30 agosto 2016

“Psicoanalisi immaginaria di Frida Kahlo” di Riccardo Dalle Luche, Angela Palermo



di Marisa Cecchetti

La salvezza di Frida Kahlo è stata senza dubbio la sua pittura. Frida dipinge per raccontarsi, come fa uno scrittore che unisce le storie inventate a quelle della propria vita. Lo ammette lei stessa nei suoi Diari, che inizia a scrivere nel 1942: “A volte mi chiedo se la mia pittura non sia stata…più simile all’opera di uno scrittore che a quella di un pittore. Una specie di Diario, oppure la corrispondenza di tutta una vita”.


Rimane da chiedersi se F K sarebbe stata questa icona che il mondo conosce senza il terribile incidente che l’ha coinvolta a 18 anni, quando, studentessa in Medicina, tornando a casa, l’autobus su cui viaggiava è stato travolto da un tram e lei è stata attraversata, dalla pancia all’utero, con fuoriuscita dalla vagina, da un corrimano di ferro. La sua pittura è iniziata sul letto a baldacchino della lunga e dolorosa convalescenza, con uno specchio sistemato in alto, perché si potesse osservare.


Non nuova al dolore -aveva contratto la poliomielite nel 1913 rimanendo con il piede destro lievemente deforme – e, se vogliamo tornare indietro nel tempo, era stata allevata da un balia india perché la madre, che aveva già perso un bambino alla nascita, prima di Frida, era caduta in depressione post partum. Le cicatrici successive saranno innumerevoli, sia fisiche che psicologiche. Tra quelle fisiche si contano tre aborti, sette interventi alla colonna spinale, l’amputazione della gamba destra nel 1953. “In questo senso – scrivono Riccardo Dalle Luche e Angela Palermo – si può dire che le tele di FK sono le reali cicatrici, il sacro feticcio della sua identità, gli ex voto di miracoli non compiuti se non da lei stessa per restare viva”. Nata nel 1907 a Coyoacàn, nel Messico, da padre tedesco, fotografo di dagherrotipi e da madre messicana, lì morirà nel 1954, affetta da polmonite, nella casa blu di famiglia, forse aiutata da un ultimo atto d’amore di Diego Rivera mediante una overdose di morfina.


La conoscenza di Diego Rivera, famoso pittore di murales, avviene quando lei si prepara a studiare Medicina, ma l’incontro decisivo è del 1928, seguito dal matrimonio, l’anno successivo. Diego è l’uomo che la completa, il suo primo terapeuta. Lei stessa scrive:  Mai in vita mia/Dimenticherò la tua presenza./ Tu mi hai presa quando ero spezzata/E mi hai riparata.


Il rapporto con Diego è traumatizzato da storie di adulterio, addirittura lui la tradisce nel 1934 con la sorella minore di Frida, Cristina.  E lei nel ‘31 inizia una lunga storia d’amore con il fotografo Nickolas Muray, nel ’34 con Lev Trochij, nel ’35 con lo scultore Isamu Noguchi, tanto che nel 1939 si arriva al divorzio. Ma nel 1940 si celebra un secondo matrimonio tra i due, con un contratto che stabilisce regole rigidissime, ma che permette loro, comunque, di stare vicini.  Sul loro rapporto così si esprime  il Nobel per la letteratura Le Clézio: “I rischi dell’esistenza, le meschinerie, le disillusioni, non possono interrompere questa relazione, non di dipendenza, ma di scambio perpetuo, simile al sangue che scorre e all’aria che respiriamo. La relazione di Diego e Frida è simile allo stesso Messico, alla terra, al ritmo delle stagioni, ai contrasti dei climi e delle culture. E’ una relazione fatta di sofferenza, di crudeltà, ma anche di assoluta necessità”.



Riccardo Dalle Luche e Angela Palermo -lui medico, psichiatra, psicoterapeuta fenomenologico-dinamico, lei dottore di ricerca in Filosofia- hanno analizzato con grande precisione ma anche con vicinanza affettiva, la vita, le opere, i diari di FK, la ricchissima bibliografia, realizzando un percorso che apre al lettore un mondo vastissimo, a livello culturale, storico, psicologico. Perché Frida Kahlo ha detto tutto di sé attraverso linee e colori: la sua vita reale, l’onirico, la storia del suo paese, il pensiero politico, il magico, i suoi feticci e le sue ossessioni, la sua spiritualità. Sempre realista, concreta, profonda. “Frida Kahlo è in realtà un essere meraviglioso, dotato di una forza vitale e di un potere di resistenza al dolore di molto superiori alla norma…Vede molto più lontano, nell’infinitamente piccolo, ciò che noi vediamo, e questo si aggiunge al suo potere d’implacabile penetrazione dei pensieri, delle intenzioni e dei sentimenti degli altri” (Tibol 1983).


I suoi autoritratti la dipingono dentro e fuori, come si sente e si percepisce in ogni momento. Il suo sguardo ci cattura e ci coinvolge come quello di una divinità pagana: “Bisogna che il quadro vi guardi- scrive nei Diari- quanto voi lo guardate”. In un continuo rimando tra autore e fruitore.  Ed è attraverso questo continuo gettar fuori la sua sofferenza e la sua storia, che riesce a salvarsi, “con la straordinaria capacità di resilienza, cioè la capacità di sopravvivere e di rivolgere in positivo eventi ed esperienze gravemente avverse” che hanno segnato la sua vita intera.


Personalità inquieta, curiosa, profonda, identità instabile, segnata dai traumi subiti, cerca disperatamente la vita, fino in fondo ed in ogni modo. Sulla sua discussa omosessualità lei stessa scrive: “Non c’erano mezze misure possibili, poteva essere tutto o niente. Di vita, d’amore, ho una sete inestinguibile. E poi, più il mio corpo era ferito, più provavo il bisogno di affidarlo alle donne: lo capiscono meglio. Tacita intesa, dolcezza immediata”. Anticonvenzionale, ribelle, sempre fedele a se stessa.
Ma, come dicono gli autori nelle premessa, “una psicoanalisi immaginaria di FK non ha soltanto le connotazioni negative di non scientifica, non autorizzata né richiesta, irreale, cartolaria, ma anche positive, in quanto la produzione immaginaria che ci ha lasciato questa donna straordinaria è assolutamente isomorfa alla comunicazione analitica, fatta com’è di annotazioni intime, di materiali e opere simil-oniriche, di diari vergati secondo le regole dell’automatismo mentale e del processo primario”. 


Riccardo Dalle Luche, Angela Palermo, Psicoanalisi immaginaria di Frida Kahlo, Mimesis 2016, pag 188, € 20,00

                                                                                                                                    da"alleo.it



 

23 agosto 2016

"Il processo creativo: ruolo dell’interlocutore privilegiato" di Daniela Toschi



Lo psicoanalista francese Didier Anzieu (Melun, 1923; Parigi 1999), il cui contributo più noto alla psicoanalisi è il concetto di “io-pelle”, si è occupato anche, e a più riprese nel corso della vita, del “processo creativo”. La sua opera più completa sull’ argomento è Le corps de l’oeuvre (1981), ma è probabile che questo interesse sia nato molto precocemente, mentre preparava la tesi che aveva per oggetto l’autoanalisi di Freud (pubblicata per la prima volta nel 1959) o, chissà, mentre indagava, nel corso della sua stessa analisi, sulla fissazione creativa della propria madre (che altri non era che la famosa “Aimèe”, il primo caso descritto da Lacan). Dotato di “scetticismo, rigore e serenità”, doti che egli ritiene essenziali in ogni psicoanalista, Didier Anzieu è piacevole da leggere e ricco di spessore; ma sfortunatamente solo poche delle sue opere vengono ristampate in italiano.

