28 novembre 2013

"Luce d'estate ed è subito notte" di Jon Stefànsson

di Camilla Palandri

Come si vive in un paesino di quattrocento anime sperduto nelle campagne islandesi che non ha nemmeno un cimitero?
Può la vita essere animata e colorata dalle umane passioni in una terra tanto fredda e inospitale dove il buio incombe per gran parte del tempo?
Leggendo il romanzo di Jon Stefànsson ci si accorge che è possibile. Sogni, desideri, paure, debolezze,gioie e dolori nel loro quotidiano intreccio, sono qui presenti come altrove e trovano espressione nella carrellata di personaggi che l’autore caratterizza attraverso la narrazione delle loro storie. Una narrazione corale, come se tutti gliabitanti fossero compartecipi.

Così ,capitolo dopo capitolo, emergono le varie figure che rimangono più o meno impresse, ognuna una piccola tessera che va a comporre il quadro d’insieme.
Ci sono l’Astronomo, uomo eccentrico che abbandona il lavoro, la casa e la famiglia per dedicarsi alla sua improvvisa passione rivelatasi in sogno, Elisabeth bella e seducente , oggetto di desiderio di molti uomini, che aspetta il ritorno di Mattias, Augusta che ama vivacizzare la propria vita intrufolandosi nelle vite altrui attraverso la corrispondenza , Kartjan che distrugge il suo equilibrio familiare nella passione per Kristin, Benedikt che vede infrangersi la sua storia d’amore appena sbocciata nella crudeltà del Destino.

Un mosaico di vite fluidamente narrate , ora con toni ironici ora più poetici, in cui l’autore cala con leggerezza riflessioni profonde sulla vita e sul senso stesso del vivere, lasciando la domanda aperta.

Jon Stefànsson- LUCE D'ESTATE  ed è subito notte. Traduzione di Silvia Cosimini. Iperborea. euro 16,00



LUCE D'ESTATE ed è subito notte
di Jón Kalman Stefánsson - See more at: http://www.librierecensioni.com/libri3/luce-d-estate-jon-kalman-stefansson.html#sthash.Sy73cdHU.dpuf



LUCE D'ESTATE ed è subito notte
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22 novembre 2013

"Viaggio in Garfagnana: Castiglione e Sassorosso" di Gianni Quilici





17 novembre 2013, ore 12, temperatura 12°. Un cielo incerto tra grigio e luce.
“Prima o poi vorrei scendere giù nel Serchio …fare foto” dico. Mi appare a tratti dalla macchina il biancore dei sassi lungo il greto e il bagliore dell’acqua, che indugia nel letto. Lo sento un paesaggio autentico, senza fronzoli, da abbracciare.

foto Gianni Quilici
Ore 13. Castiglione di Garfagnana.
Lasciamo la macchina di fronte alla porta principale. Le porte sono una delle mie ossessioni fotografiche, perché forniscono una cornice e un contrasto di luce. Ci vuole però un corpo. Arriva d’improvviso. Un giovane che cammina veloce.
Non c’è nessuno nella piazza: il municipio, qualche panchina, un pozzo al centro ed una fontana incorniciata di bugnato. La strada lastricata porta alla Rocca. La Rocca è magnifica. La vedo da un belvedere erboso. In basso una bella casa colonica abbandonata con scale, un piccolo portico,  alberi scheletrici.
La Rocca va vista da diversi punti di vista. Uno dei migliori è  agli inizi del campanile di San Pietro dall’alto delle mura, perché da qui la Rocca può essere isolata nella sua forza e natura di pietre e sassi. Ma la bellezza singolare di Castiglione è nell’insieme: nella struttura muraria, che corre lungo la strada con le sue splendide torrette, tra cui, originale, quella con il campanile di San Michele sopra di essa. Non c’è quasi nessuno a quest’ora e di domenica: solo un cane ricciuto tutto bianco e un altro con chiazze nere legato al padrone. Fascino del tempo che scorre in uno scenario, che lo scolpisce.

Ore 14. Casina Rossa.
La fame, il parcheggio, il ristorante Linda. Ambiente familiare, bei quadri vagamente impressionisti alle pareti, vecchie foto sulla zona. Un primo piatto eccezionale: crèpe, in cui pezzettini di noci creano una dialettica di sapori in armonia.

foto Gianni Quilici
Ore 15. Sassorosso.
Appare dopo una curva in una posizione felicissima raccolto sotto un enorme masso rossastro; un masso  da cui  veniva estratta una pietra ricca di fossili detti “ammoniti”. Si scende lungo una stradina asfaltata, che finisce allargandosi in una piazza su cui incombe la parete rocciosa da un lato e la chiesa con il bel campanile con bifore e pinnacoli dall’altro. Vedo una fontanella, il monumento a un giovane caduto durante la prima guerra mondiale, una strada che sale e una che scende. Vedo  una casa in ristrutturazione con una bella pavimentazione di pietra squadrata, un’osteria, ferri di cavallo attaccati sulla facciata di una casa e le rocce che salgono fino alla cava, oggi, abbandonata.



Ore 16. Lungo la strada.
Fermiamo la macchina. Scattiamo la foto, l’ultima: Sassorosso, che appare sfocata tra foglie di castagni, nella sua miracolosa evanescenza.

   

20 novembre 2013

"Manifesto per la soppressione dei partiti politici" di Simone Weil



di Gianni Quilici

E’ un manifesto di 20 pagine scritte da Simone Weil pochi anni prima della sua morte, avvenuta nel 1943. Un manifesto per la soppressione dei partiti politici. Perché? Perché lo scopo di un partito –sostiene Simone Weil - non è il bene e il giusto, ma la propria crescita, senza alcun limite. Il partito è una macchina per fabbricare una passione collettiva che esercita una pressione condizionante in ognuno degli esseri umani che ne fanno parte. Per questo ogni partito è totalitario in nuce e nelle aspirazioni.
Questo argomenta in sintesi Simone Weil.

