27 giugno 2011

"Amore" di Inoue Yasushi

di Gianni Quilici


Leggo Amore, tre racconti di Inoue Yasushi (si veda la recensione di Il fucile di caccia http://recensione.blogspot.com/2009/01/il-fucile-da-caccia-di-inoue-yasushi.html ),

Il primo Giardino di rocce a me pare il meno felice. Una giovane coppia di sposi sceglie come meta del viaggio di nozze Kyoto, dove l'uomo aveva trascorso gli anni dal liceo all'università. Egli è desideroso di farle conoscere la città, agli inizi di ottobre quando la natura si trova nel suo massimo splendore. Ed è proprio nell'incantevole giardino di rocce, che l'uomo viene colpito da un ricordo che, profondamente rattristandolo, lo isola dalla giovane sposa. Ricorda, infatti, una storia d'amore finita male, in cui lui aveva, in una certa misura, tradito l'amico di sempre e la donna, che sarà compagna di lui per qualche anno.

Racconto che si chiude troppo rapidamente, lasciando impliciti quei passaggi necessari, perché questa conclusione sia partecipata dal lettore o abbia comunque una risonanza. Yasushi sceglie una sorta di colpo di teatro, che per essere efficace, cioè poetica, come vorrebbe essere, avrebbe dovuto rappresentare qualche “segno” che lo giustificasse.

Molto riuscito, invece, il secondo racconto L'anniversario del matrimonio.

Un uomo è rimasto vedovo e così dopo due anni le persone intorno a lui vorrebbero che si risposasse. Niente da fare. Nonostante non amasse la moglie sente che nessuna donna potrebbe sostituirla. Per una ragione precisa: l'avarizia. “Pur di non spendere inutilmente neppure un centesimo”, infatti lui “correva il rischio di non adempiere ai suoi doveri sociali e da questo punto di vista” lei “non gli era certo da meno. Era così tirchia da lasciare di stucco lo stesso Shunkichi ” Questo è il nome del protagonista.

E questa profonda sintonia, l'avarizia, viene tratteggiata acutamente in un fatto, da lui raccontato, che tanto somiglia -pensa l'uomo- all'amore stesso.

Dopo che l'uomo vince inaspettatamente la bella cifra di diecimila yen e dopo laceranti ripensamenti, i due decidono, per la prima volta da quando sono insieme, di concedersi un viaggio di due giorni, spendendo la metà dei soldi guadagnati, mangiando in un ristorante e dormendo in un hotel. Non sarà poi così. La forza del racconto è nei continui ondeggiamenti tra il desiderio flebile di concedersi per una volta un lusso (spendere i soldi stabiliti) e quello di non farlo (risparmiare quei soldi).

Il legame tra la concatenazione narrativa e le psicologie dei protagonisti è felicissima. Per tutti e due lo spreco di un breve benessere è dolore; risparmiare è eros. Così quella notte, tornando nel loro appartamento, povero forse, ma incredibilmente caldo e accogliente, lui riscalderà il corpo gelido di lei dormiente sentendosi invadere da una sorta di “amore traboccante”.

Il terzo racconto La morte, l'amore, le onde è il più appassionante e affascinante per la limpidezza estrema della scelta del protagonista: darsi la morte. Un suicidio scelto con fredda ineluttabilità, immaginato a distanza dalle finestre dell'hotel, senza passione, con dei rituali e con un calcolo preciso del tempo e del luogo. Nello stesso hotel si trova una ragazza giovane e bella, gelida e sfuggente, che nel modulo dell'hotel alla voce “Scopo del viaggio” aveva scritto “Mors”.

La chiusa è romantica. Yashushi cede al desiderio del lettore (e forse suo), in modo troppo letterario per essere plausibile e-o convincente.

Verrebbe da pensare a quanto la matematica, cioè le possibili combinazioni di una storia, sia importante. Come dietro ad una vicenda ci possa essere un pensiero lungo o breve, un'ispirazione vera o artificiosa, come i confini tra prodotto e poesia siano, a volte, esili e complicati.


Inoue Yasushi. Amore. Traduzione di Giorgio Amitrano. Adelphi. Euro 10,00.

22 giugno 2011

"La leggenda del santo bevitore" di Joseph Roth

di Gianni Quilici


Questo famoso racconto si dipana intorno ad un rapporto sulla realtà di tipo sentimentale. Sentimento più che Idea, che può tuttavia diventare ideologia, ossia un modo per rapportarsi con se stessi e con il mondo.

Sembra, infatti, quasi che Joseph Roth abbia voluto rispondere a questa situazione: "Cosa succede ad un vagabondo completamente prosciugato da qualsiasi speranza, quando un miracolo lo fa ritornare alla vita, che aveva ormai sepolta?”.

Questo contrasto tra vita ormai persa/vita che risorge produce nel “santo bevitore” una sorta di stupore e di candore ingenuo, senza alcun astio, nessuna lacerazione. Una superiore serenità, come si scriveva un tempo nelle antologie di critica letteraria.


E' questo il segno specifico, il timbro musicale e fascinoso della “leggenda del santo bevitore”. Racconto-poesia più che racconto-romanzo, forse.

dicembre 1978.


Joseph Roth. La leggenda del santo bevitore. Traduzione di Chiara Colli Staude. Adelphi.


