27 novembre 2009

"Una carezza un po’ ruvida" di Odino Raffaelli


di Luciano Luciani


Sono sempre più numerosi i nostri concittadini che negli anni della loro più piena maturità decidono, talora per la prima volta nella loro esistenza, di prendere in mano carta e penna per raccontarsi. Per scrivere di sé, della propria storia, delle proprie esperienze ripercorse lungo il filo sottile e fragile della memoria personale. Perché siamo solo ciò che siamo stati, ciò che ricordiamo di essere stati, in un rapporto col passato sempre ambiguo, sempre in bilico tra memoria e oblio… Di una cosa, però, siamo ben consapevoli: nel momento in cui lo ripensiamo, il passato non è più tale. E’ di nuovo presente con la forza delle sue emozioni, dei suoi turbamenti, addirittura delle stesse sensazioni – tattili, olfattive, acustiche, visive – di allora.

Sarà forse, allora, per questo inganno, per questa forma di resistenza, l’unica che ci è consentita, alla morte che ogni anno fanno la loro apparizione centinaia, migliaia di scritti autobiografici, nati dal vissuto di persone comuni, non necessariamente colte o letterate, talora appena sopra la soglia dell’alfabetizzazione. Una consuetudine con la scrittura in via di larga diffusione che ha addirittura dato vita a un nuovo genere letterario, le “storie di vita” che si posizionano felicemente in una particolarissima, originale, feconda “terra di nessuno” tra storia e antropologia, documento umano e letteratura… Storia vivente, storia degli umili: l’unica possibile per quanti sono stati sconfitti dal potere, emarginati da rapporti sociali ineguali e ingiusti, tenuti lontano dalla scrittura e dall’espressività da un’idea dominante di cultura, astratta, bellettristica ed elitaria.

Per questo, a nostro parere, le “storie di vita”, sensibili al quotidiano, agli atti minori degli uomini e al loro spessore concreto, vanno conquistando uno spazio sempre maggiore tra chi scrive e chi legge, mentre gli stessi studiosi tendono a utilizzarle sempre più di frequente nel loro sforzo di organizzare e interpretare il nostro passato, in modo particolare quello prossimo. E’ ormai diffusa la consapevolezza che è lecito e legittimo interpretare una società attraverso la biografia di un solo uomo che “non è mai un individuo, sarebbe meglio chiamarlo un universo singolare: ‘totalizzato’ e allo stesso tempo universalizzato dalla sua epoca, egli la ‘ritotalizza’ riproducendosi in essa come singolarità” (Ferrarotti).

Sollecita queste riflessioni la lettura di Una carezza sui ricordi, bella e densa “storia di vita” di Odino Raffaelli, classe 1931, originario di Vaglie, piccola frazione del Comune di Ligonchio. L’Autore, alla sua prima prova di scrittura autobiografica, nelle sue pagine ha inteso recuperare le memorie dell’Appennino reggiano prima delle trasformazioni indotte dall’industrializzazione e dal boom economico dei primi anni Sessanta, riservando una particolare attenzione al ricordo di antichi mestieri, alle consuetudini dimenticate, ad antiche credenze le cui origini affondano in un tempo ancora più remoto. Senza trascurare il racconto degli anni tormentati dell’occupazione tedesca e della lotta partigiana, rievocati senza enfasi né retorica da un particolarissimo punto di vista: gli occhi curiosi e stupiti di un bambino che, quasi sulle soglie dell’adolescenza, si trova a dover fare i conti con le vicende formidabili e terribili della storia degli uomini, quella con la S maiuscola.
E poi il periodo della ricostruzione e la faticosa conquista di una professione che lo porterà, con compiti di pesante responsabilità, a navigare lungo tutti i mari del mondo…

Tra le intenzioni di Odino Raffaelli, quella di “lasciare ai propri nipoti, e in genere a tutti i giovani, un piccolo cenno di memoria per far conoscere come era la vita nel mondo in cui vissero i loro nonni” (dalla bandella di copertina). Un tempo che a un giovane lettore dei nostri giorni potrà apparire lontano, addirittura remoto, ma che è soltanto ‘l’appena ieri’ di tutti quanti noi.



Odino Raffaelli, Un carezza sui ricordi, Collana “cartacarbone” 10, Daris - Libri e stampe, Lucca 2009, pp. 222, Euro 10,00


21 novembre 2009

Alla tavola di Mariù e Zvanì" di Laura Di Simo


di Liliana di Ponte

Un Giovanni Pascoli in versione più intima e domestica emerge da un libro fresco di stampa, Alla tavola di Mariù e Zvanì. I cibi pascoliani, di Laura Di Simo, che si presenta come una gradevolissima incursione nel mondo raccolto, ma non per questo chiuso, del poeta, negli anni di Castelvecchio di Barga, dove si ritirò a vivere con la sorella Mariù nel 1895, per rimanervi fino alla fine.

Di Giovanni Pascoli è nota la passione per la buona tavola, che per lui era tutt’uno con l’amore per la campagna, per i sapori semplici dell’orto, per i cibi genuini, che gli ricordavano le sue origini e l’infanzia.

Ma uno dei pregi di quest’opera è nell’amalgama, fatta con mano leggera e competenza (come sanno i veri cuochi), tra le diverse anime che in Pascoli convivevano: il letterato colto e raffinato, la persona riservata che sapeva però coltivare lunghe e fedeli amicizie, l’amante della natura, cantata in tanti versi.

Una vita un po’ appartata nella bella casa (ora Casa/Museo) che chiamava “la bicocca”, da cui Pascoli usciva però volentieri, non per incontri mondani ma per mescolarsi con la gente semplice del luogo, per mangiare nella locale osteria “Zì Meo” o per frequentare gli amici lucchesi, con cui s’incontrava al Caffè “Carluccio” in via Fillungo, ritrovo di intellettuali e artisti, di proprietà di Alfredo Caselli. L’amicizia con quest’ultimo fu duratura, coltivata anche tramite un fitto epistolario, in cui spesso si parlava di vino buono, di biscotti e caramelle (Caselli era artista e droghiere), delle pietanze cucinate da Mariù.

Un altro caro amico fu Gabriele Briganti, direttore della Biblioteca Governativa di Lucca, anche lui frequentatore del Caffè Caselli e di molti incontri conviviali, per il quale scrisse una delle più belle liriche, “Il gelsomino notturno”, come imeneo per le sue nozze.

Il cibo, dunque, è una presenza discreta ma costante sia nella quotidianità del poeta che nella sua produzione letteraria, tanto che dai suoi versi spesso si possono ricavare vere e proprie ricette.

Al riguardo, Laura Di Simo rileva, da un’analisi più approfondita dei testi, uno stretto legame tra il gusto della cucina e la ricerca linguistica. Pascoli infatti adotta con naturalezza, nei suoi scritti, i vocaboli contadini – cruschello, cavolo cappuccio, buzzo, gallinelle – e gli attrezzi domestici – stacci, testi, coli, testi, laveggi – di uso comune in cucina. Di conseguenza, dice Di Simo, “Risulta evidente quindi che sia i piatti tipici che gli attrezzi, testimonianze della civiltà contadina di fine ottocento rientrano a pieno titolo in quella poetica delle piccole cose che percorre l’intera produzione pascoliana”.

A conferma di questo intreccio, nel libro compaiono sia le liriche e i testi in cui il poeta parla di pietanze e di prodotti dell’orto, sia vere e proprie ricette dei piatti della tradizione locale, in uso tuttora, ricavate dalle sue stesse pagine o tratte da manuali di cucina, di alto profilo come l’Artusi, o di impianto più domestico.

Alcune immagini d’epoca dei personaggi e dei luoghi citati completano l’opera, che si offre dunque come una bella passeggiata (non a caso è inserita nella collana Appunti di viaggio) tra temi letterari, poesie, ambienti rurali e cittadini, curiosità storiche e, non da ultimo, ricette da mettere subito in pratica, magari per evocare, in casa propria, un po’ di atmosfera pascoliana.



Laura Di Simo, Alla tavola di Mariù e Zvanì. I cibi pascoliani, Lucca, Pacini Fazzi, 2009, pp. 79, € 7,00.


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"Pietre dure a colazione" di Rossana Giorgi Consorti


di Luciano Luciani

Certo, come scrive Charles Dickens, uno che di storie e storiacce se n’intendeva e non poco, “capitano incidenti anche nelle migliori famiglie”. Certo… Però, quello che accade ai Farinelli in quella calda, maledetta estate del 2006 nella loro bella villa, la “Casa inglese”, amenamente posizionata nella Piana lucchese, sembra davvero superare qualsiasi immaginazione: episodi delittuosi, infatti, si susseguono, uno dopo l’altro carico ognuno di una sua crudele efferatezza, di una propria atroce e teatrale barocca malvagità. Né può essere diversamente perché quel clan familiare, tre generazioni di Farinelli concentrati nell’area di un’antica dimora dalle eleganti linee architettoniche, appare percorso da remote rivalità e antichi disamori, odi malcelati e laceranti questioni d’interesse. Non sono i vincoli di sangue a tenere uniti i componenti della famiglia, quanto piuttosto una strana alchimia emotiva fatta di oscure avversioni e indecifrabili livori: una diffusa malevolenza che intride perfino le mura, le fondamenta stesse della residenza signorile.

