07 ottobre 2024
" La furia" di Sorj Chalandon
27 settembre 2024
"Sillabario dei tempi perduti" di Maria Pia Pieri
di Marisa Cecchetti
Dopo Piccolo sillabario di pensieri inutili del 2021, Maria Pia Pieri ci propone il Sillabario dei tempi perduti, Tralerighe Editore. Mi chiedo la ragione di questa scelta, penso al mio vecchio sillabario e per essere precisa ne cerco la definizione: Libro scolastico per l’apprendimento della lettura attraverso il metodo sillabico.
I racconti della Pieri sono suddivisi in tre parti che si sviluppano in un climax ascendente non consolatorio: Tempi speranzosi, Tempi sfiduciati, Tempi angoscianti; seguono lo scorrere della sua vita, sono brevi, narrati come in una conversazione tra amici, quando ognuno, a seconda del momento e delle circostanze, attinge al proprio trascorso.
Lei ci guida per le viuzze, le salite, le immagini di Barga a cui ha legato il cuore; ci fa salire lentamente al terzo piano della sua abitazione di Lucca, camminiamo con lei per le strade della città, ne riconosciamo piazze, chiese, monumenti; incontriamo persone che osserva con curiosità. I Comix la attirano, non sa rimanere al di fuori di un evento, allora scende tre piani di scale quando le strade e le piazze si colorano dei costumi dei cosplayer, più o meno eleganti, più o meno fantasiosi, comunque tutti pronti a stupire. Figure tra cui una suorina che passa è l’unica “vera, gentile e umana”. In questo modo, come con un sillabario, “ci fa apprendere la città” insieme a tutte le emozioni che ad essa la legano e alle esperienze del passato: ecco, secondo me, la ragione della scelta del titolo, ma chiederò conferma.
Libera nel parlare di sé, senza timore di giudizio - questo è un dono dell’età - recupera le emozioni di bambina, il suo rapporto col fumo, le esperienze di insegnante, le passioni del padre, i propri personaggi della TV, i “regali della vecchiaia”: non teme infatti di elencare tutto quello che di bello scompare con gli anni e gli acciacchi che arrivano, ma lo fa con la solita ironia:“Ora provo a raccontarla, così qualcuno di voi si può preparare. Vedo qualche faccia impaurita o annoiata: no, meglio di no, non c’è bisogno del tuo racconto. Si pensa tutti così e ci si tappa gli occhi quando a Barga si vede qualcuno un po’ ingobbito che arranca con sforzo su per una strada in salita”. Riconosce che con la vecchiaia ci vuole tanta pazienza, “Basta che non arrivi la goccia al naso, quella no, per carità”.
Comunque lei si ostina a vivere al terzo piano, contro le indicazioni del medico di famiglia: è troppo bella la città vista da lassù.
Ma con i Tempi sfiduciati e i Tempi angoscianti il riso diventa un po’ amaro, infatti non le sfugge il gran daffare della nostra amministrazione che sacrifica la cultura agli eventi festaioli - la Casermetta della Memoria e della Pace divenuta luogo di informazioni turistiche “grazie a un assessore”; si osservano gli addobbi natalizi - tutto bello per la gioia dei cittadini “salvo qualche eccezione piuttosto kitsch”. E ce n’è anche per i governanti, per la “Bionda, capelli lunghi, piccolina, con l’aria della bambina buona, (che) sta seducendo gli anziani governanti di tanti paesi, con voce dolce, che cambia quando parla di Vox. Allora alza il volume e i toni di fanno apocalittici. D’altronde tutto quello che succede o succederà che piaccia o no, era nel suo programma e lei e i suoi governanti sono persone coerenti con le promesse fatte. Non tutte e dire il vero”.
