24 luglio 2024

"L'ospite" di Emma Cline

 

di Marigabri

“Che piano aveva in mente, di preciso? L’avrebbe saputo quando fosse arrivato il momento della mossa successiva.”

            Così infatti vive Alex, ragazza ventitreenne, senza un passato e senza un futuro, ospite in casa d’altri, attenta solo a intrufolarsi nella vita di qualcuno per coglierne l’estemporanea opportunità e a inventarsi un carattere adeguato alla situazione del momento.

   Il racconto la segue per una settimana: da quando Simon, il ricco cinquantenne che la mantiene nella sua super villa a Long Island, decide di scaricarla a causa di un comportamento discorde con le regole che una giovane amante, quale trofeo da esibire, è tenuta a rispettare.

   Una lunga settimana in cui Alex deve sopravvivere sperando che, presentandosi a sorpresa da Simon alla sontuosa festa del Labour Day, sarà perdonata e riammessa a godere dei privilegi a cui lei aspira. Adattandosi a essere plasmata secondo i desideri del suo mediocre sugar daddy.

   Nel frattempo lei segue degli sconosciuti, rubacchia quel che può da borse abbandonate, si infila per poco in club esclusivi, nuota in mare e soprattutto nelle piscine, dorme sulla spiaggia, si finge amica, seduce adolescenti disturbati (e disperati), ingoia analgesici… costantemente perseguitata da un tale Dom, un tizio border line a cui deve parecchi soldi.

   Tutto questo si svolge in una sorta di ottundimento, di indifferenza, di pura tensione a sopravvivere che Alex esprime muovendosi come si muove, parlando come parla, tacendo come tace.

   Un racconto che tiene incollati alle pagine, che ha il ritmo e lo spessore di un thriller. Inquietante e sospeso come la vita di Alex, scritto da un’autrice, Emma Cline, che ha già ampiamente dimostrato il suo strepitoso talento.

23 luglio 2024

"Le vie dell'Eden" di Eskhol Nevo

 



di Giulietta Isola

“La sera scolora nella notte fuori dalla mia finestra. La casa è vuota. Dal salotto non arrivano le voci dei bambini. Nella doccia l'acqua non scorre sul corpo di Niva. Le sonate di Schubert continuano a suonare in sottofondo, a basso volume. Se devo confessare tutto, questa è l'ora. “

       Nevo, come tutti i grandi autori, crea immedesimazione, ma lui lo fa in maniera diversa grazie alla sua capacità di ritrarre i nostri tratti più intimi, quelli che normalmente teniamo nascosti e che messi su pagina da qualcun altro si illuminano, escono dall’ombra ed all’improvviso sollecitano e fanno vibrare le nostre corde più segrete. 

       Nevo è lo scrittore che confessa l'inconfessabile, illumina il nascosto e proprio lì nell’'inconfessabile e nel nascosto ci siamo tutti noi, con il suo sguardo acuto ritrae i nostri lati più reconditi. 

      Siamo in Israele in presenza di tre storie legate tra loro da un filo di sottili richiami, in queste storie ci sono dei personaggi che cercano le parole più adeguate per esprimere qualcosa che li affligge e, come succede in una seduta psicoanalitica, dire all'altro equivale all'ammettere a se stessi, quei personaggi ammettono qualcosa: colpe, sentimenti, sbagli, segreti a un terzo che li ascolta, e mentre lo fanno provano ad accettare la verità di quello che sentono, a darle corpo. 

      Omri si reca al funerale di un uomo che ha conosciuto per caso durante un viaggio in Bolivia ma dopo poche pagine scopriamo che in realtà non va lì per rendere omaggio al defunto, bensì per rivedere Mor, la vedova che nasconde a tutti la verità su qualcosa di terribile. Il dottor Caro, anziano e rispettato primario, scopre di essere stato accusato di molestie da una giovane specializzanda. Nel rapporto creatosi tra i due c'è qualcosa di non chiaro che ha a che fare con il passato del dottore e con un aspetto specifico della sua storia: il senso di perdita. 

       Nella terza storia una coppia entra in un frutteto, un luogo in cui vanno a passeggiare settimanalmente. Senza che ci fosse nessun segno premonitore apparente, Ofer, il marito, si spinge oltre due filari di alberi lasciando il proprio telefono alla moglie Heli. Da quel momento fa perdere del tutto le proprie tracce, mentre lei si ritrova a rispondere di questa sparizione di fronte a tutti, riscoprendo dei lati di lui e di se stessa che erano nascosti tra cose e parole. 

        Mentre i personaggi di Nevo cercano le parole giuste per confessare l'inconfessabile, chiedono di essere ascoltati, creduti, perdonati noi lettori vaghiamo con loro tra gomitoli di ricordi, omissioni, mezze verità. Ancora una volta, parlando dei suoi personaggi, Nevo ha raccontato qualcosa di noi . 

       Lo stile apparentemente lineare della sua prosa rende scorrevole la lettura, ma indizi, sospetti e rivelazioni sparsi qua e la sorprendono, catturano l’attenzione e obbligano a restare attaccati alla pagina. Leggere Eskhol Nevo è sempre emozionante, costringe a levarsi la maschera e a spogliarsi delle infrastrutture mentali menzognere che raccontiamo agli altri, ma in primis a noi stessi. Il finale mi è parso un po’ surreale considerando quanto lo scrittore sia ancorato alla realtà, ma a Nevo perdono molto e leggerlo mi dà sempre grande soddisfazione.

Forse evitiamo di domandare quando abbiamo paura di conoscere le risposte.”

LE VIE DELL’EDEN di ESKHOL NEVO NERI POZZA EDITORE

12 luglio 2024

"Pier Paolo Pierucci e la sua città " di Carlo Rey Lacsamana

 


      Quando venni a vivere a Lucca c'era una libreria inglese in Borgo Giannotti, a una decina di minuti a piedi, dall'interno della città dove abitavo. Era l'unica libreria straniera della città e il suo proprietario, che era per metà inglese e per metà italiano, era un libraio affabile e colto e alla fine divenne un amico. La sua bottega  fu una sorta di rifugio durante i miei primi anni in Italia; mi distolse dalla mia inguaribile nostalgia di casa e dal senso di alienazione dovuto alla mia incapacità di parlare la lingua.

 

       Per coincidenza, le volte che frequentavo la libreria c'era sempre un uomo strano, rozzo, con i capelli arruffati, aveva la faccia come se non avesse dormito per settimane, la barba lunga e sporca, i baffi folti con la pipa in bocca. Sembrava un rivoluzionario dell'Ottocento con il suo cappotto anche nel caldo di giugno e veniva continuamente rimproverato dal libraio: "Pier Paolo per favore! Non fumare qui dentro! Vai fuori!", al quale come rispsta seguiva una fragorosa risata condita da colpi di tosse.

