30 settembre 2016

“La società punitiva” di Michel Foucault




di Daniele Guasco



E’ stato pubblicato da poco tempo in Italia (Marzo 2016)  il corso tenuto da Foucault al collège de France tra il 1972 e il 1973: “La società punitiva”. Il testo è necessariamente legato al celebre Sorvegliare e Punire per via della tematica, ma non funziona né come appendice né come bozza di questo. Brilla anzi per ciò che di importante fa emergere sulla prigione e sulla criminalità rispetto al funzionamento della società capitalistica.


Ciò che vi è di più interessante in effetti – soprattutto pensando ai futuri sbocchi della ricerca foucaultiana – è che la prigione, nell’analisi di Foucault, così come gli altri dispositivi che popolano il campo sociale, serve al funzionamento dell’economia capitalistica. Eppure nei testi di Economia Politica non compare nessuna discussione sulle prigioni.


Perché, pur essendo implicate – dal punto di vista di Foucault – nel funzionamento dell’economia non si discute di prigioni e manicomi nei testi di Economia Politica? Per rispondere bisogna considerare che l’approccio foucaultiano a Marx è influenzato soprattutto da Althusser: sono questi due filosofi – Marx e Althusser – a condizionare fortemente gli studi e i metodi di Foucault in proposito. Sono questi due ad aver considerato il processo capitalistico non solo come un processo riguardante la produzione di beni e di profitti, ma anche di soggetti, ed è la divisione tra struttura e sovrastruttura a rendere gli studi di Marx non solo come critica dell’Economia Politica, - come i titoli dei testi di Marx dichiarano - bensì allo stesso tempo studi di portata sociologica e filosofica. E’ così che si passa dal binomio struttura-sovrastruttura a quello enunciati-pratiche. E’ così che nascono gli studi su prigioni e manicomi: luoghi dove si mettono in atto le pratiche del potere, ma anche luoghi dove si costituisce un sapere, dove l’occhio vigile del medico, dello psicologo, del criminologo danno luogo ad una produzione scientifica, volta a legittimare una “micro-fisica” del potere, uno sguardo che esercita un controllo capillare sugli individui. Così, nel connettere il funzionamento micro politico di queste istanze, come la prigione, con il funzionamento globale della società, si dispiega l’opera di cui si parla qui: durante il corso Foucault sostiene che la forma-prigione è la forma della società intera: un sistema di sorveglianze perpetue, di ricompense e di punizioni, di apparati entro i quali la condotta degli individui viene continuamente controllata e sanzionata. Così accade a Foucault di disegnare una sorta di geografia delle istanze del potere: la prigione, la fabbrica, la scuola, non funzionano senza l’apporto della polizia, dei tribunali. Così tutto gioca come in un circuito e ogni elemento è funzionale a tutti gli altri, ad essi essenziale. Giungiamo così al rapporto tra prigione e processo economico: tutte queste istanze implicate nella geografia del potere servono, secondo Foucault, alla produzione e alla riproduzione di forza-lavoro e alla protezione delle merci e del loro scambio. Così viene mostrato nel libro, attraverso dati storici della società inglese ottocentesca, la nascita della polizia – una sua forma embrionale – dall’esigenza di proteggere le merci dalla depredazione, l’imprigionamento di massa per reprimere il vagabondaggio e il furto, conseguenza a sua volta della disoccupazione, a sua volta condizione essenziale per il mantenimento del salario a livello più basso possibile.  E anche quando riuscirà a sfuggire a questo circolo, il lavoratore sarà ugualmente sottoposto a un sistema di disciplina e di controllo all’interno della fabbrica, dove la sua condotta sarà continuamente osservata e sanzionata.


Ma è soprattutto nel circolo vizioso prima indicato: disoccupazione per mantenere bassi i salari, dunque criminalità, dunque formazione di un apparato poliziesco e messa in pratica di un imprigionamento di massa, è questo circolo vizioso a mostrare i concatenamenti che conducono dalla prigione sino ai bassi salari, è la presenza di grandi accumulazioni di merci nei porti di Londra a essere legata allo sviluppo dell’apparato poliziesco, così come sono i processi economici, l’osservazione continua della condotta del lavoratore a mostrare il legame tra la forma-prigione e la vita di fabbrica.


Così ecco la peculiarità di questo importante scritto: più che in Sorvegliare e Punire, è visibile il legame tra il potere biopolitico e il processo economico, che va a creare dei soggetti asserviti alle necessità della produzione, controllandone e disciplinandone l’evoluzione vitale, anziché esercitare un potere sovrano sulla vita e sulla morte dei soggetti. L’operazione compiuta da Foucault è quella di rendere visibile l’azione del potere nella società capitalistica. Operazione questa, che non era stata svolta – bensì solo disegnata nei suoi princìpi - da Marx e da Althusser nella misura in cui erano troppo occupati a svolgere un altro tipo di lavoro. Potremmo dire che l’operazione di cui parliamo non ha impegnato solo il 1972 e il 1973, ma tutta la carriera di Foucault: quest’operazione coincide con la definizione del concetto di biopolitica. “La società punitiva” è una determinazione particolare di questa grande ricerca.