Paese, il nostro, dove l’amore per la cultura non prevale tra i governanti: “la Russa, seconda carica dello Stato, tanto amato dai camerati odierni. Legge poco ma la sua ultima uscita gli sembra di averla letta, non se l’è inventata, però dove e quando non ricorda”. La Storia purtroppo conosce ben altri governanti che hanno perseguitato la cultura, perché nell’ignoranza il popolo diventa gregge che si può facilmente convincere e guidare: questo la Pieri non lo dice esplicitamente, ma lo fa dedurre.
Maria Pia Pieri dimostra di avere idee personali ben chiare sulla situazione del nostro Paese: non va per niente bene, nonostante i TG continuino a dare rassicurazioni e letture positive. Il suo sguardo si posa con dolore sulla decadenza del nostro tempo, sulle guerre ritornate, sulle donne vittime di violenza, morte sul lavoro o vittime del Regime: Iran, primo ottobre 2023, Armita Garawand, ragazza curda, non ancora diciassettenne, occhi grandi, capelli corti, piercing alle orecchie, esce di casa senza velo, per andare a scuola. Si è ribellata alle regole imposte dal sistema alle donne iraniane e lo vuole dimostrare, senza paura e tentennamenti. Sale sul metrò […] l’abbiamo vista buttata sul marciapiede, come uno straccio buttato via o un animale colpito a morte”. Non si sa che cosa le abbiano fatto sul metrò; è morta dopo quattro settimane in ospedale.
Sa dare nuovo calore e colore al suo passato, Maria Pia Pieri, e lo fa con una punta di nostalgia che si intuisce dietro il suo narrare sorridendo. Osserva il presente con grande attenzione, riconoscendo quel che ci porta di buono; condanna il male solo raccontandolo con lucida freddezza e una punta di mascherato sgomento.
Maria Pia Pieri, Sillabario dei tempi perduti, Tralerighe Editore 2024, pag. 108.
26 settembre 2024
"Intervista impossibile a don Aldo Mei" di Luciano Luciani
Tre giovani. Un ragazzo e una ragazza con abiti e modi di fare propri della contemporaneità, disinvolti, spigliati, diretti… Fa loro da contrappunto un giovane sacerdote, quasi un loro coetaneo, ma già più adulto. Veste un abito talare di tipo tradizionale piuttosto stropicciato; indossa un paio di occhiali tondi, ai piedi calza scarponi da montagna e stringe tra le mani un libro, forse un Breviario, una Bibbia o un Messale.
Intervistatrice: don Aldo, don Aldo… Che fortuna averla incontrata… Non sia timido, non si neghi... Si fermi, scambi due parole con noi. Io e il mio collega siamo due redattori di Teleradio Toscana Duemila. Lo sa che, proprio in questi giorni a Lucca, Lei è al centro di numerose manifestazioni che intendono ricordarla… Lei, la sua vita, il suo sacrificio… Si fermi un attimo, avremmo tante cose da chiederle…
Don Aldo Mei: Lo so, lo so…E non posso che essere grato ai Lucchesi di questa memoria che non muore…. Io, però, sono solo un povero parroco di campagna e non merito tante attenzioni. In fondo, ho solo cercato di essere coerente col Vangelo e i suoi insegnamenti: ho protetto i più deboli, i più indifesi come hanno fatto tanti, tanti altri sacerdoti della mia diocesi. È di loro che dovreste parlare, sono loro quelli da intervistare…
Intervistatore: non sia così modesto, don Aldo. Per noi, che a ottant’anni di distanza riguardiamo alla sua testimonianza di fede, la sua scelta appare straordinaria, rivoluzionaria…
Don Aldo Mei: attenti alle parole! Rivoluzionario, rivoluzione… Sono termini che nel tempo sono venuti assumendo altri connotati… Politici, sociali, ideologici e non mi riguardano… Io resto fedele alla lezione del mio vescovo, Antonio Torrini. Per lui (sale di tono) niente si può costruire seriamente nella società prescindendo da Dio e dal suo Decalogo, la norma regolatrice della vita degli uomini. Senza l’uno e l’altro, l’uomo, da solo, non può aspirare, non dico alla felicità eterna, ma neppure a quella terrena. Più che riformare la società i cristiani si dovrebbero adoperare per migliorare se stessi e farsi più sinceri, più coerenti, più giusti di quanto siano stati fino ad adesso, prendendo a modello l’unico maestro di verità, nostro Signore Gesù Cristo… (Quasi gridando) Altro che politica e rivoluzione! L’unica rivoluzione possibile è quella della coscienza personale!