       In quel periodo lo strano uomo era già una specie di leggenda nella città. Una volta, alle sue spalle, il libraio mi sussurrò all'orecchio: "Il Van Gogh di Lucca". Sulle pareti della libreria erano inchiodati alcuni quadri dello strano uomo. Avevo imparato presto che le sue opere erano sparse un po' ovunque: nelle case, nei bar, nei negozi e persino nei ristoranti. Una volta il libraio mi invitò a cena in una trattoria del posto dove il pittore era solito consumare i suoi pasti; in effetti, il locale era pieno di suoi quadri, come se fosse la sua galleria privata. Dipingeva velocemente; li vendeva quando e dove poteva; alcuni li regalava.

    Recentemente la città, in onore dell'opera dell'artista, ha organizzato una mostra intitolata "Pier Paolo Pierucci: Pittore di luce e di colore". Voglio dire qualcosa sul suo lavoro.

      I critici locali sottolineano spesso la sua affinità con Van Gogh sia come influenza artistica sia come destinatario di quel termine troppo romantico di "pazzo". Come il pittore olandese, Pierucci trascorrerà l'ultimo periodo della sua vita in un ospedale psichiatrico. Questa coincidenza è più una caricatura che un omaggio estetico.

     Il termine "follia", quando viene utilizzato nell'analisi storico-artistica, contiene una valenza romantica e molto spesso non riesce a spiegare l'arte più che l'artista; e nei confronti di quest'ultimo l'etichetta è piuttosto condiscendente, come se la produzione stessa dell'arte fosse preordinata a una certa patologia e per lo spettatore si dovesse presupporre un artista malato per apprezzare e comprendere l'arte. Abbandoniamo il termine e guardiamo i dipinti di Pierucci.

      Lui, come il pittore olandese, è un autodidatta; se c'è qualcosa che li accomuna è il fatto di essere stati entrambi risparmiati dalle rigide teorie estetiche e dalle preoccupazioni tecniche delle scuole d'arte; e soprattutto entrambi possiedono la capacità di essere mistificati.

    Pierucci dipinge come qualcuno che ha visto l'oggetto innumerevoli volte e tuttavia è spinto a dipingerlo perché la familiarità dell'oggetto è accompagnata dal mistero. Un oggetto familiare, se osservato con profonda attenzione e concentrazione, genera il proprio mistero. Questo forse spiega l'emozione delle sue pennellate.

Van Gogh"È l'eccitazione, l'onestà di un uomo della natura, guidato dalla mano della natura. E a volte questa eccitazione è così forte che si lavora senza accorgersene: i colpi di pennello si susseguono rapidamente e si susseguono uno dopo l'altro".

 

       Perché l'impulso a dipingere nasce da questa emozione. Non è l'eccitazione del turista che ammira solo ciò che desidera vedere. Quando Pierucci dipinge un certo paesaggio o una veduta della sua città, il sentimento di casa si riempie allo stesso tempo dell'aura e della sorpresa di una scoperta archeologica. Quando la dipinge si scopre qualcosa della città, qualcosa che alla maggior parte dei turisti sfugge: il mistero.

       Quando Pierucci dipinge la Chiesa di San Michele in condizioni climatiche diverse è come se osservasse una bella donna che cambia abito a ogni ora del giorno! Per Pierucci la città è la sua donna. E proprio come una donna amata, lo ispira e lo frustra allo stesso tempo; ma non è mai noiosa, perché la città è misteriosa come una donna. Lui conosce tutti gli aspetti della sua bellezza, anche il suo nervosismo e la sua tristezza.

       Nella sua eccitazione i paesaggi e le vedute che dipinge gli rivelano i loro nomi di donna.

       La chiesa di San Michele è Michela, San Martino è Martina, San Frediano è Frida, San Cristoforo è Cristina, una certa strada è Irene, una certa piazza è Francesca, un pezzo di muro è Giuliana. E ogni donna lo ha amato a modo suo.

      Questa eccitazione afferma la spontaneità e l'immediatezza dei suoi colori, che sembrano saltare fuori dai tubetti direttamente sulla tela e le sue pennellate perdono il controllo come un'erezione! Forse vigorosa è la parola giusta per descrivere questa intensa celebrazione visiva, quasi sessuale, della sua storia d'amore con Lucca, la sua città.

 

Da qui possiamo andare oltre.

       Dall'anno della sua morte, nel 2018, a oggi sono accaduti eventi drammatici nel mondo. L'esperienza di Covid-19 e le sue conseguenze hanno messo in discussione il nostro senso di appartenenza e il nostro senso del luogo, in quanto tutte le forme di movimento sono state limitate e hanno messo a nudo il nostro completo isolamento dal mondo naturale. Le opere di Pierucci, viste da questa prospettiva, sono piene di senso del luogo: un sentimento profondo per la casa che è l'opposto dell'isolamento. Ha dipinto Lucca come una sorta di gratitudine non espressa perché non avrebbe potuto vivere in nessun altro luogo. Ricordo i versi del grande poeta siriano Nizar Qabbani: "Non ti ho amato solo come persona, ma ti ho amato come patria, non volevo appartenere a qualcun altro".

        La pittura per Pierucci è una forma di radicamento, un atto di cittadinanza. Ciò che si ritrova nella sua arte non è l'affermazione dei clichè della follia, ma la gioia di appartenere, di essere "qui e ora" - persino i suoi dipinti di fiori sembrano urlare, lamentarsi, gioire, celebrare il loro breve posto in questo mondo. I suoi colori vibranti non sono affatto indicativi di un ritorno all'innocenza, né suggeriscono la conservazione dello spirito del bambino che è in un artista. Nella vita possiamo solo fingere di essere innocenti, ma questa finzione porta a dure conseguenze. L'esperienza di Covid-19 ne è una prova. In effetti, la civiltà è tornata al lavoro; la tragedia è stata dimenticata; attendiamo inconsapevolmente un altro disastro.

     Le opere di Pierucci sono l'antitesi di questa indifferenza. I suoi dipinti affermano il senso di appartenenza che rende una responsabilità di cittadinanza, di amore per il nostro luogo, questo mondo. Le sue opere si confrontano con il futuro di una città come Lucca, come qualsiasi altra città italiana, che si sta rapidamente alterando a causa della volgarizzazione dell'eccesso di turismo. I suoi dipinti comunicano l'altra faccia di questa trasformazione.