Per capire la forza e l’importanza di questo manifesto dobbiamo collocarlo negli anni ’40, quando predominava nella sinistra, e in particolare nel PCF, lo stalinismo. Il manifesto è quindi anche uno strumento coraggioso di lotta politica e ideologica contro  il clima regressivo dominante.

L’ambizione di Simone Weil va, però, oltre la contingenza politica. Vuole assurgere a verità assoluta allora come oggi. Ed oggi per la crisi dei partiti potrebbe apparire ancora più urgente e più credibile.
Pur non avendo letture e esperienze per affrontare a fondo questa questione, vorrei porre alcuni temi di riflessione.

La prima: se ogni partito è in nuce totalitario, allo stesso modo anche qualsiasi gruppo o movimento, che si pone, soprattutto, il problema di governare, ha in seme questa possibile totalitarietà. Può esistere, quindi, una democrazia che ci comprenda tutti, oppure più verosimilmente esiste una continua dialettica tra autoritarismo  e libertà?

 La seconda riflessione: Jean Paul Sartre osserva che “il partito è in rapporto alla massa una realtà necessaria, perché la massa in sé non possiede neppure una spontaneità”. Però osserva Sartre che “appena il partito diventa istituzione, è –salvo casi eccezionali- reazionario in rapporto a quello che esso sollecita o crea gruppo in fusione”. E  in questo che si potrebbe chiamare anche movimento,  Sartre individua diverse forme di coscienza di classe molto diverse tra loro: da una parte una coscienza avanzata, dall’altra una coscienza che quasi non esiste e fra di esse una serie di mediazioni. Il partito di fronte a questo “diventa un bene, perché impedisce di cadere nella serializzazione completa”. Tuttavia “rispetto a una massa in fusione il partito è sempre in ritardo, anche quando tenta di dirigerlo, perché la impoverisce, cerca di subordinarla a sé, se addirittura non la rifiuta, non la smentisce”... Perché esso “cresce come un insieme di istituzioni, quindi come un sistema chiuso, appesantito, tendenzialmente sclerotizzato”. (1)

Sartre pone quindi questo dilemma: come superare la contraddizione inerente alla natura stessa del partito, in modo che questo costituisca una mediazione attiva fra sé e gli elementi serializzati e massificati dei movimenti?

Problema che si pone anche Lucio Magri, che tuttavia è perentorio nella necessità del  partito. “Puoi fare tutte le manifestazioni che vuoi sull’articolo 18, sulla pace, sui diritti dei cittadini, su una giustizia giusta- dice Magri- “ma se queste mobilitazioni non si sedimentano, se non vi è un progetto politico, se non vi è un partito capace di raccogliere queste esperienze –come dimostra la storia di questi anni- ogni patrimonio rischia di disperdersi”. (2)

Ma allora che tipo di partito? Su questo interrogativo  Lucio Magri offre molti spunti ancora   oggi validi, difficili da schematizzare, presenti in una pubblicazione oggi introvabile “Classe, consigli, partito” (quaderno n. 2, realizzato dal manifesto, alfani editore) .

Infine,  una teoria del partito, per essere oggi all’altezza dei tempi, deve non solo avere consapevolezza che si vive in una società fortemente tecnologizzata e globalizzata, dove uomini, donne, bambine, bambini rischiano di diventare sempre più un prolungamento delle macchine, frantumati nel pensiero, nei sentimenti e nel tempo; ma anche che una risposta a questa tendenza contraddittoria non può non avere un forte spessore culturale e immaginativo, raccogliendo il meglio del pensiero sociologico e psicoanalitico. Una scommessa comunque difficilissima per la sproporzione tra i mezzi del capitalismo e quelli di chi si rivolta siano essi movimenti, partiti o stati.

1) Quando si pensava in grande. Tracce di un secolo. Colloqui con venti testimoni del Novecento di Rossana Rossanda (Einaudi, pagg. 241, euro 17,50)
2) Alla ricerca di un altro comunismo di  Lucio Magri. Il saggiatore., pagg. 288, euro 18.50)

Simone Weil. Manifesto per la soppressione dei partiti politici. Castelvecchi, collana Etcetera. pagine 60.  € 6.

"Pensieri fatti camminando (anzi, spesso, correndo)" di Bertrand Morane,



L'invitation au voyage
Mon enfant, ma sœur,
Songe à la douceur
D'aller là-bas vivre ensemble !
Aimer à loisir,
Aimer et mourir
Au pays qui te ressemble !
Les soleils mouillés
De ces ciels brouillés
Pour mon esprit ont les charmes
Si mystérieux
De tes traîtres yeux,
Brillant à travers leurs larmes.

Là, tout n'est qu'ordre et beauté,
Luxe, calme et volupté.

Des meubles luisants,
Polis par les ans,
Décoreraient notre chambre ;
Les plus rares fleurs
Mêlant leurs odeurs
Aux vagues senteurs de l'ambre,
Les riches plafonds,
Les miroirs profonds,
La splendeur orientale,
Tout y parlerait
À l'âme en secret
Sa douce langue natale.

Là, tout n'est qu'ordre et beauté,
Luxe, calme et volupté.

Vois sur ces canaux
Dormir ces vaisseaux
Dont l'humeur est vagabonde ;
C'est pour assouvir
Ton moindre désir
Qu'ils viennent du bout du monde.
- Les soleils couchants
Revêtent les champs,
Les canaux, la ville entière,
D'hyacinthe et d'or ;
Le monde s'endort
Dans une chaude lumière.

Là, tout n'est qu'ordre et beauté,
Luxe, calme et volupté.
Da: Baudelaire, Les Fleurs du mal, 1857

di Angela Giovanna Palermo

La lettura del libro del dott. Morane regala le stesse sensazioni che, di solito, regala un viaggio. Ogni viaggio è un po' un'esplorazione di se stessi, come lo canta la struggente poesia di Baudelaire che abbiamo scelto come introduzione a queste riflessioni. Questo libretto breve e intenso non fa eccezione: esso è un invito al viaggio. Un viaggio esistenziale di quelli da cui si ritorna, irrimediabilmente, "diversi".

