di
Elisa Bertoni
Sfogliando un poco
errabonda il libro di poesie di Sandro Penna, mi sono imbattuta nella lirica Il vegetale: "Lasciato ho gli
animali con le loro/ mille mutevoli inutili forme./Respiro accanto a te, ora
che annotta,/purpureo fiore sconosciuto: assai/ meglio mi parli che le loro
voci./Dormi fra le tue verdi immense foglie,/purpureo fiore sconosciuto, vivo/
come il lieve fanciullo che ho lasciato/ dormire, un giorno, abbandonato
all'erbe". Le parole "assai meglio mi parli" potrebbero scorrere
quasi inascoltate, in quanto conosciamo bene la sensibilità dei poeti incline
ad umanizzare ogni cosa, dagli animali alle piante fino agli oggetti inanimati.
Eppure quel testo mi ha colpito, e forse non a caso, perché in quei giorni avevo iniziato a leggere con interesse il romanzo di
fantascienza di Enzo Guidi Novy Mir.
Questo libro sembra
prendere le mosse da quella letteratura novecentesca che ha al centro la figura
dell’inetto, incapace di realizzare le sue velleità siano esse letterarie o
amorose, immerso in continui ed asfissianti autoinganni mentali. In questo
caso, tuttavia, Riccardo Bruni, alterego dell’autore, incarna un inetto del
tutto atipico: nella sua autobiografia immaginaria riesce a superare se stesso,
senza nulla togliere alla propria problematica complessità. Anzi, proprio le
caratteristiche nevrotiche della sua personalità, incapace di integrarsi fino
in fondo nel mondo degli uomini, diventano la carta vincente per meritare il
“premio” che rappresenta al contempo la prospettiva di una nuova vita come
singolo e di un nuovo mondo per la collettività.
Riccardo sembra un
prolungamento ulteriore della parabola dell’inetto sveviano e se Zeno,
protagonista dell’ultimo romanzo dell’autore triestino, andava fiero della sua
guarigione da malato cronico -guarigione ironicamente frutto di un successo
commerciale ancora ampiamente ancorato al mondo degli ordigni costruiti dagli
uomini, capaci di disintegrare l’umanità stessa con tutti i suoi germi patogeni,
come prospettato nella famosa chiusa apocalittica de La coscienza di Zeno- Riccardo
può sperimentare la possibilità di una rigenerazione, di un oltreumano, uscendo
dalla propria coscienza e divenendo co-scienza, una esperienza che sa unire
fantascienza a realtà in nome di una sensibilità condivisa che appartiene a
tutti gli organismi viventi.
Il romanzo può
diventare dunque un viaggio nel tempo che trasporta in un futuro dal sapore di
un ancestrale ritorno alle origini sulla scia di una “nostalgia vegetale” come
definita da Cioran nella citazione presente all’inizio del libro: è come se in
ognuno pulsasse forte la parte vibrazionale della propria pre-evoluzione che ci
imparenta alle piante in modo indissolubile.
Se l’inetto
tradizionale, con la sua propensione ad una inazione contemplativa, risulta
tagliato fuori dalla società capitalistica incentrata sull’efficienza in nome
di un frenetico profitto, adesso diviene il prescelto, perché la sua “esistenza
da vegetale”, prima vissuta come emblema di una passività colpevole, secondo un
modo di dire svalutante, è il mezzo che gli consente di sperimentare
l’eccezionale, una nuova via per rifondare un nuovo mondo e una pace possibile.
L’"inetto vegetale" va oltre la sensibilità tipica dei poeti e dei
predicatori, la cui fantasia non sembra poggiare su verità razionalmente
determinate, per assumere una vera e propria coscienza vegetale, che si esprime
in una sorta di linguaggio prebabelico dell’armonia incondizionata, della
compartecipazione totale con la vita che pulsa in quelle creature che rendono
possibile l’ossigenazione del pianeta e la nostra stessa sopravvivenza.
Recuperare questa
coscienza è come sperimentare un nuovo Eden, simboleggiato in un fisico e
metafisico “infinitissimo piacere perdurante orgasmo”: in questo senso, la
pagina della Genesi in cui Adamo ed Eva sono cacciati dal Paradiso terrestre
con la conseguente affermazione nel mondo del dolore e della logica della
sopraffazione potrebbe davvero essere legato al “mangiare il frutto dell’albero
della conoscenza”, rappresentazione icastica della superbia dell’uomo che crede
di poter sfruttare la natura a suo piacimento senza ascoltare il linguaggio
profondo e la saggezza che proviene da essa.