                               

    Carlo Rey Lacsamana è uno scrittore, poeta e artista filippino nato e cresciuto a Manila, nelle Filippine. Dal 2005 vive e lavora nella città toscana di Lucca, in Italia. Collabora regolarmente con riviste filippine, scrivendo di politica, cultura e arte. I suoi lavori sono apparsi su Esquire Magazine, The Citron Review, Mediterranean Poetry (Stoccolma), Amsterdam Quarterly, Lumpen Journal (Londra), The Berlin Literary Review, Literary Shanghai e in altre numerose riviste. Il suo racconto Toulouse è stato registrato come storia in podcast nel podcast narrativo Pillow Talking (Australia). Seguitelo su Instagram@carlo_rey_lacsamana

 

29 giugno 2024

Operaio e comunista: ottant’anni fa cadeva Roberto Bartolozzi

        


Nella tarda serata del 29 giugno 1944, il piccolo slargo che i lucchesi conoscono come Piazzetta dell’Olivo è teatro del sacrificio di Roberto Bartolozzi, (La Spezia, 1914 - Lucca, 1944), operaio comunista.  Originario di La Spezia, assunto alla Società Telefonica Tirrena, (TETI) come meccanico viene trasferito a Lucca dopo un pesante bombardamento della sua città d'origine (19 IV 1943), che causa oltre centoventi morti e distrugge la centrale telefonica a cui Bartolozzi è addetto. 

       A Lucca entra in relazione con gli ambienti antifascisti e a partire dall'8 settembre si adopera per raccogliere armi, nasconderle e organizzare i primi gruppi di patrioti con l’intento di contrastare anche militarmente tedeschi e fascisti. Si collega col prof. Carlo Del Bianco, docente di storia e filosofia del liceo "Machiavelli" di Lucca, impegnato a costituire a Campaiana (Pania di Corfino) il primo gruppo di patrioti armati formato prevalentemente da suoi ex studenti, ora universitari. Alla fine del marzo 1944, sarà proprio Bartolozzi ad accompagnare a Firenze il prof. Del Bianco in fuga per il suo ultimo, tragico viaggio per Venezia e ritorno. L’operaio spezzino si impegna, poi, in diverse delicate missioni: il nascondimento e l'aiuto ai prigionieri alleati; la costituzione di un centro stampa per la propaganda contro nazisti e fascisti; l'occultamento di armi. di militari sbandati, di renitenti alla leva. A partire dal gennaio 1944, coordinando l'azione di diversi gruppi patriottici che sino a quel momento avevano agito in maniera autonoma, organizza le Squadre di Azione Patriottica operanti in città in un'area compresa tra ponte San Pietro, Guamo, San Vito e Monte San Quirico. Tale formazione militare, nata sotto la spinta di elementi appartenenti al Partito comunista è aperta a patrioti di diverse convinzioni politiche: democristiani, socialisti, liberali... Bartolozzi entra anche in rapporto con il Gruppo "Valanga" che nella zona dell'Alpe di Sant'Antonio opera al comando di Leandro Puccetti.

       Il 29 giugno 1944 è prevista un'azione bellica contro le caserme dei Carabinieri di Borgo Giannotti e di San Concordio a Lucca. Per tale azione Bartolozzi convoca due squadre: luogo di raccolta la centrale telefonica della Telefonica Tirrenia di via Santa Croce. L'attacco, però, si presenta rischioso; infatti, le caserme dei CC sono presidiate da soldati tedeschi e l'ordine di agire viene revocato. Nascoste le armi, i patrioti escono cercando di non dare nell'occhio, ma sono intercettati prima dai fascisti dell'Upi (Ufficio Politico Investigativo), accompagnati da un tedesco, poi da un'altra pattuglia che li ferma chiedendo loro di mostrare i documenti. Bartolozzi e gli altri si danno alla fuga in diverse direzioni. I fascisti sparano. Preoccupato per la sorte dei compagni, il comandante delle Sap torna indietro e si scontra con i fascisti impegnati nel suo inseguimento. C'è una colluttazione, Bartolozzi fugge di nuovo, armato di una pistola sottratta ai militi, che sparano raggiungendolo alle spalle. Cade, si rialza, riprende la sua corsa verso il vicolo San Quirico. Nel frattempo sono sopraggiunti due fascisti della X Mas: uno di loro fa fuoco con il mitra, colpendo in diverse parti del corpo Bartolozzi che prosegue la sua corsa, arrestata solo da un'altra raffica che lo lascia morente vicino alla cabina del cinema Littoria. I fascisti lo raggiungono, lo derubano e, quasi a monito per la città, lo lasciano morente in terra. Sono le 22,30.

        Morirà qualche ora più tardi all'ospedale di Campo di Marte, dove nonostante tutti i divieti, lo accompagnano alcuni cittadini lucchesi sbigottiti: la loro pietà si rivela più forte della paura.

 (Rielaborazione da Luciano Luciani – Armando Sestani, Lucca e dintorni tra antifascismo, guerra e Resistenza, Guida ai luoghi della memoria in provincia di Lucca -  3, a cura di Gianluca Fulvetti, Pezzini Editore, Viareggio (Lu), 2016

 

 

26 giugno 2024

"Il fuoco che ti porti dentro" di Antonio Franchini

  


di Marigabri

                  Quel fuoco la brucia e la consuma. Quel fuoco brucia e devasta chi ha la sventura di starle accanto. Soprattutto chi da lei è nato: Antonio, “ ‘o scrittore” e le sue due sorelle (di cui una, la più remissiva e soggiogata, è definita “zoccola e puttana”).

                 È Angela: la madre più aggressiva, indomabile, detestabile che mai figlio sventurato possa avere in sorte. Figlia essa stessa di una cattiva sorte e tuttavia ingiustificabile nei suoi eccessi di rabbia, nel suo costante livore e nel disprezzo per il mondo che viene espresso in puro gergo napoletano, con l’esibizione di uno stupefacente scilinguagnolo autoreferenziale. Con climax ascendente ed eterno ritorno dell’identico.

                Donna impossibile, Angela, portatrice del più bieco bagaglio di luoghi comuni e disvalori, sempre ben conditi da aspre maledizioni verso tutto e tutti…esserne biologicamente parte può significare soltanto sviluppare il coraggio e la forza per separarsene radicalmente.

                   E scriverne? Che significato può avere per Antonio Franchini farne un ritratto così spietato -che immaginiamo vero- e così impudico? Una liberazione? O un risarcimento post mortem? Perché quel che sappiamo di Angela è che il suo amor proprio (“so’ vanitosa”) viene soddisfatto dall’essere messa al centro della scena. Che se ne parli bene o male non conta, purché se ne parli, appunto.

                   E Franchini lo fa da grande scrittore, non c’è dubbio.

                  Il viaggio verso la vecchiaia e (finalmente) la morte di Angela è una via crucis costellata di brevi ma intense stazioni: oltre alla descrizione del temperamento materno e alle considerazioni di carattere generale sul mistero dell’esser gettati nudi e inermi nel periglioso mondo, ecco la costellazione degli episodi e dei personaggi che ne testimoniano le conseguenze, in un carosello di orrore e divertimento (complice il vernacolo colorito) che però non perde mai quel certo gusto amaro.