Intervistatore. D’accordo, don Aldo, d’accordo. Non si arrabbi, però. Invece, se vuole, ci racconti di sé, della sua famiglia, della scoperta della vocazione…
Don Aldo Mei: (rabbonendosi e col tono velato dalla nostalgia) Sono nato verso la fine dell’inverno del 1912 tra gli olivi, i castagni e le viti terrazzate dalla fatica di generazioni di agricoltori. Il mio paese d’origine si chiama Ruota di Capannori, sì e no trecento abitanti, 400 metri sul livello del mare sul versante lucchese del Monte Serra, a 18 chilometri dalla Città delle Mura. Mia madre si chiama Assunta, la mia dolcissima mamma Assunta che mi ha insegnato a pregare, mio padre Antonio. Una famiglia cattolicissima in cui ben tre (io, Americo e Natale) dei cinque figli hanno seguito la via del sacerdozio. In questa direzione ci ha ispirato anche l’esempio di zio Pasquale Mei, amato e rispettato parroco di Pedona di Camaiore per oltre quarant’anni. È stato lui a permetterci, a permettermi, di cogliere la chiamata di Gesù, la vocazione all’impegno pastorale. Per cui, quando nel 1926 mi si sono aperte le porte del seminario arcivescovile mi è sembrato il modo normale e dignitoso di trascorrere dall’età dei giochi a un’età, giovanile sì, ma sensata e responsabile. Ordinato sacerdote nel 1935 nella chiesa di San Pietro Somaldi a Lucca da monsignor arcivescovo Antonio Torrini, mi viene affidata la parrocchia di Fiano di Pescaglia: un centinaio di famiglie per poco più di 500 abitanti, ai piedi delle Apuane. Un ambiente molto simile a quello di provenienza, popolato da allevatori di capre, pecore e mucche e da contadini che dalla coltura dell’olivo e del castagno traggono il loro faticato sostentamento. E qui rimango per oltre sette anni…
Intervistatore: dicono di Lei che sia stato un parroco tanto amorevole quanto severo. Soprattutto con i giovani…
Don Aldo Mei: con tutta probabilità, si sta riferendo ai miei sforzi per contrastare la cattiva stampa e la perniciosa moda del ballo… Sì, ho giudicato negativamente certe riviste come “Il cinema illustrato”, “Eva”, “Novella” e certi romanzacci sentimentali che circolavano in maniera semiclandestina rivolti soprattutto al pubblico femminile… Quanto al ballo mi sono attenuto al regolamento dell’Azione Cattolica che prevedeva la riconsegna del distintivo dell’associazione da parte di quanti avessero preso parte a questo tipo di peccaminoso divertimento… E anche il modo di vestire delle donne, già allora un po’ troppo disinibito, è stato per me motivo di più di qualche preoccupazione… Avevi voglia tu a promuovere la “Crociata per la purezza” e la modestia nel vestire della gioventù femminile… Se qualche giovane donna si metteva, diciamo così, in regola, non poche però, alcune anche iscritte all’Azione Cattolica, si irritavano e chi s’è visto s’è visto… Se ne andavano e non tornavano più!
Intervistatrice: se non le causa troppo dolore, vuole provare a raccontarci i giorni di quella terribile estate del ‘44?
