28 novembre 2021

"Un grosso sbaglio" di Marshall Sahlins

 

di Giancarlo Beriola

         “E’ stato dunque tutto un grosso sbaglio. La mia modesta conclusione è che la civiltà occidentale sia stata fondata su un’idea erronea e perversa di natura umana. Insomma, scusateci, ma ci siamo proprio sbagliati. E soprattutto non dimentichiamoci che questa perversa concezione di natura umana sta mettendo a repentaglio la nostra stessa esistenza.”

       Quanto sopra è l’ultimo capoverso del breve (ma denso...) saggio di Marshall Sahlins Un grosso sbaglio (Eléuthera, 122 pagg., € 12,00) nel quale l’autore analizza l’idea (sbagliata) di natura umana nel mondo occidentale: l’uomo, si dice, si è evoluto dallo stato animale conservando comportamenti predatori e violenti (che noi umani attribuiamo agli animali!) finalizzati al soddisfacimento egoistico dei propri bisogni (hobbesianamente homo homini lupus) da cui nasce l’esigenza di controllare socialmente e politicamente tali istinti.

        Physis/nomos, natura che deve essere gestita dalle convenzioni (o regole, leggi, tradizioni, consuetudini, in sintesi cultura) diventa sin dall’antica Grecia il dualismo su cui si muove il pensiero filosofico, politico, economico, religioso in Occidente. Sahlins inizia il saggio prendendo spunto dalla lettura che Hobbes e John Adams fanno del terzo libro de La guerra del Peloponneso di Tucidide dove viene narrata la sanguinosa guerra civile a Corcira (odierna Corfù); da questo resoconto Hobbes conviene che per controllare gli istinti degli individui sia necessario che il potere venga gestito - con la dovuta autorità - da una persona sola, un re; Adams, a sua volta, ritiene che un equilibrio tra i poteri (legislativo ed esecutivo, p.es.) permetterebbe uno sviluppo sociale civile con la soddisfazione degli interessi dei gruppi rappresentati e il soddisfacimento dei bisogni (egoistici) dei componenti delle fazioni contrapposte.

        Sahlins così sintetizza: “Per quanto diverse fossero le rispettive [Tucidide, Hobbes, Adams] soluzioni  [anarchia, gerarchia, eguaglianza] al fondamentale problema della malvagità umana, tanto Hobbes quanto Adams avevano trovato nel testo di Tucidide (...) la fonte di ispirazione per le loro idee sugli orrori cui  la società andrebbe incontro qualora i naturali desideri dell’uomo  non venissero controllati .”

         All’opposto dell’Occidente il resto del mondo ha una visione diversa (Sahlins, al riguardo, cita numerose ricerche antropologiche) circa il dualismo natura/cultura: l’uomo sta nella natura e riconosce di farne parte con gli animali, le piante, le cose che lo circondano: “Non è il caso di sorprendersi neanche per i resoconti etnografici provenienti dalla Nuova Guinea o dalle Americhe, secondo i quali gli animali sono in origine esseri umani. Sono gli animali a discendere dagli uomini e non viceversa (...) sotto la pelle gli animali sono esseri umani.” Questo non vuol dire che non sia necessaria una conoscenza di regole, di comportamenti, di rituali (cultura, insomma) da apprendere sin da bambini: “Per loro [le società <<primitive>>] i bambini sono una umanità-in-divenire, per noi un’animalità-da-sopraffare. (... ) Secondo il folclore tradizionale occidentale, il <<selvaggio>> (loro) sta al civilizzato (<<noi>>) come la natura sta alla cultura e come il corpo sta alla mente. E’ un fatto antropologicamente accertato che per noi la natura e il corpo sono i fondamenti della condizione umana, mentre per loro lo sono la cultura e la mente. Per parafrasare ciò che ha scritto Lévi-Strauss in un contesto analogo, chi dei due dà più lustro alla specie umana?”