                  Perché sappiamo che la commedia, la sceneggiata napoletana, ha da sfociare infine in qualche inevitabile tragedia. Dove la domanda delle domande: “Pecché s’adda murì?” campeggia sovrana nello sfondo di questo millenario teatro umano.

                 A chi legge è chiesto di sistemarsi comodamente nella poltrona davanti a un vasto palcoscenico per assistere alla danza sempiterna delle maschere della vita, al dramma dell’essere al mondo, al piroettare del bene e del male stretti in un allaccio fatale. Alla vita e alla morte, avvinghiate in un solo, insolubile, nodo. (Pecché s’adda murì?)

                 Esserne risucchiati e partecipare al tormento o restare immobili e distaccati spettatori non è una scelta che si può operare consapevolmente. Dipende da ciò che il gioco narrativo muove, quando ciascuno confronterà questa madre con la propria madre, questa storia con la propria storia, questi sentimenti e questo destino con i propri sentimenti e destino.

                Di sicuro a una scrittura così intensa e vibrante non si può rimanere indifferenti.

              Sappiamo che avventure di padri e di madri sono la quintessenza delle storie raccontate nei libri e come sempre è solo il talento di chi scrive che può farne letteratura. Cioè intima, misteriosa verità. Ed è precisamente quel che qui accade.

 

18 giugno 2024

"Parla di noi a chi verrà" di Liana Onofri


Il primo romanzo di Liana Onofri

Zone d’ombra familiari lunghe un secolo

 

di Luciano Luciani

                   Dopo la raccolta di racconti, Donne sospese, 2021, e il libro per bambini, Margherita e il signor Natale, 2020, Liana Onofri, lucchese originaria di Narni, una vita nella scuola come docente d’inglese, con Parla di noi a chi verrà esordisce al romanzo… 

         La vendita di una bella villa sul mare toscano, nel tratto di costa compreso tra Livorno e Piombino, mette in movimento i meccanismi della memoria della protagonista, Costanza. Li sollecita e li rende più acuti anche il ritrovamento di un diario, quello della bisnonna, che contiene nelle proprie pagine la confessione di una lunga e tormentata relazione extraconiugale. Un segreto familiare ben custodito per un secolo, a cui si aggiunge, enigma nell’enigma, l’inesplicabile morte del padre della protagonista: due vicende lontane nel tempo, ma l’una e l’altra frutto di un clima torbido e malato, frutto di dinamiche tra parenti avvelenate da tempo. Per Costanza, la prova provata che il passato, anche quello dei propri consanguinei sempre pensati come integerrimi, può risultare spesso denso di ombre e che nessuno, mai, è del tutto innocente. Neppure le persone con le quali si è condivisa l’intera esistenza: per esempio, i fratelli di Costanza, la principale voce narrante, e suo padre, la cui scomparsa tra i flutti del mare toscano è ancora avvolta in una luce ambigua che sa di mistero. 

          Una vicenda inspiegabile i cui termini si chiariranno solo nelle ultime battute di questo Parla di noi a chi verrà che mescola piacevolmente agli occhi del Lettore le caratteristiche della saga familiare con le atmosfere proprie del mystery. 

        Non manca neppure nel racconta di questa vicenda che si muove tra presente e passato, il retrogusto amarognolo di una perenne, ribadita incomprensione tra i sessi e le generazioni. Se gli uomini e le donne si cercano, pure non si capiscono, mentre i giovani appaiono incapaci di comprendere i comportamenti e le parole degli adulti e non danno quasi mai importanza alle loro esperienze e agli insegnamenti che ne conseguono. Sembra che la scrittrice lucchese voglia significarci che ormai le parole, le nostre e quelle degli altri sono stanche, usurate, incapaci di esprimere con le necessarie pienezza e chiarezza modelli e valori significativi.     

                  La vera protagonista del romanzo è, però, la villa, Villa Costanza, metafora di un mondo interiore declinato e percepito prevalentemente al femminile: quella dimora estiva è, comunque, rifugio, luogo protetto, madre succedanea, balia, seno materno… E non a caso le donne rappresentano le attrici principali di questa narrazione, mentre alle figure maschili sono riservati soprattutto ruoli minori se non addirittura negativi. Nessuna professione evidente di ideologie femministe, di ieri o di oggi, nelle pagine della scrittrice lucchese, ma la chiara consapevolezza della maggiore complessità dell’animo delle donne e delle loro superiori qualità, innate o figlie della storia, di sensibilità e resilienza.

         Scritto in una lingua piana, cordiale, ma di semplice comunicazione, Parla di noi a chi verrà, avrebbe, forse, meritato un lavoro di più attenta ricerca e connotazione linguistica.

 

Liana Onofri, Parla di noi a chi verrà, Carmignani Editrice, Staffoli (PI), Collana Narrativa, 2023, pp. 110, Euro 14,00

13 giugno 2024

“Inversione di rotta” di Virginio Giovanni Bertini

 



di Elisa Bertone

      Sono molto felice di essere qui questa sera, a introdurre il libro di Virginio Giovanni Bertini con le fotografie di Liliana Barone, perché quando si tratta di poesia in qualche modo mi sento a casa. Se poi alla poesia più tradizionalmente conosciuta come tale, cioè quella fatta di versi, si affianca la poesia dell’arte fotografica, come in questo prezioso libro, allora la casa si arricchisce di un arredamento che la rende meno spoglia, e quasi aiuta ad imprimerle un’identità, può diventare una muta chiave di lettura che non sottrae nulla al testo, ma ne aumenta le potenzialità armoniche. Del resto una delle qualità della poesia consiste nella sua capacità evocativa in cui la sonorità delle parole, proprio come la luce su una lastra fotografica, impressiona i contenuti del testo, rendendolo unico ed inimitabile.

      Camminando tra gli scaffali del supermercato, di fronte all’ultimo libro della Murgia “Ricordatemi come vi pare” ho trascritto una frase: “Se mi avessero chiesto che cosa volevo fare avrei risposto: “Voglio cambiare il mondo. Non l’ho certo cambiato tutto, ma la parte di tempo che ho attraversato forse non potrebbe dirsi quella che è se io non ci fossi stata”. Ho pensato che questa frase potesse riguardare anche Virginio Bertini, per l’impegno da sempre profuso e che anche questo libro di poesie vada in questa direzione.