Il testo che segue, traduzione di un brano tratto da L’auto-analyse de Freud (riedizione del 1975) mi è sembrato curioso e interessante, in quanto sottolinea il ruolo dell’altro, in qualità di interlocutore privilegiato, nel corso del processo creativo, accostandolo niente meno che al concetto di “madre sufficientemente buona” di Winnicott.

                                         “Per effettuare una scoperta o comporre un’opera innovatrice si rende necessario superare due resistenze. La prima è una resistenza epistemologica, che i lavori di Bachelard (1938) hanno già messo bene in evidenza: ciò che uno già sa costituisce una forza di inerzia che paralizza e impedisce di afferrare  ciò che si potrebbe trovare di nuovo. Inventare è contraddire, è dimenticare le vecchie acquisizioni, troppo condivise, per immergersi, da solo, in un qualche strato molto antico di se stesso; è riportare alla memoria  un’immagine personale che si trova depositata, e far germinare da essa la scoperta, l’opera.

E’ in seguito che interviene la seconda resistenza, che non è senza analogia con ciò che Freud descriverà, verso la fine della sua vita, come la relazione terapeutica negativa (1937). Questa consiste in un dubbio corrosivo, demoralizzante, sul valore di ciò che si sta per trovare e sulla propria capacità di portare a termine la dimostrazione, la redazione, la composizione. Negazione dell’opera che siamo sul punto di generare, di portare fuori da noi stessi, negazione di sé come padre-madre possibile di questa opera che rechiamo in grembo. Si può indovinare la natura delle angosce sottostanti: sentimenti di colpa, secondo i “freudiani”, per il bambino concepito nell’immaginazione con uno dei due genitori; secondo i “kleiniani”, fantasma che fa ritorno, sicuramente interessato ad introdursi nel ventre della madre per distruggere il pene del padre e i bambini in gestazione. Quale che sia il cammino che imbocca, è evidente che qui, ad operare, è la pulsione di morte,  pronta a portarsi in ogni luogo di creatività nascente per distruggerla in embrione e compiere le parole del poeta (Paul Valéry, Le cimitiére marin):

“… Rendre la lumiére
 Suppose d’ombre une morne moitié”
 
Se la prima resistenza trova la sua soluzione nella solitudine, in un ripiego su se stessi nel quale è facile distaccarsi dal pensiero comune e nel quale, ritrovando se stessi, si finisce per scoprire ciò che si cercava, va ben diversamente per la seconda: qui l’aiuto non può venire che da un altro. Le caratteristiche di una tale relazione con l’altro cominciano ad essere conosciute. E’ colui con cui il potenziale creatore “condivide il suo segreto”; così il romanziere Joseph Conrad ha potuto produrre il meglio di sé e raggiungere una grande notorietà fintanto che è durata la sua amicizia con Ford Maddox Hueffer; la brusca interruzione di questa amicizia, nel 1910, coincise con un abbassamento della sua produzione artistica.

Masud Khan (1970) studia la relazione tra Freud e Fliess alla luce della relazione di Montaigne con La Boétie, che,  continuando interiorizzata anche alla morte del secondo,  permise al primo di concepire Les Essais,  contrapposta alla serie di relazioni maschili e femminili che furono necessarie a J.J. Rousseau per portare a termine Le Confessioni, opera nella quale l’autocritica si alterna con l’auto-elogio senza sfociare, contrariamente a Montaigne, nell’acquisizione di processi psichici universali. Masud Khan parla di una “funzione catalitica” che si compie  grazie allo scambio intellettuale e affettivo con un amico privilegiato.

Questa funzione è incontestabile e, salvo poche eccezioni, necessaria ad ogni grande creazione. Il partner può essere dello stesso sesso o del sesso opposto; la relazione con lui, sempre in qualche modo erotizzata, può o non può soddisfarsi sul piano delle relazioni sessuali: questi sono solo fattori associati. L’essenziale risiede in qualcosa di difficile definizione, che manca di un concetto adeguato, ma che si può descrivere come l’immediatezza di comprensione del partner di fronte alle rappresentazioni mentali che il potenziale creatore trae dal proprio fondo e prova a comunicargli. Con lui, lui solo, quest’ultimo non deve, come davanti alla sua pagina bianca o come col resto dei suoi contemporanei, lottare per esprimersi e per farsi comprendere. Questo amico entra d’emblé nelle particolarità idiosincrasiche dell’organizzazione delle sue sensazioni, delle sue immagini, dei suoi affetti; talora vi ritrova egli stesso il proprio vissuto; talora, e ciò è ancora più prezioso, egli è convocato in una zona del proprio essere di cui non era cosciente, nella quale ragiona attivamente, intensamente, favorevolmente ai propositi del genio creatore, e a partire dalla quale invia di ritorno a costui un’eco amplificata e arricchente di quella voce interiore che gli sussurrava, ancora incerta e balbettante, le premesse di qualche scoperta.

L’amico privilegiato incarna per il creatore il polo di minor resistenza, e il feed-back regolatore che proviene  da questo amico attenua nel creatore quella resistenza interna che ogni progetto di creazione contiene al massimo grado.

Come rendere conto di questo fenomeno in termini psicoanalitici? L’espressione “risonanza fantasmatica” adottata da certi psicoanalisti  pratici di metodi di gruppo, per definire le congiunzioni profonde che si stabiliscono subitaneamente tra due persone in un contesto collettivo, resta ancora troppo descrittiva. Che si tratti di un gioco reciproco di identificazioni e di proiezioni è ben evidente, ma resta oscura la risposta a queste domande: quali identificazioni, quali proiezioni, quale gioco? La nozione di “identificazione proiettiva” non ci sembra sufficiente, anche se si avvicina molto al processo osservato. Il meccanismo del fenomeno transizionale, di cui si deve la scoperta a Winnicott, ci sembra più adeguato. Il creatore si sente direttamente compreso dal suo amico come il piccolo lo è, intuitivamente, da sua madre. Quasi incapace di dissociare dal principio di piacere un principio di realtà (senza di che non sarebbe inventivo) e avendo bisogno di affidare a qualcuno in cui ripone totale fiducia il compito di procedere, al posto suo, alla prova di realtà, egli elegge il suo partner a tramite e intermediario tra questa realtà e lui stesso, mentre, allo stesso tempo, si procura un va e vieni di onnipotenza fantasmatica in una sorta di commutatività narcisistica.

Per portare a termine una creazione, quando si è dominati dal dubbio distruttore, non è forse necessario ritrovare l’illusione primaria, permessa da una “madre sufficientemente buona”, di avere pieno potere sul mondo? Tra l’autore e l’amico, l’opera nasce come uno spazio transizionale.”

 Didier Anzieu  L’auto-analyse de Freud, Presses Universitaire de France, 1975, pp. 159-162.

18 luglio 2011                                                       dal blog di “Bartolomeo Di Monaco”


19 agosto 2016

"Un altro posto" di Cristina Pacinotti

di Luciano Luciani

Un altro posto, ovvero un romanzo che si muove lungo i - battuti di rado - sentieri dell'ecotopia. Termine di conio relativamente recente che sta a indicare una società in cui gli uomini e le donne vivono e lavorano nel rispetto della natura e dell'ambiente. E che, di conseguenza, non possono non opporsi alle leggi ferree dell'economia di mercato, ai suoi interessi e ai suoi sacerdoti. Insomma, una rivoluzione. Senz'armi, ma tenace, pacifica e caparbia. 