Su tutto e tutti incombe l’ombra del misterioso zio Orazio ( è vivo? E’ morto? Era un santo o un personaggio totalmente negativo?), vero protagonista dei crudeli delitti che sconvolgono la routine estiva di una famiglia magari male assortita ma di sicuro appartenente al rango privilegiato della buona borghesia provinciale. E’, forse, il caso più difficile da sbrogliare nella lunga carriera del commissario della Questura di Lucca Antonio Spaino che, fresco sposo, non ha proprio nessuna voglia di cimentarsi con le zone buie dell’animo umano in generale e con le complicatezze, passate e presenti, dei Farinelli in particolare. E sarà dura, davvero dura per il povero commissario affetto per la prima volta nella sua vita, proprio lui scapolo convinto, dal terribile bacillus maritalis che tante e illustri vittime ha sempre seminato in giro… Toccherà a lui, ancora una volta, di fronte agli impazzimenti del cuore umano ricondurre a ragione il magma delle pulsioni che agita gli abitanti della bella villa in stile inglese. Lo aiuterà nel suo difficile compito il solito mix: un po’ di fortuna, eccellenti doti di intuizione, un’acutezza psicologica non comune nel condurre gli interrogatori ricavandone informazioni importanti tanto dalle parole dette quanto da quelle taciute. Insomma, ancora una volta, il metodo induttivo/deduttivo inaugurato un po’ più di un secolo fa dal caro, vecchio Sherlock Holmes… E, come si conviene, al termine delle pagine che seguono, ristabilito l’ordine violato dal crimine, rassicurati e consolati i lettori, l’ormai semisecolare Spaino potrà tornarsene al calore dell’alcova, alla sposa e a trepidare in attesa di un erede.

Dopo aver incrociato le sue armi (pacifiche, per carità, quelle della fantasia narrativa, ma comunque affilate e taglienti lo stesso) con la Nobiltà e il Clero lucchesi, senza trascurare il racconto delle complesse dinamiche dell’odio all’interno del prestigioso liceo classico “N. Machiavelli”, una delle strutture portanti del senso di sé della comunità che vive dentro e a ridosso della Mura, al suo quarto romanzo poliziesco Rossana Giorgi Consorti ci svela gli anfratti del ‘cuore nero’ di una famiglia ‘bene’ della città toscana e dei suoi dintorni. A districarsi nel complicato viluppo dei pericolosi legami familiari l’aiuta una scrittura limpida e venata d’ironia quanto basta a riscattare l’altrimenti cupa e torbida atmosfera fitta di violenze e di morte. Senza trascurare lo sguardo lucido e disincantato dimostrato dall’Autrice nell’evidenziare al giusto grado di visibilità le angustie morali e le miserie umane di un vissuto provinciale intossicato da ogni genere di grettezza e ottusità.

Sono queste - sembra dirci la scrittrice lucchese - sono ancora queste le vere responsabili dello smarrimento diffuso e dello sgomento che attanaglia, anche ai nostri giorni, le menti e i cuori. Unico antidoto non tanto la riaffermazione del valore di un’istituzione, quella familiare, ormai ridotta a un guscio vuoto o quasi, quanto piuttosto l’educazione a una consapevole pratica dei sentimenti. Per esempio, l’amore. Anche quello coniugale, come accade tra Spaino e Isa e con cui delicatamente, teneramente si chiude il romanzo.



Rossana Giorgi Consorti. Pietre dure a colazione. Collana Via lattea MPF 2009.

Pietre dure a colazione, , l’ultimo romanzo di Rossana Giorgi Consorti sarà presentato a Lucca, domenica 6 dicembre, alle ore 16,00, presso la Sala Tobino di Palazzo Ducale.
Interventi di Stefano Baccelli, Giorgio Marchetti e Luciano Luciani.
Sarà presente l’Autrice.

13 novembre 2009

"La Manifattura Tabacchi di Lucca: una fabbrica, una storia" di Paolo Folcarelli


di Luciano Luciani

Questo lavoro di Paolo Folcarelli, La Manifattura Tabacchi di Lucca: una fabbrica, una storia, si raccomanda per almeno quattro motivi:

perché è il lavoro più organico e completo esistente sulla secolare vicenda della Manifattura lucchese;

per il metodo scientifico che sovraintende a quest’opera, fondato su documenti la cui ricerca ha portato l’Autore tra le filze dell’Archivio di Stato di Lucca, tra i cataloghi delle Biblioteca Statale di Lucca e della Marucelliana di Firenze e quelli del Ministero dell’Agricoltura a Roma. Lavoro d’archivio, dunque, dietro questa pubblicazione, tanta pazienza, passione e ‘olio di gomito’ da storico vecchia maniera;

l’Autore non ha poi trascurato le fonti orali, almeno come indicazione di lavoro nelle ultime pagine del suo libro; per esempio, le belle, umanissime testimonianze di due anziane sigaraie del Compitese, che all’oggettività un po’ fredda dei documenti hanno aggiunto il calore e il colore delle ‘storie di vita’, il sentimento proprio di una lunga vicenda personale oltre che professionale

e qui si introduce il quarto dato che fa di questa pubblicazione un unicum: il forte senso di appartenenza che trapela da gran parte delle pagine del libro. Questa caratteristica la indico per ultima, ma non è tale per l’importanza e il peso che acquista nella narrazione l’attenzione riservata all’aspetto umano e sociale della secolare vicenda della Manifattura Tabacchi di Lucca e a ciò che questa azienda ha significato e ancora significa per la città, nel senso comune e nella plurisecolare percezione dei suoi abitanti.

L’originale, denso lavoro di Folcarelli si dipana lungo tre direttrici distinte ma complementari: la storia del tabacco; la storia degli immobili, degli ambienti in cui a Lucca fu lavorato; le vicende umane, sociali, sindacali dei lavoratori delle maestranze della Manifattura.

Di grande interesse le pagine relative alle prime testimonianze sul tabacco, i suoi usi e i significati antropologico/religiosi ad esso connessi. La pianta, come è noto, era usata sia nelle cerimonie religiose dei popoli indigeni americani, sia come droga medicinale per stimolare il sonno o come impiastro per curare infiammazioni e contusioni. L’uso di fumare il tabacco si trasferì dalla sfera esclusivamente religiosa allo stadio di occupazione fine a se stessa. Naturalmente i primi a contrarre questa abitudine furono proprio i sacerdoti, così che il nuovo “vizio” rimase per un certo periodo un piacere riservato alla loro casta, anche perché il tabacco era considerato un’erba sacra. Gradualmente, però, tale usanza finì per estendersi a persone estranee alla cerchia religiosa, si ‘laicizzò’, passando ai rappresentanti di rango e censo più elevati tra la popolazione, e poi, piano piano, a tutti.

Cortez vide usare la Nicotiana tabacum nell’isola di Tabasco e già nel 1518 il feroce conquistatore la inviava all’imperatore Carlo V: alla metà del XVI secolo Fernandez de Toledo ne introdusse la coltivazione in Spagna e Portogallo e l’ambasciatore francese in Portogallo, Giovanni Nicot, faceva dono di alcuni campioni della pianta a Caterina de’ Medici, regina di Francia che ne divenne un’entusiasta consumatrice e propagandista. La regina, infatti, soggetta a violente e frequenti emicranie trovava un immediato sollievo nel fiutare tabacco e la corte, ovviamente, la imitò: un comportamento che divenne segno di distinzione per cui il tabacco fu denominato l’Erba della Regina.

In Italia la introdusse a Roma il cardinale Santa Croce, legato papale e Lisbona; a Firenze Niccolò Tornabuoni nel 1570, per cui il tabacco assunse ancora un altro nome: erba tornabuona.

Ecco, dunque, che il tabacco si avvicina a Lucca, città con cui avrebbe dovuto stringere una secolare alleanza che, tra alti e bassi, dura proficuamente ancora oggi. Anche se, come scrive nella seconda metà dell’Ottocento Salvatore Bongi, direttore e illustre archivista dell’Archivio di Stato lucchese, “sarebbe impossibile ritrovare notizie precise del tempo e del modo con cui l’uso di fiutare e fumare il tabacco dell’America… si introdusse nel territorio che già fu dell’Antica Repubblica Lucchese”. E risale al 5 gennaio 1649 una relazione dell’Ufficio delle Entrate con cui si indicava la possibilità di ‘fare provento’ dei nuovi generi di consumo, in particolare del tabacco. Il compratore di ‘esso provento’ (che per la prima volta si concedette senza incanto) fu il milanese Silvestro di Bernardo Marselli, il quale si impegnò a pagare 140 scudi lucchesi a patto di “poter, lui solo, nella città e Stato di Lucca vender tabacco o farlo vendere a chi più gli piaccia. Obbligandosi però a dare sempre tabacco vero, buono e mercantile, senza inganno o frode al prezzo di bolognini 15 la libbra.”