"8.3 In ogni vero viaggio c'è sempre il rischio, e talora il desiderio, di porre in gioco la propria identità; nella fuga c'è al contrario quello di preservarla in un contesto ipoteticamente diverso".
Dalle poche notizie biografiche che lo stesso autore consegna prudentemente al lettore, colpisce soprattutto che questo "diario di viaggio" sia stato scritto dopo un trasferimento dalla Francia e durante un periodo di isolamento e di solitudine. L'altro tratto che non può non colpire è la forma stilistica che l'autore ha deciso di adottare per redigere questo breviario psico-sofico sull'esistenza.
Questi due aspetti potrebbero già da soli rendere appassionante la lettura di questo modesto capolavoro che non si può né si deve ridurre a nessun genere predefinito, se non  a costo di denaturalizzarlo.

La nozione di "abitare" di heideggeriana memoria, insieme all'elemento linguistico che si impone prepotentemente sotto forma di aforismi, epigrammi e pensieri ellittici di immensa potenza icastica, fanno da sfondo e insieme da trama.
  
Come diceva Heidegger, si può abitare sontuosamente e poveramente. Abitare è una forma di riconoscimento sociale, ma al tempo stesso può esserne la negazione. Ma l'uomo che abita il mondo abita, al tempo stesso, un certo tipo di linguaggio senza mai esserne padrone. 

Ebbene, noi crediamo che il dott. Morane non avrebbe scritto questo libro se non avesse fatto esperienza di un abitare doloroso in un casolare isolato.  E' stato questo sofferto abitare fisicamente in un dato luogo che l'ha condotto ad abitare un certo tipo di linguaggio e di stile per evitare di possederlo, per arrivare a fare esperienza del legame intrinseco che lega linguaggio ed essenza. La sua scrittura è un caso lampante di traducibilità della lingua in pensiero vivo. Egli sembra quasi voler riproporre i progetti utopistici dei logici del Seicento che volevano tradurre in segni matematici il linguaggio verbale per sfuggire a ogni pericolo di rimanere imprigionati nelle catene complicate dei sofismi linguistici. I suoi pensieri cifrati richiamano alla mente il tentativo di geometrizzazione dell'Etica da parte di Spinoza. Leggendoli, si ha l'impressione che l'autore abbia tentato di sostituire la logica alle passioni: "7.2 Bisognerebbe costruire una logica del pensiero, nel senso di individuare degli algoritmi che indichino che cosa ha realmente significato e cosa no".

Ogni tema affrontato potrebbe essere il soggetto di un intero saggio che, però, sarebbe difficilmente ascrivibile ad un solo genere e ad una sola materia. Il dott. Morane, infatti, si serve al tempo stesso delle sue conoscenze mediche, filosofiche, letterarie, cinematografiche ed esistenziali dando prova, tra l'altro, di una grande erudizione. Noi consideriamo questo aspetto come la più grande ricchezza di questo libretto discreto, abbastanza "piccolo" da essere portato con sé in viaggio.

Il fatto che uno psichiatra come il nostro autore non si infermi in uno sterile professionismo che caratterizza tanti psichiatri e uomini di scienza in generale, risponde ad una chiara visione della psichiatria e della scienza in generale.

Il lettore è stanco di trovarsi di fronte a saggi di sedicenti psichiatri che presentano teorie sulla verità e sulla mente che troppo spesso si presentano come molto pretenziosi ma irrimediabilmente poveri di contenuti profondi. E il paziente che chiede aiuto può facilmente perdersi nella giungla selvaggia delle psicoterapie proposte.

Finalmente ci troviamo di fronte ad un libro che non ha teorie da presentare ma solo punti di vista da proporre. Il lettore sente finalmente di potersi fidare di un medico che si muove su un terreno magmatico ed instabile e che non ha paura di non identificarsi troppo con un particolare brand di terapia. L'impressione istintiva che il lettore ne ricava è quella di uno psichiatra che non pretende di curare prima ancora di ascoltare. Il suo libro lo dimostra: esso è pieno di idee ma completamente scevro da ideologie: 
"9.5.2 Il terapeuta più serio migliora nel rapporto con il suo paziente. Questo vuol dire che il terapeuta ha smesso di giudicare, di avere preconcetti, di proiettare sul paziente contenuti propri, timori, teorie, modelli, schemi, aspettative; vuol dire che si è liberato di elementi transferali sovrastrutturali, positivi come negativi; vuol dire che è entrato veramente in rapporto e in sintonia con lui, che ha imparato ad ascoltarlo e non a manipolarlo";
 "9.12 In psichiatria le idee sono necessarie ma sempre molto pericolose; quando diventano ideologie diventano nefaste perché allontanano dal reale in una direzione completamente diversa da come lo fanno i disturbi mentali. Il giusto procedimento in psichiatria è "avere delle idee", confrontarle con la realtà clinica che le distruggerà in modo più o meno radicale, costruirne altre sulle ceneri delle precedenti. Questo è "pensiero clinico" ".

E così, gli aforismi più "clinici" risultano lucidi, propositivi, mai pedanti. Il lettore ne rimane incantato per l'incisività e la chiarezza espositiva. Essere oscuri non è mai un pregio. Si è oscuri quando si è confusi o quando non si ha nulla da dire o quando ciò che si ha da dire è così poco sostenibile che si cerca di camuffarlo con l'oscurità. Gli aforismi in merito alla follia e alla psiche sono tra i più riusciti per la loro disarmante chiarezza ed estraneità ad ogni tipo di  pre-giudizio:
"8.2.2 La psicologia è un insieme di conoscenze che nascono osservando certe cose troppo da vicino in modo tale da perdere completamente di vista l'ampio orizzonte delle loro determinanti".