Quella che, faticosamente e non senza contraddizioni, cercano di praticare gli abitanti di Frabosco, piccolissimo corpo sociale ecosolidale posizionato nella estrema Toscana nord-occidentale. Poche famiglie impegnate a vivere secondo regole del tutto nuove e in gran parte ancora da inventare. Senza furori fondamentalisti, Maria ed Emanuele, Maya e Daniel, Riccardo e Angela, Ugo, Giovanna, Luca, Mauro e i loro figli, bambini e adolescenti, coltivano una terra sempre generosa, allevano animali, esercitano l'artigianato, recuperano antiche abilità e competenze, riusano e riciclano secondo uno stile di vita solo apparentemente regressivo. Più vicini alla natura e ai suoi tempi, alle sue indubitabili durezze e bellezze, i Fraboschini, poco compresi anche dagli altri residenti, vedono il loro insediamento minacciato dall'ennesima grandeopera, con le sue promesse di magnifiche sorti e progressive e la distribuzione di mance e prebende a destra e a manca... E allora decidono di dare battaglia. 

Riusciranno i nostri modesti eroi a opporsi al rullo compressore della contemporaneità, al turbocapitalismo e alle ragioni del profitto sempre, dovunque e comunque? Saranno capaci di suscitare un movimento reale capace di cambiare i rapporti di forza in difesa della natura e della bellezza, della Madre Terra e degli equilibri ambientali?
 

Di questo tratta il romanzo di Cristina Pacinotti, scrittrice New Age, ma che, ben provvista di uno spiccato senso critico-storico, sa opportunamente prendere le distanze da ogni ingenuità involutiva e da chimeriche aspirazioni a un "medioevo prossimo venturo". La Pacinotti, autrice pisana apprezzata da Umberto Eco, Dacia Maraini e Athos Bigongiali, racconta bene la moderna, problematica favola di quanti - e sono ormai molti, sempre di più - intendono passare da un presente grigio al verde del domani. I materiali glieli forniscono le cronache recenti - vedi vicenda NoTav - e un'evidente esperienza personale sinceramente vissuta di come essere davvero in sintonia con la natura e così "camminare leggeri sulla terra". 

Tutti suoi, poi, la fluidità del narrare, lo stile cordiale e accattivante, l'abilità nel descrivere paesaggi e psicologie tanto dei "buoni" quanto dei loro oppositori, gli uni e gli altri riguardati sempre con una punta d' ironia e un minimo indulgenza: per un racconto vivido e problematico, positivo e completo di un'esperimento comunitario ecologicamente, e soprattutto umanamente, sostenibile.

Cristina Pacinotti, Un altro posto, Collana Obliqui, Ets Pisa, 2016, pp. 224, Euro 15,00

17 agosto 2016

Nietzsche e la filosofia” di Gilles Deleuze



di Daniele Guasco

Nietzsche e la filosofia è un saggio di storia della filosofia. Che cos’è la storia della filosofia? Secondo Deleuze essa non è poi molto distante dalla filosofia stessa. Si cerca infatti, attraverso un certo autore, di risolvere dei problemi, attraverso i concetti che questi costruisce. Questo è il caso del primo importante testo di Deleuze.

Se, come già considerava Althusser, ogni filosofia porta in sé il proprio avversario, secondo Deleuze non si può comprendere Nietzsche se non lo si pone contro Hegel e la dialettica.
In questo snodo, si possono cogliere le conseguenze estremamente importanti di tale lettura. Se dopo il seminario di Kojéve su Hegel i grandi filosofi e pensatori del Novecento[1] avevano assorbito il metodo hegeliano nel loro proprio metodo[2], l’operazione di Deleuze è una messa in questione del valore della dialettica nelle sue conseguenze politiche e morali.

Significa che, se l’operazione di Deleuze è riuscita, è tutto uno schieramento hegeliano, tutta una grande frazione del Novecento ad essere messa in questione. “Datemi una leva e solleverò il mondo”.

Perché Nietzsche contro Hegel? Per vari motivi. Innanzitutto, Hegel vede l’uomo preso in una desiderio che mira alla rinuncia, al riconoscimento dell’Altro, un godimento destinato all’insoddisfazione. Al contrario, Nietzsche costruisce un edificio teorico dove è contemplata la liberazione degli istinti, la rinuncia al riconoscimento in virtù di un atto sovrano. Qui la contrapposizione non è tanto tra Hegel e Nietzsche, quanto tra la società borghese e l’anticipazione teorica della “rivoluzione sessuale” del ’68.

Hegel vede la coscienza infelice costretta in schiavitù, ridotta al lavoro coatto, trovarvi la propria liberazione e la verità del proprio desiderio. Questo è il lavoro del doppio negativo nella dialettica, che porterebbe al positivo. Al contrario, la funzione tragica nietzscheana consiste nell’autoaffermazione del superuomo, dalla quale scaturirebbero le negazioni, gli aspetti distruttivi di questa affermazione. E’ la “bestia bionda” che sconvolge le formazioni territoriali, contro il lavoratore infelice che sfocia nel “falso positivo” della rivoluzione borghese[3].

In maniera sottile, Deleuze prende di mira la psicoanalisi quando parla del tema delle tracce mnestiche: la coscienza è reattiva quando si lascia agire dalle tracce mnestiche senza prolungarle in reazione; è attiva quando non si lascia agire bensì quando impugna la volontà e si muove di conseguenza.

Un altro nemico di Nietzsche (o di Deleuze?) è la tradizione del pensiero, chiamata del negativo, che infonde nell’uomo la colpa per svalutare l’esistenza e porre il valore di un aldilà della vita terrena. L’operazione consiste nell’affermare “l’innocenza del divenire”, il valore della vita stessa, senza bisogno di un aldilà.

Nel saggio di Deleuze Nietzsche opera in sinergia con altri autori - cari al filosofo francese - come per esempio Spinoza. Deleuze dà inoltre delle interpretazioni innovative di alcuni temi presenti in Nietzsche, come quello dell’eterno ritorno. Il testo, pietra miliare nella carriera di Deleuze, ma non meno importante degli altri suoi saggi di storia della filosofia, sarà poi omaggiato da Klossowski. In ognuno dei suoi libri Deleuze mira a elaborare una batteria di nuovi concetti per porre e risolvere problemi. E’ attraverso questo lavorìo che arriverà a opere su tematiche molto ampie, come Differenza e Ripetizione o Logica del Senso, che raccoglie i frutti degli studi precedenti.

Qual è dunque l’importanza di questo lavoro su Nietzsche?  E’ la prima disposizione dei concetti e degli autori in un campo di battaglia (o di immanenza?), un campo di battaglia molto ampio che abbraccia tutta la filosofia, con tutte le sue conseguenze politiche, ma a partire da un’operazione molto particolare su un autore particolare.

Gilles Deleuze, Nietzsche e la filosofia. Piccola Biblioteca Einaudi, Torino, 2002, pp. 322, € 21,00.




[1] Per esempio Bataille, Sartre, Merleau-Ponty, Lacan, Queaneau, Caillois, per citare solo alcuni di quelli che hanno personalmente frequentato i corsi di Kojéve e quindi escludendo tutti coloro che hanno risentito dell’influsso hegeliano a distanza di tempo e di spazio.

[2] Per esempio, nella struttura del desiderio in Lacan, o la funzione del negativo in Sartre.

[3] Non è fuori luogo ricordare che Hegel è un illuminista, e che Kojéve fa espliciti riferimenti a Napoleone.


15 agosto 2016

"Marguerite Duras: una biografia dello stile e della visione"



di Davide Pugnana

Solo le bancarelle delle fiere regalano doni librari inaspettati. Lì, in quelle effimere arche, mescolati alla buona sopravvivono autori e titoli scomparsi ormai da decenni, e mai più ristampati. I cacciatori di libri "fuori catalogo" conoscono il piacere di quell'adrenalina delle mani cacciate nel mucchio indifferenziato dei volumi, come sonde marine calate nell'ignota ricerca di piccoli e grandi corpicini dispersi. E' un lavorio nobile e sacro, parente alla lontana dello scavo archeologico.