Sono anni difficili quelli centrali del secolo XVII, anni di fame e disperazione in molte parti d’Europa e d’Italia. E’ appena terminata la Guerra dei Trent’anni e Lucca non fa eccezione: la repubblica si trova a vivere uno dei periodi più difficili della sua storia e anche la peraltro modesta entrata rappresentata da questa prima “privatizzazione” tornò probabilmente di grande utilità. Insomma, la storia di una relazione forte e duratura, quella tra la città e l’industria del tabacco, uno dei regali della prima globalizzazione della storia dell’umanità, prese l’avvio in tempi di grave crisi economica e sociale, riuscì a superarla e forse proprio per questo tale rapporto si consolidò e rafforzò. E mentre le industrie tradizionali declinavano, per esempio quella della seta, la manifattura e la commercializzazione del tabacco resistettero e si ampliarono: al punto che alla fine del ‘700 la Repubblica la avocò a sé, scegliendo la gestione pubblica affidata a un organismo, la ‘Deputazione sul tabacco’ la cui direzione fu affidata a 9 cittadini, 6 estratti a sorte e tre eletti in base alle proprie capacità: obiettivo assicurare al governo un rientro economico di almeno 8000 scudi.

Mentre l’autore continua a dipanare le trasformazioni che avvengono nell’assetto proprietario dell’azienda (la II e la III privatizzazione che precedono il Monopolio del 1869 affidato a una società anonima e la gestione diretta del Monopolio ripresa dal Governo nel 1883), le pagine più interessanti del libro, quelle capaci di illuminare di una luce nuova la storia della città, sono quelle che raccontano i diversi siti della fabbrica, le condizioni e l’ubicazione dei locali, le loro modifiche nel tempo: avvenimenti spesso complicati come sono sempre le cose degli uomini.

Folcarelli ci descrive puntualmente i vecchi metodi e l’organizzazione del lavoro, arricchiti da precise osservazioni demografiche e sociali sul lavoro a Lucca nel XIX secolo. Un periodo in cui cresce l’importanza della Manifattura Tabacchi nel contesto dell’economia lucchese dell’Ottocento, e peggiorano invece le condizioni materiali, salariali, di lavoro e di vita dei suoi addetti, in grande maggioranza donne.

Si creano così le condizioni per uno scontro sociale che caratterizzerà tutto il primo quindicennio del XX secolo. E’ nel 1909 che giungono al pettine i nodi e le contraddizioni accumulatisi negli anni precedenti e mai risolti. Il casus belli fu rappresentato dall’imposizione da parte della direzione di un’ora di straordinario a tutte le “sigariste”, e così per tutto il mese di marzo di quell’anno gli scioperi si susseguirono alle serrate. Uno scontro duro, per la cui composizione intervennero il prefetto e il sindaco. Uno stato di sofferenza, di disagio nel sistema delle relazioni interne alla manifattura che doveva culminare nell’episodio più acuto dello scontro sociale: lo sciopero generale della tarda primavera 1914, concluso con una netta sconfitta dei lavoratori che non riuscirono a creare la necessaria simpatia e la solidarietà dell’opinione pubblica lucchese attorno alle loro rivendicazioni.

Poi la Grande Guerra, gli anni del fascismo, la liberazione della città nel settembre 1944 che trova “la Manifattura, unico stabilimento della zona intatta nei suoi edifici, nelle sue macchine, nei suoi impianti, nelle sue attrezzature con scorte di tabacchi, con quasi intatte le scorte di materiali e articoli vari, in grado di riprendere immediatamente il lavoro normale”. Un merito non piccolo della direzione e delle maestranze.

Il resto è storia recente: la discussione sulla ubicazione della fabbrica fuori o dentro le Mura; l’individuazione della nuova sede a Mugnano, alla periferia di Lucca, l’inizio dei lavori, la loro conclusione. Contemporaneamente avviene l’ennesima privatizzazione, con il passaggio delle attività produttive e commerciali all’ETI (Ente Tabacchi Italiani) e, alla fine del 2000, l’acquisto dell’ETI da parte della multinazionale angloamericana, la BAT (British American Tabacco) Italia. Ancora più recente la dismissione della ‘Divisione sigari’, affidata dal 2006 al gruppo Maccaferri – Eridania che attualmente opera negli stabilimenti di Lucca, Cava de’ Tirreni (Sa) e Foiano della Chiana (Ar).

Paolo Folcarelli, La manifattura Tabacchi di Lucca; una fabbrica, una storia, pp. 128, Euro 15,00


Il libro di Paolo Folcarelli, La Manifattura Tabacchi di Lucca: una fabbrica, una storia, si può richiedere al “Club Amici del Toscano”, telefonando al numero verde 800 853 335

11 novembre 2009

"Una poesia di Virginio Bertini" di Gianni Quilici

foto di Gianni Quilici


Istigazione al suicidio

Brevi in cronaca:
ventisei anni
identificato
l'immigrato
morto.
Un mattino d'inverno
freddo
come il marmo bianco di S. Michele
profumato di caffè e croissant
appena sfornati
il cliente della caffetteria centrale
allarga le braccia
leggendo il giornale
" vanno fuori di testa
non è colpa nostra nostra non è ".
Caffè e croissant
silenzio compresso
passione nessuna
sole nascosto
residuo di luna
indifferenza sofferenza
estraneità male sociale
caffè e croissant …….
Due volte schiacciato
sull'asfalto cercato
come ultima dimora
Ahmed Echchari
giovane clandestino
sfruttato
al nero
il tempo consumato
che gli era stato dato
istigato
al suicidio
Caffè e croissant
silenzio compresso
passione nessuna
sole nascosto
residuo di luna……
A ridosso delle antiche mura
nelle celle basse senza finestre
dove la notte fa paura
nel capannone abbandonato
giovane marocchino asfissiato …..
" si ubriacano non è colpa nostra nostra non è "…….
Tecnico informatico
permesso di soggiorno regolare
un futuro da inventare
Adil cittadino del nostro mare
con grave colpa terribile dolo
essere solo.
Caffè e croissant
silenzio compresso
passione nessuna
sole nascosto
residuo di luna….


E' un articolo, è una poesia, è una canzone.

Da leggere, da recitare, da musicare, da cantare, da meditare.

Si pensa a Ungaretti e a Garcia Lorca, al rap e a Brecht forse anche a Primo Levi.

Ci sono tre protagonisti: lo sfruttamento, il dolore, la solitudine dell'immigrato; l'indifferenza e l'autoindulgenza dell'uomo da bar; la voce altra, il poeta, che, semplicemente rappresentando, giudica e nello stesso tempo suggerisce un mondo (presente) possibile (“sole nascosto/residuo di luna”).

C'è un ritmo nei versi brevissimi che diventa narrazione, storia, musica, palpitazione, senso dell'esistenza... correndo lungo un contrasto: due mondi (il capannone abbandonato e il profumo dei caffè e dei croissant appena sfornati caldi e profumati), l'indifferenza e il grido, la responsabilità e l'accusa. Bellissima poesia civile.

Chi è Virginio Bertini?
E' stato leader degli studenti nel 68, sindacalista della FIOM a Mirafiori, ricercatore presso l'Ires Toscana, oggi dirigente della Cgil lucchese.
Ha pubblicato un libro di poesie, introdotto da Marco Revelli, Fraternità, edizioni ETS, ed è uno degli autori de “Il corpo e l'anima”, edizioni ETS, con un bellissimo diario, che racconta una lotta dura, lunga, che assume la forma originale del digiuno contro il provvedimento, assolutamente ingiustificato, di espulsione di un marocchino, da decenni presente nella nostra città.
Ed è un diario, che servirebbe leggere per capire cosa vuol dire “essere di sinistra oggi”.

da "Arcipelago" periodo dell'Arci di Lucca

"Igor Stravinskij dall’Uccello di fuoco all’Histoire du soldat"


di Luciano Luciani

Pietroburgo, 1908: Sergej Diaghilev, collezionista d’arte e organizzatore di concerti di risonanza europea, ha modo di ascoltare le composizioni di un allievo di Rimskij-Korsakov, autorevole interprete musicale dell’anima profonda del popolo russo. Il giovane musicista, appena ventisettenne, si chiama Igor Stravinskij e impressiona a tal punto Diaghilev che gli commissiona un lavoro di grande impegno e a cui tiene molto: la partitura dell’Uccello di fuoco.

Due anni più tardi, nel 1910, la compagnia dei Balletti russi lo rappresenterà a Parigi, ottenendo un successo tale che il nome di Stravinskij diventa immediatamente celebre in Francia e in Europa. Raramente nella storia della musica del nostro tempo, un capolavoro tanto compiuto, tanto perfetto era nato dalla fantasia creatrice di un autore così giovane.

Nell’Uccello di fuoco, musica danza, libretto e scenografia si fondono in maniera esemplare in un racconto coreografico che è uno “spettacolo totale”, merito tanto di Stravinskij quanto di Diaghilev che riuscirono a trasmettere ad un pubblico ampio, assai più largo dei soliti addetti ai lavori, le forme d’arte più avanzate del loro tempo.