Gli aforismi che riguardano le credenze soggettive dell'autore e le donne, invece, molto spesso sono tesi, scattanti, carichi di cinismo e di contraddizioni. Bisogna leggerli e rileggerli per capire che la rabbia che li contraddistingue è una "rabbia da grande amore". 
Solo chi ama le donne con intensità smisurata può far trasparire quel tipo di rabbia dai suoi pensieri scritti: 
"5.1 Il mondo femminile lo si scopre lentamente con meraviglia e orrore"; 
"5.4 L'innamoramento femminile (la fase della seduzione) è uno spettacolo naturale sempre sorprendente e sostanzialmente estraneo all'animo maschile. E' un fenomeno irreale e indifferente al reale.; le donne vogliono in ogni modo e ad ogni costo l'oggetto d'amore che hanno prescelto come se fosse l'unico al mondo, indipendentemente dalla situazione, dal suo parere, dalle sue motivazioni. L'amore delle donne parte sempre come unico, eterno ed assoluto, anche se le circostanze dimostrano il contrario. Il linguaggio dell'amore femminile è semplice ed uniforme: non riconosce pause e tempi morti, produce la catena inesorabile degli accadimenti che devono portare all'accoppiamento. Le donne innamorate sono parlate dal meccanismo universale che guida il mondo".

Nonostante la carica pessimistica e disincantata dei pensieri sugli affetti, sull'amore e i suoi inganni, sulle separazioni, l'impressione globale che se ne ricava, se si sanno leggere nel giusto ordine i pensieri, è quella di un uomo che divora ogni attimo della sua esistenza con un appetito insaziabile: "3.2 L'amore nella sua essenza è infinito, non ammette limiti, va lasciato espandere come l'universo. Chi non ama a poco a poco implode, muore".

Noi avremmo voluto intervistare il misterioso psichiatra francese per conoscere i dettagli della sua storia scientifica e umana che lo hanno condotto a percorrere questo viaggio attraverso la scrittura. Tuttavia, ci siamo accorti che nessuna intervista avrebbe potuto dirci dell'autore più di quello che questi pensieri ci dicono. Se questo libro si riesce a leggere senza farsi trarre in inganno dalla sua apparente facilità e banalità di alcuni aforismi, allora esso apparirà per quello che essenzialmente è:
una finestra privilegiata attraverso cui scrutare la profonda, pluridimensionale, complicata, vulnerabile, maschile anima dell'autore:
"10.1 Nei film come nei libri odio le trame scontate, i format prevedibili, le stereotipie dei generi. Ma questo si applica anche alla mia vita".

Secondo il nostro personale punto di vista scrivere un libro non è mai un piacere, il piacere consiste piuttosto nello studio preparatorio. Come Descartes confidava a Mersenne:"Provo molto più piacere a istruire me stesso che non a mettere per iscritto il poco che so. E passo così dolcemente il tempo istruendo me stesso che non mi metto mai a scrivere se non per costrizione".

Noi crediamo che scrivere un libro si giustifica solo se è di qualche utilità al lettore. Siamo certi che questo libro suggerirà al lettore freschi pensieri sulla psichiatria, sull'esistenza e sull'amore o che almeno, offrirà a chiunque lo legga l'occasione per riconsiderare le sue idee in merito a questi argomenti. 

Bertrand Morane, Pensieri fatti camminando (anzi, spesso, correndo), edizioni Joker. 

18 novembre 2013

"Imperia, cortigiana romana" di Luciano Luciani



Bella, ricca, infelice


Oltre alla veneziana Veronica Franco e a Tullia d’Aragona che esercitò i suoi talenti a Roma, Venezia, Siena e Firenze tra le famose cortigiane rinascimentali va ricordata anche la romana doc Imperia. 

Bella, ammirata, desiderata, era dotata di straordinario fascino e del potere che le derivava dagli uomini a cui si accompagnava: uno per tutti il senese Agostino Chigi (1465 – 1520), detto, pure lui!, il Magnifico, banchiere di papi, costruttore della Farnesina, munifico mecenate di letterati e artisti. Imperia segna della sua personalità la fase ascendente del Rinascimento romano. 

Nata nel rione di Borgo il 3 agosto 1486 da una cortigiana di modesto profilo, Diana Corgnati, e da Paris de Grassis, cerimoniere pontificio, molti ne cantarono la straordinaria bellezza: “bianca e spaziosa la fronte, incoronata da capelli color dell’oro, sottile il collo e ampi e deliziosi i seni”. Modella - e quasi per certo amante - di Raffaello Sanzio, che probabilmente la raffigurò nelle fattezze di Galatea nell’affresco che si trova alla Farnesina, conversatrice brillante e autrice di versi non disprezzabili, “si dilettava de le rime volgari” e “non insoavemente componeva qualche sonetto o madrigale”. Un’abilità appresa alla scuola dello Strascino, ovvero il letterato originario di Siena Domenico Campani, autore di rime giocose, di gran moda nella Roma dei primi anni del Cinquecento, poeta mediocre, ma capace di impartire alla giovane arrampicatrice sociale una raffinata educazione umanistica. 

Cortigiana tra le più celebrate si poteva permettere di abitare in una residenza simile a una reggia nei pressi della locanda dell’Orso, in uno dei quartieri più ricchi della città. ”Era una casa apparata et in modo del tutto provvista, che qualunque straniero in quella v’entrava, veduto l’apparato e l’ordine de servidori, credeva ch’ivi una principessa abitasse. Era tra l’altre cose una sala et una camera et un camerino sì pomposamente adornati, che altro non v’era che velluti e broccati, e per terra finissimi tappeti… in sur una ricca sedia vi era una bella e vaga giovinetta di età di anni diciotto, quale era vestita di ricchissime veste, con un numero infinito di pontali d’oro e gruppi di perle… E perché tutte le cortigiane di Roma, specialmente quelle che sono di qualche valore, sogliono stare in casa per lo manco con due fanti… quelle fanti tutte preste apparecchiorno nella ampia sala una ricca tavola con molte preziose vivande e finissimi vini”: così descrive la sua dimora Matteo Bandello che l’amò, come pure il vescovo Iacopo Sadoleto, il bibliotecario del papa e organizzatore di eventi teatrali Tommaso Inghirami, il poeta licenzioso Bernardino Cappella, Camillo Porcari, Antonio Lelli, il letterato umanista Angelo Colocci, Filippo Beroaldo junior che animarono il sofisticato circolo artistico – letterario che si ritrovava nella sua suntuosa magione.

