti seri e bizzarri insieme che affascinano perché l’Autore li ripesca da un passato dimenticato, scova curiosità, originali modi di essere, caratteristiche inconsuete dei protagonisti che rendono viva e presente le loro esistenze anche dopo secoli. Una lettura che appassiona anche grazie a uno stile controllato che sa equilibrare l’informazione colta con la battuta ironica, con la citazione preziosa che non è mai fine a se stessa. La prosa discorsiva in queste pagine rende godibile la lettura: storie e fatti che ci potrebbero salvare dalla noia, dal conformismo, dalla sciatteria di questi anni malmostosi, perché come dice l’Autore nell’Introduzione, “a me mi hanno salvato le storie”. 

Luciano Luciani, La cacca che ci salvò dalla fame Strane storie e tipi strani, edizioni Ets, collana Obliqui, Pisa 2015, pp. 120, Euro 12,00


12 novembre 2015

"Non è che l'inizio" di Gianni Quilici





di Maila Grazzini


Ho terminato di leggere il romanzo Non è che l'inizio, di Gianni Quilici.
Durante la lettura l'impressione principale era quella di assistere visivamente a ciò che veniva raccontato e vissuto dal protagonista e narratore. Una sorta di cinematograficità insita nel racconto, che poi non è una sorpresa, essendo l'autore prima di tutto un cinefilo e fine intenditore di cinema.

Si prende anche consapevolezza, nello scorrere delle pagine,  che questo non sia un carattere casualmente ottenuto, ma una cifra stilistica pretesa e ricercata, come l'unica modalità espressiva capace di raffigurare il presente della vita.


È infatti del presente che si parla - di un presente non necessariamente contemporaneo - in forma di diario-cronaca interiore ed esteriore di vicende personali, che non solo si vivono ma consapevolmente si osservano nel loro avverarsi. Come se l'uomo si guardasse vivere e analizzasse il suo sguardo, commentando i propri gesti e pensieri, mentre si realizzano nella loro genuina e vitale anarchia.

E' un giovane uomo che sta attraversando il momento di ingresso nella maturità dell'adulto ma non ha ancora fatto scelte definitive; è interessato al sesso e all'amore, prima e più di tutto, e alla politica, che sente sulla sua pelle, empaticamente, e vuole collaborare a determinare, come tanti altri giovani della sua generazione impegnata.

Tuttavia il suo rapporto con la politica appare un po' sfuggente: benché lo si veda coinvolto con i movimenti, collegato alle persone che più di lui sono ordinatamente inserite in quel mestiere, si percepisce anche il bisogno di un percorso libertario e la difficoltà ad inquadrarsi in visioni troppo statiche. C'è un di più sempre da conquistare, un'ansia creativa che si riversa nell'organizzare, nel fare, con un taglio da artista più che da amministratore. E traspare un'insofferenza al normale vissuto, alla ripetizione di gesti, che si scopre anche nell'ambito della scuola, luogo di mestiere accolto ma non ambito. Anche o proprio nel rapporto con colleghi e alunni si riscontra quel graffio libero dagli schematismi didattici, che però non giunge sempre ad agganciare le persone che forse avvertono, con un po' di diffidenza, la rinuncia dell'uomo a farsi maestro di una strada quieta del crescere e dell'imparare.

L'aspetto sicuramente emergente del romanzo è il realismo con cui, esente da ogni filtro, l'autore fa conoscere il personaggio e per suo tramite l'intreccio tra i pensieri e le urgenze della materia e della carne, nel connubio alchemico che come in lui sta al fondo di ogni persona e che trasuda umanità, moltiplica e trasforma le pulsioni, talvolta le lascia esplodere o le interiorizza.


 E' un personaggio che si offre nudo alla platea dei lettori, che si compiace della crudezza con cui comunica le sue sensazioni, come se ammiccasse ad una presunta reticenza di coloro che, uomini della stessa carne, non hanno il coraggio di manifestarsi con la stessa spontaneità esente da convenzionalismi di  sorta.