16 giugno 2011

“Stazione di Tirana” foto di Nikos Economopoulos

di Gianni Quilici

L'esistenza come fatica, ma anche come bellezza” questo penso di primo acchito, prima ancora di una più attenta meditazione, guardando la foto scattata da Nikos Economopoulos.
Mi colpisce innanzitutto, ma come potrebbe essere diversamente, la centralità dell'uomo colto dal basso in alto in tutta la sua statura, piegato dalla fatica del sacco schiacciato sopra la schiena e infastidito dalla pioggia battente. La bocca aperta, con la chiostra dei denti, diventa un piccolo dettaglio, ma quanto importante! Provate ad immaginare questo dettaglio ingrandito per dieci, per venti!

L'uomo, piegato, affaticato, infastidito è collocato al centro delle due linee di fuga dei due vagoni di treni, fermi sui binari, con uno sfondo quanto mai significativo: un uomo che si affretta, il piede rialzato, due donne strette sotto l'ombrello, che ancora di più sottolineano quella situazione, quel tempo.
Allora: dov'è la bellezza?
La bellezza è nell'autenticità dell'esistere, nella sua nudità, senza artifici estetici. Tutto è naturale: l'uomo e i vestiti, la pioggia e il cielo grigio, i vagoni del treno e la fatica del quotidiano esistere.
La bellezza la trovo anche nella scelta dell'inquadratura, nella geometria della composizione, nella sua linearità ed essenzialità, nell'uso del bianco e nero.
L'insieme di tutto quanto dà all'attimo scolpito una forza simbolica: c'è una situazione nel suo essere, un luogo, un tempo quotidiano, che è già storico.
Nikos Economopoulos è nato in Grecia, nel Peloponneso nel 1953 ed è uno dei fotografi della Magnum.
Scrive tra l'altro:
Fotografo grazie alle mie sensazioni: anche i luoghi più poveri, o più lontani, mi fanno sentire bene. Si tratta di posti dove sento che esiste qualcosa di profondamente autentico nell'atmosfera. L'autenticità mi rende felice e mi dà modo di realizzare buone foto”

Nikos Economopoulos. Albania, 1991. Stazione centrale di Tirana.

"Macchinazione celeste" di Lucio Klobas

di Gianni Quilici



Chi si accostasse a Macchinazione celeste di Lucio Klobas cercandovi una storia rimarrebbe deluso.

La storia, in definitiva, non c'è. Ci sono protagonisti emblematici presi dai fumetti o comunque da un immaginario collettivo (l'uomo mascherato alle prese con l'uomo qualunque, l'uomo ombra che combatte l'uomo invisibile, l'uomo fantasma a duello con l'uomo inesistente ecc) in perenne lotta tra loro, con se stessi, col mondo.

Manca la storia come concatenazione di fatti, come sviluppo di psicologie.

Si ha l'impressione che dietro ognuna di queste maschere ci sia in realtà una maschera soltanto: l'autore, con la sua straordinaria capacità di amplificazione immaginativa. Da qui la sensazione di iniziare daccapo ogni volta. Da qui una lettura che procede faticosamente e la tentazione di chiudere il libro una volta per tutte.

Se, tuttavia, sono rimasto coinvolto è per due aspetti: la presenza di uno stile originale ed il senso -qualche volta sofistico- di tante verità.

C'è lo stile che padroneggia una materia difficile con ironia ed inventiva, mescolando naturalismo e visionarietà in una struttura compositiva quasi sinfonica, che tende, cioè, a dilatarsi, lasciandosi andare ad un flusso libero di immagini, concetti, metafore, senza però perdere di logicità.

C'è un senso di verità di molte condizioni psico-ideologiche, che colpiscono per la fulmineità degli accostamenti e la ricchezza lessicale.

E' romanzo? Alfredo Giuliani su Repubblica scriveva di un poema eroicomico in prosa. Può essere vero. Ed appunto Macchinazione celeste, più che letto, va centellinato. Nuoce forse una sovrabbondanza un po' logorroica e compiaciuta dei periodi. Si rischia, forse, talvolta, la ripetizione o la caduta nell'inessenziale.



Lucio Klobas. Macchinazione celeste. Garzanti, 1990.

15 giugno 2011

"Un poeta alla volta: Paolo Lucchesi" di Gianni Quilici

MUZAK

(Il Signore della Felicità)


Ti farò giocare se lo vuoi

vivere a fondo se lo desideri

Può essere per un solo giorno

o per l’intera tua esistenza

Puoi chiedermi marijuana

vero amore o solo sesso

Ti toglierò tutte le paure

t’inventerò una nuova vita.

Chiamami sono Muzak

il signore della felicità


Tu puoi far parte del gioco

puoi scegliere i colori preferiti

o cambiare la scena a piacimento

Ti mostrerò luoghi sconosciuti

ma dovrai abbandonarti a me

Conoscimi e lasciati conoscere

prendi il mio biglietto da visita.

Carnevale 1980



E' una poesia d'amore questa di Paolo Lucchesi. Nasce non da una realtà vissuta, ma da un'immaginazione di una possibile realtà da vivere, a cui si prestano un volto, un corpo, una sensibilità che noi non conosciamo.

E questo brulichio desiderante si fa disponibilità ai desideri dell'altra in un modo al tempo stesso assoluto e forse per questo anche democraticamente rispettoso. “Ti farò giocare se lo vuoi/ vivere a fondo se lo desideri”

E però questa tensione amorosa diventa, come in certe poesie di Majakovskij, perentoriamente teatrale: “Ti toglierò tutte le paure/ t'inventerò una nuova vita”; o anche gioiosamente teatrale: “Tu puoi far parte del gioco/ puoi scegliere i colori preferiti/ o cambiare scena a piacimento”.