Imperia, però, non era felice. Innamorata, infatti, di un nobile romano, Angelo Del Bufalo, non poteva sposarlo perché l’uomo era già legittimamente coniugato e nella Roma papale si poteva senza scandalo condividere il letto con un cardinale, ma non era permesso divorziare per non infrangere il sacro vincolo del matrimonio. E allora, dopo l’ennesimo litigio con l’amante, decise di uccidersi, assumendo un veleno mortale: a nulla valsero le cure dei medici più famosi di Roma fatti giungere al suo letto dall’antico protettore, Agostino Chigi. Dopo due giorni di una dolorosa agonia, Imperia morì: una vicenda tragica che colpì l’immaginario popolare al punto che i cantastorie la celebrarono a lungo per le strade di Roma intonando una tarantella intitolata Il lamento di Imperia mandato dall’inferno in questo mondo attribuita a Giuliano Ceci. Pietoso della sua vicenda fu addirittura il terribile Aretino che di lei scrisse che “morì bene, ricca, e in casa sua e onorata.”
Così il poeta Giano Vitale la piange nell’ Imperiae panegyricus:

Si elargirono a Roma due gran doni
Marte le die’l’impero, Venere Imperia.
Morte e Fortuna ostaron, e portò via
Fortuna impero,
Imperia Morte
Pianser l’impero i padri,
noi, noi questa piangemmo.
Quelli l’impero, noi, noi
abbiamo perso il cuore.

Sepolta in una bellissima tomba rinascimentale nella chiesa di San Gregorio al Celio, voluta da Agostino Chigi, di lei restò, per oltre un secolo, solo il ricordo di un’elegante iscrizione latina che tradotta suonava così: “Imperia, cortigiana romana che, degna di così gran nome, offrì un esempio di bellezza raro per il genere umano. Visse ventisei anni e dodici giorni e morì nell’anno 1512, il 15 agosto”. Un congedo dal mondo che non pecca certo d’ipocrisia come, invece, quello di un’altra ‘cortigiana onesta’, Beatrice Pareggi, inumata sempre nella chiesa di Sant’Agostino: “Fu madre esemplare, rapita nel fiore della sua santa gioventù”.



16 novembre 2013

"Appunti dei viaggio" mostra fotografica di Wim Wenders

di Mimmo Mastrangelo


Quel che amo soprattutto nella fotografia analogica, non per nostalgia, ma per puro piacere, è che essa può ancora rappresentare la realtà così senza filtri. L’atto del fotografare è un lavoro costante contro la sua progressiva scomparsa”.
Parole con cui il più grande regista tedesco vivente, Wim Wenders, ha presentato alla Casa della Fotografia di Villa Pignatelli a Napoli la mostra dei suoi scatti “Appunti di viaggio”, curata da Anna Rispoli e promossa dalla Soprintendenza di Napoli.

Venti fotografie di grandi dimensioni (già inserite nel volume-catalogo uscito due anni fa “Places Strange an Quite”) in cui ritroviamo ancora una volta un Wenders-viaggiatore, un Wenders-Ulisse con una sua etica dell’esplorare mondi dimessi e di entrare in contatto e sentirsi parte di essi. E, seppur, con le foto il regista tedesco non faccia alcun riferimento diretto al cinema, da esse, comunque, si possono palpare le atmosfere sospese dei suoi film (su tutti “Alice nella città”). 

Wenders sposa un vecchio stile del fotografare, quello del vagare per i luoghi, ricercare il mistero che nascondono, lasciare memoria di uno spazio desolato (eppure fascinoso). Un vecchio muro del quartiere ebraico di Berlino che ancora conserva gli effetti dell’ultimo conflitto mondiale, una parete esterna di un palazzo berlinese su cui è riportata una scritta che deplora gli effetti del capitalismo, una surreale ruota panoramica dentro una campagna desertica, il cimitero nel centro cittadino di Tokio, le grandi lettere di un alfabeto armeno appoggiate su dei massi a mò di scultura in un’arida radura sono testimonianza di un camminamento esistenziale, di come Wenders dialoghi con i luoghi e viva intensamente le sensazioni che questi gli trasmettono, racconti di un passaggio dell’uomo anche attraverso la sua totale assenza, trattenga “la memoria dei luoghi in un silenzioso flusso del tempo”.

A ciascuno dei venti scatti Wim Wenders ha aggiunto una didascalia, un pensiero, un appunto quasi come se volesse “stimolare la capacità immaginifica della spettatore” non solo dai fermi-immagine ma pure dal registro della scrittura. Il fotografare per Wenders è una attività che lo rende libero, lui dice che, a differenza di quando è dietro la macchina da presa, per fotografare non c’è bisogno di avere delle storie in testa, “bisogna che la mia testa sia vuota, perché voglio farmi cogliere e sorprendere dagli spazi che scopro”.

Quasi una terapia è lo scatto per il regista, anche il solo fermare il suo occhio dal mirino dell’obiettivo su un cantiere di nuovo di nuovo mentre sullo sfondo si intravede l’antico palazzo della repubblica di Berlino vuol dire per stare dentro al mondo, coglierne un suono, un ritaglio visivo. Vuol di dire per Wenders sentirsi vivo. 
 
NAPOLI – Villa Pignatelli- Casa della fotografia. “APPUNTI DI VIAGGIO”, mostra fotografica di WIM WENDERS. Fino al  17 novembre.

14 novembre 2013

"Campana a morto" poesia di Fernando Pessoa



disegno di Tullio Pericoli

Campana a morto
Presi il mio cuore
e lo posi nella mia mano

Lo guardai come chi guarda
grani di sabbia o una foglia.