Dietro questa straordinaria rappresentazione e il suo successo, anche popolare, ci sono tutte le trasformazioni intervenute da almeno mezzo secolo nella società, nella cultura, nella mentalità dell’uomo europeo. Sono quelli gli anni formidabili e contraddittori della cosiddetta “belle epoque”: se progressi tecnici impensabili fino a pochi anni prima (il telegrafo senza fili, l’automobile, l’aereo, il cinema…) stanno avvicinando gli uomini, le sempre più acute tensioni politico/diplomatiche mettono i popoli gli uni contro gli altri armati, fino a sfociare nell’immane macello della Grande Guerra; se eccezionali progressi scientifici sembrano offrire a vaste masse la speranza di una vita più degna, le ingiustizie sociali, mai così diffuse e percepite come tali, con il loro corollario di scioperi, violenze, rivolte, rendono fragile, incero, precario il senso dell’esistenza.

Tradizione e novità, conservazione e avanguardia si scontrano con inusitata durezza in tutti i campi dello scibile e dell’esperienza umana: dalla politica alla letteratura, dalle arti figurative alla musica.

In questa fase della propria vita artistica Stravinskij – un piccolo musicista russo triste, freddo, diligente che affascinava il mondo musicale, “un giovane selvaggio che porta cravatte chiassose, bacia la mano alle signore pestando loro i piedi (Debussy) – si muove sulla lunghezza d’onda della novità e dell’avanguardia che avevano fatto di Parigi, la capitale culturale del pianeta.

Dopo L’uccello di fuoco, i balletti Petrouschka, Parigi, 1911 e ancor più La sagra della primavera, Parigi, 1913 sottolineano lo “scandalo” costituito allora dalla musica di Stravinskij, che, continuando a mantenere legami forti con l’esperienza etnica propria del folklore musicale russo si apriva decisamente alle novità: il ritmo scatenato e l’incisività della frase musicale si intrecciano con i blocchi sonori ripetuti in maniera ossessiva; la violenza politonale, ovvero l’impiego simultaneo o di melodie o di armonie che appartengono a tonalità diverse, e lo spiegamento dei mezzi orchestrali colpirono quasi brutalmente pubblico e critica, francesi ed europei e sancirono la fama e il successo internazionale del compositore russo.

Una musica rivoluzionaria, la sua. Pochi anni più tardi, nel 1918, con l’Histoire du soldat, su testo dello scrittore Charles-Ferdinand Ramuz, ancora una provocazione. Abbandonata la grande orchestra, ridotto all’essenziale l’organico strumentale, ai caratteri propri dell’esperienza maturata fino a quel momento Stravinskij aggiunge un’ulteriore sfida: la contaminazione con la musica da cabaret; col tango, appena arrivato in Europa dall’Argentina e considerato un ballo equivoco e immorale; col ragtime, musica popolare pianistica, anello di congiunzione tra canti popolari e blues da una parte e jazz dall’altra, allora ancora per molti “musica da negri” e quindi inferiore e primitiva; con l’operetta, nei cui confronti non pochi critici conservatori storcevano il naso considerandola nient’altro che musica triviale.
Rappresentata a Losanna pochi mesi dopo la fine della prima guerra mondiale e mentre sulla coscienza europea pesa ancora quel terribile carico di lutti e distruzioni, l’Histoire du soldat, fin dalla sua ispirazione, ribadisce i diritti della fantasia e dell’immaginazione sulla desolazione indotta dal più terribile conflitto di tutti i tempi.

“La musica” scrive Stravinskij mi si è qualche volta presentata in sogno (…) Fu durante la composizione dell’Histoire du soldat, e fui sorpreso e felice del risultato. Non solo la musica mi apparve, ma anche la persona che la suonava era presente nel sogno. Una giovane zingara seduta sul ciglio della strada. Aveva in grembo un bambino e per intrattenerlo suonava il violino (…). Il bambino era molto entusiasta di quella musica e l’applaudiva con le manine”.

Riaffermazione dei diritti del sogno e della fantasia come spazio assolutamente umano in quest’opera, ma non certo speranze in una liberazione definitiva: nella storia fiabesca di un soldato che, tornando dalla guerra in un luogo sconosciuto e in tempo indefinito, scambia col diavolo il suo vecchio, malandato e amatissimo violino per un libro magico e onnipotente che non gli darà la felicità ma lo condurrà alla rovina, precipitandolo nel regno delle tenebre, c’è già il presagio delle tragedie a venire, ancor più immense e terribili di quelle appena trascorse.
Forse mai, come nell’Histoire du soldat, Stravinskij è riuscito a rivelare la sua urgenza poetica con tanta sapienza e lucidità: infatti, se l’uso di materiali contaminati (ragtime, tango, marcia, valzer…) e la tecnica della parodia anticipano di almeno un secolo quella che sarà la cifra evolutiva non solo della musica ma di tutti i linguaggi di comunicazione, le sue esigenze esistenziali lo collocano, insieme a tutti noi, sul fragile balcone del nostro XXI secolo.

"La prima “Miss” veniva da Trastevere" di Luciano Luciani




Calda l’estate romana del 1911 e non solo per motivi metereologici. Le manifestazioni per il cinquantenario dell’unità d’Italia affaticavano non poco i cittadini della capitale: dalla primavera era stato tutto un susseguirsi di visite, cerimonie, celebrazioni discorsi nei quali si vantavano le glorie passate e future dell’Italia unita e di Roma capitale.
Il comitato che sovrintendeva ai festeggiamenti aveva preparato iniziative piuttosto impegnative: una mostra d’arte moderna a Valle Giulia con decine di stand d’arte internazionale e di folklore regionale; l’ apertura del museo del medioevo a Castel Sant’Angelo e quello romano alle Terme di Diocleziano. Il 27 marzo il sovrano Vittorio Emanuele III aveva presieduto una solenne riunione in Campidoglio e il 4 giugno, alla presenza di tutti i sindaci italiani, era stato inaugurato l’Altare della Patria, l’imponente monumento a Vittorio Emanuele II dell’architetto Giuseppe Sacconi che tante polemiche aveva suscitato nel corso della sua lunghissima realizzazione, durata oltre un quarto di secolo. A settembre, sul Gianicolo, si accendeva per la prima volta il Faro, offerto a Roma dagli italiani residenti in Argentina. Il sindaco di Roma, Nathan, il primo ad essere sostenuto da una maggioranza laica e di sinistra, nei suoi discorsi sottolineava ottimisticamente l’avvento dell’”Italia del popolo” e della “terza Roma”. C’era un forte, ribadito richiamo alle idealità mazziniane, ma per lo storico Alberto Caracciolo tutto quel fervore stava a significare “solo la rassegna orgogliosa e forse un po’ pacchiana di un’Italia liberale che sta vivendo gli ultimi tempi del suo progresso e del suo vigore”.

Intanto, sullo sfondo si affrettavano i preparativi per la spedizione di Libia, sostenuta da un forte sforzo propagandistico della stampa favorevole al governo Giolitti che era riuscito anche ad ottenere l’appoggio dei socialisti. L’attenzione dell’opinione pubblica della capitale, però, sembrava essere in altre faccende affaccendata…faccende un po’ frivole, se si vuole, ma capaci di infiammare gli uomini e le donne, i genitori e i figli, i giovani e i meno giovani: come succede spesso per le questioni di costume, quando vengono chiamati in causa il pubblico e il privato, il decoro e la bellezza, le piccole e le grandi vanità e gli interessi di bottega.

Ma cosa era successo per turbare nel profondo le sonnolente, canicolari giornate agostane dei romani?
Robetta, a leggerla con gli occhiali dell’oggi. L’esplosione di una bomba nell’Italietta di novant’anni fa.

Il Sindacato Cronisti aveva indetto il primo concorso per la proclamazione della “Regina di Roma”, invitando tutte le più avvenenti ragazze romane a prendervi parte.
Il risultato più immediato fu che nel giro di nemmeno ventiquattrore un brivido di indignazione e di sdegno percorse la città. Partiva dai settori conservatori della capitale, inorriditi per un simile scandalo, ed arrivava a lambire anche altre, impensate aree politico-culturali.
I parroci furono i primi a schierarsi contro l’iniziativa. Dai pulpiti di tutte le chiese romane si tuonò contro l’iniziativa: alle fedeli venne addirittura vietato di leggere il regolamento del concorso! Poi insorsero le varie associazioni per la tutela della morale e dei buoni costumi delle fanciulle. Anche le femministe dalle colonne del loro “Giornale della donna” non mancarono di scagliarsi contro la manifestazione, pubblicando un violentissimo editoriale dovuto alla penna della direttrice Teresa Salvatori. Problemi pure a sinistra: l’Unione socialista romana e i repubblicani proibirono ai propri iscritti, pena l’espulsione, di partecipare al concorso sia in veste di giurati, sia come componenti del comitato d’onore: anzi, li impegnarono ad impedire la partecipazione delle loro congiunte in qualità di concorrenti.. I consiglieri comunali socialisti e repubblicani, che in un primo tempo avevano aderito in blocco all’iniziativa si divisero in due gruppi: quelli che continuarono ad esprimere un giudizio favorevole e quanti, per disciplina di partito, divennero contrari. Paglierini, Susi, il socialista riformista Romolo Sabatini, il radicale Ettore Ferrari, Campolonghi e molti altri furono costretti a dimettersi. Una vera e propria tempesta politica!
Il comunicato dei socialisti parlava chiaro: “L’Unione socialista romana considera che i socialisti devono tutelare non solo gli interessi economici, ma anche gli interessi morali delle classi popolari. Devono opporsi all’uso di bevande alcoliche ed all’affollamento nelle osterie, all’analfabetismo, all’irascibilità di certi operai i quali maltrattano le proprie mogli, le madri e battono i figli. Agli occhi dei socialisti la proclamazione della “regina di Roma” e delle “principesse dei rioni” è una manifestazione che turba le ragazze concorrenti e desta il sentimento di vanità”.
Non pochi criticarono con asprezza che la fotografia di una donna onesta potesse apparire sulle pagine di un giornale e per tale motivo molte concorrenti subordinarono la propria partecipazione all’ impegno da parte del comitato organizzatore di non pubblicare alcuna fotografia. Molte ragazze che lavoravano negli uffici, nei negozi, nelle fabbriche temettero che la loro adesione al concorso potesse costare loro il posto e non vollero accettare di prendervi parte. Numerosissimi fidanzati, preoccupati per la tutela della dignità delle future spose, negarono in maniera drastica il loro consenso.