Proprio per questo, dopo il verso “Ti mostrerò luoghi sconosciuti”, che potrebbe preludere a nuove mirabolanti viaggi immaginifici , mi pare troppo frettoloso il successivo verso “ma dovrai abbandonarti a me”, perché contraddice ed anzi limita, anche nel ritmo, questa teatralità aperta di sentimenti e di movimento.

Bella la chiusa finale con i due versi efficaci e essenziali nel loro invito esplicito di corrispondenza: “Conoscimi e lasciati conoscere/ prendi il mio biglietto da visita”. Ed il titolo “Muzak” ricorda la famosa rivista omonima di Giame Pintor, che rappresentava nella musica il desiderio di libertà e di espansione esistenziale.

Paolo Lucchesi è nato a Porto Alegre(Brasile) il 14 luglio 1954, dove ha vissuto fino a 10 anni. Si è poi trasferito a Lucca, dove tuttora vive. E' counselor biosistemico, lavora con l'educazione all'ascolto, coi bambini e conduce corsi per adulti sul Bambino/a Interiore. Ha frequentato corsi con gli amerindiani e lavorato con la spiritualità della foresta amazzonica.
Attualmente sta cercando di trovare altre persone con cui mettere in piedi un progetto culturale a 360 gradi di informazione, diffusione e recupero multimediale della nostra memoria storica, oltre che a dare spazio alle proposte giovani e non solo, che non trovano spazio. L'intento è quello di lavorare sulla musica, il teatro, la poesia, il cinema, i bambini, la pittura, il counseling.

da ARCIPELAGO, rivista dell'Arci di Lucca


"Pier Paolo Pasolini" di Dino Pedriali

di Mimmo Mastrangelo

Nell’ottobre del 1975, cioè nell’ultimo scampolo di vita, Pier Paolo Pasolini è alle prese con Petrolio, il romanzo che uscirà postumo per Einaudi e in cui è delineato per appunti un ritratto impietoso sul potere.

All’epoca Dino Pedriali ha venticinque anni, ed è un giovane fotografo molto promettente che già può vantare un’amicizia con il grande Man Ray. Pasolini lo chiama (anzi lo sceglie) per farsi fare delle foto che dovranno fare da illustrazioni al libro (poco romanzesco e molto mitico) che sta scrivendo. Nella seconda e terza settimana di quell’ottobre del 75’ il giovane Pedriali fotografa Pasolini a Sabaudia e nella casa che si era costruita ai piedi di un rudere medievale di Chia, vicino Viterbo. Concluso il reportage, Pedriali concorda con Pasolini che gli avrebbe portato a far vedere i negativi il 2 novembre. Ma quell’incontro non vi sarà, perché proprio quel giorno Pedriali apprenderà dalla radio la notizia che il poeta e scrittore friulano è stato assassinato.

A parte per una mostra (che ebbe molto successo) tenuta nel 1978 alla Galleria Inga Pin di Milano, per trentacinque anni Pedriali – che nel frattempo è diventato un affermato fotografo con una particolare vocazione al nudo maschile – ha custodito quei negativi in un cassetto, come fossero delle reliquie sacrali e solo di recente sono andati a finire in un catalogo (dire splendido è poco) edito dalla Johan & Levi di Giovanna Forlanelli.

Settantotto scatti in cui si può scovare Pasolini alla scrivania intento con una bic alla correzione delle bozze del romanzo, oppure mentre riposiziona il foglio nella “mitica” Lettera 22 e tiene sparse sul lato altre pagine stracolme di scrittura o rilegge i dattiloscritti in una posa di riflessione (la mano che trattiene la testa inclinata). E ancora si può vedere lo scrittore-poeta sul ponte di Sabaudia dove l’obbiettivo punta al primo piano, lasciando evidenziare i particolari fisici di un corpo asciutto, giovanile che fa appena da contrasto con lo sguardo severo, il volto scavato e rugoso.

Ma sicuramente le immagini più interessanti sono quelle che il fotografo romano scatta nella dimora della Torre di Chia: qui Pasolini viene sorpreso di profilo nel giardino della villa, cammina attraversando gli interni della villa, riguarda ancora le carte del romanzo, dipinge per terra dei volti e, infine, è immortalato senza vestiti in più pose.

E proprio negli scatti (una quindicina) del Pasolini nudo, posti come la sequenza di un elegante film in bianco e nero, si può pesare lo straordinario sguardo artistico di Pedriali. Egli fa del nudo la tela in cui riconoscere – senza forzature – il Pasolini del “gettare il proprio corpo nella lotta”, l’intellettuale che vuol fare della fisicità oggetto di sacrificio, provocazione e scandalo tanto quanto lo furono il pensiero e le sue opere tutte. Quasi come se fosse un ultimo segreto di Pasolini, un lascito che dopo trentacinque anni diventa di dominio pubblico, le foto di Pedriali sarà bene guardarle con occhio attento per strappare da esse l’idea di una fotografia che sa emozionare, fermare il tempo per sempre, istigarci pure ad immaginare la presenza viva tra noi di un Pasolini sempre scomodo, pronto a non rinunciare alla lettura degli eventi e della politica, pronto a porre ai giovani la stessa domanda che rivolse a Pedrali: “Dino, ti intessi di politica”. “No…” fu la risposta secca del fotografo. E Pasolini di rimando: “Male, un giovane si deve interessare di politica…”.


Dino Pedrali. “Pier Paolo Pasolini”. John & Levi. Pag. 140. Euro 35.00

da La linea dell'occhio

08 giugno 2011

"Il branco" di Andrea Carraro

di Gianni Quilici

L'inizio: un gruppo di ragazzi della periferia romana, aggressivi e sbandati, ammazza le giornate al bar tra partite di flipper e di biliardo. Un giorno due di loro caricano in macchina due ragazze tedesche che fanno l'autostop, con la complicità dello sfasciacarrozze, le conducono in una baracca dove le violentano...