Don Aldo Mei: proverò, signorina, proverò… (Sospira) Ricordo che la mia piccola comunità di Fiano soffriva, e tanto. Alle durezze proprie di una condizione di vita non facile di suo, si erano aggiunte le sofferenze della guerra che aveva portato lontano non pochi capifamiglia e molti giovani. E come se non bastasse eravamo sottoposti a un feroce regime di occupazione militare da parte di quei Tedeschi che in nome di uno Stato totalitario negavano Dio, la persona e i suoi diritti…A noi religiosi era ben chiaro come il totalitarismo nazifascista rappresentasse un pericolo mortale per la Chiesa: la sua dottrina, i suoi sistemi violenti e repressivi si ponevano all’opposto dei principi che avevano contraddistinto il sorgere della civiltà cristiana. Ho ancora nelle orecchie il rumore implacabile, spietato degli scarponi chiodati della Wehrmacht e delle SS (Il sacerdote prova a riprodurre quel suono) a caccia di uomini per il lavoro forzato, di renitenti alla leva fascista, di ebrei, di partigiani… (Don Mei continua quasi ossessivamente a riprodurre quel rumore).E la popolazione che aumentava di giorno in giorno sulle colline: sfollati che fuggivano dalle città, da Pisa, da Livorno, da Viareggio e che avevano bisogno di tutto sia materialmente sia moralmente… Si consumava un’oppressione e una persecuzione della persona umana che noi cristiani, e segnatamente noi sacerdoti, dovevamo invece garantire perché la difesa dell’uomo è il cuore stesso del cristianesimo.
Intervistatore: mi scusi, don Aldo. In questo agire solidale, Lei era un caso isolato, o faceva riferimento a un’organizzazione, a una rete di assistenza?
Don Aldo Mei: mi permetta, (sorride), e il Signore mi perdonerà, un piccolo peccato di orgoglio… Quando, dopo l’8 settembre, le istituzioni civili si sono sciolte come neve al sole, sono stati i preti gli unici rimasti al proprio posto: il prete, per vocazione l’annunciatore della parola di Dio, ha incarnato spontaneamente la coscienza del popolo. E questo è accaduto per i parroci di campagna, per i giovani sacerdoti appena usciti dal seminario, per i pastori delle piccole comunità come la mia che si sono fatti carico della gente sofferente e spaventata per essere “tutto a tutti”. Hanno vestito gli ignudi e dato da mangiare agli affamati, confortato i dolenti e nascosto i perseguitati di tutti i tipi senza chiedere di appartenenze ideali, culturali, politiche, religiose… Ho pregato per loro, per questi miei coraggiosi confratelli: “fateci, o Signore Gesù, santi sacerdoti, me, e i religiosi tutti della diocesi di Lucca, di questa povera Italia e del mondo intero. Che sia tutta una gara di santificazione e santità”. E la scelta della Chiesa di Lucca di stare dalla parte delle vittime ne ha favorito la conversione al Vangelo della Carità, l’ha sospinta al servizio della gente indifesa, l’ha portata a riscoprire più in profondità la sua dimensione popolare. Figlio di questa Chiesa, “io, povero e indegnissimo parroco di Fiano” non ho mai nutrito ambizioni di potere, ma solo l’ideale di costruire la pace mettendomi, scientemente, dalla parte delle vittime. Cambiando così il cuore, da egoista e quindi chiuso, in aperto e capace d’amore e dono.
Intervistatore: Insomma, una particolarissima, originale, inedita lotta di liberazione la vostra, quella della Chiesa lucchese e delle sue organizzazioni?