Per quanto mi riguarda, l'ultima immersione ha portato alla luce l'introvabile libriccino di Franco Russoli sul museo, un'edizione Vallecchi del "Dizionario" dei Tommaseo, le lettere di Augusto Monti e l'esile, aereo, impalpabile Moderato cantabile di Marguerite Duras. Erano anni che non vedevo questo piccolo romanzo dimenticato. Se avessi cercato altrove, in canali ufficiali, diciamolo pure: se mi fossi affidato alle case editrici italiane non avrei ricevute che incerte notizie, siglate da un definitivo e mortifero: "Ei fu."

Il continente Marguerite Duras si è trasformato in questa terra solo per metà emersa. E' un dato di fatto, registrabile direttamente sugli scaffali delle librerie. Il punto dolente è che questo corpo invisibile di buona parte della produzione durasiana, nel paesaggio editoriale italiano, non è il risultato di una sfortuna critica o di una perdita di modernità imputabile all'opera; ossia non è una scomparsa riferibile a dati 'oggettivi' o endogeni, quali la perdita di tenuta espressiva o l'inattualità dei contenuti. E', al contrario, un'assenza che ha un'origine esogena, esterna all'opera, imputabile all'interruzione di stampa da parte della casa editrice Feltrinelli. La quale ha eliminato dallo scaffale delle librerie gran parte delle opere più importanti della scrittrice, riducendone la presenza ai romanzi più vendibili: sostanzialmente, L'amante e Il dolore. Questa scelta addomestica la produzione di Duras, facendola apparire nella falsa luce della scrittrice di romanzi d'amore al limite del bollino "rosa".

Dove sono finite opere potenti come Una diga sul Pacifico, Il marinaio di Gibilterra o racconti bellissimi come Le boa e Les chantiers? Perché testi fondamentali come La vie tranquille e Il ViceConsole, o terribili come La vita materiale, sono stati deliberatamente esclusi? Perché, forse, non sono più di moda nell'orizzonte di attesa dei lettori di oggi? Eppure, la scrittura di Duras è quanto di più 'moderno' ci sia: una prosa asciutta, rapida, tutta nervi scoperti, fittamente dialogica, epifanica nel suo andare sottopelle alla natura e ai rapporti umani. Uno stile condotto 'per via di togliere' che Tomasi di Lampedusa avrebbe certamente collocato nel novero dei romanzieri "magri", i maestri del non detto che, con infinita sapienza, dicono tutto con poca e avara materia. Se quello modale fosse il fattore cruciale, allora dovrebbe scomparire anche l'altra Marguerite della letteratura francese del Novecento, la Yourcenar, che, per un bizzarro paradosso, figura tutta editata. Proprio lei: la scrittrice "grassa" par excellent, con i suoi romanzi storici polifonici, colti, raffinati e sintatticamente complessi. Non è, dunque, una questione di stazza.

Ironia a parte, la domanda diretta e legittima è quella che ruota attorno al caparbio "perché". Perché leggere ancora i testi di Marguerite Duras? D'acchito verrebbe da rispondere perché è una grande scrittrice; ma la frase suonerebbe vuota e generica, al pari di quel fraseggio dei critici d'arte che definiscono qualsiasi stesura pittorica con pretese vagamente impressioniste con "la pennellata veloce e luminosa" .

Per scendere al cuore dei testi occorre interrogare le radici stesse della scrittura; non solo la capacità di narrare, non solo la poetica che li sottende e la profondità di osservazione della natura umana, colta in sé e nella ragnatela, storica e sociale, dei rapporti. Occorre spingersi molto più addentro. Occorre intraprendere un viaggio nel lievito cavo e segreto di quegli scenari fantasmatici che si strutturano negli anni, a partire dal modo in cui i 'fatti veri' cadono nell'inconscio dello scrittore. In quel cono d’ombre si annidano le molle generatrici dei grandi classici.

Il grimaldello per capire il côté sommerso della scrittura di Duras è un saggio italiano, uscito quindici anni fa per i tipi casa editrice pisana ETS. Pur essendo molto restio a gerarchie e classifiche, devo convenire che Marguerite Duras un'arte della povertà. Il racconto di una vita, sia il più bel saggio italiano sulla scrittrice francese. In questo caso, il primato non va solo al 'come' è scritto, alla tensione della prosa saggistica tenuta sul filo di confine di registri stilistici diversi (una vena saggistica trepida e lucidamente  malinconica, intervallata da snodi narrativi e incursioni di realismo visionario). Il punto di forza di questo lavoro è anche la qualità della ricostruzione dell'itinerario di Duras: il tipo specifico di ricerca e di scavo nelle carte e nei testi di Duras; il modo stesso in cui i documenti vengono intrecciati l'uno con l'altro, all'interno del sistema-Duras e alla luce della storia, con l'obiettivo di non inciampare - e, quindi, di attentamente evitare e criticare - nella mera cronaca biografica, di gusto saintbeuviano e positivista. Gli stessi strumenti psicoanalitici, messi in campo come chiavi ermeneutiche, non peccano di autoreferenzialità, né sboccano nello scabro referto clinico, ma sono tenuti rigorosamente al servizio della verità del testo: essi devono interrogare l'inconscio del testo, sviscerarlo laddove ciò che era vissuto si è fatto scrittura.

Per questo motivo, il saggio di Norina Fornasier è un viaggio dedicato a quanto di più fondo, oscuro ed intimo si muove sotto la ricerca di Duras: quella verifica della vocazione che avvicina, in un accostamento imprevisto e spiazzante, Duras a Proust.

Basti, tra i molti che punteggiano il saggio, un passo che racchiude lo splendore e l'alto tenore di questa ricerca: "A lei, la più proustiana forse tra gli scrittori del nostro secolo, che condivide condivide con Proust la passione della vita allacciata alla morte e la volontà di investire tutto, a lei, destinata a scrivere dopo l'Olocausto e compagnadell'Angelo della Storia di Klee, è in qualche modo affidato affidato il affidato il gesto opposto a quello proustiano: svuotare quel regno dell'abbondanza in cui niente doveva andare perduto, svuotare quella frase proustiana che si apre continuamente su se stessa, si apre larga e si dilata per contenete e ospitare il più possibile del mondo, con la sua bellezza e il il suo orrore, le sue luci e le sue ombre, tutta quella ricchezza dolorosa che è la vita sedotta dalla morte. Duras scrive con lo stesso stupore proustiano, e ama e patisce accettando di essere privatalei, l'artista, di questo 'secolo breve' della 'felicità' proustiana. Lei scrive nell'infelicità meravigliosa di scriveree accetta di sposare soprattutto il dolore e di accogliere l'ombra mentre la luce rimane, nella sua opera, come un'invocazione e un'attesa. E così, mentre Proust riempie la 'casa del linguaggio' di parole 'materne' che seducono la morte nutrendola con tutti i nomi della vita, così che alla fine, quasi vinta, accetti di confondersi con essi, allo stesso modo, animata dal medesimo desiderio proustiano, Duras svuota questa casa di tutte, o quasi, le sue ricchezze."