Per il lettore è istintivo confrontarsi, nel silenzio della lettura, con ciò che vorrebbe o potrebbe dire di sé, e avverte in qualche momento il fastidio di una tale immediatezza, di fronte a parole che espongono la verità di modi di essere che forse, in parte, gli appartengono, ma che ora vede esibiti con troppa spiazzante naturalezza.

Si può non essere d'accordo, certo, sulla mancanza di limite che informa la vita di un uomo-attore di scena e di vita, si può non sentirselo calzato addosso questo sfrontato paradigma rappresentativo, ma indubbiamente ne esce un individuo in carne ed ossa che ci è dato conoscere intimamente, nel suo mobile, trasparente e ossessivo vitalismo. Anche attraverso pensieri e comportamenti che imbarazzano.

Non è un attore solitario, il narratore, ci sono alcuni personaggi femminili - tra cui una presenza più stabile e importante - che alimentano la sua ricerca di contatto carnale, di comunicazione, di affetti,di sicurezze, vissuti però anche nella provvisorietà, fugacemente; c'è questo insistente ossimoro: la profondità di senso ricercata nel frammento, in  una vita di continua sperimentazione di sé, prima di tutto nel sesso, poi nella politica.

Un romanzo è una testimonianza di vita, ci offre uno squarcio di realtà facendoci vivere sulla pelle di altri, e questo è maggiormente possibile e interessante quando possiamo immedesimarci in esperienze che almeno parzialmente appartengono alla nostra generazione.

Qui ci sono tanti ingredienti con i quali ci sentiamo impastati, con cui confrontarci ed evocare la nostalgia di un momento in cui le storie personali diventavano specchio di un agire collettivo. Ma ciò non toglie che qui primeggi la persona nella sua particolarità esistenziale, quella persona con suoi tratti specifici che ci comunica un modo di esistere, che in quanto tale vuole rendersi modello riconoscibile.

La prosa anch'essa frammentata e scattante è in sintonia con l'incalzare quasi ossessivo dei pensieri irrequieti, registra le mosse, spesso scomposte, indotte da un istinto verso la vita che non trova sazietà. L'impulso dell'agire non può trovare del resto accoglienza sintattica nell'arco di volute ampie e distese o di pacati rettilinei. Dunque urge la brevità dell'eloquio, che si accompagna a schiettezza e semplicità di lessico, altro carattere che distingue il romanzo e contribuisce a rendere agile e coinvolgente la lettura ma che sembra un po' troppo insistito e ne enfatizza il tono prosastico, solo occasionalmente tralasciato.

Non so se sia un fatto positivo, o meno, quello di conoscere personalmente lo scrittore, ma credo che ciò aiuti a incrementare la partecipazione al suo racconto, quasi a precorrerlo. Ci si stupisce a riconoscere certi tratti della sua scrittura ed anche le azioni del protagonista si sovrappongono a quelle reali, in una sincronica auto-rappresentazione, come se si fosse in possesso di un visualizzatore pronto a decodificare l'atto nel momento in cui venga descritto.

Insomma una storia di vita vera che si legge e si vive, intimamente, gustandola con la passione genuina con cui è stata raccontata. 

Gianni Quilici. Non è che l'inizio. Tra le righe libri.  






28 ottobre 2015

"Gl'innamorati" di Carlo Goldoni





nota di Gianni Quilici



Ha senso leggere Goldoni oggi?
Prendiamo uno dei testi più rappresentati Gl'innamorati.
Sì e no,
ma in definitiva sì.

Sì, perchè ha una straordinaria capacità
di delineare personaggi
attraverso dialoghi veloci,
ricchi di sfumature psicologiche,
molto più moderni di tanti moderni.
Perché questi dialoghi
sono a volte pensati
non detti,
un modo di introdurre
una sorta di semi-inconscio,
pensieri di cui si è consapevoli,
ma di cui spesso si rimane vittima,
appunto perchè inespressi, latenti.

No, perchè
oggi c'è una tale complessità di interelazioni
che quei personaggi possono risultare lontani.

In definitiva sì, perchè
lo stile e la profondità
mettono comunque in moto,
comunicano, attraggono, fanno fermentare ....




Carlo Goldoni. Gl'innamorati. Einaudi.