        La parola chiave, quindi, per Sahlins circa il rapporto physis/nomos è cultura. Definendo realisti coloro che, come le varie popolazioni “selvagge” citate nel saggio, “considerano la cultura come lo stato originale dell’esistenza umana e la biologia come lo stato secondario e condizionale. (...)  La presenza della cultura nel percorso evolutivo umano risale a circa tre milioni di anni fa” e ”... l’uomo anatomicamente moderno risale a cinquantamila anni fa (...) il che renderebbe la cultura sessanta volte più vecchia della specie che noi conosciamo”, sicché ”(...) per circa tre milioni di anni gli umani si sono evoluti biologicamente in base a una selezione culturale. Siamo stati plasmati, corpo e anima, per una esistenza culturale.”

        Quindi: “Per metterla in linguaggio antropologico: la cultura è la natura umana.”

 Marshall Sahlins (Chicago 1930 - 1921), professor emeritus nell’Università di Chicago, è stato uno dei “grandi vecchi” dell’antropologia contemporanea. Internazionalmente noto per la sua ricerca sulle economie primitive, condensata nel libro L’economia dell’età della pietra (1980), ha poi rivolto la sua attenzione al complesso rapporto tra storia, antropologia, colonialismo.

Altri suoi libri pubblicati in Italia sono Cultura e utilità (Bompiani 1982) e Capitan Cook, per esempio. Le Hawai, gli antropologi, i nativi (Donzelli 1997). 

 Marshall Sahlins Un grosso sbaglio (Eléuthera, 122 pagg., € 12,00)

 

 

 

27 novembre 2021

"Atti di sottomissione" di Megan Nolan

 

di Marigabri

“Avevo vinto. E in che modo avevo vinto? Oh, era stato facile – non ci voleva niente; io ero niente.”

Atti di (auto)distruzione o, come nel titolo originale, di disperazione.

La sottomissione, la volontaria umiliazione, la precisa scelta di relazioni tossiche sono tutte conseguenze dell’odio verso se stessi, che sta a fondamento di questa spietata narrazione. Spietatamente lucida nel guardarsi dentro.

La protagonista racconta di sé gli aspetti peggiori e così facendo, attraverso la scrittura, ne prende le distanze, avvia il processo di guarigione. Così almeno si augura chi legge, al momento del congedo.

La citazione di Laing, che testimonia della ragazzina terrorizzata a percepire dentro si sé un potenziale distruttivo pari alla bomba atomica, rende bene l’idea di come esplorare i territori oscuri della propria interiorità assomigli a un viaggio iniziatico verso gli inferi. E Megan Nolan qui non si (e ci) risparmia i dettagli di questo viaggio. L’eccitazione terrorizzata, l’attrazione per la pura bellezza e il puro vuoto. Quando l’altro è tutto e noi siamo niente. Quando il sacrificio di sé sembra il giusto riscatto dal disgusto di sé.

Gli eccessi sono semplicemente il modo in cui la narratrice riesce a sentirsi viva.

Faulkner (cit) giustificava l’abbrutimento totale nell’alcol con una sola piccola frase: lo faccio perché mi piace. Allo stesso modo Megan si fa carico della propria scelta. È così perché voglio che sia così. Perdermi è la strada che ho scelto per sentirmi.

Quanto possiamo rispecchiarci qui, o trovare lo specchio di qualcuno che conosciamo, quanto ci riguardano queste parole, queste esperienze, anche se non le abbiamo fatte, o se le abbiamo solo dimenticate e sepolte, quanto Megan siamo noi, possiamo sperimentarlo solo lasciandoci portare via da questo viaggio incalzante e appassionante. Un vortice al quale arrendersi. Perché una volta toccato il fondo non si può fare altro che risalire.

 Megan Nolan. atti di sottomissione. NNE

20 novembre 2021

"Il colore viola" di Alice Walker

 

di Giulietta Isola

“Il Dio a cui scrivevo, il Dio che pregavo, è un uomo. E si comporta proprio come tutti gli altri uomini. Fatuo, indifferente e vile. Lei ha detto, Miss Celie. Faresti meglio a tacere. Dio potrebbe sentirti. E lascia che mi senta, ho detto io. Se si degnasse di ascoltare le povere donne di colore, il mondo sarebbe un posto diverso, te lo dico io. Lei parla e parla, cerca di impedirmi di bestemmiare ancora. Ma io bestemmio quanto mi pare.”