Il sottotitolo del saggio, “il racconto di una vita”, può trarre in inganno, richiamando il lettore nei confini di un genere vagamente romanzesco quali sono le vite d'artista. È questa la prima pietra d'inciampo da evitare. Non ci troviamo al cospetto di una biografia dello scrittore. Certo, i primi due capitoli, dedicati all'analisi delle origini e dell'infazia di Duras, possono avvallare questa suggestione; ma è sufficiente percorrere le prime cinquanta pagine per ritrovarsi in uno scenario tutt'altro che cronachistico. In questa lunga soglia, dedicata alle scaturigini della vocazione di Duras alla scrittura, accadde qualcosa di strano: ci troviamo a compiere una sorta di movimento in obliquo che va a tagliare i dati storici e biografici in modo del tutto inaspettato. Laddove ci si aspetterebbe una crononologia dei fatti troviamo atmosfere, luci ed ombre, suggestioni sinestetiche, in uno sprofondamento memoriale che mette in moto un'identificazione assoluta e viscerale dell'autore con il suo oggetto di studio, accordando tutto il testo su una valenza e un sapore intimamente proustiani, fin dall'incipit, in quel suo rievocare, sotto il morso di una luce aurorale, isole remote del vissuto di Duras: “Le sue radici sono lontane, immerse nelle terre paludose dell'Indocina”. 
Questo attraversamento di taglio degli scenari lontani del romanzo di formazione durasiano ci conduce nei diversi heimat della scrittrice: luoghi, persone, nomi che, nelle loro ignote risonanze inconsce, costituiranno, per sempre, la materia dolorosa e terribile della sua ricerca di verità. E non sono solo i sostantivi fisici e familiari ad essere messi in gioco. Lungo questo viaggio di paziente ricucitura e di ostinato ascolto, sono disseminati dettagli che spalancano tutto un mondo di percezioni sensoriali, prossime a diventare simbolo o luogo di intensità della parola poetica, così come ci immaginiamo possano entrare negli occhi di un artista che ancora non ha coscienza piena della sua vocazione: “la domenica mattina, quando il cielo era tinto di grigio, di quel grigio che solo il cielo del Nord conosce”; “l'aria fredda [che] odorava d'inverno”, le immense risaie, le terre alluvionali, le prime parole messe per iscritto, la mescolanza dell'amore e della morte nell'episodio del giovane vietnamita e della lebbra a Mékong: “Qui, in questa terra abbagliante di contrasti, la memoria comincia a tessere la sua trama e disegna  i confini di un regno di suoni, colori, di immagini incoruttibili ed eterne, le radici dell'opera futura.”

Se fossimo costretti ad usare il termine biografia – questo genere non sempre affidabile della saggistica - per dare un nome a queste pagine viscerali su Duras, il termine acquisterebbe la sua giusta luce se corretto con il complemento di specificazione aggiuntovi da Nabokov: “dello stile”. Biografia dello stile è, infatti, la definizione più esatta del saggio di Norina Fornasier. Lo dimostrano tanto le pagine sui nodi di origine, quanto quelle sull'infanzia che si aprono su un “paese d'acqua” e l'acqua, assieme alla foresta, sarà l'elemento simbolico che permeerà di sé l'intera ricostruzione dei luoghi della scrittrice, “luogo di godimento, di fusione, di passività felice” e “trama fantastica di un paesaggio che è il rovescio del mondo”: Vinh Long, il maestoso e leggendario fiume Mékong, vicino al quale si dispone la famiglia di Marguerite.

Punto di forza del saggio è l'assoluta centralità dei testi:, la loro presenza, il loro rincorrersi e intrecciarsi, è un dato costante e inderogabile, come il più fidato dei testimoni, come la più fidata delle porte per nominare gli invisibili meccanismi del sottosuolo. È da questa voce dei testi che Norina Fornasier costruisce la sua analisi dell'infanzia e della formazione di Marguerite Duras, dalle pagine memorabili su Saigon, alle dinamiche feroci e struggenti del rapporto con la madre e il fratello; dagli anni della scuola al trasferimento in Francia, come assistessimo al passaggio da un mondo di natura ad un mondo di civiltà. Troppo brevi sono lo spazio della recensione e la pazienza del suo lettore per poter citare interi passi segnati a lapis durante la lettura; tuttavia voglio trascriverne almeno uno, capace di dare il polso della bellezza di questa ricostruzione profonda delle radici durasiane, dal punto di vista esclusivo e interiore della biografia dello stile :

“Sulla veranda ormai abbandonata, di fronte a loro è il Siam, immenso e oscuro, con le sue foreste che nascondono gi animali feroci che lei [Duras] ha imparato a conoscere. Un silenzio avvolge le cose, il corpo è teso nello sforzo di raccogliere tutto: le immagini, i profumi, i suoni, il soffio del vento caldo sono raccolti e custoditi nello scrigno della memoria. Quando le terre natali diventaranno lontane e il sentimento dell'esilio disegnerà nuovi confini, la memoria condenserà in poche immagini capitali l'intreccio del vissuto, e l'opera diventerà la nuova terra. Il testo si costituirà come un tessuto in cui il ricordo è la trama e l'ordito è l'oblio. L'oblio che non è assenza irrimediabile ma, come anche Freud e Proust ci raccontano, presenza che si è allontanata solo momentaneamente da sé.”  In viaggio con l'opera apre la seconda parte del saggio e si configura come la verifica e la dimostrazione di tutto l'ascolto poroso e paziente dei primi capitoli. L'analisi serrata delle opere è il banco di prova, testi alla mano, dell'intreccio pazientemente ordito a partire dagli scenari fantasmatici dell'infanzia di Duras.Si va da Una diga sul Pacifico a L'aprés midi di M. Andesmas, passando per i testi chiave di Duras, nella misura breve dei racconti (Le chantiers, Le boa) e in quella lunga (Il marinaio di Gibilterra, il sublime Moderato cantabile). Sono queste anche tra le pagine più narrative del libro. 

Ancora un appunto merita di essere fermato. Questo saggio non è solo una biografia dello stile di Duras, o, ancora meglio, per richiamare un binomio proustiano, una serrata analisi della sintesi tra “visione” e “stile”. Esso racchiude anche una piccola antologia portatile; una sorta di diario di letture tenuto in filigrana come una mappa di segni luminodsi che molto ci dicono sull'esperienza dell'autrice. Non c'è sezione che non abbia sulla soglia il testo di un altro autore: la voce ora di un poeta, ora di un filosofo, ora di un narratore, ora di uno studioso che, con la loro intuizione delle cose, riescono, per forza di corrispondenze impreviste, ad illuminare zone inespresse dei testi di Duras. Il nome chiave è quello del Rilke poeta, la cui presenza si dipana come un filo rosso dentro ogni capitolo, a testimoniare una lunga frequentazione e una segreta consonanza di visione con l'autrice del saggio. E con Rilke, Emily Dickinson, Nabokov stesso, Kafka, Nietzsche, il bellissimo passo di Sant'Agostino sul tempo.

Ci sono recensioni che scaturiscono di getto, senza nessun diaframma e altre che, per molti anni, rimangono, stupefatte e intimidite, nella lunga e sacra scia d'ombra del libro che non si sa, o non ci si autorizza, a nominare fno in fondo. Questa recensione ha atteso ed è cresciuta dentro di me per dieci anni. Dieci anni lungo i quali infinite volte, nella mente e sulla carta, ho provato a scriverla senza successo; senza cioè che le parole dessero una pur minima traduzione della sostanza profonda dell'opera e, attraverso questo, del rapporto commovente e viscerale che mi teneva, e mi tiene legato a questo libro-madeleine, come in un'aura senza tempo.  Solo oggi la sproporzione tra la piccolezza delle mie parole e il senso di questo saggio si è assottigliata quel tanto che mi ha permesso di mettere per iscritto la mia esperienza di lettura e una zona del mio vissuto irrigata di malinconia e nostalgia. In questo saggio magistrale si condensa tutta una stagione di vita, ore e giorni che ne illuminano ogni pagina e ogni suono di parola. 