Lo guardai pavido e assorto
come chi sa d'essere morto;

con l'anima solo commossa
del sogno e poco della vita.
                                 Fernando Pessoa
                                                                                  (traduzione di Luigi Panarese)



E' una poesia che va letta e ri-letta
 E' una poesia sottilmente appassionata
 ma soprattutto disincantata
 E’ una poesia che si dona
pur rimanendo distaccata
 E’ una poesia visionaria
ma anche allucinata
 E’ una poesia dove vita e morte si incontrano
 senza dolore, senza felicità
E tuttavia è una poesia che dà felicità,
La felicità dell’essere poesia
                              [nota di Gianni Quilici]

11 novembre 2013

RIVISTA “Guerra dei bottoni” di novembre









di Laura Di Simo
 
La “Guerra dei bottoni” rivista di cultura, informazione e varia umanità n.10, novembre 2013, è on line.

L’ha promossa, a partire dalla fine dell’anno scorso, un piccolo gruppo di giovani che amano ancora leggere e scrivere, in compagnia di un paio di signori ‘diversamente giovani’. L’intenzione, tutt’altro che facile, quella di produrre alcune pagine in rete da mettere a disposizione di tutti coloro che avranno la pazienza di leggerle.

Nessuna pretesa di cambiare il mondo. Piuttosto commentarlo, offrendo, magari, punti di vista personali e, speriamo, originali; individuarne e indicarne alcuni punti di crisi, poco noti o inesplorati; consigliare libri, ma anche film, canzoni, mostre, spettacoli teatrali, iniziative e manifestazioni, capaci, a nostro modestissimo parere, di indurre entusiasmo o commozione, passioni e rabbie positive.
Insomma, partecipare informazioni ed emozioni.

E farlo con spirito lieve, come suggerisce la testata, “La guerra dei bottoni”, piccolo/grande capolavoro letterario di un secolo fa e film, altrettanto bello, di cinquant’anni più giovane.

Di quei due prodotti culturali del Novecento, libro e film, la Redazione intende mantenere le qualità, rimaste intatte in un mondo, invece, profondamente cambiato:
- intanto, il profondo senso di libertà che li ispira;
- poi, un approccio alla conoscenza della realtà privo degli obblighi e delle costrizioni di tanti seriosi e fin troppo coerenti sistemi ideologici e filosofici;
- da ultimo, il gusto per l’avventura e la curiosità intellettuale proprio di quell’età tra l’infanzia e l’adolescenza che la redazione vorrebbe che diventasse anche la cifra della “Guerra dei bottoni” on line.

Il sommario del numero di novembre propone per la Sezione Nazionale: E’ Stato la Mafia di Manuela Margagliotta; Ancora assalti alla diligenza e Ancora sulla strada del Vaticano II di Alessandro Antonio Giusti; per Filosofia e Società, Sviluppo, crescita e totalitarismo di Alessandra Giusti; in L’altra storia, Potosì, Bolivia. L’El Dorado dei latini di Alessandra Giusti; Il difficile cammino del caffè e Donne e Risorgimento. Una tessitrice dell’unità nazionale: la lucchese Luisa Amalia Paladini di Luciano Luciani; per Letteratura e Teatro Katia Ricci recensisce il romanzo di Liliana Di Ponte, L’equilibrio sospeso degli aironi, mentre nell’articolo “Addio e grazie per tutto il pesce” in Scienza e Salute, la biologa nutrizionista Vittoria Cristina Bertolini ci parla del pesce nella dieta mediterranea.

Due i “Bottoni” di questo numero: quello poetico curato, come al solito, da Luciano Luciani e quello, di recente istituzione, “Dei Lettori” con le notizie di Alessandra Signorile dalla mostra di Silvio Vigliaturo a Chieri.
Buona lettura!

08 novembre 2013

"L'estrema destra in Germania" di Luciano Luciani



Germania, pallida madre



Tracciata con la vernice nera sui muri delle più importanti città tedesche, riappare, con inquietante frequenza, il segno della svastica. Vere e proprie bande fasciste infestano i quartieri popolari delle principali città industriali compiendo atti di violenza nei confronti dei lavoratori stranieri immigrati e attizzano risentimenti xenofobi, mai del tutto sopiti, tra l’opinione pubblica tedesca: demagogicamente, non solo la destra estrema, ma anche i settori più conservatori della Democrazia cristiana tedesca non si fanno scrupoli nell’attribuire agli immigrati la responsabilità delle difficoltà economiche e sociali che hanno cominciato a mordere anche il tranquillo assetto dell’opulenta società tedesco-occidentale.

Manifestazioni e convegni promossi dalle oltre cento associazioni di estrema destra presenti e operanti in Germania  -  a cui  vanno aggiunte le numerosissime associazioni d’arma, ognuna con la sua brava articolazione giovanile, sempre attestate su posizioni nostalgiche e revansciste e lautamente finanziate con i soldi dei contribuenti tedeschi - conoscono il concorso e la partecipazione di ‘camerati’ austriaci, italiani, inglesi, francesi, spagnoli, russi, ungheresi.... Ancora oggi sarebbero almeno un migliaio  i membri di organizzazioni di estrema destra che occupano funzioni di direzione nei diversi ministeri. Simpatizzanti dei gruppi neo nazisti ed ex gerarchi hanno infestato massicciamente per quasi mezzo secolo, e sino a qualche anno fa, gli ambienti della diplomazia, della magistratura, dell’esercito, delle Chiese. La potentissima Federazione tedesca dell’Industria ha visto per lungo tempo ai suoi massimi livelli due ex gerarchi: tralasciamo, poi, per non annoiare il lettore, il lungo elenco dei personaggi già compromessi con il regime nazista e che per conto della CDU-CSU hanno ricoperto incarichi di responsabilità a livello di Stato federale e di Länder. Secondo calcoli approssimativi in Germania vivono ancora alcune decine di migliaia di persone in qualche modo implicate nelle stragi ordinate da Hitler e dallo Stato maggiore nazista: oggi tutte assai anziane e con delle vite “rispettabili” e senza rimorsi alle spalle. Un passato che non vuole passare: ha colpito molto l’opinione pubblica di tutto il mondo il caso dell’attore tedesco Horst Tappert (1923 – 2008), interprete del celeberrimo Ispettore Derrick nel telefilm omonimo in onda sugli schermi televisivi di tutto il pianeta tra il 1974 e il 1998: ebbene, a cinque anni dalla sua scomparsa, il “Frankfurter Allgemeine Zeitung” ha rivelato che a partire dal 1943, Tappert è stato arruolato del primo reggimento granatieri “Testa di morto”. Era, per dirla in breve, un membro delle SS.