Leggo “Il branco” e mi colpisce da subito la forza che emana.
Stranamente penso dapprima a Fenoglio (forse per l'intensità), poi naturalmente a Pasolini (per il sottoproletariato romano e l'utilizzo del dialetto) ed anche a Verga (per ragioni stilistiche).

Leggo a fatica, è doloroso continuare di fronte allo scenario che pagina dopo pagina si lascia presagire e a cui immaginativamente non desidero partecipare: lo scenario di uno stupro, ispirato, come è noto, da un fatto realmente accaduto, diventato poi film omonimo di Marco Risi.

Capisco però che Andrea Carraro non ha alcun compiacimento, anzi sento un forte senso di moralità nel rappresentare quel mondo così come è, nei fatti e oltre di essi.

La chiave del romanzo è innanzitutto Raniero, che non soltanto vede, partecipa, ma anche sente, pensa, ragiona, cercando, a volte, di oltrepassare, senza riuscirci, quell'universo, quell'ambiente.
Raniero, con una famiglia (un padre magistralmente descritto nella sua autorità priva di ragione, una madre succube), senza lavoro, avendolo egli lasciato, perché lo riduceva stanco morto, con la schiena a pezzi e la polvere di travertino nei polmoni, con una ragazzina con la quale ha un tenero rapporto. Raniero, che soprattutto vive la ricerca spasmodica dell'identità, nel confronto-scontro con il branco dei coetanei con cui si vede al bar, va a ballare...

Il “branco” è l'altro fondamentale protagonista del romanzo. Come in ogni branco che si rispetti c'è un capo con una serie di gerarchie sulla base dell'età, del carattere specifico, delle alleanze fluttuanti, ci sono dei codici a cui doversi conformare. Innanzitutto il bisogno di essere considerati “maschi” con la donna come preda e valore della propria mascolinità, in una perenne conflittualità per affermarsi nelle dinamiche contro l'amico-nemico e inversamente per non essere calpestati, derisi.

Su questo materiale bruciante e difficile Carraro segue due direttrici,che continuamente si incontrano e si scontrano.

Per un verso si fa voce collettiva, diventa, cioè, quei personaggi, quelle psicologie brutali e irrisorie, spietate e esaltate, minacciose e schiamazzanti. La sequenza dello stupro finale -visto a distanza dagli occhi di Raniero- è una scena infernale del più desolante e atroce spettacolo: la gente del paese, adulti e anche notabili, accorsa al richiamo dei ragazzi, che va e viene, chiacchiera e ride nel chiarore rarefatto dei fari delle macchine, mentre nella baracca la tragedia delle due ragazze picchiate, umiliate, violentate con la faccia stravolta dal terrore “ma anche con una febbrile volontà di resistere fino allo stremo delle forze”, sta raggiungendo il punto di non ritorno.

Per un altro verso questi fatti sono filtrati da uno sguardo-pensiero fluttuante e contraddittorio di Raniero che è, suo malgrado, complice e nauseato, confuso e dolente, che desidera-vagheggia un'altra esistenza, ma che non ha esperienze, strumenti, parole, forza per opporsi, per fare scelte diverse. E', più di ogni altro, una vittima, la vittima, che, come spesso succede, paga e pagherà più di tutti.

Ho ri-sfogliato due libri. Il primo, “Cento romanzi italiani (1901-1995)”, curato da Arnoldo Colasanti, il secondo, “Costellazioni italiane 1945-1999, in cui tre (giovani) critici, Massimo Onofri, Emanuele Trevi, Silvio Perrella scelgono ognuno 50 libri della seconda metà del 900. Nessuno segnala questo romanzo. Non ho alcuna autorità, sono lettore senza regole. Tuttavia mi sorprende.

Andrea Carraro. Il branco. Alberto Gaffi Editore, 2005. Euro 7,00.



05 giugno 2011

"La musa discreta e gentile di Antonio Peretti" di Luciano Luciani



L’Italia intellettuale della prima metà dell’Ottocento ha conosciuto uno strato relativamente largo e a volte vivace di letterati, insegnanti, avvocati, amministratori di buona cultura e di non spregevole educazione: una borghesia degli uffici non ricca economicamente, ma colta, moderata, liberale e destinata a diventare la matrice della classe dirigente dell’Italia unitaria. Molti suoi esponenti offrirono buone prove di sé nel corso delle vicende risorgimentali, ma non a tutti, ovviamente, è toccato l’onore della fama politica, artistica, letteraria. Alla più gran parte – anche se di una qualche notorietà tra i contemporanei – è stato riservato uno sconsolato destino di oblio. Pochi quelli che hanno conosciuto una grandezza pari oggi ad una nota a pie’ di pagina. Sulle dita di una mano si contano i grandi e i grandissimi ancora conosciuti, letti, meditati. Non appartiene di sicuro all’ultima categoria Antonio Peretti, letterato, giornalista ed educatore emiliano di qualche merito poetico e civile e di qualche fama ai suoi tempi, ma oggi dimenticato. Vissuto in tempi complicati, duri e difficili con dignitosa coerenza non rinunciò mai alla libertà della sua ispirazione e all’impegno civile che cercò costantemente di far convivere con un’educazione classicheggiante e una delicata vena elegiaca e sentimentale.