Don Aldo Mei: (con un sorriso ironico) lei cosa ne dice? È al parroco che si ricorre per cercare rifugio, per chiedere il pane, per sollecitare la difesa dei più deboli, per ricevere conforto, per avere soccorso quando il corpo è stato straziato dalle armi… La parrocchia diventa così, quasi naturalmente, il luogo dove ci si ritrova per unire le forze, per recuperare insieme il coraggio venuto a mancare, per organizzarsi, per ricostruire la comunità civile che il fascismo ha cercato di schiacciare. Gli stessi uomini di Salò sono stati costretti ad ammettere che “giornali, propaganda e radio della Repubblica Sociale non possono nulla contro le migliaia di parroci che sono contrari”. Anche Mario Piazzesi, il capo neofascista della Provincia di Lucca, in una sua lettera del gennaio ‘44 a monsignor Torrini può solo constatare e minacciare: “In questi ultimi tempi alcune segnalazioni della Polizia mi riferiscono che da parte di alcuni parroci e preti, specialmente nelle zone meno abitate, si seguitano più o meno occultamente, a fornire aiuti, viveri e protezioni agli sbandati e ai prigionieri di guerra.” E poi: “Prego Vostra Eccellenza di richiamare l’attenzione dei detti prelati sopra le gravissime pene che vengono comminate a chi, per qualsiasi motivo, offra asilo, viveri e protezione ai suddetti elementi: pene che vanno dalla fucilazione immediata alla confisca dei beni.”
Intervistatore: una comunità “di santi e di perfetti”, dunque, la Chiesa lucchese?
Don Aldo Mei: No, mi piacerebbe che fosse stata e fosse tale, ma non è andata del tutto così… Conoscete di sicuro anche voi la voce, non ancora sufficientemente documentata dagli storici, secondo la quale il mio arresto e la mia condanna furono dovute alla denuncia di un sacerdote simpatizzante per la parte avversa…
Alcuni religiosi, pochi, per la verità, non seppero vedere e non colsero la vera anima del popolo, non si resero conto di dove abitava Cristo e si accordarono coi carnefici. La grande maggioranza dei sacerdoti, però, capì “i segni dei tempi” e quando l’ingiustizia e la violenza imposero una scelta, essi furono pronti a rischiare e a morire. Sì, la maggior parte del clero lucchese anche nei momenti più cupi di quella terribile estate è rimasta col proprio gregge e non lo ha lasciato in balia dei lupi. È merito di ognuno di questi preti, di ognuna di queste suore, se oggi la Chiesa può volgersi serena dagli altari a insegnare, contro ogni violenza che ritorna, i grandi valori dell’amore, della giustizia, della libertà che rendono la vita degna di essere vissuta. Io ho solo cercato di essere alla loro altezza, tenendo alta la bandiera della carità anche nei momenti in cui è soffiato, impetuoso, il vento dell’egoismo, della materialità, dell’odio e tutta la serie infernale dei mali che ne seguono.
Intervistatrice: dunque una Resistenza senz’armi la vostra?
Don Aldo Mei: proprio così. Mite, non violenta: perché proprio quando sembra che la violenza ottenga dei risultati, questi sono soltanto temporanei, mentre il male che produce è durevole. Però siamo stati tenaci e abbiamo scompaginato, disorientato, ritardato l’ultrapotente macchina da guerra tedesca. E questo anche dopo la liberazione di Roma nei primi giorni del giugno ’44, quando i militari tedeschi accentuarono la loro “guerra ai civili”: ovvero, una strategia bellica programmata e condivisa ai più alti livelli di comando che contemplava l’uso e la minaccia della violenza contro i civili, per controllare i territori occupati e conseguire alcuni tra i principali obbiettivi del regime di occupazione: la sicurezza dei soldati tedeschi, la repressione o la dissuasione di ogni forma di resistenza od ostilità agli occupanti, lo sfruttamento delle risorse economiche e umane degli italiani.
Intervistatrice: già. Chiamarono tale direttiva “clausola dell’impunità”.
Don Aldo Mei: proprio quella. Una disposizione della metà di giugno con cui il camerata Kesselring, responsabile della lotta anti-partigiana in Italia, dà disposizioni draconiane con cui sprona gli ufficiali tedeschi alla massima determinazione e a una totale mancanza di scrupoli di tipo umanitario. Di fatto, i civili disarmati sono equiparati ai partigiani in armi e vengono legittimati i comportamenti criminali dei militari tedeschi. I civili, siano essi anziani, donne, bambini o religiosi che in qualsiasi modo sostenevano i resistenti erano punibili, come i partigiani, con la fucilazione ed era sufficiente il semplice sospetto di un aiuto qualsivoglia.