Ideologie autoritarie, velleità neo-naziste, nostalgie antidemocratiche sono ancora oggi largamente diffuse nella Germania di Angela Merkel, ma le autorità di Berlino non sembrano particolarmente preoccupate. Lo dimostrano sia il comportamento della polizia, più impegnata a contrastare le proteste dei ‘verdi’, dei pacifisti, degli ecologisti, sia la usuale clemenza della magistratura tedesca nei confronti delle bravate degli estremisti di destra, anche quando queste  finiscono per assumere i connotati sinistri dei pestaggi di immigrati alle fermate dell’autobus, dei roghi dei Centri d’accoglienza, dei lugubri raduni del neonazismo nazionale e internazionale.

I servizi segreti e d’informazione tedeschi, cui spetterebbe istituzionalmente la difesa della Costituzione e la lotta ad ogni ritorno sotto qualsiasi forma del nazismo, preferiscono lasciare correre e dedicare le loro energie a schedare le opinioni politiche, le abitudini, le amicizie, di oltre un milione di cittadini tedeschi. Non fa meraviglia quindi che gli ambienti democratici tedeschi più avvertiti siano giustamente in allarme per la coincidenza di intenti – nessun pericolo a destra, colpire solo a sinistra – che va realizzandosi tra le istituzioni della democrazia rappresentativa e ‘il potere repressivo’. I rigurgiti estremisti, tollerati o addirittura incoraggiati, non sarebbero altro che il segnale di un deterioramento profondo in atto nel corpo della democrazia tedesca destinato ad aggravarsi per l’acuirsi della crisi economica e l’esasperarsi dello scontro politico.

E se appare consolante l’insuccesso dei neonazisti della Npd, il Partito Nazional-Democratico, la punta del grande iceberg dell’estrema destra tedesca, alle ultime elezioni politiche tenutesi in Germania, quando gli epigoni di Hitler sono rimasti - di poco - al di sotto della soglia di sbarramento prevista per mandare i propri rappresentanti al Parlamento nazionale, preoccupa invece che questa formazione politica superi il 10 % dei voti e diventi, addirittura, il terzo partito nella capitale, Berlino: un’affermazione particolarmente vistosa nei quartieri poveri della città, dove da mesi si consuma uno stillicidio di atti d’intolleranza nei confronti degli islamici ritenuti dei parassiti, dei turchi e dei greci accusati di portare via il lavoro ai tedeschi, degli italiani, considerati tutti mafiosi e camorristi.

Secondo la “Tageszeitung”, il quotidiano della sinistra alternativa, “nelle regioni orientali della Germania, un tedesco su sei ha una visione del mondo improntata a ideologie di estrema destra. I dati appaiono estremamente preoccupanti soprattutto nella fascia dei giovani compresi tra i 14 e i 30 anni, fra i quali i sentimenti di razzismo e simpatia per il nazismo risultano maggiori che fra gli adulti oltre i 60 anni. Qui sta crescendo una generazione che rischia di superare nei suoi atteggiamenti radicali ogni precedente, una forza esplosiva che non deve essere per nessuna ragione sottovalutata”.

Intanto, le rivelazioni su una lunga lista di omicidi di immigrati turchi e greci compiuti da un’organizzazione di destra radicale, la “Nationalsozialistischer Untergrund” (Clandestinità nazionalsocialista) agitano il Paese: si tratta di folli isolati, o in Germania agisce una rete neonazista con insospettabili addentellati nelle istituzioni? La polizia e i servizi segreti hanno compiuto fino in fondo e con zelo il proprio dovere, oppure gli investigatori sono stati colpevolmente trascurati? O, forse, l’intenzione vera era quella di coprire, per finalità politiche inconfessabili, i responsabili di dieci delitti, decine di rapine e non pochi attentati?

Sono dunque i nuovi Länder orientali a preoccupare gli osservatori: qui, a fronte di un 7 % di tedeschi occidentali che esprimono posizioni di estrema destra, c’è un 16 %. Un segnale allarmante, reso ancora più inquietante dai numeri che indicano apprezzamento per affermazioni di tipo xenofobo: il 54 % dei tedeschi dell’ Est è convinto che gli stranieri giungano in Germania solo per sfruttare lo Stato sociale (a Ovest è il 31 %);  il 44  % ritiene che l’immigrazione stia pericolosamente snaturando il Paese (a Ovest il 36 %); il 39 % si dichiara esplicitamente xenofobo (a Ovest il 22 %).

L’opinione pubblica europea ha in questi ultimi anni sistematicamente ignorato la minaccia che i radicali di destra tedeschi e le loro organizzazioni portano sia alla loro, sia a tutta la democrazia europea. Quali saranno i frutti avvelenati della diffusione delle subculture neonaziste per i già precari livelli dei diritti e delle libertà in un’Europa stretta tra crisi economica e risorgenti nazionalismi?


05 novembre 2013

"Trapianti" mostra di Enzo Cei




di Gianni Quilici

Ultimo lavoro fotografico di Enzo Cei “Trapianti” al LUCCAphotoDIGITALfest, in corso a Palazzo Guinigi fino all'8 dicembre 2008.
Enzo Cei, nato a Pisa, ma residente a Lucca da molti anni, è un fotografo che può stare a fianco dei più grandi fotografi oggi in Italia e forse nel mondo, anche se non ha, ne' ricerca, quel “successo commerciale” o quella “visibilità”, che altri, a volte inferiori, cercano e hanno.