Nato nel 1815 a Castelnuovo Monti nel Reggiano, figlio di un notaio impiegato nell’amministrazione dello stato, Antonio Peretti studiò in seminario, ricavandone più motivi d’insoddisfazione che stimoli a una piena crescita culturale ed umana. Certo è che nel 1834 abbandonò gli studi in filosofia presso i Gesuiti di Reggio per passare al Convitto Legale della città emiliana e laurearsi in diritto a Modena nel 1839. A questo punto della sua vita sentì prepotente la vocazione alla scrittura, per cui si cimentava in tutti i generi letterari: poesia, prosa, biografie, melodrammi… Sua ispiratrice – siamo nell’Ottocento romantico! – Adele Curti, “milanese, poetessa e fanciulla d’alto sentire”, più anziana di lui di qualche anno e malata, probabilmente di quello che veniva allora chiamato il “mal sottile”. La differenza d’età e la malattia consigliarono la Curti – che doveva spegnersi nel 1845 – a rifiutare le profferte amorose, spinte fino al matrimonio, del giovane avvocato che, tra l’altro, appena laureato aveva messo da parte codici e pandette per dedicarsi anima e corpo alla letteratura. I suoi versi e le sue prose venivano pubblicate con un certo successo di pubblico sul “Giornale Letterario-Scientifico modenese”.


Erano molto apprezzati soprattutto i suoi testi poetici, che sapevano intelligentemente miscelare sensibilità romantica, educazione classica e la scottante attualità politica del tempo: “le sue poesie si leggevano avidamente da tutti al loro primo apparire, ed era una furia a strapparsele di mano l’un l’altro, a ricopiarle, a stamparle”. Non contento, il Nostro scriveva biografie erudite di reggiani illustri e tentava, senza particolare fortuna, le ardue vie della tragedia e del melodramma.

Una sua Beatrice di Tolosa fu musicata dal maestro di cappella della corte ducale, Angelo Catelani, compositore di qualche fama in quegli anni: la rappresentazione, però, prevista per l’autunno del 1840 nel regio teatro di Modena, fu bloccata per la morte di Maria Beatrice Vittoria, moglie di Francesco IV, despota feroce e accanito persecutore di liberali.

La facile vena poetica del Peretti trasse allora spunto da questa scomparsa per alcune strofe dense di umana pietà verso la defunta duchessa: tanto bastò perché Francesco IV, in un breve volgere di giorni, “valutando non solamente il talento e l’applicazione letteraria dell’autore, ma bensì anche la rettitudine e religiosità dei suoi sentimenti”, nominasse il Peretti “nostro Poeta di Corte”. Come mai il duca emiliano definito con sarcasmo dal Giusti “Tiberio in diciottesimo”, “tirannetto da quattordici al duetto”, per quell’incarico di qualche prestigio scelse proprio un letterato in odore di liberalismo? Forse per sollecitare con questa nomina dissidi e divisioni all’interno del campo liberale e segnatamente tra quella “intellighenzia” che il sovrano sapeva irriducibilmente ostile dopo la sanguinosa repressione del 1831? E perché il Peretti in fama di intellettuale all’opposizione accettò tale nomina? Si trattava di un nodo intricato di ragioni in cui intervenivano senz’altro una giusta ambizione male indirizzata, problemi economici familiari a cui l’appannaggio ducale metteva in parte riparo, poi l’idea, generosa e ingenua insieme, di riuscire dall’interno a stemperare le durezze della politica ducale. Fu, comunque, una decisione sofferta che, da subito e negli anni a venire, doveva costare cara al Peretti: non mancarono al suo operato critiche, anche di amici, che lo amareggiarono e particolarmente doveva segnarlo il duro giudizio espresso a proposito di questa vicenda proprio dalla Adele Curti.


Tant’è. Il 21 ottobre 1840 il Peretti diviene la voce poetica ufficiale del ducato di Modena. L’anno dopo gli muore il padre e il nostro letterato deve lavorare in maniera indefessa per mantenere la numerosa famiglia. Scrive per il “Museo artistico-letterario” di Torino, collabora ad alcune “Strenne”, pubblicazioni miscellanee poetico-letterarie, edite a Monza, a Milano per i tipi dell’editore Vallardi, a Reggio: di quest’ultima un critico severo ed esigente come Terenzio Mamiani dirà che “ogni cosa, grazie a Dio, in questo libro è italiana: i pensieri, lo stile, i temi, le storie”. Sempre nel 1841 fonda il “Silfo”, un periodico letterario, artistico e teatrale che diviene una tribuna per il rinnovamento della cultura e si distingue per i suoi spiriti polemici nei confronti dei retori e degli accademici. Scrive il libretto di Carattaco, melodramma musicato sempre da Catelani e nel 1843 è nominato prima segretario dell’Accademia Atestina di Belle Arti e poi, nello stesso istituto, professore di storia e mitologia. Non pago di questa intensissima attività, trova il tempo per pubblicare il “Buon Umore”, un almanacco umoristico che durò per ben tre anni e che per le sue critiche ai settori più reazionari della società modenese gli procurò non pochi nemici. Conflittuali i suoi rapporti col potere: l’occhiuta censura ducale, nonostante il suo ruolo pubblico, non esita a tagliargli gli articoli che apparivano sull’ “Educatore Storico” di Giovanni Sabbatini, poi soppresso nel ’48.