Il primo concorso di bellezza nella storia dell’Italia unita rischiava di fallire appena alle prime battute.
Ma i commercianti romani avevano fiutato l’affare e iniziarono una poderosa controffensiva: capillarmente costituirono in ogni rione un comitato organizzatore e si sforzarono di trovare alleati importanti. Così ai commercianti si unirono ben presto artisti di fama quali Trilussa, Pardo, Sartorio, Ballester, Cozza, Pizzirani, molti deputati e quasi tutto il patriziato romano, cui non pareva vero di schierarsi in favore del concorso dopo che socialisti e repubblicani si erano dichiarati contrari.

Dappertutto si ebbero iniziative pro e contro il concorso di bellezza. Il comitato organizzatore stabilì un premio di trecento lire per ogni Principessa rionale e di altre cinquecento per quelle tra le elette che si fossero sposate entro l’anno. La rivista “Gran Mondo” pubblicò un numero monografico per celebrare l’avvenimento. L’Associazione studenti universitari mise a disposizione la propria sede. Il pittore Attilio Invernizzi mandò da Milano un suo quadro con la promessa di eseguire il ritratto alla più bella. Anche la resistenza alla manifestazione però segnava dei punti in suo favore: nel rione Monti-Esquilino nascevano comitati “antiregina di Roma” e le femministe dal loro giornale continuavano a ribadire che “ le donne debbono provvedere a se stesse col loro lavoro e non col ridicolo fasto di un’effimera regalità”.
Ormai però la macchina organizzativa si era messa in moto e i comitati lavoravano con grande impegno sostenuti da un sempre maggiore consenso popolare. Dai primi giorni di settembre iniziarono le nomine rionali accompagnate, come sempre succede in questi casi, da polemiche e contestazioni.

Il regolamento stabiliva che l’età delle ragazze dovesse essere compresa tra i diciassette e i venticinque anni e, cosa particolarmente interessante, escludeva senza possibilità di appello tutte quelle concorrenti che “potessero impressionare per lo sguardo civettuolo e per il corpo dai movimenti di flessuosità esagerate”.
Elvira Speranzani fu esclusa dal concorso perché di professione canzonettista, mentre Lidia Durante “Principessa” dell’Esquilino fu costretta a dimettersi perché risultò essere nata a Castelgandolfo. Il giorno della premiazione Amalia Gasperelli di Testaccio, appartenente quindi al rione Ripa, appena eletta “Principessa” si dimise perché “figlia del popolo” in ossequio alle disposizioni impartite dal partito repubblicano, cui la famiglia delle bella Amalia apparteneva.

La prima “Principessa” eletta fu Cesira Fanella di Borgo Prati, a cui seguirono Palmira Ceccani, entusiasticamente acclamata a Trastevere al termine di un banchetto di oltre duemila persone, Idia Bastianelli che rappresentava le bellezze femminili del rione Monti, Fernanda Battiferri cui toccò l’onore di difendere il rione Colonna, Italia Bacchetti per Campo Marzio, Giovannina Bucciarelli di Parione, Giulia Benni di Ponte, Giovanna Refiser del rione Regola, Aurelia Repetti di Sant’Eustachio, Ida Bruni di Pigna, Irene Bisonti per Campitelli, Silvia Jechert per il rione Sant’Angelo, Adelina Mercuri, “Principessa” di Trevi... Tra loro si contavano sei casalinghe, cinque sarte, una magazziniera, una supplente postale, una studentessa…

Feste a non finire accompagnarono le nomination: illuminazioni speciali di vetrine e negozi, fuochi d’artificio, concertini, fiaccolate, serate letterarie, saggi ginnici, addobbi di balconi: una grande novità fu rappresentata dagli spettacoli cinematografici.
Sui giornali apparvero timidamente le prime fotografie: i volti sorridenti delle ragazze, la serietà e l’impegno con cui la manifestazione si svolgeva, le personalità che vi avevano aderito, la ricchezza dei premi in palio avevano molto contribuito a diradare le preoccupazioni iniziali e a ridimensionare la severità dei giudizi e dei veti che avevano accompagnato la fase aurorale della manifestazione.

Non mancò, però, la tragedia che offuscò per alcuni giorni quel clima di festa e di entusiasmo collettivi. Bianca Monti, damigella d’onore della “Principessa di Castro Pretorio”, rimproverata duramente dal fratello ufficiale dei bersaglieri si tolse la vita poche ore dopo la sua affermazione perché non sopportava, come scrisse il “Giornale d’Italia” del 14 settembre, “le acerbe censure della famiglia”.
Il lutto non arrestò il corso dei festeggiamenti. Tutte le “Principesse” erano ormai state elette e lo spettacolo doveva andare avanti. Gli “ambasciatori” delle “Principesse”, riuniti al teatro Costanzi avevano ufficializzato le nomine: era tra queste campionesse della bellezza che bisognava individuare una “Regina”, la cui elezione ebbe luogo, in pompa magna, il giorno 20 settembre al termine di un corteo trionfale in cui il cattivo gusto si mescolava ad improprie memorie storiche.
Apriva la sfilata il “Senatore di Roma” che indossava il tradizionale costume color porpora. Lo circondavano tredici “Caporioni cittadini”, vestiti con ricchi abiti secenteschi. Quindi i lancieri che precedevano diciotto berline di gala infiorate in cui prendevano posto le diciotto “Principesse”, ognuna fiancheggiata da due damigelle d’onore. Le scortavano i “Gentiluomini” della loro corte armati di spada e di alabarda e chiudeva il corteo il gruppo dei “Fedeli” in abiti di panno giallo e vermiglio, mantello rosso e tocco. Trombettieri in alta uniforme fiancheggiavano il corteo.
Tutte le concorrenti indossavano una tunica romana per mettere popolane e signore sullo stesso piano.
Furono necessari parecchi giorni per fare lo spoglio delle schede e la proclamazione ufficiale avvenne nel corso di una gran kermesse, che ebbe luogo il 1 ottobre all’albergo Excelsior, dopo la ratifica delle elezioni stesse da parte di una commissione formata dai più noti artisti presenti nella capitale.
“Regina di Roma” venne eletta Palmira Ceccani di Trastevere con 4326 voti, seguita nell’ordine da Cesira Fanella di Borgo Prati con 2398 e Ida Battistelli dei Monti con 2326.

La Ceccani aveva 17 anni e qualche mese dopo, convolando intelligentemente a giuste nozze, vinceva anche il premio di cinquecento lire del Sindacato Cronisti.
Pochi giorni prima, il 27 settembre, il governo italiano aveva inviato un ultimatum alla Turchia, intimandole di cedere la Tripolitania e la Cirenaica. Il 29, senza neppure attendere la risposta, dichiara la guerra. Lo sciopero proclamato dalla Confederazione Generale del Lavoro contro questa involuzione imperialistica della politica italiana, male organizzato, ottenne adesioni significative solo in alcune zone del Paese, minori o nulle in altre: troppo poco per bloccare la macchina bellica.
Anche in questo caso lo spettacolo doveva andare avanti.

08 novembre 2009

"L’arte di correre" di Haruki Murakami


di Gianni Quilici

“L'arte di correre” è, negli infiniti modi che un libro può essere, una narrazione autobiografica, che si concentra su una passione ( e parzialmente su due) così vorace da divenire un tratto imprevedibile per chi conosce i suoi romanzi, ma profonda dell'identità dello scrittore stesso, il giapponese Haruki Murakami.
La passione è, come lascia presagire il titolo, la corsa, ma questo libro è da consigliare, oltre a chi ama correre, a chi ama qualsiasi sport o anche a chi ha semplicemente delle passioni.

E' un libro che contiene una spiccata valenza etico-didattica, tanto più evidente e significativa oggi, nella società della frammentazione e delle apparenze, del sovraccarico di immagini e del frastuono.

“L'arte di correre” rappresenta, infatti, in modo analitico, il processo attraverso cui si progettano le proprie intenzioni, le proprie passioni. E quindi la fatica della concentrazione, la pazienza della costanza, l'irriducibilità verso l'obiettivo proposto.
Non attraverso il saggio, ma in una narrazione che questa passione scolpisce, ti fa vivere, te la comunica.