Enzo Cei, infatti, non fa il “fotoreporter itinerante”, in cerca di storie crude; è fotoreporter, invece, estremamente radicato. I suoi temi, almeno finora, non sono quelli epocali della guerra o della fame o per un altro verso della moda e degli “eventi”, ma, come egli stesso ha scritto, è “l'ordinario come evento dentro storie radicate”. Leggendo i suoi libri troviamo come protagonisti, infatti, i cavatori di marmo, i degenti dell'ex OP di Maggiano, i  costruttori del carnevale di Viareggio, i lavoratori della carta ecc. Libri che richiedono, per il modo scrupoloso con cui vive la sua professione,  anni di tempo. Dai “ Cavatori”, che hanno richiesto 6 anni, fino a “Trapianti”, oltre 3, perché ciò che interessa a Cei è tutto il percorso di un “fatto”, non soltanto il risultato finale.

“Trapianti” è una mostra facile e difficile. Facile, perché ha un messaggio diretto, immediatamente coinvolgente; difficile, perché sono tanti i segni che la percorrono, diversi i possibili livelli di analisi.

Il primo più elementare livello è il racconto-documento, che ci consente di comprendere le varie fasi in cui si sviluppa un trapianto: l'attesa, il prelievo degli organi e il trasporto, la preparazione e l'intervento, il decorso post-operatorio, il ritorno alla vita. Nella mostra poco più di 30 fotografie sintetizzano le varie fasi. Ogni foto ha una didascalia, che argomenta ciò che spesso si (intra)vede. Alla fine si capisce la complessità di un trapianto come risorse umane e professionali, come dolore e gioia.  

Il secondo e più approfondito livello è la foto o meglio la complessità che questa presenta.
E' sempre difficile generalizzare su un insieme di immagini, perché ogni foto ha spesso una sua specificità, una sua unicità.  Tuttavia si possono raccogliere alcuni elementi di tipo linguistico. 

1) L'essenzialità della foto. Cioè la concentrazione solo sugli elementi indispensabili per cogliere il senso, evitando la dispersione della concentrazione e lasciando all'immaginazione  il fuori campo, la possibilità di prefigurarlo.

2) La consequenzialità narrativa delle foto. Abbiamo per esempio nella serie di foto che documentano l'intervento una serie di piani, tra loro diversi: il primissimo piano dell'incisione;  il campo medio dell'intervento, che riprende sia  il volto del  trapiantato che l'équipe di chirurghi all'opera; il campo totale su diversi nuclei di medici-infermieri insieme e separati, ognuno con il suo compito specifico; infine primi piani (intensi) di chirurghi, di anestesisti, di infermieri durante l'intervento.

3) I contrasti del bianco e nero. Qui i contrasti anche netti sono importanti, non solo perché consentono di evidenziare aspetti facendoli risaltare visivamente, ma perché in molte di queste “situazioni” il contrasto è intrinseco ai fatti. Un esempio.  C'è la bellissima foto dell'attesa.

Scrive Enzo Cei, raccontando il retroscena della foto:
Luigi non voleva accettare un rene dalla moglie, ma Irene è stata tenace, almeno quanto il suo corpo, in quella fila di esami tesi ad accertare l’idoneità a donare. Con Irene e Luigi ho condiviso un po’ della loro attesa. S’era nel periodo natalizio e loro, in compagnia della figlia Donatella e del cane, aspettavano la chiamata per fare il trapianto. Ogni squillo di telefono un sobbalzo. Ma le ore non passano mai e le telefonate sono tante. Seduto alla tavola, con la testa appoggiata, Luigi guarda fuori, verso la finestra; in un attimo lo vedo riflesso nel vetro della tv spenta, e sento che quello scatto, con la sua fetta di albero di natale, potrebbe essere quello buono, quello che stampato coi toni giusti e il contrasto vivace, possa restituire quanto ho respirato tra quei muri”.

In questa foto due aspetti (mi) colpiscono:
* la distanza sia fisica (campo lungo su Luigi piccolo nella foto), che psicologica (Luigi è il riflesso della TV) ed è però la distanza, forse invalicabile, tra chi sta vivendo un'attesa terribile e chi sta assistendo a questa attesa, anche se partecipe;
* la simbologia che la figura di Luigi assume in un triplice contrasto, che la fotografia contiene: l'atmosfera che si vorrebbe familiare e calda dell'albero natalizio; lo sfondo buio della stanza, che è predominante; ed il pertugio bianco della finestra, che è lo sguardo di Luigi su un orizzonte che esiste, ma non si vede. Ecco che la silhouette piccola e anonima di Luigi, scolpita nella cornice della finestra, assume una dimensione “simbolica” quasi “assoluta” di un'attesa in cui sono in gioco i due elementi decisivi per chiunque: la vita e la morte.

In questa foto c'è, quindi, il terzo livello: la poesia. Queste foto “toccano”, come direbbe Roland Barthes, non solo quelle più immediatamente  emotive, ma pure le immagini apparentemente documentative. Prendiamo la foto che fa da copertina alla  mostra  e al libro (in corso di pubblicazione). Come documentazione è una fotografia eccezionale. E' (forse) la prima fotografia nel Pianeta, che rappresenta un cuore ancora pulsante.
C'è, però, un di più: le mani che offrono. Il dono. Il biancore dei guanti e nello sfondo assolutamente buio si scolpisce un miracolo: un cuore.

Infine, come ultimo aspetto, la parola come poesia nel suo intreccio con la foto.
Enzo Cei, oltre alla didascalia, ha aggiunto ad ogni foto una frase lapidaria, che colga in modo mediato-immediato l'attimo. Queste frasi hanno l'ambizione del verso e raggiungono talvolta la poesia. Ne ho trascritte qualcuna di queste frasi-versi, anche se andrebbero lette insieme alle foto, a cui si riferiscono:
“Col fiato sospeso in punta di vento”, “Archi di ciglia puntate al bersaglio”, “E loro e l'albero e il mondo”. 

da "Lo schermo" 30 novembre 2008