E’ il periodo più felice della breve vita di Antonio Peretti: è letto, apprezzato, si tiene conto del suo lavoro. Ama una nobile signora sposata e anche la sua vita privata contribuisce a porlo al centro della vita mondana modenese. Interviene autorevolmente a favore degli asili infantili e in un opuscolo, Case di lavoro, caldeggia l’impegno verso i settori meno fortunati della società. E scrive versi, tanti versi, su tutto. Non c’è argomento dell’attualità, della politica, della cultura, addirittura dell’economia che il Nostro non tratti e non canti: le strade ferrate, le Casse di risparmio, le Case di lavoro, fedele a un programma di poesia di circostanza, ma sempre improntata a sensi liberali e civili. Un impegno di sensibilizzazione ai temi della modernità fermo e coerente, il suo, nonostante il ruolo ufficiale: “Peretti, colla nobile audacia del proprio genio, del sapere, del carattere riuscì ad imporsi al principe che aveva fatto impiccare Ciro Menotti”. Si racconta che lo stesso feroce Francesco IV abbia risposto così ad un cortigiano che si sforzava di mettere in cattiva luce il Peretti, facendo riferimento alle sue idealità politiche: “Si figuri se non so che Peretti è un liberale! Ma almeno da lui conosco la verità: da lei non sono mai sicuro di venirla a sapere!”


Ma il clima politico del Ducato era destinato a peggiorare ancora. In contrasto con gli entusiasmi nazionali che precedettero il ’48, il nuovo duca Francesco V, subentrato al padre nel gennaio 1846, scelse invece di trasformarsi nell’alfiere degli interessi austriaci in Italia: prima respinse l’invito a far parte della Lega doganale italiana, poi firmò un’alleanza militare con l’Austria che prevedeva la presenza di truppe imperiali nel territorio emiliano. Un atteggiamento provocatorio destinato a durare fino al marzo del ’48, quando il duca di Modena fuggì ingloriosamente per rifugiarsi nei territori austriaci: a Modena si costituisce un governo provvisorio guidato da Giuseppe Malmusi, che proclama le province di Modena, Reggio e Guastalla unite allo Stato sardo, rappresentato da Carlo Ludovico Sauli d’Igliano. Nel frattempo, i volontari modenesi si battono a fianco dei toscani e dei napoletani: una fase entusiasmante della storia d’Italia a cui non manca il sostegno della musa di Antonio Peretti, che precede, prepara a si inserisce a pieno titolo in quella grande stagione politica. La sua poesia è sempre meno d’occasione, mentre in maniera sempre più marcata si caratterizza per tematiche patriottiche e civili.

Il Peretti afferma che Se non è libera, è una vergogna/ la poesia (A Beatrice Levi, 2 febbraio 1848) e questa convinzione ispirerà tutta la sua produzione a venire con le naturali oscillazioni imposte dalla complicata temperie politica del periodo: gli entusiasmi per Pio IX destinati ad andare delusi in breve volgere di mesi: – Né libera e forte l’Italia sarà/Se agogna lo scettro ciascuna città./Ciascuna è una gemma che il cielo ne dona/Per render più bella la nostra corona:/Chi cinger la deve fia scelto da Pio;/Nessun v’ha dritto. L’Italia è di Dio! (Licenza del dramma “Maria la schiava”, 1 aprile 1848) – si intrecciano con la passione nazionale espressa dal tripudio cromatico della bandiera italiana: Rosso i prodi a guerra invita,/Verde è speme, il bianco è amor…/E’ il vessil d’Italia unita/Il vessillo tricolor! (La bandiera nazionale, 1 aprile 1848); la gioia per l’entrata delle truppe piemontesi nel territorio dei ducati – O giovinette, che al veron sedute/brillate in mezzo ai fiori e a’ lieti panni,/le schiere che tra noi sono venute/non son gli sgherri de’ nostri tiranni;/d’Italia pugnerai per la salute,/dividerai con noi gioie ed affanni:/gettate a questi prodi e nastri e fiori,/ché portan la coccarda a tre colori… (Per l’arrivo in Modena d’un corpo di truppe piemontesi, aprile 1848) – si mescolano con la riflessione storico-politica intorno alla morte e al sacrificio di Mario Pagano, giurista e martire della repubblica partenopea del 1799: Di serva vita indocile/nuovo Caton morivi;/ma del tuo sangue scorrono/ancor fumanti i rivi;/e tra la plebe e il trono/vortici immensi sono. (A Mario Pagano, novembre 1848).

A’ rinnegati itali duci impreca/chi de la Secchia beve e de la Parma;/Freme Romagna minacciosa e bieca,/Etruria s’arma… Guerra, Guerra, perdio! – L’italo acciaro/niun fia che a’ l’odio del tedesco rubi:/tuoni il concavo bronzo, e il primo sparo/sciolga le nubi (L’anno 1849, 26 febbraio 1849)… Soltanto un anno più tardi, gli accenti poetici del Peretti che si sono prima adeguati alle durezze del momento storico-politico, si fanno sconsolati – Ed or che pei fraterni odi gelosi/ricade Italia in servitù straniera (A Teodolinda Boccolari, giugno 1849) – e con versi tanto convenzionalmente letterari quanto commossi non gli resta che rendere omaggio alla figura di Ugo Bassi guerrier di Cristo e de l’Italia (Gli ultimi istanti di Ugo Bassi, luglio 1849).


Dopo “l’anno dei portenti” e le delusioni del ’49, si apre un periodo oscuro per il letterato emiliano: sul suo animo pesano sia la sconfitta delle speranze quarantottesche, sia la nostalgia della sua terra. Nell’estate del ’48 Francesco V è rientrato a Modena, da cui era fuggito alle prime avvisaglie della bufera politica; nel 1850 richiama i Gesuiti e affida loro il governo dell’istruzione pubblica e della vita culturale. Sono tempi incattiviti, avvelenati dalle vendette e dalle rappresaglie contro tutti coloro che in qualche modo avevano favorito i tentativi nazionali e costituzionali: quale spazio potava rimanere per un mite intellettuale dalla vena cordiale e liberale? Peretti preferisce l’esilio e il Piemonte costituzionale lo accoglie, insieme alla “meglio gioventù” italiana di allora, prima a Pinerolo, ispettore delle scuole elementari, poi a Novara: trova un’attività finalmente stabile e più consona alle sue competenze presso il Collegio Nazionale di Ivrea, dove a partire dal 1853 è professore di storia e quindi preside.