E' quindi soprattutto letteratura, a volte grande letteratura, laddove Murakami semplicemente racconta: per esempio l'ultramaratona di 100 km, percorsa in 11 ore, e la maratona classica, che, da solo, lo scrittore corre, da Atene a Maratona tra il traffico prima ed il calore devastante poi dell'estate. Qui la scrittura tocca le corde dell'esaurimento fisico: una lotta non solo fisica, ma anche e soprattutto psichica. Quando il corpo è stremato, spossessato l'unica risorsa diventa quella mentale, una volontà prodigiosa, che accumula tutte le risorse rimaste. Nella maratona dei cento Km Murakami, infatti, tiene duro con un unico pensiero in testa: “Non sono una persona, sono una pura e semplice macchina. E visto che sono una macchina, non ho bisogno di sentire proprio nulla. Devo solo andare avanti”.
Sulla corsa, invece, verso Maratona scrive:” Per quanto beva, dopo un attimo ho di nuovo sete. Ah, quanto vorrei una bella birra ghiacciata! Basta, basta pensare alla birra. E farei anche meglio a evitare di pensare al sole. E al vento. E all'articolo che devo scrivere. Mi devo concentrare soltanto sull'azione di mettere un piede davanti all'altro. In questo momento l'unico problema urgente è questo”.

Il limite del romanzo è nell'urgenza di trasmettere l'esperienza anche nei suoi aspetti pratici più minimalisti. Necessità che diventa a volte ripetitiva; a volte più sua (dello scrittore) che nostra (dei lettori).

Solo per chi aderisce a questa passione, come il sottoscritto, anche questi dettagli possono acquistare senso e valore, perché fanno (o possono far) parte di uno stesso percorso.

Alcune frasi esemplificative di questa “arte”:
* Ciò che piuttosto mi interessa è se riesco più o meno a raggiungere gli obiettivi che io stesso mi sono prefisso.
* Ciò che penso, semplicemente, è che, una volta usciti dalla prima giovinezza, nella vita è necessario stabilire delle priorità. Una sorta di graduatoria che permetta di distribuire al meglio tempo e energia.
* Vincere o perdere contro me stesso: esistono soltanto queste due possibilità
* ..la qualità del vivere non si trova in valori misurabili in voti, numeri e gradi, ma è insita nell'azione stessa, vi scorre dentro.
* Il titolo giapponese di questo libro riprende quello di una raccolta di racconti di Raymond Carver, lo scrittore che io amo tanto: Di cosa parlo quando parlo di amore.

Murakami Haruki.L'arte di correre. Traduzione: Antonietta Pastore. Pagine 157 . Einaudi. Euro 18,00

"Henry Dunant e le origini della Croce Rossa" di Luciano Luciani




Il primo premio Nobel per la pace
Dicembre, 1901: il comitato per il Nobel del Parlamento norvegese assegna il primo dei premi Nobel per la pace a Henry Dunant, un ultrasettantenne ormai stanco e malato che da anni vive nella camera numero 12 dell’ospizio di Heiden sul lago di Costanza. Fino a trent’anni prima, quell’uomo ora infermo e sofferente era stato il brillante protagonista di anni di febbrile attività in favore dell’arbitrato internazionale e del disarmo, tempra d’organizzatore capace sempre di pensieri grandi e lunghi; poi era intervenuto un lungo periodo di isolamento e oscuramento delle sue idee a cui erano seguiti, di nuovo, anni di ammirazione e di riconoscimenti per gli indubbi meriti conquistati sul campo dell’azione umanitaria e pacifista. Poco prima del prestigioso riconoscimento, in Germania era stata organizzata una sottoscrizione in suo favore; in Russia, mille medici riuniti in congresso gli avevano assegnato il premio Mosca per i servigi resi in favore dell’umanità sofferente. La zarina gli assegnava un vitalizio; la Svizzera decideva di soccorrerlo; il Pontefice gli scriveva di suo pugno e innumerevoli istituzioni benefiche ed organismi della Croce Rossa lo nominavano loro membro o presidente onorario…

Insofferente alla fama che tornava a bussare alla porta del suo rifugio, Henry si negava ai visitatori illustri e si barricava in casa contro gli intrusi, con una testardaggine pari solo all’entusiasmo giovanile con cui rilancia il proprio impegno nella lotta per la pace. Scrive pagine premonitrici sull’avvenire di sangue che attende il mondo del XX secolo, riceve alcuni rari amici e muore il 30 ottobre 1910 nello stesso anno in cui vengono a mancare due grandi figure per cui Dunant aveva sempre espresso grande ammirazione: Leone Tolstoi e Florence Nightingale.

Borghese e protestante

Henry Dunant nasce a Ginevra nel 1828, da famiglia borghese e protestante. Fin dall’adolescenza è solito utilizzare il proprio tempo libero per portare soccorso e conforto ai poveri, agli ammalati, ai carcerati. Come è stato scritto Henry aveva cominciato a prendersi cura dei “feriti” del tempo di pace già parecchi anni prima di occuparsi dei feriti di guerra. Uscito dal collegio, dopo un tirocinio in banca, come si conviene a uno svizzero ginevrino e protestante, mosso dallo spirito del Risveglio nel 1849 entra a far parte di un gruppo di giovani animati da una fede intensa e appassionata: per Henry il nucleo originario di un movimento internazionale ed ecumenico che viene fondato a Parigi nel 1855 in occasione dell’Esposizione Universale. Nasce così l’Alleanza Universale delle Unioni Cristiane, più nota sotto il nome di YMCA e a tutt’oggi assai diffusa. Ginevra ormai gli sta stretta: si trasferisce in Algeria, conquistata un quarto di secolo prima dalle armi francesi. Studia l’arabo e l’Islam e, contrariamente alla maggior parte dei cristiani del suo tempo ancora fermi ad un atteggiamento negativo e conflittuale nei confronti dell’Islam, matura per questa religione ammirazione e rispetto. Si lega alle popolazioni indigene e un suo generoso progetto di trasformazione in senso moderno di una grande proprietà agricola algerina fallisce per il disinteresse delle istituzioni. Deluso ma non sconfitto, decide allora di recarsi da Napoleone III in persona per perorare la causa dei contadini algerini: il fatto che l’imperatore francese in quel momento si trovi in Italia, in Lombardia, alla testa dell’esercito francese impegnato a fianco del piccolo Regno di Sardegna contro le truppe austriache guidate dal giovane imperatore Francesco Giuseppe non arresta il tenace zelo del giovane svizzero.

L’orrore e la pietà

Quando Dunant raggiunge la Lombardia devastata dalla guerra, le operazioni militari sono a un punto di svolta: le battaglie di Montebello, Palestro, Magenta avevano segnato senz’altro dei punti in favore dell’alleanza franco-piemontese ed incombeva lo scontro decisivo. Questa battaglia, quella di Solferino, la più sanguinosa che l’Europa abbia conosciuto dopo Waterloo, deflagra il 24 giugno 1859 e impegna l’intera armata francese e la più gran parte di quella austriaca. Più di 300.000 uomini e 25.000 cavalli si scontrano per oltre 14 ore, bombardati dal fuoco di oltre 1000 cannoni. Dunant è lì vicino: sta percorrendo quei luoghi in una carrozza privata, irreprensibilmente vestito di bianco per difendersi dal caldo, alla ricerca di un abboccamento con l’imperatore. Ode distintamente il rombo dell’artiglieria, ma non si spaventa; inorridisce, invece, quando nel vicino borgo di Castiglione cominciano ad affluire, sempre più numerose fino a diventare un fiume in piena incontenibile, le vittime di quella vicenda bellica: migliaia di feriti che arrivano dal vicino campo di battaglia e sono ammucchiati in disordine senza la minima assistenza nella Chiesa Maggiore e tutt’attorno. Dunant quel giorno non proseguì oltre perché lo fermarono la pietà e l’orrore. Lenti convogli raggiungevano il paesetto carichi di ogni sofferenza umana. Feriti a migliaia, sfiniti, istupiditi dalle sofferenze: per loro non c’era assistenza, né un ricovero e nemmeno un sorso d’acqua. Migliaia di giovani uomini giacevano sulla nuda terra trapassati dalle pallottole, mutilati dalle schegge, schiacciati dalle ruote dei pezzi d’artiglieria e dei carriaggi, le piaghe infettate, tormentati dal caldo e dalla sete. Le intendenze avevano attrezzature assolutamente inadeguate per curare quei disgraziati che per i loro commilitoni erano diventati soltanto un peso da affidare alla pietà dei civili o alla solidarietà, quando era possibile, dei compagni d’arme.
Il ricordo di quella tragica giornata rimase incancellabile nella memoria del ginevrino e iniziò ad agire nel profondo della sua coscienza. Per due anni si sforzò, senza riuscirci, di tornare ai suoi affari. Nel 1861 si ritira nella sua città natale con l’intenzione di rivelare all’opinione pubblica europea “ l’atroce verità del campo di battaglia “. Alla fine del 1862 pubblica Un ricordo di Solferino che, inviato a politici, uomini di stato, sovrani, intellettuali, suscita un forte sentimento di commozione testimoniato da quanto i fratelli de Goncourt annotano nel loro Diario: “ Si lascia questo libro maledicendo la guerra “. Dunant denuncia soprattutto la vergognosa assenza di soccorsi sanitari sugli scenari bellici e l’Europa democratica rimane profondamente turbata nel leggere le sue pagine. “Il problema sollevato da Dunant divenne per gli stati, se non un rimorso, certo un’inquietudine della coscienza e una questione all’ordine del giorno”. (L.Firpo)