       Eppure, la poesia, come già evidenziava Montale nella sua prolusione dopo la conquista del Premio Nobel della Letteratura nel 1975, è “un prodotto assolutamente inutile”, ma a cui si riconosce almeno il vantaggio di non essere quasi mai nociva. Il poeta ligure si chiedeva quale spazio potesse ancora essere offerto alla poesia con l’avvento dell’era delle comunicazioni di massa, in quel “paesaggio di esibizionismo isterico” che tenta di “annientare ogni possibilità di solitudine e di riflessione”–e pensare che l’evoluzione tecnologica non aveva ancora prodotto gli smartphone e “social” era solo un aggettivo del dizionario inglese-.  Terminava poi il suo discorso con una certezza, rara per chi era più abituato a lasciarsi avvolgere in profonde e talvolta cupe ansie metafisiche: “ Se … ci limitiamo [alla poesia] che rifiuta con orrore il termine di produzione, quella che sorge quasi per miracolo e sembra imbalsamare tutta un’epoca e tutta una situazione linguistica e culturale, allora bisogna dire che non c’è morte possibile per la poesia”.

       L’incontro di oggi sembra proprio confermare la dichiarazione di Montale.  Virginio Giovanni Bertini-e così finalmente veniamo a parlare della sua opera- ci consegna la sua voce, in un linguaggio ardito e innovativo non in funzione di un espressionismo di nicchia ma per conferire incisività e forza comunicativa alla parola (si pensino a termini come “stonfati”, “incestate”, “ondivagare”, ”sdrumate”)-, in un’alternanza di stili che da testi brevi in cui è il singolo vocabolo a diventare protagonista del verso si proietta in componimenti di più ampio respiro, con refrain cadenzati che penetrano nella coscienza come mantra a dissipare le colpevoli nebbie di indifferenze codarde. ove la rima baciata ritma gli incisi rendendo le poesie stesse quasi canzoni di impegno. La voce del poeta, partendo dal suo intimo sentire, non rinuncia a farsi”social” cioè non si ripiega in un intimismo senza sbocchi, ma si fa denuncia, lente di ingrandimento sugli errori del passato e del presente, nella speranza di riaccendere speranze senza naufragare in nuove avvilenti delusioni.

          La raccolta, intitolata programmaticamente Inversione di rotta, è divisa in quattro sezioni “Sopravvivenza”, “Radici”, “Potere, contro” e “Azimut ecocentrico”. Essa dal primo testo “Bum!” all’ultimo “Una nuova altra umanità” ci accompagna in un viaggio ideale che dalla realtà frantumata del sé ci conduce alla visione conclusiva di “un’altalena del desiderio”, metafora icastica che suggella la fede in una fraternità rinata. Non è il caso che l’autore abbia fatto precedere ai suoi, due componimenti tratti dall’ Allegria di Ungaretti, fonte di ispirazione e di incoraggiamento giacché nelle corolle di tenebre di ogni epoca buia può tremolare la foglia appena nata di una mai spenta fratellanza. Un viaggio, ben inteso, che non deve necessariamente procedere in modo lineare, se non per ragioni strettamente tipografiche, ma che può essere concepito come una spirale che dal soggettivo, dall'intimo, dalla memoria sfocia all'esterno nel grido di rivolta, “come un fiume carsico,/in piena”, per utilizzare una delle tante significative similitudini e metafore di cui si nutre la raccolta, “quando torna/l'onda quantica/ a vibrare/ ed un canto libero sale/ e gli antichi semi/ sbocciano/una vita che vale”, si legge in Alberi.

       Partiamo dalla poesia “Bum!”: Bertini nella sensuale tranquillità di una notte di luna piena “sfavillante, umana, innamorata” sogna di “esplodere come una bomba”. Il poeta si nutre di suggestioni, se ne imbeve a tal punto che necessariamente trabocca con l’irruenza di una passione incontrollabile, e quasi come nella reazione atomica nucleare , si produce una conflagrazione che sparpaglia il sé in frammenti che possono apparire come “brandelli”, termine di ascendenza ungarettiana,  “sulla nuda piangente terra”, personificata al pari della luna. I brandelli, tuttavia, come per l’Osiride egizio, possono essere appunto il preludio di una laica resurrezione, la propria voce, fatta parole e versi e libro di poesie, uniche tracce di una vita pronta a germogliare di nuovo, fuori da inutili orpelli e alla ricerca di un’autenticità che parte dal basso e dalla dissoluzione.

        Nel libro si può riconoscere anche una spiritualità aconfessionale come spinta ispirativa. Si prenda ad esempio il testo Preghiera: i termini “fango” e “cenere” richiamano l'atto generativo del Dio creatore della Genesi e la destinazione ultima delle umili creature (cenere ritornerai). L'autore con un deciso atto di emancipazione dal Dio della Bibbia, avvia quasi un'autocreazione in nome della “curiosità di questo mondo” e il neo-Ulisse non rischia come quello dantesco di essere travolto dal naufragio perché a spingerlo è un sentimento cristianamente laico: l'amore “di questa fragile,/imprevedibile umanità disastrata”.

        Del resto la forza di un grande poeta è quella di trasformare il soggettivo in voce universale. Questo è evidente anche nel componimento Delusione, in cui ognuno può trovare rappresentata “la propria delusione” che procede ad onde come quelle “guerriere/ dell’Oceano”, dissonante quando ad essa si vuole opporre le rassicurazioni di una ragione pronta a consolarla. La delusione può diventare una voce flebile, ma non si cancella, quasi una tappa iniziatica per ogni essere umano e “le ombre, i crampi, i nodi/risalgono/i tornanti del disinganno”. Il poeta sa dare sintesi senza togliere forza, anzi proprio nella sintesi ciascuno può rifocalizzare e sentire in sé la crudezza di certe sensazioni che solo chi ha il coraggio di abbassare l’orgoglio e la protervia può avvertire, e che solo uno scrittore può raccontare, e che solo un poeta può rendere emblematiche.

        E non è un caso che un poeta avverta il dolore delle “parole violentate”, come si scrive in “Identità perduta”, che si staglia come una dichiarazione di poetica; l’autore cerca di empatizzare proprio con le parole quando la disumanità non solo le tradisce ma le viola, scatenando una guerra sanguinosa contro il senso e la verità delle stesse, che finiscono per negare se stesse. Chi darebbe il timone ad un navigante ubriaco in una notte senza luna? Eppure il verbo, il logos che ci caratterizza come esseri umani è stato così ridotto nel suo significato, deturpato e svilito: seguire tale scempio equivale a naufragare nei mari dell'autodistruzione.