Certo la sua Modena gli manca e non poco: unica consolazione, poter rievocare persone, luoghi e scenari cari con Ferdinando Ruffini, compaesano e compagno d’esilio. Si trascura. Beve: ama soprattutto i liquori, Chartreuse e Bon Savoyarde e si può dire che non tolga mai il sigaro di bocca, fumandone 20/25 al giorno. Tarchiatello e robustissimo, la sua salute ne avrebbe senz’altro guadagnato se si fosse limitato negli uni e negli altri. Ipocondriaco col timore delle malattie e religiosissimo per tradizione familiare, vive appartato, pago delle modeste gratificazioni proprie dell’insegnamento e del rapporto con i giovani. A cui si aggiungono rare passeggiate negli incantati paesaggi dei villaggi e laghetti che circondano Ivrea e frequenti visite presso la libreria del libraio Curbis, il Vieusseux del Canavese.

La letteratura e la poesia restano le grandi passioni della sua vita, ma l’ispirazione di un tempo, così facile e fervida, sembra essersi esaurita: negli anni d’esilio produce un solo testo significativo, una ballata, I Marchesi d’Ivrea, l’unica di un progetto che ne prevedeva ben quattro, più volte stampata e ristampata e portata al successo in tutta Italia dalla recitazione dell’attrice Adelaide Tessero. Nella primavera del 1858, in occasione di una visita ad Ivrea di Costantino Nigra, allora segretario del conte di Cavour, che nelle sue parole sembrava annunciare ai presenti entusiasti l’imminente riscatto della patria italiana, il Peretti reagisce con un silenzio carico di presentimenti: non avrebbe rivisto la sua terra, non avrebbe festeggiato il compimento di quell’unità d’Italia che pure aveva spesso cantato con versi ispirati e commossi.


Tra gli affetti privatissimi del letterato emiliano spicca quello per Louisa Grace Bartolini, una signora irlandese, amica dell’Italia e ben addentro agli ambienti artistici politici e letterari, conosciuta nel 1847 e cantata in un sonetto nell’ormai lontano ’48: Alte e agili forme; ardente e nera/Pupilla; ingenuo riso e treccia bruna; /Dotta ed umil, tenera e forte; altera/Di tua virtù, non de la tua fortuna… (A miss Louisa Grace, 1848). La donna non corrispose mai completamente ai sentimenti intensi e profondi del poeta modenese e il semplice cameratismo a cui costrinse la passione del letterato fu per lui motivo di sofferenza e frustrazione e contribuì a intristirne gli ultimi anni. Nell’autunno del 1858, un’ultima visita a Pistoia, luogo di residenza della Grace Bartolini, serve solo ad acuire il senso di scacco e solitudine che ormai circonda tutta l’esistenza di Antonio Peretti.

Muore ad Ivrea il 23 novembre del 1858.



Luciano Luciani

"L’irrequieto Carlo Bini" di Luciano Luciani

L’aggettivo con cui più spesso viene indicato Carlo Bini è irrequieto. Un termine che ben corrisponde alla fama che gli era cresciuta attorno a Livorno dove era nato nel 1806: ingegno brillante, ma indocile, ribelle, quasi uno “scapigliato” ante litteram. Costretto a occuparsi controvoglia della bottega di granaglie del padre Giulio, Carlo vivrà sempre con sofferenza questa condizione mercantile che, a suo dire, gli impediva lo studio e ostacolava il suo bisogno di esprimere i sentimenti e le idee che si agitavano nel suo animo romanticamente appassionato.

Autodidatta di genio apprende da solo il greco, il latino e si impadronisce delle lingue straniere: il tedesco, il francese ed è tra i pochi in quegli anni ad avere consuetudine con l’inglese traducendo Byron e Sterne. Sue traduzioni appaiono in maniera anonima sull’“Indicatore livornese”, che aveva contribuito a fondare e che annoverava tra le sue firme anche i giovani Mazzini e Guerrazzi. Sorprende, però, il disincanto con cui il Bini riguarda all’esperienza di quelle pagine per cui elabora anche articoli di varia umanità che trattando di scienze, lettere e arti si adoperavano per infondere nella ‘meglio gioventù’ di allora amor di patria, di libertà, di riforme civili: “L’ Indicatore livornese” egli scrive ”è un povero foglio bianco, annerito da pochi giovani qua e là dispersi, i quali alla meglio si schermiscono, e cercano mantenergli la vita: ma poco è il numero, poco l’ingegno, poca la dottrina; hanno la buona volontà, ma questa così sola non è cibo che lusinghi il palato di molti. E qui cadrebbe in acconcio, che la crescente gioventù, animata di poetica ispirazione, adoprasse l’estro un po’ meglio, e desse spinta alla barca: altrimenti ho gran paura non si rimanga in secco”. Cosa che puntualmente avvenne nel 1833, quando la polizia granducale interruppe la breve esperienza del foglio labronico e Bini e Guerrazzi passarono tre mesi in prigione, dal settembre al dicembre, nel Forte della Stella a Portoferraio. Forse, più che l’attività giornalistica, agli organi preposti alla tranquillità politica del Granducato aveva dato fastidio l’intensa attività di propaganda e proselitismo che il Bini conduceva proprio dalla sua bottega e le sue frequentazioni con gli ambienti più umili della città, i giovani della plebe, gli operai del porto, i navicellai di cui spesso assumeva le abitudini poco formali e sregolate tra le bettole e le taverne dei quartieri poveri. La sua adesione a questo mondo plebeo e anche violento arrivò al punto che Carlo Bini compromise seriamente le sue già precarie condizioni di salute prendendo parte nel 1827 a una rissa furibonda che gli procurò gravi ferite.