Nel 1863 l’uomo d’affari ginevrino poneva all’ordine del giorno della Società ginevrina di Pubblica Utilità il problema “dell’aggregazione agli eserciti belligeranti di un corpo d’infermieri volontari”: ne derivò una commissione di cinque membri formata da Henry Dofour, capo militare dell’esercito della Confederazione svizzera; i medici Louis Appia e Théodore Maunoir; un giurista, Gustave Moynier e Dunant stesso.
La Commissione dei Cinque, forte del consenso delle famiglie regnanti d’Olanda, Prussia, Assia, Baden e del giovane regno d’Italia, tentò la strada della convocazione a Ginevra di una Conferenza internazionale per dibattere del suo progetto filantropico. Dunant viaggia attraverso l’Europa per raccogliere l’interesse e il consenso di principi e di capi militari, forte di un appello in tre punti: 1) ogni governo si doveva impegnare ad assicurare appoggio e protezione al proprio Comitato nazionale di soccorso ai feriti da crearsi in ciascuno degli stati europei; 2) a riconoscere la neutralità del personale medico militare e di tutti i soccorritori volontari; 3) a favorire durante le ostilità i trasporti del personale e dei materiali sanitari nelle zone di guerra.

Nasce la Croce Rossa Internazionale
Nell’ottobre del 1864 viene finalmente inaugurata l’assise voluta con tanta testarda fermezza dal finanziere ginevrino. Vi partecipano i delegati di 16 Paesi: l’Italia non aderisce ufficialmente, ma invia come uditore il proprio console in Svizzera; l’Inghilterra sceglie di non partecipare. Una defezione importante che non arresta, però, il processo in corso. Dopo quattro giornate di discussioni viene adottata una risoluzione in dieci punti che prevede la costituzione di un Comitato nazionale di soccorso in ognuno dei Paesi aderenti; la predisposizione in tempo di pace di attrezzature, materiali e la formazione di un corpo di infermieri volontari; la neutralizzazione delle ambulanze, degli ospedali e del personale sanitario agli ordini delle autorità militari. Unico per tutti i Paesi il segno distintivo della nuova organizzazione: una croce rossa in campo bianco, ovvero la bandiera svizzera a colori invertiti, oppure la bandiera bianca, tradizionale segno di tregua, fregiata del simbolo cristiano. Era nata la Croce Rossa Internazionale.

Dunant pagò un prezzo personale molto alto perché la sua creatura vedesse la luce. Le fatiche organizzative per trasformare in pratica concreta la sua idea lo portarono a trascurare i propri affari e lo avviarono verso un pesante dissesto finanziario. Nel 1867 la banca ginevrina di cui era amministratore lo dichiarò fallito per oltre un milione di franchi, costringendolo alle dimissioni dalla Commissione dei Cinque di cui era segretario. Quando nel 1873 si celebrarono i primi dieci anni dell’organizzazione il presidente Gustave Moynier si guardò bene dal menzionare il suo nome. Seguirono circa vent’anni di estrema povertà a cui fanno da contrappunto progetti sempre più grandi e talora velleitari sollecitati da una passione umanitaria che sembra divorare il compassato uomo d’affari di una volta. Dunant soffre la fame, dorme nelle sale d’aspetto delle stazioni ferroviarie e sulle panchine dei parchi fino a ridursi nella piccola pensione ‘Paradiso’, a Heiden nel cantone di Appenzell sul lago di Costanza dove dimora per cinque anni per essere poi accolto nella cameretta numero 12 del locale ospizio per anziani. Qui scrive le sue memorie: pagine e pagine tormentate in cui ricordi, digressioni, citazioni, polemiche per le ingiustizie sofferte si mescolano a pagine intense e profetiche sui futuri disastri della guerra in Europa e sulla società militarista e ipocrita che non potrà fare a meno di generarli.

Quando ormai tutti lo credono morto, un giovane giornalista, George Baumberger lo scopre in quell’angolo sperduto d’Europa e racconta al mondo la sua storia, le sue sofferenze, il suo ingiusto destino. Paragonabile a quella che aveva accolto Un ricordo di Solferino una nuova ondata di emozione percorre ora tutto il mondo e “l’avventuriero della carità” torna a occupare il posto che meritava nella coscienza planetaria: quello dovuto a chi, per primo, aveva intuito e tentato, tra scetticismi e boicottaggi di ogni genere, di mettere in pratica l’idea semplice e feconda di neutralizzare su tutti i teatri di guerra i sofferenti e i loro soccorritori.

04 novembre 2009

"Lilì Marlen..." di Luciano Luciani


La ragazza sotto il fanale

Il secondo conflitto mondiale durava ormai da quasi due anni e l’Europa si presentava come un unico, sanguinoso campo di battaglia. Lo scontro non risparmiava niente e nessuno: obbiettivi e popolazioni civili erano, anzi, diventati i bersagli privilegiati delle operazioni militari di un conflitto che non conosceva ostacoli combattuto sulla terra, nel cielo, sopra e sotto il mare… Che il 14 agosto di quell’anno terribile Churchill e Roosevelt si siano incontrati nell’isola di Terranova per elaborare ed enunciare i principi della ‘Carta Atlantica’ forse lo ricordano in pochi. Tutti, però, conoscono le note, severe e struggenti insieme, che vennero irradiate da Radio Belgrado alle 21.56 del 18 agosto: Lilì Marlen, un motivo che nel giro di poche settimane avrebbe oltrepassato ogni frontiera geografica e ideologica e ogni barriera linguistica, trasformandosi nell’inno non ufficiale dei soldati di entrambe gli schieramenti che lo cantarono, sempre e da per tutto, dal fronte russo all’Atlantico, dai Balcani al Baltico, con commozione e partecipazione.

Quale il tema di questa canzone che riuscì nel difficilissimo compito di affratellare uomini in divisa ‘l’un contro l’altro armati’? L’amore: o meglio l’amore, la guerra e il senso di perdita connesso a tutte le vicende belliche. Una canzone le cui parole provenivano dal precedente conflitto mondiale, dalla Grande Guerra. Le aveva scritte nel 1915 Hans Leip (Amburgo, 1893 – Fruthwilen, 1983), un giovane soldato tedesco poco prima di partire per il fronte russo e facevano parte di un testo poetico intitolato La canzone di una giovane sentinella: Lilì era il nome della fidanzata dell’autore e Marlen quello di una giovane infermiera che, prima di sparire per sempre, aveva regalato un gesto affettuoso al giovane Leip impegnato nei suoi doveri di guardia di fronte alla caserma dov’era acquartierato.

A Goebbels non piace, a Rommel sì

La canzone di una giovane sentinella era stato pubblicata più di vent’anni più tardi, nel 1937 all’interno di una raccolta più ampia ed era piaciuta a Norbert Schultze (Braunschweig, 1911 – Monaco, 2002), un musicista di successo ligio al regime nazista, autore di motivi popolari e di colonne sonore per il cinema. Nel 1938 Schultze musicò i versi di Leip e nacque Lilì Marlen, che però dovette scontare l’ostilità di Joseph Goebbels, l’onnipotente ministro hitleriano della propaganda e dell’informazione a cui non piaceva il tono dolente e la tristezza che caratterizzavano quelle parole e quella musica: ben altri, a suo parere, sarebbero dovuti essere i motivi per accompagnare la marcia inarrestabile dei soldati tedeschi. Lilì Marlen fu comunque registrata per la voce della cantante Lale Andersen, nome d’arte di Eulalia Bunnenberg (Lehe/Bremerhaven, 1905 – Vienna, 1972), a sua volta poco convinta di quell’operazione… Tant’è che il disco, inizialmente, si rivelò il classico buco nell’acqua e vendette solo 700 copie, finendo sugli scaffali della Radio Tedesca per le Forze Armate.

Relegata a una diffusione periferica tra le truppe dell’Afrika Korps, il corpo di spedizione tedesco che dal febbraio 1941 alla primavera 1943 operava in appoggio alle truppe italiane, la canzone attrasse l’attenzione di Erwin Rommel, il brillante ufficiale al comando delle forze dell’Asse. Questi, tra un’offensiva e una ritirata tra le sabbie dei deserti della Libia e dell’Egitto, trovò anche il tempo per segnalare le sue preferenze musicali al tenente Karl-Heinz Reintgen, responsabile delle trasmissioni di Radio Belgrado nella Iugoslavia ormai occupata dai tedeschi, che, non potendo rifiutare un favore alla già celebre ‘volpe del deserto’, inserì Lilì Marlen nella propria programmazione come sigla di chiusura delle trasmissioni.