In aggiunta, si può dire che nel testo è anche difficile non presentire gli echi di Althusser come di Bourdieu, di Bataille e dell’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari, uscito precisamente nel 1972, anno di inizio del corso di Foucault al collège de France. Più volte si parla di macchine, di corpi, di desiderio e di produzione dove questi erano concetti centrali nell’Anti-Edipo. Questi echi sono solo i primi segni di una forte influenza reciproca, influenza nell’evoluzione delle ricerche di Foucault e dell’accoppiata Deleuze – Guattari, influenza che andrà a definire tra i più importanti nomi di una grande stagione della filosofia francese.




Michel Foucault, La società punitiva, Feltrinelli, pp. 384, € 35,00

29 settembre 2016

“Dido & Aeneas” di Henry Purcell. Regia di Sasha Waltz





di Silvia Chessa

Lo spettacolo Dido & Aeneas, coreografia e regia di Sasha Waltz, intorno al mito di Didone ed Enea, cattura il pubblico in modo immediato con uno strabiliante esordio. In una vasca di 1700 litri d'acqua, creature dai corpi bellissimi, avvolti in sottili vesti scintillanti, irradiate da magnifici giochi di luci, ci appaiono in grado di danzare le correnti liquide ed abitare, in movimento sensuale ed armonioso, le onde, appropriandosi, quindi, per sinestesia, la danza, tout court, dell'elemento acqua, oltre a quello della terra.

Al contempo, nelle loro movenze eteree, soavi ed incantate, i danzatori in piscina ci riportano alle figure umane di Chagall, raffigurate in voli sopra le città, e quindi anch'esse, in modo trasognato, capaci di evadere dalla dimensione reale e di occuparne altra - i cieli- in voli pindarici densi di poetico stupore..

Al contempo, un carattere di opulenza e di senso del barocco, inteso come meraviglia e stupore, inizia ad affiorare e a farsi strada..


In questo universo terracqueo, già affascinante e magico, interverranno, nel corso dell'opera, voci liriche soliste (Enea e Didone) e corali (queste ultime riecheggianti la tragedia greca), e 51 elementi di danzatori non professionisti (fra cui anche musicisti, orchestranti..) prestati alla danza, i quali attueranno una tangibile e dinamica interconnessione fra la musica e la danza, con un effetto suggestivo e coinvolgente che non soffre interruzione e non conosce intervallo.
Altro elemento caratteristico dello spettacolo è la tendenza a non lasciare mai vuoto il palcoscenico: anche nei momenti di raccordo fra i diversi quadri e nelle fasi di sistemazione della scenografia, sul palco si affida il movimento, vuoi ad un ballerino che esce per ultimo attendendo l'ingresso dei successivi protagonisti, vuoi ad una bambina che anima la scena correndo attorno mentre trasportano e sistemano un tavolo...garantendo un fluire ininterrotto della creazione artistica nelle sue singole fasi, in una idea, ribadita, di integrazione totale.
Colpisce, infine, la forza caratteriale e la figura a tutto tondo, moderna, della protagonista, Didone, lenta a cedere alle lusinghe amorose quanto tetragona ed immediata nel votarsi al suicidio.

Suicidio che non si configura, però, qui come compimento di un fato tragico, da vittima amorosa ed abbandonata, bensì come gesto da autrice (faber) del proprio destino, regale e di donna, la quale vi accede nella orgogliosa rivendicazione della sua autorevolezza, peculiarità identitaria e del suo ruolo.. Il suo accattivante ed enigmatico danzare con la lunghissima chioma di capelli ad onde (come quelle della piscina della prima scena) nel momento culmine del lamento e del suo avviarsi alla morte, enfatizza le sue caratteristiche femminili, accompagnando una voce praticamente perfetta e calda di molteplici coloriture. La lunghissima chioma riccia a cascata che la avvolge e la riveste lentamente come un bozzolo, nel quale si raccoglie, poi, a terra esanime, allude, circolarmente, all'elemento amniotico, mercè quelle ondulazioni di capelli, e quel navigarci, dentro ed attorno, delle sue mani fra sfumature di colori ramati e forme morbide e setose, che la nascondono e proteggono, rivelandone l'enigmatica e assoluta bellezza. In ciò la fine di Didone è soprattutto compimento di se stessa ed epifania al mondo da lei amministrato, con lucida passionalità.