      Delusione-Speranza, Indifferenza-Umanità, Passato-Presente: il libro trae vigore proprio dalle antitesi che si dipanano tra i versi tanto che persino le amate parole si scontrano con il loro limite, “oltre il quale,- afferma Bertini- / solo un sorriso,/ una carezza,/ un bacio/può continuare il discorso”. Afferma un proverbio Masai: “Trattiamo bene la terra su cui viviamo: essa non ci è stata donata dai .nostri padri, ma ci è stata prestata dai nostri figli”. E allora oltre le nostre parole sorridiamo, carezziamo, baciamo la nostra umanità nella nostra madre terra. Bertini, con questo libro, ci rammenta questa eterna verità.

Virginio Giovanni Bertini. Inversione di rotta. Introduzione di Gianni Quilici. Postfazione di Laura Marchetti. Fotografie di Liliana Barone. Opzioni 2024.

 

 

12 giugno 2024

Di notte tutto è silenzio a Teheran" di Shida Bazyar

 


di Giulietta Isola

«I tuoi esuli non ci hanno pensato abbastanza, sta ripetendo Behsad, mentre procediamo nella notte fredda, loro non imparano dagli errori, un giorno vogliono il comunismo, il giorno dopo lo Scià, non impareranno mai che ci sarà sempre sangue versato»

            Questo è il racconto di un Paese, l’Iran, dalla rivoluzione del 1979 ad oggi. La cacciata dello Scià, considerato ormai solo un despota corrotto permette l’arrivo dello Ayatollah Khomeini, il quale sarebbe diventato, da lì a poco, il capo supremo della repubblica integralista islamica. Il romanzo ferma sulle pagine il passaggio politico e storico da una dittatura all’altra. 

          Ma nulla è mai come sembra e la grandezza di alcuni libri è mostrarci proprio questo. Tra la cacciata dello Scià e l’avanzata del fondamentalismo islamico, infatti, ci sono i sogni di una generazione rivoluzionaria laica e di sinistra. Ci sono i sogni dei tanti che nel 1979 lottano per la libertà del proprio paese, lottano per il diritto alla libertà di parola, di espressione, il diritto alla salute e allo studio, contro l’imperialismo americano. 

        Shida Bazyar, figlia di esuli e attivisti politici iraniani cresciuta in Germania, ci narra con sensibilità e maestria la voragine di violenza e oscurantismo che ha inghiottito l'Iran dalla Rivoluzione, nonostante le premesse e i sogni dei giovani rivoluzionari. 

      Al giovane rivoluzionario Behsad è affidato il primo racconto che narra il 1979 quando assieme all’amico Sohrab e migliaia di altri hanno sognato una società giusta e libera, lontana dai diktat statunitensi. Ma la storia è imprevedibile , il movimento religioso prese il sopravvento e il viso di Khomeini sostituì quello dello scià nei negozi, negli uffici, nei cartelloni. I giovani rivoluzionari di sinistra sono costretti a riunioni clandestine, è proprio a una riunione che Behsad conosce Nahid, l'io narrante della seconda parte , quella che si svolge nel 1989. 

         Behsad e Nahid, si sono sposati e con due bimbi al seguito, si trovano in Germania come esuli politici e pensano di essere solo di transito e che i loro figli non saranno occidentali, che manterranno sempre vivo il legame con la terra dei padri. Nahid tornerà in patria con la figlia e l’ultima nata Tara solo per un breve soggiorno. A raccontare è Laleh che rinnova la memoria ed il legame con la famiglia di origine ma misura anche la distanza fra un mondo e l'altro; Laleh ed il fratello rimasto in Germania vivono in questa distanza; non sono né iraniani né tedeschi, nostalgica Laleh estraneo Morad. A quest'ultimo verrà affidato il racconto del 2009 con le elezioni truccate che portarono Ahmadinejad alla vittoria e migliaia di manifestazioni di piazza represse nel sangue. 

         Shida Bazyar riesce senza retorica e senza sentimentalismo a portarci nel cuore di uno stato martoriato e di tante vite spezzate, riesce a coniugare vita pubblica e privata e a mostrare come la Storia entri nelle storie, nelle biografie, nelle vite di tanti Behsad e Nahid che attendono ancora, nonostante tutto, che un sogno si avveri. Oggi, dopo le proteste molto rumorose del 2022,in Iran sembra tutto silenzioso. Le strade si sono svuotate, le esecuzioni hanno raggiunto livelli record, il mondo guarda , giustamente, a Israele e Gaza, sembra che la breve luce della protesta abbia avuto come unica conseguenza una sofferenza ancora più grande. 

           Ma molto contraddice il silenzio in questo momento: molte donne non indossano l’hijab obbligatorio, ci sono video in cui cantano, ballano e guidano la moto, in prigione si intraprende lo sciopero della fame, le persone normali fanno piccoli atti di resistenza e la notte è da sempre luogo di resistenza. 

“In tutti questi anni in Iran c’è stato il buio ma non c’è mai stato il silenzio. “ Vi consiglio di leggere di questo straordinario paese e di riflettere su queste pagine che ci raccontano storie di chi si porta dentro ferite mai sanate.

«Di notte tutto è silenzio a Teheran. Durante il giorno c’è tanto rumore. Sono così rumorose le persone dentro casa, così rumorosa la loro voce, se riguarda cose poco importanti.»

DI NOTTE TUTTO E’ SILENZIO A TEHERAN di SHIDA BAZYAR FANDANGO EDIZIONI

 

 

25 maggio 2024

"Anima spezzata" di Akira Muzabayashi

 


di Giulietta Isola

“Volevo a tutti i costi salvare quello strumento. Era la sola cosa che mi restava di mio padre.”

         Romanzo classico dalla lingua elegante che racconta una storia ampia e commovente, romanzo sulla musica, sulla guerra, sulla fedeltà alle origini, sull’amicizia, sulla bellezza del silenzio che segue una sonata di Schubert, romanzo bello bello da leggere. T

       Tokyo 6 novembre 1939, Rei, il protagonista ha 11 anni. Suo padre Yu, con i tre ospiti cinesi Yanfen, Cheng e Kang, si cimentano nel quartetto d’archi in la minore opera 29 di Schubert noto come “Rosamund” quando alcuni soldati irrompono nella sale ed interrompono brutalmente le prove, spezzano il violino del padre (è questa l’anima spezzata)e arrestano tutti per sospetto complotto contro il Paese. Rei, nascosto in un armadio, assiste alla scena, scoperto sfugge alla violenza dei soldati grazie al tenente Kurokami, melomane appassionato che gli affida il violino distrutto. Rei non rivedrà più suo padre e verrà adottato da una famiglia francese. Custodirà ciò che resta del violino e passerà una parte della sua vita a restaurare lo strumento altamente simbolico. Quel violino spezzato è la ferita della sua vita. 