Ed è su un ricordo personale, che illumina e racconta una parte di vita e di lavoro dell'autore del saggio,  voglio concludere questa riflessione. Il 2006, nell’ambito della francesistica pisana - evidentemente in un torno d’anni particolarmente fecondi – non sapevo sarebbe arrivato l'incontro più importante della mia vita, quello con Norina Fornasier, il cui stile e pensiero non assomigliava a nessun altro ascoltato e appreso in ambito accademico fino a quel momento. Poetessa (Infanzie, Kolibris edizioni, 2012), studiosa e traduttrice di Baudelaire, esperta di scritture femminili del Novecento; autrice del più bel saggio italiano su Marguerite Duras (Marguerite Duras un’arte della povertà, ETS, 2001), Norina Fornasier sapeva leggere il romanzo francese realista dell’Ottocento con lo stupore intatto e appassionato di una matricola. Profonda conoscitrice di Freud (e di un metodo psicoanalitico trasferito sulle opere letterarie senza fumisterie interpretative) e della natura umana, Norina Fornasier ci parlava di Flaubert dal di dentro del processo creativo, non solo facendo ruotare le lezioni sulla verità del testo; attraversando la selva dell’epistolario e degli stadi redazionali di Madame Bovary; intrecciando l’analisi dei romanzi ad una più vasta rete di discipline ausiliarie (la storia, la psicoanalisi, la stilistica, l’antropologia, le pagine di Marx sull’ascesa del capitalismo e sul romanzo come moderna epopea borghese); ma ci portava soprattutto nel cuore segreto dei romanzi smontando e rimontando, sotto i nostri occhi, il meccanismo dello stile, l’uso dei dettagli quotidiani incendiati di ‘realismo visionario’ (ricordo l’analisi dell’irreale berretto di Charles Bovary nel primo capitolo), ricostruendoci, passo passo, gli occhiali del romanziere sul mondo, sull’uomo e sulla vita in provincia di Emma, dal cui angolo di terra Flaubert finiva per cogliere lo spirito della provincia tout court. Norina Fornasier faceva lezione pensando come un romanziere, sedotta dal desiderio, forse, che qualcuno di noi avrebbe un giorno seguito quella strada con coraggio e ostinazione; o, chi, già incamminato, non l’avrebbe tradita grazie alla resistenza etica e al mestiere di scrivere esemplati da Flaubert. Nessuno riuscì a farmi capire il profondo senso dell’apprendistato creativo e il lavorio della malinconia che lo divora e alimenta, come le lezioni di Norina Fornasier su Flaubert, e, più tardi, su Baudelaire e Proust.

Nori Fornasier, Marguerite Duras, un'arte della povertà. IL racconto di una vita, ETS, Pisa, 2001

12 agosto 2016

"Surkafkiano - L'Ultimo Processo" di Daniela Toschi e Bianca Maria Stefania Fedi



di Angela Palermo

Ho appena finito di leggere il "Surkafkiano" di Daniela Toschi e Bianca Maria Stefania Fedi.
L'indecifrabile colore degli occhi di Kafka, ricercato dalla protagonista, la psichiatra Tosca Amadei, esprime al meglio l'essenza di un genio indiscusso della letteratura mondiale, il quale si iscrive nella tradizione dei grandi narratori jiddish, ma che crea un nuovo patrimonio culturale, fatto di una ossessiva consapevolezza di una realtà surreale, indagata a fondo con un coltello la cui lama affilata è un'impietosa ironia.

È lo stesso coltello di Kafka che utilizzano le due autrici di questo mesto capolavoro che, dietro a un'apparente semplicità, nasconde un linguaggio letterario modellato su quello unico di Franz Kafka: un linguaggio dietro il quale celarsi, trasformandosi in uno scarafaggio o in un gattagnello...

Questo ultimo processo, con il suo messaggio universale, come universale è stata l'opera di Kafka, è una lettura urgente, necessaria, che rientra nel solco della grande letteratura di "denuncia civile" (Orwell, Silone, Pasolini...).

Il "Surkafkiano" lancia uno sguardo impietoso e disincantato sulla nostra attuale realtà-surreale, con la profondità e l'acutezza proprie alle due autrici e con quell'ironia, tutta kafkiana, che rappresenta la più feroce e alta forma di ribellione.

L'entusiasmante Kafka di Daniela e Bianca è, in ultima analisi, un invito a ribellarsi al potere dei "Tribunali senza inganno", per tentare di salvare l'ultimo barlume di Umanità.

 Daniela Toschi, Bianca Stefania Fedi. Surkafkiano - L'Ultimo Processo.  Youcanprint, 2016

11 agosto 2016

Postille a “Psicoanalisi immaginaria di Frida Kahlo” di Riccardo Dalle Luche e Angela Palermo (Mimesis, 2016)



di Riccardo Dalle Luche

  Quando ingenuamente e con una buona dose di incoscienza, con Angela Palermo, ci siamo messi a scrivere una biografia psicologica di Frida Kahlo centrata sul costrutto di disturbo post-traumatico ed i successivi perturbamenti e cambiamenti dell’identità di quella che in virtù del suo trauma sarebbe divenuta una celebre artista, non avevamo la minima cognizione della ricchezza e la complessità del soggetto della nostra ricerca. In questi ultimi anni Frida è giustamente divenuta un’icona assoluta della femminilità non solo per la sua affascinante e perturbata arte, nè per la  bellezza meticcia del suo viso e la profondità del suo sguardo, quanto per aver toccato e spesso anticipato di decenni a tutto campo, nella sua vita e nelle sue opere, molti dei temi del femminismo e dell’espressività femminile. Tuttavia la sua complessa biografia riserva ancora moltissimi lati oscuri, talora contraddittori, che smontano in buona parte lo stereotipo della donna appassionata e romantica alle prese con un destino ostile. Inoltre è lentamente emersa la consapevolezza del complesso enciclopedismo che confluisce nelle sue tele e nei suoi disegni, che li trasforma in enunciazioni visive di assunti filosofici e religiosi e che smonta definitivamente sia l’idea di una pittrice sostanzialmente autodidatta, autoreferenziale e naif, che l’etichetta, affibbiatale da Breton, di “pittrice surrealista”.


Non deve meravigliare quindi che, dopo la pubblicazione di una ricerca che ad un certo punto andava chiusa di fronte alla percezione della sua potenziale illimitatezza, nel lavoro di presentazione al pubblico a Viareggio e Pontremoli, e nelle successive riflessioni che ne sono scaturite, siano venuti alla luce nuovi elementi, basati sulla scoperta delle fonti più impensabili dell’opera di Frida, che hanno costretto ad una parziale risistemazione interpretativa rispetto alle tesi originarie. La maggior parte di questi elementi nuovi, rinviano ad una serie di problematiche che nel libro sono ben individuate ma ancora non ben collegate tra di loro: quelle del rapporto di Frida con la madre e con il materno, quella della sua impossibile identificazione esclusiva con il femminile, quella della doppiezza e della maschera dietro la quale si cela ogni identità, quella della riconciliazione con la madre e con il proprio doppio omosessuale, quella, infine, del dominio matriarcale rispetto all’universo maschile. Ciascuna di queste problematiche, come tutto ciò che, di veramente importante, la riguarda, può essere ben individuata nell’opera di Frida.



Cominciamo da quello che può essere, dal nostro punto di vista psicoanalitico, considerato il quadro seminale delle problematiche “pre-edipiche”, come si diceva una volta, di Frida: “La mia balia ed Io” del 1937 (p. 21 del libro).