In tal senso la Didone di Sasha Waltz è antesignana di una donna contemporanea, animata e non scissa fra autoderminismo e femminilità, madre del suo stupore, figlia della sua interiore bellezza, fitta di intelligenza e capacità, che vive e governa naturalmente un mondo dove si coniuga una estetica barocco-surrealista a modernissime e forti passioni.

Dido & Aeneas di Henry Purcell,
Regia e coreografia sono curate da Sasha Waltz, sul palco la Tanzcompagnie Sasha Waltz & Guests. Christopher Moulds dirige l’Akademie für Alte Musik e il Vocalconsort di Berlino. L’allestimento ha le scene di Thomas Schenk e Sasha Waltz, i costumi di Christine Birkle, le luci di Thilo Reuther. L’opera è eseguita nella ricostruzione musicale di Attilio Cremonesi. Teatro dell’opera di Roma



28 settembre 2016

"Psicoanalisi immaginaria di Frida Kahlo" di Riccardo Dalle Luche e Angela Palermo



di Anna Maria Bambini

Leggero come un romanzo. Profondo come un saggio.
La narrazione di Angela Palermo e Riccardo Dalle Luche è piacevole e istruttiva. Ci conduce attraverso percorsi artistici e mentali con grande naturalezza.
Si tratta di un libro denso, che tocca diverse tematiche passando per un originalissimo approfondimento.
 
La conoscenza degli Autori è plurima, profonda, spazia dal cinema alla psicopatologia e ci offre spunti di autoanalisi e di identificazioni, nel piccolo di ogni nostra esperienza.
Gli Autori ci raccontano come gli artisti siano capaci di far diventare vita i propri sogni, di superare barriere e convenzioni, di esaltare le proprie emozioni fino a livelli non raggiungibili da noi comuni mortali. Essi vivono in modo esasperato e totalizzante sentimenti e storie, sono in grado di andare incontro a incontrollabili passioni, senza darsi dei limiti, lasciandosi inondare e travolgere da esse. Permettono tutto a sè stessi.
 
Gli artisti entrano anche a contatto con la Storia.
 
Un po' romanzo sentimentale, un po' libro di storia dell'arte, quello su cui tutti avremmo voluto studiare. L'analisi puntuale dei quadri è chiara, ordinata, coinvolgente.
 
La descrizione psicopatologica degli effetti del trauma, poi, è di grande interesse e molto più che esauriente.
 
Il tutto corredato da una ricostruzione storica e da una bibliografia molto interessante.


Al termine del libro ci si dispiace un po' dover lasciare quelle pagine. La vita di Frida è grandiosa e la sua scrittura è immaginifica, come i suoi quadri. Le sue parole sono quelle di una visionaria d'amore.
Alla fine si ha la sensazione che il connubio Diego-Frida non solo era inevitabile ma, addirittura, necessario.
 
Resta lei. Così pienamente viva, vibrante. Come solo alcune donne spezzate sanno essere.

Riccardo Dalle Luche, Angela Palermo, Psicoanalisi immaginaria di Frida Kahlo, Mimesis 2016, pag 188, € 20,00




27 settembre 2016

"Viaggio in Corsica: Bastia" di Maria Teresa Landucci






Viaggio di notte ed arrivo all'alba. Sola. Poi un giro nella Bastia antica, con il fascino delle vecchie battone. Sì, volevo proprio dire puttane. Vecchia e sfatta, con il puzzo di piscio agli angoli, i vicoli bui,  l'anziano addormentato con la testa appoggiata sul braccio e questo sullo schienale della sedia con l'impagliatura tutta rotta, fuori del portone della sua casa ... un budello stretto stretto, che sale ripido su per quelle scalette scalcinate e buie, con gli scalini consumati nel mezzo.


Via Vattelapesca. Non è uno scherzo, la stradina si chiama proprio cosi. La vecchia puttana è questo: l'antitesi dell'eleganza, anzi un'accozzaglia di superfetazioni, di vecchie insegne pubblicitarie, di fili elettrici, di panni stesi, confondono l'occhio, che a fatica ritrova le tracce di un passato nobile. Un passato che narra di ricche famiglie provenienti da Genova, da Venezia che qui controllavano i propri traffici commerciali ed ancora qui facevano costruire i loro palazzetti, seguendo il gusto dell'architettura italiana, ambasciatori dello stile della loro città di origine.