Fu da subito un successo straordinario. In tutta Europa, in tutto il mondo in guerra da un fronte all’altro rimbalzarono le note di Lilì Marlen e tutti gli uomini in divisa si sentirono accomunati dalla patetica histoire du soldat che “tutte le sere/sotto quel fanal,/presso la caserma/” attendeva la sua bionda Lilì Marlen insieme alla quale dimenticare il mondo; e col mondo la guerra e i suoi orrori… Oddio, magari quest’ultimo concetto nel testo non c’era, ma derivava come diretta conseguenza da versi semplici al limite della banalità che favorirono la larghissima diffusione della canzonetta:
Tutte le sere sotto quel fanal
presso la caserma ti stavo ad aspettar.
Anche stasera aspetterò
e tutto il mondo scorderò,
con te, Lilì Marlen, con te!
Con te, Lilì Marlen


Larga quanto? Paragonabile, forse, a quella degli attuali successi della hit parade planetaria: un risultato formidabile, considerato che allora il mondo era consumato dalle fiamme del secondo conflitto mondiale e la televisione come mezzo di comunicazione di massa non esisteva ancora. L’immensa popolarità della versione tedesca impose ben presto una versione inglese. Si racconta che un editore musicale inglese, J. J. Phillips, dopo aver ascoltato le critiche di un gruppo di compatrioti in divisa, arrabbiati perché costretti a cantare la canzone del momento in tedesco, affidò al paroliere Tommie Connor la versione che, cantata da Anne Shelton, decretò il trionfo di Lilì Marlen tra i militari alleati: un successo reiterato dall’esecuzione di Vera Lynn per la BBC e consacrato dallo spettacolo per le truppe La ragazza sotto il fanale che Marlene Dietrich, la famosa attrice cinematografica di origine tedesca ma naturalizzata americana dal 1939, portò in tournee dal Nordafrica alla Sicilia, dall’Alaska alla Groenlandia, dall’Islanda all’Inghilterra. E, a partire dal 1943, non mancò neppure una parodia di Lilì Marlen in chiave antihitleriana interpretata da Lucy Mannheim.
L’VIII Armata inglese la adottò come proprio inno nonostante l’origine ‘nazista’.

Tradotta in 48 lingue, amata dal leader iugoslavo Tito, è senz’altro la più famosa canzone di guerra di tutti i tempi: forse proprio perché non parla di guerra, ma di un sogno d’amore infranto dalla spietata legge delle armi. Richiesta di spiegare l’enorme successo della canzonetta che aveva avuto la ventura di interpretare per prima, Lale Andersen rispose: “Come fa il vento a spiegare perché è diventato tempesta?”

La versione italiana, dovuta a Nino Rastelli, fu portata al successo da Carla Mignone, in arte Milly, da Meme Bianchi e soprattutto da Lina Termini a partire dal 1942. E anche in Italia non mancarono le parodie della più famosa canzone del momento che divenne così il mezzo più immediato per veicolare stati d’animo di rabbia e di una prima, ancora non del tutto consapevole opposizione al regime fascista. Ecco una strofa ‘contro’ in un comprensibilissimo dialetto piemontese:
Tutte le sere ‘nda lett sensa mangiar
e la matina a un’ora andà a lavorar,
dopu mezz dì, patati e ris,
el noster “dus” el fa on sorris…
Evviva l’italian c’on ettu e mezz de pan!

"Aspettando Tullio" di Maura Fatarella


di Laura Di Simo

E’ un romanzo completo questo di Maura Fatarella, autrice alla sua prima pubblicazione, che racconta la storia di una famiglia, focalizzata e incentrata su di una vicenda sconvolgente, per tutti i suoi componenti: la morte in un incidente del figlio maschio. Tullio è un bel giovane, un po’ bullo e sfaccendato, un vitellone di paese; gira su una vespa e tutte le donne sono sue, ma una sera d’agosto lo trovano morto, catapultato in mezzo alla campagna, nei pressi di una curva pericolosa.

Tutto si consuma nelle prime venti pagine, ma Tullio non esce di scena, bensì continua a vivere e ad agire dentro l’anima delle persone che lo hanno amato. Il romanzo, dunque, ruota attorno alla sua assenza, su cui, nonostante il passare degli anni, si infittisce il dubbio angoscioso che il giovane sia stato ucciso e l’incidente sia solo una simulazione.

Intanto la vita continua e intreccia, sotto gli occhi del lettore, le vicende dei personaggi. La madre Isolina, figura tragica, non si riprenderà più dal dolore per la morte del figlio prediletto; la sorella Vanda, ragazza ribelle in perenne conflitto con la madre prima, donna forte e coraggiosa poi; i suoi tre figli, Colomba, Palma e Lulo; il nipote Alessandro. Ale è un ragazzo problematico, affetto dai mali tipici dell’adolescenza, come la bulimia, la crisi d’identità, la mancanza di valori familiari.Con lui Vanda torna al paese ad occuparsi della vecchia madre, per accompagnarla alla morte.

Qui, nella casa della sua infanzia, tra quelle mura domestiche, la protagonista si trova a far fronte ai problemi attuali (ognuno dei tre figli gliene pone uno) e a quelli del passato: ma alla fine riuscirà a trovare una spiegazione ai grandi interrogativi che l’hanno accompagnata per tutta la vita, accettando le scelte dei figli, ricomponendo gli affetti e i sentimenti, attraverso una comunicazione istintiva, fatta di sguardi, di carezze, di abbracci e di una continua disponibilità.

La prosa di Maura Fatarella, fluida e scorrevole, sa dosare sapientemente ora il dialogo a più voci movimentato e con sfumature da commedia, ora i lunghi squarci lirici di un passato che riemerge dalla coscienza inquieta di Vanda. Sullo sfondo il paesino tra la bassa Maremma e l’alto Lazio, con le sue viuzze strette, la chiesa, la piazzetta di origine medievale: un posto splendido, lontano dal traffico cittadino, ma anche dalle comodità della vita moderna. Ritornare lì, dunque, significa riacquistare un ritmo di vita ormai dimenticato, ripercorrere la mentalità paesana spesso condizionata da gelosie e ripicche. Vanda si lascia andare intimamente a rivivere gli anni del passato con un unico obiettivo: quello di far tornare i conti e ricostruire come in un puzzle, tessera per tessera, la propria esistenza.



Maura Fatarella, Aspettando Tullio, Giulio Perrone editore Roma, euro 18,50

02 novembre 2009

“Giorni d'afa” di Eduard von Keyserling


di Gianni Quilici

Leggendolo ho provato nostalgia. Nostalgia dell'estate. Ingenuamente forse. Perché l'estate vi è rappresentata con una sensualità rara a leggersi tanto da chiedersi se non sia idealizzata.
Questa sensualità nasce dal calore avvolgente di quel microcosmo molto dettagliato di profumi, mutevolezza di colori, ronzio di insetti, mormorio di acque, fatiche dei campi, viali di tigli, sospensioni del tempo, notti magiche che l'autore riesce a far vibrare all'unisono con le psicologie dei protagonisti.

Il protagonista, infatti, è un adolescente di nobile famiglia, che vive la scoperta dell'emozione sessuale e dei dolori della passione amorosa. Ha in più un padre autoritario e distante, ancora giovane ed affascinante, da essere vissuto anche come rivale, e due cugine di una bellezza sottile e lontana, perse pure loro da mancate corrispondenze.

Potrebbe essere un piccolo capolavoro se Eduard von Keyserling non arrivasse alla tragedia del suicidio, il suicidio dell'uomo più forte, quello che forse ha in mano le redini di queste storie, di questi personaggi.
“Tutto è possibile” si potrebbe obiettare. Certamente. Ma nella scelta di far morire il padre affascinante ed esperto di esperienze di vita ci trovo una semplificazione, che ha forse un'origine romantica, ancora prima che decadente, che appartiene più all'autore che alla personalità del personaggio. E' come se padre e figlio si fossero confusi in un finale la cui tragedia rimane individuale, non appartiene né a un'età, né a un'epoca.


Eduard von Keyserling. Giorni d'afa.( “Schwule Tage”). Traduzione di Luisa Coeta. Pagina 85. Sugarco edizioni. (non ristampata).
Eduard von Keyserling. Afa. Traduttore Azzone Zweifel . Pa. 104. Collana Piccola biblioteca Adelphi. Euro 6.20.



Eduard von Keyserling (Hasenpoth, 15 maggio 1855 – Monaco di Baviera, 28 settembre 1918) è stato uno scrittore tedesco dell'epoca dell'Impressionismo.
Appartenente ad un'antica famiglia di nobiltà baltica, nacque a Schloss-Paddern, a quel tempo sotto l'impero russo e oggi parte della Lituania. Studiò dapprima nelle locali scuole tedesche, quindi all'Università di Vienna. Si stabilì nel 1895 a Monaco di Baviera, dove visse fino alla morte. Gran parte della sua produzione letteraria (romanzi, racconti e drammi) fu composta qui. Negli ultimi vent'anni di vita fu tormentato da una grave forma di sifilide, che lo costrinse a lunghi periodi di immobilità e da ultimo lo rese cieco.
Le opere di Keyserling sono state spesso definite "le novelle del castello", perché gran parte di esse sono ambientate nelle tenute della nobiltà baltica da cui proveniva. Questo sfondo è caratteristico per l'isolamento che contraddistingueva i suoi personaggi: sudditi dell'impero russo, ma di lingua e cultura tedesca, signori di vaste tenute dove lavoravano contadini di differente etnia. Traspare il senso di crisi e di esaurimento di queste casate, ritratte alla vigilia della Prima guerra mondiale e della Rivoluzione russa, che ne avrebbero decretato la fine.