        Il titolo del romanzo molto evocativo, allude certamente all’anima del protagonista, ma anche l’anima del violino, il piccolo cilindro di legno all’interno dello strumento che è responsabile della sua risonanza. Sessant’anni dopo Rei ritorna a Tokyo con il violino restaurato per donarlo alla nipote del tenente Kurokami e sarà proprio il restauro a permettergli di superare il suo lutto.   Il viaggio in Giappone è commovente, la memoria dei giorni lontani ritorna con i suoi profumi, la sua musica, le sue pene, malgrado il tempo, la guerra e gli altri accidenti della vita. 

        Anima spezzata è un meraviglioso omaggio alla fedeltà, alla memoria di coloro che sono scomparsi, vittime di terribili crudeltà che soltanto l’uomo è capace di infliggere ai propri simili, è un romanzo che mette l’arte di fronte alla violenza, l’arte come condivisione universale, l’arte come riconciliazione. 

       Sono rimasta colpita dalla grande e sincera profondità che emana dalle pagine, questo romanzo emana bellezza, delicatezza, luce e poesia , emoziona senza mai essere sdolcinato. Akira Muzabayashi usa la lingua con profondo rispetto, ha uno stile semplice ed essenziale, porta pace e serenità malgrado l’estremo dolore. Un libro consigliato a tutti coloro che amano la musica e in generale l’arte come rammendatrice di vite spezzate, questa lettura è una sorta di balsamo assai benefico, lenitivo e commovente insieme.

“Si rendeva conto che tutti i cuori del mondo, stretti nella loro inquieta solitudine, erano simili a monadi impenetrabili, ripiegate su se stesse; erano in fondo come tutti i corpi del mondo, separati gli uni dagli altri e coì dolorosamente estranei gli uni agli altri.”

ANIMA SPEZZATA di AKIRA MUZABAYASHI EDIZIONI LA NAVE DI TESEO

 

22 maggio 2024

"Il Bel Paese" di Antonio Stoppani

 


Einaudi ripubblica il primo best seller dell’Italia unita:

Il Bel Paese di Antonio Stoppani

  di Luciano Luciani

        Un tempo, quando l’Italia era giovane – un secolo e mezzo or sono o giù di lì – le  migliori “penne” del Paese non si facevano particolari scrupoli nel dedicare all’infanzia competenze ed entusiasmi intellettuali.

       Certo, dietro questa attenzione per le giovani e giovanissime generazioni – peraltro sincera negli esponenti più significativi della vita culturale e letteraria di allora – c’era, fortissima l’esigenza di favorire un’ unificazione culturale in senso nazionale e sotto il segno dell’egemonia intellettuale della borghesia settentrionale e dei suoi valori ispirati a ideali di illuminato e cauto progresso.

       Intelligentemente, la classe dirigente di quell’Italia lontana non offrì ai suoi figli più piccoli solo burattini, Minuzzoli, Giannettini, Garroni e Franti, fiabe e leggende locali, romanzetti per adolescenti, imitazioni nostrane della Alcott, ma anche buoni libri di lungimirante divulgazione scientifica. Pensati per l’età successiva alla fanciullezza, quando agli infiniti perché dell’esistenza si cominciano a pretendere risposte più sistematiche ed esaurienti, questi testi miravano a istruire piacevolmente, emancipandosi dal modello del libro scolastico e presentando già i caratteri delle moderne riviste di volgarizzazione scientifica: bassi costi, illustrazioni, cura grafica e tipografica.

       Il più popolare tra quanti si adoperarono per interpretare e soddisfare le esigenze di informazione e consapevolezza scientifiche degli italiani in “calzoni corti” fu senz’altro Antonio Stoppani, non solo “scrittore per ragazzi”, ma personaggio significativo della cultura italiana del secondo Ottocento: sacerdote, scienziato insigne – geologo, paleontologo, naturalista – patriota, fu anche filosofo di ferventi convinzioni rosminiane, aspirante poeta, divulgatore piacevole e cordiale, sempre capace di unire una sincera ispirazione pedagogica con una vera, seria preparazione nelle scienze naturalistiche e geografiche.

       Era nato a Lecco nel 1824. Ordinato sacerdote nel 1847 e avviato all’insegnamento a causa delle sue convinzioni liberali e patriottiche fu perseguitato dalle autorità austriache e avversato dal clero reazionario: la polemica con l’intransigentismo cattolico lo accompagnerà per l’intera durata della sua esistenza, amareggiandogliela non poco. Nel 1848 per aver preso parte insieme ai suoi studenti alle Cinque giornate milanesi conobbe l’espulsione dal seminario; una quindicina d’anni più tardi, nel clima cupo e arroventato del cattolicesimo degli anni tra il Sillabo e porta Pia, partecipò alla redazione di un periodico milanese, “Il Conciliatore” attestato su posizioni cattolico-liberali, che venne soppresso d’autorità dal vescovo preoccupato per le critiche e i richiami negativi che giungevano da Roma. Infatti, gli ambienti più reazionari e passatisti della Chiesa e del cattolicesimo italiano mal tolleravano l’attività di un sacerdote scienziato e naturalista che nella sua fede, larga e generosa, in una natura ministra di Dio e prodiga di bellezze nei confronti dell’Italia, riusciva ottimisticamente a conciliare fede, scienza e amor di patria. E se il titolo di patriota gli era dovuto per la sua partecipazione al ’48 milanese, alla Prima e alla Terza guerra d'indipendenza, quella del ’66, quando il nostro abate e naturalista interruppe insegnamento e ricerche per arruolarsi nel Corpo d’armata del gen. Cialdini – però sotto le insegne della giovanissima Croce rossa italiana, appena costituita nel 1864 – , anche la fama di studioso della Terra e della sua storia lo Stoppani l’aveva guadagnata sul campo: intanto con gli Studi geologici e paleontologici sulla Lombardia, 1856; poi con una famosa Paleontologie Lombarde, 1856-1881, che, scritta in francese, gli aveva assicurato fama e rispetto anche all’estero.

        Il lavoro che rese lo scienziato/scrittore lombardo popolare al grosso pubblico fu il Bel Paese, 1875, pensato in origine per i piccoli lettori, ma che, in breve tempo, con le sue oltre ventimila copie pubblicate si trasformò in uno dei primi best-seller della nascente editoria nazionale.

          Il libro consiste in ventinove conversazioni intitolate Serate – se ne aggiungono altre cinque nella edizione del 1889 – in cui uno zio, l’autore stesso, in forma piana, garbata, colloquiale a un pubblico rappresentato dai nipoti e dai loro amici descrive le “bellezze naturali, la geologia e la geografia fisica“ dell’Italia, senza trascurare osservazioni anche acute sugli usi, i costumi, il lavoro, le tecniche, l’economia delle genti della penisola, nel tentativo tutto politico, comprensibile in un intellettuale che usciva a testa alta dalle lotte risorgimentali, di sollecitare nei suoi lettori una coscienza nazionale unitaria e l’orgoglio di essere italiani, giovani figli di un giovane Paese. 