 In mezzo alle umili ed anonime facciate distinguo palazzo Ciardi, con il sorprendente vestibolo voltato ed affrescato ed il palazzo dei rilievi femminili, organizzato su ben nove piani, i cui fondaci al livello terreno, destinati ad accogliere i magazzini delle merci.  Bel bassorilievo in facciata: due donne sedute simmetricamente ed un animale marino fantastico al centro, immagino il tributo di una famiglia matriarcale, dedita ai commerci per mare. Come una rete da pesca è la struttura urbanistica della Bastia vecchia, una maglia di stradine, grosso modo parallele, poste su livelli diversi e collegate da rampe di scale più o meno strette, più o meno ripide, che scendono verso l'antico porto. Ricorda Genova o Portoferraio, città con le quali Bastia ebbe evidentemente stretti rapporti di scambi commerciali, politici e culturali. Rari slarghi si concede la stretta maglia urbanistica, nemmeno le due chiese presenti hanno la consueta piazza in fronte facciata.

L'unica vera piazza è quella del mercato, di impianto ottocentesco, con i platani lungo tutto il perimetro rettangolare e una moderna fontana al centro: una sensuale figura femminile beve dallo zampillo d'acqua di fronte alle sue labbra.  Inizia la vita, si montano i banchi della frutta, si issano enormi ombrelloni bianchi, arrivano i furgoni che si allineano uno accanto all'altro.
Fra questi mi colpisce uno: "Boucherie populaire traditionale corse", recita l'insegna rossa sul furgone bianco. Macelleria popolare tradizionale corsa, tradotto alla lettera. Un trionfo di pezzi di carne di ogni genere. Rossa o rosata, fresca e dall'aria invitante. La cucina tradizionale dell'isola è ricca di carne in effetti.  Arrivano le prime massaie, alcune con il carrellino altre con le borse di paglia. Si fermano, osservano, commentano, acquistano. Quando incrociano un'amica scambiano i convenevoli saluti, noto in lingua francese. La lingua corsa è viva nell'isola, ma forse maggiormente praticata dagli uomini che non dalle donne. La città è oramai animata, i tipici tavolini dei caffè sulla piazza si riempiono di gente. Fra gli avventori molti sono i gestori islamici dei banchi del mercato; la lingua araba si mischia al francese e alla lingua corsa. Si prende un caffè, si fuma una sigaretta, si commenta la partita di calcio, trasmessa in TV la sera precedente.

Un giovane accompagnato da due ragazze, abbigliate con abiti eleganti, rumorosi e ridanciani, reduci da una nottata di divertimento e presumibilmente di bevute alcoliche, mi passano accanto e mi salutano allegramente ... bonjour madame! ... ricambio il saluto con altrettanta allegria ...bonjour a tout le monde

10 settembre 2016

"Lettere alla casa editrice" di Federico Zeri







tutto quanto vi è nella Scrittura va ricavato dalla Scrittura stessa
(Spinoza)1
 di Davide Pugnana

Si sentono nella sua vita, nelle sue lettere – come in un materiale in cui essa è appena riconoscibile – alcuni lineamenti della sua opera, che è l'unica ragione di essere della sua vita, i suoi amori che non esistono se non nella misura in cui sono ne sono i materiali, che tendono verso di essa e che non resteranno che in essa.”(2), questa intensissima soglia di introduzione ad una costola dell'epistolario di Federico Zeri è firmata Marcel Proust. 

Il passo è tratto dal Contre Saint-Beuve, l'opera di riflessione teorica nella quale Proust riflette sul nodo biografia-opera a partire dall'analisi del metodo di Saint-Beuve, giungendo a determinare l'inadeguatezza della prima come chiave di lettura della seconda, nonostante la vita sia “l'alfabeto in cui impariamo a leggere e in cui le frasi possono essere non importa quali poiché sono sempre composte dalle medesime lettere(3). Perché queste parole proustiane dovrebbero offrirsi come viatico alla comprensione dello scambio epistolare che, lungo tre decenni (1955-1980), corse tra un grande storico dell'arte romano e i funzionari della casa editrice torinese Einaudi? 

Una prima risposta va in direzione della vita del 'personaggio' Zeri: una figura di grande risonanza mediatica, sulla quale si è calamitata l'attenzione del pubblico e dei media secondo i marcati chiaroscuri di una spaccatura senza rimedio divisa tra odio e amore, tra sostenitori e detrattori.
 Zeri non fu solo l'autore di saggi mirabili e coraggiosi, polemici e antiaccademici, dei quali si darà conto più avanti, attraverso lo spioncino delle lettere einaudiane. Dall'altra parte, accanto allo studioso serio e appartato, immerso nel dedalo di immagini, gesti, stili, documenti; all'infallibile conoscitore e all'instancabile viaggiatore, si muoveva un Federico Zeri squisitamente mondano, inserito nei migliori salotti inglesi, americani, russi ed europei dell'epoca; fotografato durante serate di gala, in smoking, accanto a ricchi signori, famose attrici e ballerine di cabaret. 
Così come numerose e memorabili sono le comparse televisive del personaggio Zeri, la cui intelligenza si manifestava anche nella sofisticata forma di un'autoironia venata di istrionismo, in tutta la tastiera dei possibili registri teatrali: il sarcasmo e la polemica; il pettegolezzo e la parodia; la mimica corrucciata e la recitazione dei versi; l'aforisma tagliente e lo struggente ricordo d'infanzia; la parola della lezione e quella del silenzio. 
Tutto questo gioco caleidoscopico di atti e situazioni, di stati d'animo e apparizioni compone e scompone, come nelle Perestroike dei Luna Park dove la propria figura si allunga e si allarga, si schiaccia e si dilata in bizzarrissime deformazioni, la vita di Zeri. O meglio: è, proustianamente, il “materiale” che stratifica “l'alfabeto” della sua vita. Ogni lettore può liberamente chinarsi su questo libro biografico e decidere quale parola o frase leggere, se isolarla o metterla in relazione. Tra le pieghe di questo “alfabeto” complesso e intrecciato troviamo la raccolta di lettere, documenti preziosi per chiunque voglia soddisfare due pulsioni insieme opposte e complementari. 