Non guerrieri per vocazione e per scelta, noi lucchesi siamo stati trattati con disprezzo dai “totenkopf”, gli adoratori nazisti della morte… Eppure, se avessero saputo… Se solo avessero saputo chi era, chi è da 700 anni il formidabile alleato dei lucchesi, forse non ci avrebbero guardato dall’alto in basso con tanta sufficienza… Perché noi, da sette secoli, abbiamo dalla nostra parte un Cristo Liberatore: c’è una cappella a lui dedicata nella cattedrale di San Martino e sempre lì c’è pure un Altare della Libertà! Potevano i nazisti avere la meglio su una comunità difesa da un compagno tanto eccezionale? Impossibile! È stato Lui a darci la forza, il coraggio, la volontà per resistere alla violenza, alla sopraffazione, al male… Lui ci ha fornito la fermezza necessaria per contrastare il delitto della mancanza di misericordia, di carità e praticare, invece, il Bene.
Intervistatore: in tempi come quelli in cui stiamo vivendo, oggi, 2024, non Le pare anacronistico parlare ancora di pace e di non violenza? In un’epoca di conflitti come l’attuale, con oltre 60 guerre che sfigurano la faccia del pianeta e avvelenano l’esistenza dei popoli, non le sembra consumato, usurato, evocare il concetto di Bene?
Don Aldo Mei: Nient’affatto. Perché il bene genera bene.
Un qualunque gesto di bene non è vano, questo mi hanno insegnato i morti e i vivi che hanno attraversato la bufera della guerra e dell’occupazione militare. Il bene porta sempre un esempio. Viene recepito, provoca, infiamma… Sparge la sua forza ovunque, si trasmette gli uni agli altri, è una cosa semplice ma lascia sempre un segno indelebile, indimenticabile.
Compete a tutti. Il nostro compito inderogabile oggi è quello di provare insieme a ricomporne la trama, inizialmente esile poi via via sempre più fitta robusta, resistente. Un tessuto civile fatto di libertà e giustizia, rispetto e reciproca tolleranza. E di pace, fatto soprattutto di pace.
“E il Signore farà giudizio fra molti popoli e respingerà oltre ogni confine nazioni possenti. Ed esse delle loro spade fabbricheranno zappe, e delle loro lance, falci, l’una nazione non leverà più la spada contro l’altra, e non impareranno più la guerra.
Anzi siederà ciascuno sotto la sua vite e il suo fico, e non vi sarà alcuno che lo spaventi, perché la bocca del Signore degli eserciti ha parlato”.
18 settembre 2024
"Mio marito" di Maud Ventura
di Giovanna Baldini
Il romanzo Mio marito di Maud Ventura narra la storia di una donna che, in prima persona, per una settimana, dal lunedì alla domenica, come scrivesse un diario, racconta la sua giornata: lavoro, tempo libero, riflessioni diurne e notturne. È una donna sposata, ha un marito che ama, un lavoro e due figli. Della famiglia della protagonista non sappiamo i nomi dei componenti, mentre si conoscono i nomi degli amici che i coniugi frequentano.
Tolstoj diceva che tutte le famiglie felici sono felici allo stesso modo e l’autrice, secondo me, vuol significare che nella società di oggi le donne, in primis le mogli, come in questo caso, sono ugualmente oppresse, ognuna a suo modo, dal peso della loro condizione.
Insegnante d’inglese in un liceo di Parigi, lei, donna di circa quarant’anni, bella e colta, sposata con un uomo che ama perdutamente, introduce il lettore nella sua vita intima, con le sue incertezze, debolezze, insicurezze non ancora superate e proprie di molte donne adulte.
Un costante senso di inadeguatezza la accompagna. Ella non cessa mai di pensare al proprio compagno, di analizzarne i comportamenti, come volesse avere conferma, minuto per minuto, dei suoi sentimenti verso di lei.