                                                                              La mia balia ed Io



 Come già abbiamo scritto, si tratta della rappresentazione dell’allattamento della piccola Frida da parte di una balia india (la madre naturale, che aveva perduto la figlia precedente, di cui Frida fu sostituta, ebbe una depressione dopo il suo parto). La rappresentazione retrospettiva che ne dà Frida  appare traumatica sotto molti aspetti: sotto un cielo grigio solcato da una pioggia ben poco messicana la particolarità della piccola “Io”, con indosso il vestitino del battesimo, ma col volto impassibile ed enigmatico di molti ritratti della Frida adulta, indica infatti la persistenza lifetime degli effetti di questo allattamento: “Io” riceve a bocca chiusa il latte che, come la pioggia del cielo o l’acqua di una sorgente, proviene direttamente da una fonte naturale (una ghiandola) anzi che da un seno caldo e accogliente, individualizzato e riconoscibile. Per quanto la balia tenga in braccio la piccola Io come la Natura Frida, e Frida Diego ne “L’amoroso abbraccio dell’universo: la terra (Mexico), Io e il signor Xolotl” del 1949 (p. 151 del libro), tra le due figure non appare esserci alcun rapporto emotivo: entrambe guardano verso l’osservatore, non solo non vi è alcun contatto oculare tra loro, ma esso è reso impossibile dal fatto che la balia indossa una maschera precolombiana di pietra, che nel libro viene riferita alla nera maschera del Teotihuacan del 200-600 ospitata al Museo del Templo Mayor di Città del Messico, ma che in realtà appare più somigliante a quella Olmeca, più antica (1000-300 a.C) ospitata al Metropolitan Museum di New York (e che Frida avrebbe potuto benissimo aver visto nel suo primo periodo americano).



maschere Teotihuacan e Olmeca




Non è quindi possibile conoscere il vero volto della balia, che sembra assolvere una funzione, quella dell’allattamento, come un rito naturalistico necessario, anonimo e impersonale. La piccola Frida cresce dunque come le piante che sono fertilizzate dall’acqua del cielo, alimentata dalla ghiandola di una balia india, scura ed anonima e tutto questo sembra fare di lei un essere molto più vicino alla Natura che non all’umanità: un essere che, da adulto, si ritrova ad interrogarsi ripetutamente, anche attraverso il suo lavoro di pittrice, sia sulla questione della propria identificazione femminile, sia su quella che vi si connette strettamente, della capacità generativa che a lei, a causa del suo trauma, ma non solo, verrà traumaticamente a mancare. In quanto femmina infeconda, incapace di perpetrare la catena genealogica così ben rappresentata in “I miei nonni, i miei genitori e Io (La mia famiglia)” del 1936 (p.23), Frida resta una perenne bambina che si racchiude nell’utero della casa Azùl senza poter mai diventare veramente adulta, cioè madre (secondo i criteri culturali dell’epoca del cattolicissimo Messico.



                                                                         La mia famiglia


In ultima analisi l’infertilità, dovuta sia al grave incidente subito a 19 anni che le lesionò l’apparato genitale, ma anche, secondo la documentazione medica ritrovata, ad un ipo-ovarismo e ad una possibile sifilide silente, è forse il principale dei traumi di Frida, come giustamente sottolinea anche Diego commentando il terzo aborto di lei (p. 39); il carattere traumatico di questo evento è esplicitamente riversato, al rischio di oscenità, in tre delle tele più celebri e perturbanti di Frida, tutte e tre del 1932, due sulle circostanze del suo aborto (p. 40), ed una, quella più perturbante in assoluto di tutta l’opera kahliana, “La mia nascita” (1932) (pp.108-9), nella quale si vede la testa compressa di Frida adulta uscire dal canale del parto del corpo morto della madre (nella realtà deceduta da poco tempo), coperta dal sudario ma anche ritratta come Madonna addolorata alla parete. Associando l’immagine della celebre statua atzeca della divinità partoriente Tlazolteoltl, la maternità è in questo quadro connessa alla divinità anche in senso pagano..



La mia nascita
                                                           Divinità partoriente



La soluzione fondamentalmente partenogenetica e autorigenerativa di questo quadro non appare sufficiente a risolvere la complessualità materna di Frida, che rappresenta il vero filo rosso di tutta la vita di Frida ed alla quale dovremmo riferirci per comprendere gran parte della sua opera, se non tutta, spogliata dalle metafore che la permeano e la mascherano in superficie, come un contenuto manifesto di un sogno.

Ad esempio, tutte le sue vicende sentimentali, in primis la complessa storia con Diego, ma un po’ tutti i suoi investimenti romantici, fusionali, nei quali si è gettata sia con i suoi amanti che con le sue amanti, ed una diffusa ninfomania (simile a quella della protagonista del film di von Trier, 2015) che, stando a voci e testimonianze, permeò la sua vita soprattutto nei periodi di crisi e separazione da Diego, acquistano un senso unitario come terapia di un trauma originario, quello dell’allattamento, che non le aveva consentito né di sviluppare la capacità di un rapporto emotivo duale e di un attaccamento sicuro, né un’identificazione univocamente femminile con la propria madre e come madre. Risulta così chiaro l’esito finale del rapporto con Diego come quello di una madre che tiene in braccio il proprio figlio – massimamente espresso in  “L’amoroso abbraccio dell’universo”-, senso ultimo di un rapporto già ampiamente marcato dalla doppia e reciproca fisicità bisessuale, i grandi seni di lui, i baffi di lei ad esempio (p.44-45); questo amore così osannato dai patiti degli amori romantici non è in realtà altro che la risoluzione di un danno pre-edipico: inizialmente Diego aveva svolto per Frida la funzione di madre e di “contenitore” in grado di restituirle un’identità ed una unitarietà, mentre alla fine svolge la funzione del figlio che lei non ha mai avuto: il ruolo di Diego è dunque transitato, in Frida, da quello di contenente a quello di contenuto. Ma anche tutti gli altri amori fusionali e romantici di Frida, ad esempio quello con Josè Bartoli, scoperto recentemente dopo la pubblicazione delle lettere che lei gli scrisse negli anni 1946-1949, ha esattamente la stessa funzione: non a caso lei gli scrive in una lettera d’amore: “Tienimi dentro di te, ti prego. Voglio essere la tua casa, tua madre, la tua amante e il tuo bambino. Ti amerò dal panorama che vedi, dalle montagne, dagli oceani e dalle nuvole, dal sorriso più sottile e qualche volta dalla più profonda disperazione.”

 Amare per Frida significava essenzialmente “essere contenuta” oppure “contenere” fisicamente e affettivamente.



                                                    L’amoroso abbraccio dell’Universo


La trasposizione di Diego, come prototipo di oggetto d’amore e contenitore materno più a lungo tenuto legato (da cui era impossibile separarsi) da Frida, a figlio, non è avvenuta, come si sa,  senza traumi né senza conflitti, come rotture, scenate, tentativi di suicidio, impossibilità sia di stare separati che di stare insieme in un rapporto monogamico: questo amore romantico è in effetti, come tutti gli amori romantici, fonte di una drammatica conflittualità sadomasochistica che è abbastanza ben raccontata nel libro e di una lotta di potere nella quale alla fine Frida prevale.

E’ forse a questo punto che possiamo introdurre un altro dei temi più importanti per comprendere Frida, il predominio della femminilità e delle divinità femminili matriarcali rispetto all’elemento maschile, che in ultima analisi è ridotto ad accessorio, a contenitore o a contenuto della femmina.

Per comprendere meglio questa interpretazione seguiamo la pista che potremmo definire, “egizia”, sulla quale ci immettono sia il celebre “Mosè o Il disco solare” del 1945 (p.151), sia i ritratti dei diari, nei quali lei e Diego si fondono come in un monumento egizio, col nome di Neferunico e Neferdòs (p.65).