La prima, nel caso l'autore sia famoso e, quindi, sia divenuto oggetto di studio, serve a capire, dal di dentro, come nell'intimità di una confessione, la sua visione del mondo e i percorsi di formazione di opinioni, giudizi, idee, testi e cronologie. È una pulsione di lunga durata che potremo definire storico-filologica

La seconda, invece, è un'inclinazione più comune e di breve respiro: il desiderio voyeuristico di guardare da quel buco della serratura che, da sempre, offrono all'occhio indiscreto lettere e diari, non conta se di personaggi famosi o comuni mortali, per coglierne dettagli piccanti e scabrosi, còlti fuori controllo,  senza i veli protettivi dell'aura. Per quella che è stata la figura di outsider di Federico Zeri nell'immaginario visivo degli italiani (tanto in senso di notorietà scientifica quanto di popolarità televisiva), la lettura di questa costola del suo vasto epistolario attiva entrambe le pulsioni. 

Con una precisazione, credo fondamentale, questa volta desunta da Roland Barthes: che in minore o maggiore grado di rielaborazione, qualsiasi fatto di vita, lasciato scivolare nelle maglie della scrittura, subisce sempre una trasformazione diventando altro, come se l'originario “alfabeto” di eventi allo stato di grezza realtà subisse un processo di traduzione. Secondo Barthes, l'opera scritta, sia essa d'arte o di testimonianza, non abolisce la biografia del suo creatore; ma la disorienta e la disorganizza. Alla fine del percorso le tracce sono quasi irriconoscibili, ma non del tutto cancellate; e all'interno di “una costruzione a più piani, costituita da strati eterogenei”(4) può accadere che un lavoro archeologico, teso a ricostruire la fasi del sistema-opera, possa imbattersi in frammenti di quel materiale non più cospicui di un'annotazione meteorologica o dell'essersi recati all'ufficio postale a espletare una pratica che ha richiesto di prendere in mano una penna e di scrivere.

In particolare nelle lettere, che - nella misura in cui non siano concepite secondo i criteri dell'ars epistolografica - forniscono una rielaborazione dei “fatti” di primo grado, da cui talora gli scrittori sembrano estrarre una “frase” che appare allora ritagliata direttamente in quella “materia bruta” (5).  Nel caso di molti epistolari, si tratta, se vogliamo, di una imperfetta e improvvisata traduzione di quell' “alfabeto”: la forma epistolare determinerebbe un'inaugurale forma di “disorganizzazione”, producendo una sorta di autobiografia episodica e preterintenzionale. Sappiamo che Proust si augurava la distruzione di tutte le sue lettere affinché i lettori potessero rimanere in totale balìa della sola Recherche. Il motivo profondo di questo desiderio non era tanto l'occultamento o il velo tirato sulla propria storia quotidiana (con le sue miserie e bassezze, i suoi piccoli segreti  o le sue perversioni); era, al contrario, l'estrema coerenza di chi credeva nella traduzione altissima e sorvegliata della propria esperienza in un'altra lingua: una “lingua straniera” che arrivasse a cancellare insieme il proprio nome e la propria identità con la consapevolezza che l'opera, in quanto tale, è sempre “oeuvre d'autrui”, e che “lo scrittore mentre scrive dimentica il proprio nome, così come noi, mentre leggiamo, dimentichiamo il suo e il nostro.”(6)

Osservato dal versante proustiano, il primo grado della lettera non poteva soddisfare questa condizione sulla quale pendeva la tensione al sì definitivo di un'autografa mistica del tocco. Era la tesi sostenuta da Proust nel Contre Saint-Beuve e di fronte alla quale Barthes sceglie una posizione di mezzo, dove la scoria biografica non viene del tutto purificata da un tipo di scrittura di primo  grado.