Fu proprio un articolo del Bini che convinse la censura leopoldina a sopprimere la nuova rivista. Arrestato nel 1833 insieme a Guerrazzi, Carlo Guitera, il conte Alamanno degli Agostini e altri democratici toscani, perché sospettati di appartenere alla “Giovane Italia” e ai “Veri Italiani”, nei tre mesi di detenzione Bini compose tutte le sue opere principali: Manoscritto di un prigioniero, Il Forte della Stella e L'anniversario della nascita, scritti che rivelano una grande capacità stilistica e una notevole profondità di contenuto, sempre ravvivati da un sottile umorismo. Nei ventidue capitoli del Manoscritto, che è considerata la sua opera principale, vengono affrontati argomenti di vario genere: giustizia sociale, genio, sventura, noia, suicidio, sentimento religioso, materialismo filosofico, i rapporti tra scienza e fede, l'emancipazione della donna, il diritto alla libertà nell'amore contro il contratto nuziale stabilito in perpetuo: gli influssi sansimoniani sono evidenti.

Alcuni critici hanno notato che nel Bini, malgrado l'indiscutibile matrice mazziniana, è evidente, rispetto al Guerrazzi, una maggiore sensibilità per i problemi sociali della gente al punto che egli può essere considerato un precursore di Carlo Pisacane e degli emergenti princìpi socialisti. Sul giovane letterato livornese così si espresse Giuseppe Mazzini, che lo conobbe a Livorno nel 1829 e che, dopo la sua prematura scomparsa avvenuta nel novembre 1842 a Carrara, fu curatore e prefatore dei suoi scritti: “Anima buona e candida, serbatasi incontaminata a traverso a una gioventù passata trai rozzi e rissosi popolani della Venezia, ingegno potente, ma che imprigionato fra le cure mercantili, e fatto indolente da un profondo scetticismo non di principj, ma degli uomini, e delle cose d’allora, non poté rivelarsi che a lampi. Una immensa rettitudine d’animo e una immensa capacità di sacrificio tanto più meritevole, quanto meno ei credea nel successo, erano doti immedesimate con lui. Ei rideva con me delle formalità e del simbolismo dei Carbonari, ma credeva, com’io credeva, nell’importanza d’ordinarci, sotto qualunque forma si fosse, all’azione”. Le sue pagine, sebbene frammentarie e per tanti aspetti ancora ‘in bozza’, colpirono anche uno dei massimi letterati pre-quarantotteschi italiani, Giuseppe Giusti: “Il Bini aveva molto ingegno, molto acume, molta lettura; aveva quella quieta malinconia che fa vedere le cose per un lato che molti non vedono, e che invece di maledire si contenta di piangere…”

Ai già ricordati lavori di Carlo Bini si aggiunga, oltre a una dolente Lettera al Padre, anche un epistolario amoroso giudicato dalla critica inferiore solo a quello del Foscolo: nelle 78 Lettere all'Adele, raccolte con molta difficoltà e pubblicate solo nella prima metà del secolo scorso, si raccontano “gli sfoghi, le gelosie, gli scoramenti della relazione intrattenuta per pochi mesi tra il 1837 e il 1838 con Adele Perfetti De Witt, una ricca signora dell’alta borghesia livornese, adultera guardinga e tiepida amante, prematuramente deceduta il 9 dicembre 1838… Stupisce non poco sorprendere l’umorista autoironico del Manoscritto e l’austero estensore della lettera al padre del 28 luglio 1836 nella posa incantata dell’innamorato acceso e implorante, intento ad autoglorificare gli atletici palpiti del ‘cuore’ con il soccorso di una prosa un po’ invereconda esposta ai tipici peccati dell’incontinenza cardiopatica” (Tellini). D’altra siamo nel pieno dell’età romantica e il Bini ne è tutto intriso: “Il mio carattere è forte, severo, passionato, disprezza le forme esterne delle cose, attende solo allo spirito; non si contenta che del vero, e aborre mortalmente la civetteria d’ogni specie. Il mio carattere è al tempo stesso cavalleresco; la donna non ha nulla a temere da me; il culto della donna è per me santo, solenne; e quando io non potessi più amarla, né stimarla, saprei pur sempre compatirla sinceramente”.

Democratico e romantico, materialista e pessimista, scrittore antiletterario per scelta e vocazione, Carlo Bini, anche in tempi di anniversari e manifestazioni, continua a essere trascurato e ignoto ai più: sembra quasi che il destino di isolamento ed emarginazione che gli era toccato in sorte nel corso della sua breve esistenza si prolunghi negli anni, da un secolo all’altro, indipendentemente dai meriti che la critica letteraria più aggiornata è ormai disposta unanimemente ad attribuirgli. Eppure, non sarebbe male leggerlo o tornare a leggerlo: in tempi, come i nostri, di così evidente catastrofe etica e culturale se ne potrebbero ricavare utili e impensate lezioni di coerenza intellettuale, di rigore morale, di ‘ragionevole passione’politica.





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