                                                         Mosè o Il disco solare



Il “Mosè” di Frida sarebbe stato ispirato dalla lettura del “romanzo storico”di Freud “Mosè e la religione monoteistica: tre saggi” (1934-38), una delle sue ultime opere, nel quale il vecchio psicoanalista rivendica la nascita e l’origine egiziana di Mosè e il sorgere del monoteismo come una continuazione naturale dell’unico breve periodo di monoteismo nel Pantheon egiziano, istituito da Amenofi IV (poi Ekhnaton o Akhenaton) e da sua moglie Nefertiti: la religione di Atòn o Dio Sole, la cui energia si manifestava nei raggi solari. Prima di Freud già Abraham nel 1912 aveva dedicato un saggio a Amenofi IV nel quale enfatizzava il tema del parricidio simbolico da lui perpetrato rispetto a Amenofi III, che ancora sosteneva il politeismo, del quale fece scalpellare via tutte le immagini (Pagano 2013). Sebbene i 18 anni di regno di Ekhnaton siano stati a loro volta oggetto di una radicale, successiva, iconoclastia, restano diverse immagini soprattutto di Nefertiti nell’atto di adorare il Sole nel tempio di Atòn a Akhet-Atòn (poi Amarna).



                                                                                            Nefertiti


La corrispondenza  formale del Sole e dei raggi solari forniti di mano al loro estremo con quelli dipinti nel Mosè di Frida Kahlo è innegabile, al punto di dover pensare che la pittrice li abbia copiati o, meglio, citati. Nel Mosè compare anche Nefertiti, nelle figure di destra rivolte verso il Sole, all’incirca nella metà del quadro; accanto a lei è raffigurato Mosè adulto, fornito di terzo occhio, che già compare nella fronte del neonato abbandonato alle acque del fiume nella cesta ricoperta da una pelle animale, secondo la tradizione mitica più consolidata.

Già nel libro avevamo scritto come la coppia Nefertiti-Ekhnaton voleva rappresentare, nella rivisitazione di Frida, una sorta di unicum androgino totipotente composto nella realtà da lei e da Diego. Tuttavia delle vicende convulse di questo periodo storico antico le poche tracce rimanenti sono quasi esclusivamente  legate a Nefertiti, “la bella che viene da lontano” (era infatti di origine siriane) che, contrariamente a Ekhnaton, fu risparmiata dalla successiva iconoclastia, e forse considerata di natura divina (Vandenberg 1975).

Sul senso generale del Mosè si rinvia a quanto scritto nel libro a pp.150-2. Qui ci basta aggiungere che in basso a destra è citata la balia de “La mia balia ed Io”, secondo una pratica di autocitazione evidente in altre opere di Frida, come ad esempio in “Ciò che l’acqua mi ha dato” del 1938, una sorta di antologia  di molti suoi altri quadri, oppure in “Senza speranza” del 1945 nel quale lo stesso agglomerato di carni morte che riempiva la pattumiera metropolitana in “Il mio vestito è appeso là” del 1938, colma l’enorme imbuto dell’alimentazione forzata  di Frida ospedalizzata per anoressia. Le autocitazioni nell’opera di Frida rinforzano l’idea che si tratti nel suo insieme di una sorta di autoanalisi che ripropone formalmente il precetto freudiano “ricordare, ripetere, rielaborare”. La citazione de “La mia balia e Io” nel “Mosè” sembra ribadire che il modo nel quale fu vissuto il suo allattamento va incluso, nel suo pensiero più maturo, nel culto della religione solare: è l’energia che dal disco solare, passando per la ghiandola mammaria della balia india, ha nutrito e allevato Frida, non una singola ed identificabile persona, non una vera madre. Ma, contrariamente a Freud, che fa discendere l’ebraismo dal culto di Atòn, per il tramite di Mosè, Frida sembra invece chiaramente legare la religione del Sole alla potenza generatrice della Natura e della femmina. Nel quadro Mosè, come feto maturo, è contenuto in un utero, le cui tube si protendono verso il mondo, raddoppiato da una noce di cocco aperta in due, mentre il disco solare, se lo si guarda da vicino, è in realtà un ovulo sulla cui superficie navigano minuscoli spermatozoi in cerca di una via di entrata. Sul fondo del fiume una conchiglia ed una chiocciola indicano i due sessi, ribadendo l’identificazione della religione solare con la Libido freudiana. Il Sole è però, per Frida, un simbolo prevalentemente femminile (l’ovulo) e la sua religione, come accadde per Nefertiti, non può che essere officiata da una donna. In un certo senso si può dire che Frida, pur condividendo fondamentalmente la teoria della libido e il pansessualismo di Freud, ne riformula una versione speculare, femminile.



In una serie di ritratti, ma soprattutto nel ritratto fotografico col rebozo (scialle messicano) rosso magenta che le fece Nickolas Muray nel suo studio newyorkese nell’inverno 1938-9 (quando i due avevano anche una relazione), Frida è trasformata in una sorta di Madonna etnica (e seduttiva), mentre nel “Ritratto con la corona di spine”, propone una sorta di amalgama Cristo-Madonna.



ritratto col rebozo rosso
                                                            ritratto con corona di spine



 Anche in riferimento al pantheon cattolico, Frida sembra dunque giocare con l’idea che è prevalentemente una figura femminile a mediare il rapporto col Dio, tuttavia colorandolo libidicamente.

 Il ritratto col rebozo rosso ci consente anche di rivedere il senso di “Due nudi nella foresta”, il quadro apparentemente con il contenuto più esplicitamente saffico della produzione della Kahlo.



                                                                                   Due nudi nella foresta 


 Si tratta di un piccolo quadro, che rinvia un’atmosfera di riconciliazione, di pace e serenità, forse per l’espulsione del perturbante elemento maschile, che forse possiamo ritrovare nel volto di babbuino che spia la coppia dalla oasi lussureggiante in mezzo al deserto. Delle due donne, quella col rebozo rosso, di carnagione più scura, rinvia più o meno esplicitamente a Frida, benchè non ne abbia i tratti; quella con la carnagione più chiara (europea) giace sul suo grembo e viene carezzata, come in un gesto di conforto e rasserenamento. Il quadro, che fu donato all’attrice Dolores del Rio, forse dopo una loro relazione, potrebbe anche rappresentare, come diciamo nel libro, il “Paradiso kahliano”, in quanto luogo di riconciliazione e riunificazione dei doppi di Frida, delle sue due identità di genere, delle sue problematiche di attaccamento e di conflitto materno: come succede in molti altri doppi, come il celebre Los dos Fridas (p.17) o Albero della speranza tieni duro (p. 145), in cui uno dei due ha funzione di soccorrere, tenere in vita, nutrire o guarire l’altro, una parte di Frida sembra cullare e rassicurare la parte più fragile e bisognosa assumendo un ruolo materno verso se stessa.



In definitiva l’intera opera kahliana, nei suoi aspetti più inquietanti, bizzarri, contraddittori, è  esplicitamente un’autoanalisi artistica che può essere compresa, piuttosto che come l’esito di una lotta per la sopravvivenza, il mantenimento o la ricostituzione di un’io scisso in una sorta di sviluppo post-traumatico, come inizialmente avevamo ipotizzato, come un tentativo di ricomporre i seri conflitti esistenti rispetto alla figura materna e, in generale, con il mondo materno e la generazione, dal quale è stata esclusa a causa della propria sterilità. Nella sua vita e nei quadri, che ne raffigurano i momenti essenziali in modo essenziale, fondendo rappresentazioni naturalistiche con l’immaginario inconscio, il conflitto sembra risolto concependo se stessa come una divinità naturale materna (un contenitore affettivo e sessuale) sia rispetto a Diego che ad altre figure maschili e femminili, oltre che ai doppi e alle parti scisse di se stessa.

  
Riferimenti


 Freud S.: L’uomo Mosè e la religione monoteistica: tre saggi (1934-8). In: Opere, Vol. XI, Boringhieri, Torino.

Pagano S.: Freud e Mosè. Dall’identificazione eroica al problema dell’eredità psicoanalitica. Youcanprint 2013.

Trier von L. (regia di) Nymphomaniac, Vol I e Vol II., 2015.

 Vandenberg P.: Nefertiti. Una biografia archeologica. SugarCo Edizioni, Milano, 1975.