Attraversando le centoventitré lettere del carteggio zeriano con le carismatiche figure della casa editrice Einaudi (i due Giulio, Einaudi e, soprattutto, Bollati; poi Paolo Fossati in un secondo tempo e, sullo sfondo, figure di studiosi e traduttori come Enrico Castelnuovo e Guido Davico Bonino)  non possiamo non tenere conto della giustezza di queste posizioni teoriche e, al contempo, delle due pulsioni alle quali ogni missiva, di volta in volta, come in una morbosa e accattivante oscillazione, ci consegna. Se guardiamo al lato voyeuristico, il carteggio einaudiano è punteggiato di piccoli  fuochi icastici nei quali Zeri svela il suo giudizio tranchant intorno a episodi e testi di scrittori contemporanei, sia storici dell'arte (“Ho poi letto il librone dello Chastel sulla Firenze di Lorenzo il Magnifico: è un vero mattone erudito, pieno di cose che interessano soltanto gli iconografi, e pieno di uno sfoggio di dottrina che cerca di nascondere l'assoluta mancanza di senso critico e storico. Per carità, non lo stampate!”; “Vedo che la vostra Libreria, bellissima, in Via Veneto, è divenuta il piedistallo su cui si esibisce G.C.Argan...”; “La presentazione è andata abbastanza bene; dico abbastanza, perché la ghignante presenza di E. Battisti ha costituito una nota sgradevole.”; “Solo R. Longhi (a quel che mi riferiscono le fonti) na va dicendo cose vituperevoli; se è veramente così, finirò col chiamare il Longhi <> e troncherò ogni rapporto con lui.”; “Se per caso ritrovassi il testo completo della Chanson de Brandi et d'Argan (debbo pur averla da qualche parte) te ne spedirò copia conforme.”), sia letterati (“Per ora sto combattendo con U. Eco, molto interessante ma scritto alla maniera delle Sibille”; “L'esperimento pare interessante; e si spera che serva almeno a far scrivere a Calvino cose meno fesse di quelle che mi è occorso leggere, sebbene temo che tutto si risolverà nell'appellativo di <>”), fino alla lettera del 18 marzo 1976, vero gourmet per il lettore ingordo di pettegolezzo e piccolo capolavoro di stroncatura di un libro di Lionello Venturi dal titolo Come si comprende la Pittura:  “Lo sto leggendo con un senso di sbigottimento e di autentica apprensione, alleviata da folli risate. Mi domando a chi mai sia venuto in mente di rinfrescare roba del genere, che andrebbe pudicamente velata, anche e soprattutto per la buona memoria dell'estinto, e per il buon nome della memoria italiana.” Preambolo a cui Zeri fa seguire un commento in forma di elenco, isolando e citando, con controcanto ironico, frasi del libro degne “del più cattivo Flaubert”: “p.41: nella Primavera del Botticelli Zefiro lascivo vola per acchiappare Flora, in altri termini per prenderla per le chiappe.”

Malgrado la vena divertente e istrionesca dello Zeri stroncatore, il suo fascinoso brio dilegua presto lasciando spazio al coté più profondo e persistente di questo ramo einaudiano dell'epistolario di Federico Zeri. Ramo costituito dal restante e corposo nucleo di lettere che gettano luce sulla pluralità di attività e di talenti dello storico dell'arte romano. A voler disegnare, su basi affatto empiriche, una mappa di orientamento per questa 'passeggiata' potremo suddividere le restanti missive in tre gruppi, tra loro fittamente intrecciati e rubricabili sotto la definizione complessiva di editoria in azione, nel senso che a questo lavorìo si intende dare qualora ci si riferisca alle sinergie , alle divergenze e alle intuizioni tra menti operosissime all'interno delle officine editoriali. 

Il dialogo tra Zeri e Giulio Bollati scorre all'insegna di questa serrata dialettica progettuale. In un primo nucleo, abbiamo lettere nelle quali viene affrontata la questione delle pubblicazione di saggi o progetti editoriali: è il caso di lavori come Pittura e Controriforma. L'arte senza tempo di Scipione Gaeta (1957), la “acrobazia filologica” di Due dipinti, la Filologia e un nome (1961) e, vero e proprio filo rosso di tutto l'epistolario, l'incessante e tormentata pianificazione ed elaborazione di un'opera monumentale La storia dell'arte italiana, il cui ultimo di nove volumi uscirà nel 1983 e della quale queste lettere restituiscono la gestazione e un documento prezioso come il Prospetto (pp.11-15). Stupisce su questo versante l'abilità di Zeri nel dettare suggerimenti non solo di ordine contenutistico (la scelta del titolo giusto, ossia più aderente possibile alla sostanza dell'opera: “Circa il titolo invece, non vedo ragioni di sorta che imponga di mutare quello che io avevo scelto, cioè La pittura senza tempo di Scipione da Gaeta; questo titolo indica con esattezza i limiti e il significato del saggio, che tratta del pittore Scipione da Gaeta, e non è un saggio sistematico sulla pittura della Controriforma. Il titolo Saggio sulla pittura della Controriforma, cui accenna il contratto, dà un'impressione del tutto inesatta circa il saggio, e si presterebbe ad aspre critiche  che io, prevedendole, ho cercato di evitare col titolo che avevo scelto.”); ma puntuali consigli toccano anche la veste editoriale e l'impaginazione (“La sola che trovo da obiettare […] è la figura 96, cioè l'ultima, che è stata riprodotta a formato francobollo, sì da farle perdere ogni significato.”).