27 ottobre 2015

"Zombie in TV" di Marcello Gagliani Caputo




            Le migliori zombie-serie 
                 del piccolo schermo

di Gordiano Lupi

SINOSSI: Dopo aver saturato il mondo cinematografico, lo zombie ha trovato nuovo terreno fertile in televisione, dove il personaggio sta vivendo una seconda giovinezza. Dal successo mondiale di The Walking Dead allo spin-off Fear The Walking Dead, dalla sorpresa Dead Set al commovente In the Flesh, passando dalla sfrontatezza marcata Asylum di Z-Nation fino alla delicatezza romantica del francese Les Revenants, questo volume raccoglie le migliori serie tv zombesche che stanno affollando le televisioni di tutto il mondo, analizzandole criticamente e raccontandone la genesi. Prefazione di Paolo Di Orazio.

DALLA PREFAZIONE: [...] Non voglio anticipare cose che leggerete in questo splendido trattato, soltanto limitarmi a raccomandarne una lettura attenta e amorosa, e la divulgazione poiché personalmente vedo necessario erigere uno spartiacque tra ciò che è horror e ciò che non lo è. E questa operazione la si può compiere con successo cibandosi di questo libro ben scritto, che ci porta a spulciare nella produzione mondiale dei film sul morto vivente (ma anche per renderci conto di quanto l'Italia sia distante da quel che accade nel resto del mondo).

L’AUTORE: Marcello Gagliani Caputo è scrittore, saggista e critico cinematografico e letterario. Ha pubblicato Bad Boys - La Figura del cattivo nell’immaginario cinematografico per la Morpheo Edizioni, ha partecipato al libro Christopher Lee - Il Principe delle Tenebre, Profondo Rosso Edizioni e al volume Il Cinema di Michael Winner (Edizioni Il Foglio). Ha pubblicato la prima monografia su David Fincher, The Fincher Network (Bietti Edizioni), e ha partecipato al saggio The Walking Dead - L'evoluzione degli zombie in tv, nel fumetto e nel videogioco edito da Universitalia. Nel 2014 ha pubblicato l’ebook Zombie al cinema per Fazi Editore, mentre l'anno dopo Guida al cinema di Stephen King, Universal Monsters - L'epopea dei mostri in bianco e nero e Guida al cinema di Bud Spencer e Terence Hill. Alla sua squadra del cuore, la Juventus, ha dedicato la collana Almanacco Juventino - Tutte le partite della Juventus dal 1930 al 2014 e l’ebook Da Platini a Pogba - La Juventus dei campioni francesi (Delos Digital), mentre ha raccontato la storia della Champions League nel libro Champions Italia - Le italiane e la Coppa dei Campioni.

14 ottobre 2015

"Non è che l'inizio" di Gianni Quilici



                                                              Gianni Quilici. 1990
lettera di Martino De Vita

Caro Gianni,
                     è un romanzo il tuo che una volta letto e messo in libreria, non dovrebbe essere dimenticato. Ogni tanto non farebbe male riprenderlo, rileggerlo e rimeditarci ancora un po’ su.


Mi ritrovo, anch’io come  te, a pedalare per Lucca provando le tue stesse emozioni, le riflessioni su un lampione, su un muro, su un gatto. Le parole sono impresse nella macchina fotografica come patrimonio indistruttibile, come esperienza triste e allegra, nostalgica e solitaria di una ricerca senza fine. Le parole scritte o pensate sono i nostri pensieri che vorremmo confessare a noi stessi e che non abbiamo mai avuto il coraggio di confessare.


La delusione politica, il fermento (tormento) erotico, il rapporto con gli allievi sono tre  anime della tua personalità; azzarderei a dire “una e trina”, al di là dei miti, se così li vogliamo chiamare.  

Illumini di flash la città e la rendi protagonista di se stessa, di quello che offre e che ci ha offerto da sempre.


Tu non appari mai “malato” di nostalgia. Vai avanti per la tua strada, corri, urli, godi, soffri, impazzisci dalla solitudine e per le azioni incompiute, ma non soccombi.  Rimani pur sempre un’anima pura nel bel mondo dell’incanto…

Gianni Quilici. Non è che l'inizio. Tra le righe. Euro 13,00