        Celie, la protagonista del romanzo, è una donna di colore, abusata dall’uomo che credeva essere suo padre, privata dei due figli, odia il marito che la separa dall’amata sorella Nettie, che finirà missionaria in Africa. Per trent’anni Nettie scriverà a Celie lettere che questa non riceverà mai, mentre Celie, oppressa dalla vergogna della sua condizione, riesce a scrivere solo a Dio. Sarà l’amante del marito, Shug Avery, una affascinante cantante di blues, a cambiare il colore della sua vita, insegnandole a ridere, giocare, amare ed osservare le piccole cose che Dio ci dà per mostrarci che ci ama come i piccoli fiori viola nei campi.” Credo che Dio si arrabbi se, per esempio, uno passa vicino al colore viola in un campo senza notarlo.”

        “Il colore viola” è prima di tutto un romanzo sulle donne e dopo sulle condizioni dei neri negli Stati del Sud e, Celie rappresenta perfettamente la precarietà e lo svantaggio di essere una donna e di colore in un mondo dominato dai bianchi e dagli uomini agli inizi del Novecento. 

       L’autrice, da sempre impegnata nella lotta femminista, rivela la propria natura non solo dedicandosi alla causa, ma anche intessendo una sorta di “sorellanza” all’interno del libro, che fa sì che le donne arrivino a intrecciare tra loro uno stretto legame di complicità che ricalca il concetto femminista del cosiddetto affidamento. 

      Ma Alice Walker trova spazio per parlarci di razzismo, amore omosessuale, di rapporto tra gli afroamericani e le proprie origini .La sua scrittura semplice e diretta ci immerge in una quotidianità poco rassicurante e ci mette di fronte a reali quanto angoscianti storture, ma nonostante tutte le brutture ci invita al cambiamento, alla speranza ed a goderci la vita nella sua semplicità. 

       Leggere oggi le descrizioni del Sud segregazionista, dell’odio e della violenza dei primi decenni del Novecento americano è molto interessante per osservare l’evoluzione sociale e politica di una realtà ancora segnata da feroci disuguaglianze e fenomeni di razzismo. 

      Il colore viola è la storia di una donna vittima, di abusi, omicidi razziali, di deviazione generata dalla violenza, di predominio della cultura bianca e di potere maschile nella comunità nera, ma è anche una invocazione per affrancarsi dal dramma del presente, un esercizio per sopravvivere alla brutalità del quotidiano. 

       La lingua, un misto fra parlato popolare e invenzione caratterizza i molti personaggi, infonde loro vita ed umanità e l’autrice ce li racconta, da un punto di vista sia fisico che interiore, in divenire rendendoceli estremamente familiari ed autentici, tutti fallibili e non esenti dal mutare. 

       Celie nella sua complessità, talvolta contorta e irritante, è ineguagliabile nella narrazione di una disumanità, alla quale si contrapporrà con forza e determinazione assieme ad altre donne pronte a sfidare le convenzioni. 

       La forma epistolare con rimandi temporali, turbamenti del presente e suggestione dei ricordi scatena emozioni che vanno dalla compassione alla rabbia, dalla simpatia all’odio e al dispiacere. 

       Questo è un libro sublime che entra nell’anima, la rilettura dopo circa trent’anni dalla prima volta, in un momento nel quale mi capita talvolta di sentirmi sul bordo di un precipizio, mi dà speranza e mi aiuta a convivere con la mia e l’altrui sofferenza. Consigliatissimo.