Il secondo e terzo gruppo di lettere riguardano altre due incursioni di Zeri lettore in attività editoriali collaterali: i consigli e la segnalazione di opere straniere per la pubblicazione e la continua richiesta  di invio di opere pubblicate per placare la sua “febbre bibliofila”. Anche su questo terreno Zeri ha intuizioni folgoranti: fa pubblicare per Einaudi saggi tutt'oggi capitali della storiografia artistica (Arte e umanesimo a Firenze al tempo di Lorenzo il Magnifico di Chastel; La pittura fiorentina e il suo ambiente sociale nel Trecento e nel primo Quattrocento e Classicismo e Romanticismo di Antal; consiglia di tradurre e stampare Rosemblum quando in Italia era ancora un perfetto sconosciuto e fa pubblicare un saggio fondamentale sulla pittura dell'Ottocento, Realismo. La pittura in Europa nel XIX secolo di Linda Nochlin. L'ultima lettera del carteggio con Giulio Bollati (1 luglio 1980) è ancora un consiglio di  lettura. Altrettanto vertiginoso, se pensiamo alla sua lunga vita, è l'elenco di letture che affiora in queste lettere. Zeri è lettore onnivoro di classici (Guicciardini, Manzoni, Leopardi, Madame de Stael, Fitzgerald, Ripellino, Durrenmatt, Kundera, Musil) e autori contemporanei (Manganelli, Bruno Zevi, Castelnuovo, Chabod, Trlling), in più lingue straniere e in diversi generi (storia, letteratura, filosofia ecc; ).

Sullo sfondo delle lettere ricaviamo anche un diario di bordo dello Zeri viaggiatore: “Io sono tornato da pochi giorni dalla Germania”, “il 4 novembre debbo imbarcarmi per New York”; “torno ora da un bizzarro viaggio negli Stati Uniti”, “dovetti fermarmi a Parigi più del previsto”, “Io sono tornato da pochi giorni da Los Angeles”, “al ritorno da un viaggio a Mosca”, “torno da un secondo viaggio in America”, “Io vado a Londra e torno qui il 22”, fino al resoconto da luoghi incantati come il soggiorno inglese nel maniero cinquecentesco di Sutton Place, che, dagli anni Cinquanta,  era divenuta  la residenza di Jean Paul Getty. Da lì Zeri scrive a Fossati il 29 marzo 1975: “Approfittando di un soggiorno in un nascosto angolo del Surrey...”.

Non mancano poi giudizi, ancora attualissimi per saggezza e respiro, sullo statuto della storia dell'arte come disciplina. Uno di questi spicca su tutti e funge da stimolo per affrontare la lettura di queste Lettere alla casa editrice: “A questo proposito è superfluo l'avvertimento che in Italia la Storia dell'Arte è, salvo casi singolarissimi, precipitata in mano a venditori di fumo: una delle eredità dell'idealismo crociano (pianta, è bene ricordarlo, nata nello stesso terreno in cui allignò il fascismo) è l'aver dato l'avvio alla <> in senso astratto, alla <>, ecc. ecc., un andazzo questo che consente di scrivere volumi di impressionante concettosità  anche a chi non sa poi distinguere fra un ferro di cavallo e un bronzo di Donatello, come è dimostrabile con migliaia di esempi. È perciò palmare che un lavoro come quello che io vorrei iniziare non può che essere aborrito e vilipeso dalla stragrande maggioranza dei nostrani Storici dell'Arte, che da un'opera basata su fatti e non concetti o concettini trarrebbero la misura della propria ignoranza.” (Roma,  1 settembre 1956)                            
Note:

1 Spinoza, Trattato teologico-politico, a cura di E.G. Boscherini, Einaudi, Torino, 1972
2 M.Proust, Contre Saint-Beuve, Einaudi, Torino, introduzione di F. Orlando e M. B. Bertini, 1991
3 Ibidem
4 R. Barthes, Il brusio della lingua. Saggi critici IV,  Einaudi, Torino, 1984
5 M. Proust, Jean Santeuil, Einaudi, Torino, 1976          
6 E. M. Forster, Aspetti del romanzo, Il Saggiatore, Milano, 1963
 