        Qua e là un certo sentore di provincialismo e di chiuso, certo percepibile più oggi che allora: per esempio, quando propone le sue pagine come antidoto a “quelle opere di Verne che hanno inondato l’Italia, e a cui la nostra gioventù e gli stessi uomini seri corrono dietro con puerile curiosità… mostruosa miscela di vero e di falso”. Ma la vera intenzione del Bel Paese era forse ancora un’altra: soprattutto contrastare con un’opera esemplare e popolare quello scientismo che si andava largamente diffondendo nella cultura italiana e nel senso comune del tempo.

 Antonio Stoppani, Il Bel Paese. Conversazioni sulle bellezze naturali, la geologia e la geografia fisica d’Italia, a cura di Walter Barberis, collana I millenni, Einaudi To, 2024, pp. XLIV-604, Euro 85,00

  

 

 

21 maggio 2024

"Follie di Brooklyn" di Paul Auster

 


di Marigabri

“Mai sottovalutare il potere dei libri”.

        Ecco dispiegarsi in puro stile Auster la storia di Nathan Glass che torna a Brooklyn perché cerca “un posto tranquillo per morire”.

      Anche se ora sta bene gli è stato diagnosticato un tumore, e poi ha sulle spalle il peso di un matrimonio fallito, di un lavoro da assicuratore, e un rapporto difficile con la figlia Rachel. Lo conforta una passione ancora ardente per la letteratura e, in genere, per i libri.

       A sessant’anni, dunque, Nathan decide di traslocare e, ormai libero da incombenze lavorative, decide di aspettare la fine dei suoi giorni terreni cominciando un’opera narrativa originale che intitola ‘Il libro della follia umana’, entro cui raccogliere episodi strampalati, curiosi o assurdi della sua vita e, al limite, anche delle altre.

      Da qui inizia l’avventura tutta newyorkese del nostro narratore e protagonista.

       Dall’incontro con il talentuoso ma ormai svaccato nipote Tom all’amore platonico per l’avvenente e spumeggiante cameriera Marina, alla conoscenza della tortuosa e un po’ torbida storia del libraio Harry presso il quale Tom ha trovato un, a suo dire, soddisfacente lavoro. Elementi da cui si inanella la catena di eventi qui narrata, eventi sopra i quali, come sempre in Auster, il caso domina sovrano.

      Così comincia la nuova vita di Nathan Glass, intensa e avventurosa anche per chi ne gode la brillante lettura. Seguirla è un puro godimento che non ci abbandonerà mai, fino a lasciarci, già sufficientemente turbati, alle soglie dell’evento più sconvolgente della storia americana contemporanea.

Paul Auster. Follie di Brooklyn. Einaudi

 

 

20 maggio 2024

"Kafka. Gli anni della consapevolezza" di Reiner Stach

 

di Silvia Chessa

     Kafka mi ha sempre incuriosita: come autore, originale e provocatorio, ma anche come essere umano.

     Per questo reputerei, intanto, delittuoso non soppesare qualsiasi nuovo studio che si soffermi, con serietà e passione, ancora sul mondo di Kafka, essendo materia che non passa di moda e non esaurisce, di certo, la potenzialità di fornire letture plurime.

     Dell'universo letterario di Kafka seduce, in primis, la capacità di far coesistere gli opposti, esasperare le incoerenze, mantenendo, al contempo, un perfetto filo logico, nonchè una scrittura piana e razionale.

     Dal momento che di incoerenze - o presunte tali-  (su esse ci farà luce Stach), visse il genio di Kafka, egli divenne anche maestro nel sovvertire i parametri di verosimiglianza senza mai entrare nella fantascienza: nei suoi scritti si estrinseca l'arte di maneggiare il surreale ed il reale, impastati in modo scioccante pur se omogeneo.

     La realtà che Kafka ri-crea, nei suoi racconti, è la storia di una follia: ordinata, pacata, ineluttabile. Si sottolinei la parola storia, non favola, raccontino o invenzione.

     La narrazione kafkiana è tecnica, asciutta, quasi consolatoria, nella sua meticolosa, matematica strutturazione.

      Nel libro  "Kafka. Gli anni della consapevolezza", edito dal Saggiatore, 2024, scritto da Reiner Stach(già autore di tre imponenti volumi su Kafka), capiremo, forse, alcuni segreti delle qualità infuse nei racconti kafkiani.

      Verremo introdotti nei retroscena, privati, delle varie situazioni e soluzioni creative rintracciate dal genio letterario di Kafka, che era, al contempo, un soggetto complesso ed affascinante, acuto osservatore di una Europa in disfacimento.

     Erkenntnis, in tedesco, è comprensione, consapevolezza, (di se stessi, del mondo, del proprio tempo).

     Drammatico lo scenario geo politico che Kafka visse, e comprese!, appieno e che fu, insieme alla tubercolosi e al fallimento di alcuni progetti, sentimentali e di carriera, uno spettacolo deludente ma altresì uno specchio ideale per proiettare incubi e sofferenze privati, da eternizzare in pagine che avrebbero emozionato e stimolato generazioni lontane e da venire.

     Quelle generazioni siamo noi, qui ed ora.

     In uno scenario mondiale ancora invaso, mi pare, dall'assurdo.

     Un assurdo, di matrice kafkiana appunto, che prende corpo nelle minacce militari, chimiche, pandemiche, che si alternano assediando molti popoli..

     Come le mele conficcate nella corazza che intrappolava Gregor Samsa, lanciate per sfamarlo, ma finite per ferirlo.

     Un assurdo che si traduce nel morbo delle disgregazioni (sociali, religiose, politiche) con la stessa carica distruttiva del  processo che subiva il protagonista Josef K., un meccanismo, cioè, fondato su calunnie e cavilli burocratici che parte, magari per sbaglio, ma non si arriva ad arrestare..

     Ci verrà in soccorso l'intelligenza artificiale? Chissà.

     Intanto, nel centenario dalla morte di Kafka (3 giugno 1924) non brilliamo per accresciuta erkenntnis, comprensione e consapevolezza, sebbene dotati di finezze robotiche e artificiali, talmente avanzate che erano impensabili nel '24, ma che, usate poco e male, (schiavi dei medesimi cavilli burocratici, speculazioni finanziarie ed oneri formali, che ingabbiavano i personaggi kafkiani..), non ci sono ancora di sostanziale supporto neppure per gestire, al meglio, una pandemia.

Lettura consigliata.

 

Titolo: Kafka. Gli anni della consapevolezza

Autore: Reiner Stach

Traduttore: Mauro Nervi

Editore: Il Saggiatore

Collana: La cultura

Anno edizione: 2024