       “È tutta una vita che devo lottare, io. Dovevo lottare contro mio padre. Dovevo lottare contro i miei fratelli. Contro i miei cugini e i miei zii. Una bambina non è al sicuro in una famiglia di maschi. Ma non avrei mai pensato di dover lottare anche in casa mia. “

IL COLORE VIOLA di ALICE WALKER SUR EDIZIONI

 

15 novembre 2021

"Sono immagini dell'alba" di Marisa Cecchetti

 

di Dino Fiumalbi

     Non sono un re-censore, né professionista, né dilettante; confesso che qualche volta ho fatto il censore verso ragazzacci turbolenti e intenti a incursioni tattili non autorizzate nel piazzale della scuola, ma l’ho fatto con blanda severità. Quindi tutto quello che proverò a scrivere sul libro di Marisa Cecchetti, Sono immagini dell’alba, Giovane Holden Edizioni, Viareggio, 2021, sarà lontanissimo da funzioni giudicanti e da valutazioni “alletterate”.

     Proverò invece a descrivere quelle sensazioni personali che mi sono scaturite dalla presentazione al Caffè letterario e dalla successiva lettura (lapis in mano) del libro di Marisa.

     Dentro le pagine si parla di sogni, ma anche di ricordi e da questo abbinamento nasce la prima impressione. L’etimologia di ricordare ci collega ovviamente al cuore; meno ovviamente si scopre che la ragione di questo collegamento sta nel fatto che il cuore era ritenuto in passato la sede della memoria. La narrazione dell’autrice esplicita questa derivazione, questa etimologia, meglio della Treccani o di un Accademico cruscato. Nei racconti non si ricorda per esercizio di memoria, si ricorda attraverso i coinvolgimenti emotivi, sia nei passaggi in cui i sentimenti sono esplicitati, sia in quelli nei quali l’autrice pare disegnare una cucina, una stanza, un ciocco nel camino o una bicicletta. C’è emozione nel suo tratteggio, a prescindere dall’ oggetto tratteggiato.

     Il ricordo è un po’ come il sogno: affascinante, ma parimenti evanescente; modellato dai tempi lunghi il primo e da quelli più brevi, quasi istantanei il secondo (simile a un Aleph?)

    Entrambi ci parlano di qualcosa che è accaduto; reale/onirico: dove sta il confine? Cecchetti non dà risposte ma quasi fosse una “Virgilia”, con funzioni aggiornate di psicopompo, ci guida, ci tiene per mano nei suoi ricordi e nei suoi sogni e li mette a disposizione del lettore, perché ognuno possa riconoscere in essi qualche pezzetto dei suoi.

     Ci mostra la sua intimità profonda, ma lo fa in modo garbato; non è esibizione sfacciata, ahimè così frequente. È racconto, è narrazione, e si srotola mentre percorre strade conosciute e nuove per ognuno di noi. La campagna e la città. Ognuna con i suoi ritmi che, uscendo dai luoghi comuni, pare quasi che si assomiglino, che vadano per mano, verso uno “skyline di pioppi” che ho amato in una sua poesia.

     I sogni e i ricordi, si sa, non sono mai puri, son sempre filtrati, interpretati, talvolta piegati dalle nostre sensibilità, per questo l’autrice non offre ricette interpretative, neppure sotto forma di suggerimenti. Ci fa vedere i suoi sogni e i suoi ricordi, offrendo semplicemente una comoda poltrona di osservazione o una rustica panca da camino di campagna: “Prego si accomodi, guardi insieme a me, nel caldo buono, queste quattro capriole di fumo”.


    

Nello scritto di Cecchetti i ricordi e i sogni si assomigliano, anche perché rimandano all’accaduto, lo collegano all’accadente e lo proiettano all’accadibile, ancorché non dichiarato. Sono incredibilmente scevri da giudizi, ma densissimi di sentimenti profondi che, qua e là, spingono a un’inaspettata contrazione dei dotti lacrimali.

     Sono tutti sfacciatamente belli, ma se ne dovessi scegliere uno non avrei dubbi: “Mamma”, l’esplosione di una parola che all’improvviso diventa epifania, pur essendo, forse, la parola che pronunciamo più volte nel corso della vita.

     Marisa ci regala bella scrittura, pulita, chiara e piacevole da seguire, ma soprattutto ci regala emozioni.

Grazie e alla prossima                                             

 

Marisa Cecchetti, Sono immagini dell’alba. Racconti, Giovane Holden Edizioni, Viareggio, 2021.