F. Zeri, Lettere alla casa editrice, a cura di Anna Ottavia Cavina, Einaudi, Torino, 2010, pp. 132

06 settembre 2016

"Antonio Possenti: il nostro Chagall lucchese" di Davide Pugnana




La scomparsa di Antonio Possenti - il nostro (si può dire?) Chagall lucchese, se non italiano - mi ha ricordato un passo di Jean Clair di grande bellezza. Non c'è solo l'idea che l'opera sopravvive all'uomo e vince il silenzio dei secoli. L'altra idea che lo sorregge fu già espressa, un secolo prima, da Fiedler nei suoi saggi sull'arte figurativa: la morte di un artista lascia orfano il mondo, privandolo di un "processo" artistico la cui attività interiore sarebbe infinita se immortale fosse la vita biologica del suo autore; la morte dell'artista è la sola forma di cessazione di questo vasto e interminabile lavorio spirituale che le opere realizzate non testimoniano che in parte, come sublimi frammenti.

"Un artista che muore lascia dietro di sé un vuoto molto diverso da quello lasciato da un altro uomo, qualsiasi fosse la sua importanza nella società. La morte dell'uomo comune, voi e io, provoca la sofferenza dei suoi cari, degli amici. Ma la morte di un artista è più irreparabile, perché colpisce tutti gli uomini. Assieme a lui, è tutto un mondo che scompare. Lui lascia un'opera, mentre altri molto più celebri quand'erano in vita, uomini politici, leader d'opinione, dirigenti di grandi società, capitani d'industria, non lasceranno niente.
L'artista lascia dietro di sé degli oggetti ai quali si attribuirà, probabilmente con un po' di leggerezza, la virtù dell'immortalità; sono comunque oggetti che, privi di qualsiasi utilità, senza nessuna destinazione d'uso, usciti dal circuito commerciale, sono testimonianze uniche e incomparabili nella loro fragilità e vulnerabilità, in questo senso impregnati, come i vasi di Babilonia, di una certa sacralità."  (Jean Clair)

04 settembre 2016

"La passeggera" di Daniela Frascati



di Cosima di Tommaso

C’è che chi – volente o nolente – assurge a “capro espiatorio” ed assume su di sé tutto il marciume che la società, incapace di riconoscerlo in sé,   gli butta addosso attribuendogli tuttavia, in questo modo, il ruolo di “personaggio dominante”.

In questo caso è Aquilina, l’ ”untore” possibile, individuato (dal Capitano Zocalo)  e, meglio sarebbe stroncare subito ed alla nascita, una siffatta specie animica.Ecco, proprio questa è la forza conduttrice e risolutrice di tutto il romanzo: Aquilina, un personaggio a tutttondo ma non in chiave ottocentesca.

E’ un personaggio a tratti fiabesco a tratti realistico, creato appositamente e, funzionale alla storia.
L’intreccio   si dipana tra il fantasy, il giallo, inscritto nella cornice del genere gotico.

I tratti ci sono tutti, ambienti misteriosi interiori alla nave Il Paradiso, personaggi a fosche tinte, dal passato ombroso, alla descrizione della pestilenza prima incombente, infine imperante e definitiva; morti  violente e sospette; strane materializzazioni ornitologiche, quasi sempre legate alla strana bambina-uccello  che è Aquilina.

L’atmosfera è decisamente decadente nella descrizione degli ambienti, ammorbati fisicamente dalla pestilenza, nella prima classe da dove sembra partire la diffusione del morbo,  fino alla descrizione morale dei personaggi della prima classe, apparentemente eleganti dai modus vivendi si scopre – assolutamente dissoluti - esacerbati dall’infezione pestilenziale inesorabile che porta alla luce l’inevitabilità della fine, la morte.

Impossibile ancorare questo romanzo ad un unico genere letterario che pure prende le mosse da riferimenti storici ben precisi vale a dire  il 12 luglio 1914, ovvero pochi giorni prima dello  scoppio della Prima guerra mondiale.

Tutto si svolge su un prestigioso transatlantico, Il Paradiso, diretto verso l’America, ovvero verso una nuova opportunità di vita che verrà totalmente disattesa.
Così è la vita talora: un tormentato viaggio attraverso l’inferno dell’anima e, non di rado del corpo.

A prescindere dall’epilogo della storia, a tratti prevedibile, ciò che colpisce piacevolmente il lettore è la ricchezza lessicale e l’abilità affabulatoria dell’autrice, capaci di trascinare il lettore sino all’ultima pagina.

Daniela Frascati, La passeggera, Scrittura&Scritture, 2015