Enzo Guidi. Foto di Gianni Quilici
Enzo Guidi, in questo
pur breve libro-viaggio, riesce a fondere la sensibilità dei poeti e dei santi
capaci di cogliere le sollecitazioni offerte dalle piante, attribuendo ad esse
caratteristiche umane, con la prospettiva con cui attualmente studiosi come
Stefano Mancuso stanno lavorando. Lasciando l’ottica antropocentrica che vuol
vedere le piante “come se fossero animali menomati”, secondo quanto appunto
afferma Mancuso ne “L’incredibile viaggio delle piante”, vegetalizzare l’uomo
sarebbe la nuova frontiera dell’umano in un panismo che va oltre l’esaltata
ebbrezza superomistica dannunziana ed oltre l’esplorazione ai confini dei sensi
di un veggente poeta maledetto, ma possibilità esperienziale con valore
scientifico, operata in supertecnologici laboratori.
E questo nuovo mondo
che Guidi prospetta trova perfetto rispecchiamento nel nuovo stile letterario,
originale nella sua spontaneità espressiva, frutto della commistione di generi
e di letture che si fondono in modo armonico. Uno stile da chiacchierata
limpida e fluente che colpisce per la straordinaria coerenza tra il contenuto
autobiografico romanzato ed i mezzi espressivi con cui esso viene comunicato al
lettore, un lettore che spesso si sente più spettatore-ascoltatore che semplicemente
lettore. Il narratore diventa davvero l’uomo-Guidi autentico seppure
personaggio, esaltato delle proprie frustrazioni e frustrato delle proprie
esaltazioni, un Don Chisciotte che diventa cavaliere paradossalmente accettando
di togliersi l’armatura in una spogliazione che dà valore anche alle sue
continue lotte con i mulini a vento.
Dal romanzo novecentesco
di scavo psicologico, fatto di monologhi interiori, si torna a tratti
all’antica confessione attraverso il dialogo, come nel Secretum petrarchesco,
in cui un personaggio interroga il protagonista, spingendolo a rivedere il suo
passato. Il grottesco pirandelliano che si respira nell’eccezionalità di un
viaggio che ha del tragicomico, coniugato al kafkiano di una esperienza
spaesante e perturbante “di una metamorfosi dopo un processo”, non cancella il
bisogno di un fiabesco primitivo, di “un paese delle meraviglie botaniche” come
si legge nel testo. Non è un caso che venga chiamata “bara di Biancaneve” una
delle ultime fasi dell’esperienza: fiaba non è idealizzazione di un fantastico
di principi azzurri ma è superamento di paure sulla scorta del sogno.
Dal complesso l’autore
è come se avvertisse il bisogno di un ritorno al semplice di un’immaginazione
non strutturata, prelogica come quella che potrebbe galleggiare nella mente
ondosa di un bambino prima della piena grammaticalizzazione del suo linguaggio.
Si scopre dunque anche
un “fanciullino”, capace di stupore, che nel momento stesso in cui vuole
disfarsi del romantico (si pensi al bisogno di cancellare il messaggio
affettuoso ricevuto da Ivanka) lo crea per l’ansia di infinito che pare
dilatare quasi in ogni pagina. Gli interminati spazi, i sovrumani silenzi, la
profondissima quiete leopardiani hanno una loro corrispondenza nella quantità
di superlativi presenti nel testo fin dall’inizio: la siepe ed il colle
costruiti dall’uomo con le invenzioni alienanti, che in nome del progresso
spesso lo strozzano, diventano il trampolino di lancio verso lo sconcerto,
verso il sensazionale, non più tuttavia concepito come sterile solipsismo di
una mente in cerca della propria via di fuga, ma come “immaginazione
costruttiva”, una strada per tutti, dove l’impossibile può divenire possibilità
e pace. Dal distopico del Nuovo Mondo di Aldous Huxley ad una utopia del
possibile.
Riccardo non parla con
le piante come faceva ad esempio il Piccolo Principe nell’indimenticabile
dialogo con la rosa su che cosa sia veramente l’amore, egli arriva a “parlare
le piante”. Non è strano che nelle pagine conclusive si assista ad una sorta di
“flusso di coscienza vegetale” che rivela all’uomo una massima di saggezza
immersa nel fluire incessante delle altre parole. Si legge: “la stessa libertà
è un bisogno che non si deve conoscere, c’è già tutta la sostanza”. L’unica
libertà possibile si trova nel non sentirne mai il bisogno. La coscienza
vegetale ci insegna quello che Gesù già riconosceva nei gigli dei campi così
spontaneamente belli senza alcuna pena né preoccupazione; la capacità di
adattamento delle piante nella loro presunta passività diviene una delle forme
più elaborate e organizzate di altruismo solidale pre-etico: vivo e la mia vita
è vita anche per gli animali.
Sarà dunque davvero
possibile in futuro recuperare la nostra coscienza vegetale? Se davvero ciò che
si può realizzare deve essere prima concepito nell’immaginazione, il
protagonista Riccardo ne è stato pioniere grazie alle penna di Enzo Guidi che ha
saputo mirabilmente farlo parlare.
Enzo G. Guidi. Novy Mir. Storia psicovegetale. ETS