Lo ama ossessivamente, ha paura di perderlo, confronta le azioni di lui con quelle dei mariti delle sue amiche per valutare se qualcosa potrebbe aprirle gli occhi su un cedimento di interesse per lei, o addirittura su un probabile tradimento…
Eppure la donna ha due figli, maschio e femmina, una buona situazione economica e sociale, un marito che dopo quindici anni di matrimonio tutte le invidiano: bello e fedele! Una famiglia felice, potremmo dire, che lei si è costruita fin da ragazza, scegliendo il fidanzato con razionalità e determinazione.
Ma non è contenta. Un tarlo la assilla.
Il timore dell’abbandono, del passare del tempo, di non essere adatta all’affetto di quel suo marito straordinario, che ama sopra ogni cosa, le tolgono serenità e aumentano l’ansia.
A volte appare un’adolescente romantica del tempo che fu, altre una donna cinica, altre ancora una madame Bovary dei giorni d’oggi.
Invece la donna, che per sette giorni ci racconta la sua vita, è un personaggio femminile originale ed eccentrico, in cui la scrittrice è riuscita a far convivere le nevrosi, le insicurezze, le paure delle donne dei nostri tempi. Ventura gioca in modo leggero, divertente e, spesso scanzonato e graffiante, con le difficoltà della dimensione donna: moglie, madre, amante, suscitando in modo sapiente un sorriso, sì, ma a denti stretti.
Una raccomandazione al lettore: non perderti l’Epilogo. Assolutamente spiazzante.
Maud Ventura, Mio marito, Universale Economica Feltrinelli, 2023, pp. 220, Euro 19,00
13 settembre 2024
"La morte di Megalopoli" di Roberto Vacca
di Luciano Luciani
A un sempre più diffuso clima di sfiducia nelle “sorti magnifiche e progressive” dell’uomo, indotto dalla guerra fredda tra le due superpotenze Usa e Urss, dal conflitto caldo e apparentemente interminabile che si combatteva nel Vietnam, dalle sempre più incombenti e assillanti crisi energetiche che sembravano voler mutare in peggio e senza appello gli stili di vita occidentali, appartiene La morte di Megalopoli, romanzo breve e brutale, pubblicato nel 1974 da Roberto Vacca (Roma, 1927), per i tipi di Mondadori.
Nelle sue pagine l’Autore, una originale figura di ingegnere, matematico, saggista, divulgatore e scrittore, rielaborava, in chiave narrativa, i contenuti del suo precedente fortunato saggio, Il medioevo prossimo venturo, 1971, oggi considerato una pietra miliare della futurologia apocalittica.
Ambientato in un domani individuato nei primi anni novanta del secolo scorso, La morte di Megalopoli descrive il repentino decline and fall degli Usa, al culmine della loro potenza economica, politica e militare a causa del collasso di un’unica, delicatissima struttura logistico-informativa. Un “punto di rottura” che si rivelerà fatale perché determinerà un “effetto domino” inarrestabile capace di trascinare alla rovina le più importanti città del Paese più progredito del mondo e tutti i suoi abitanti: i livelli di civiltà regrediranno all’anarchia feudale e la società si troverà a essere dominata da feroci, spietati Signori della Guerra.
Primo romanzo italiano di fantapolitica che declina nell’apocalittico-catastrofico, alla pari, se non migliore, dei classici anglosassoni del genere e dei prodotti narrativi di autori del calibro di Ballard, Maine, Christopher, questo di Vacca è un libro già carico di tutte le paure della allora prossima fine del millennio, che, già a partire dai primi anni Settanta, connotata com’era da un susseguirsi di crisi energetiche - chi ha ancora memoria delle “domeniche a piedi”? - e disastri finanziari, guerre locali e tensioni sociali, si rivelava sempre più inabitabile.
Inquietante, a dir poco, leggere La morte di Megalopoli allora; attuali, e quindi ancora più angosciante, i suoi contenuti ai nostri giorni.