di
Davide Pugnana
“Ma qual è allora la prospettiva
entro cui si colloca la
domanda su ciò che,
in una determinata epoca, cultura,
società si è detto e scritto
a proposito di un’opera d’arte
o di uno stile di pittura?” (1)
Scrive
Francesco Porzio(2): “Fra gli amori di Arcangeli ce ne sono alcuni che
hanno fatto l’arte italiana, forse europea, del secondo dopoguerra. Ma
la statura del critico era tale, che accade un fenomeno curioso: man
mano che ci si inoltra nella lettura, i pittori svaniscono tremolando
nella cronaca, mentre lentamente prende forma una delle riflessioni più
profonde mai condotte, in Italia, sul significato e sul destino
dell’arte moderna.” Questa riflessione, che procede assumendo il punto
di vista della scrittura come dote metamorfica del critico di
trasferirsi tutto nei suoi pittori, di cibarsi del loro lavoro
introiettando linee colori spazi luci ombre, in un processo in cui la
materia pittorica si deposita in profonde macerazioni interiori, mi
sembra il miglior grimaldello per comprendere la natura singolare di un
saggio vero e appassionato come
La pittura contemporanea dal
Romanticismo alla Pop art (Electa, Milano 2013, pp. 166) Opera del 1987,
questo saggio ha la statura di un classico della storiografia: una
piccola Bibbia portatile per chi desideri aver chiaro il quadro storico
complessivo delle tendenze e delle poetiche europee della pittura
occidentale, dall’Ottocento agli anni Sessanta del Novecento. La
ristampa, con una veste tipografica tutta incentrata sul malinconico
Ritratto del dottor Gachet, aggiunge una tessera preziosa al serrato
mosaico storiografico che, dalla fine degli anni Settanta, ossia dal
ventaglio di monografie su Lorenzo Lotto, sulla dialettica forma/informe
in Burri e sul tema della dimensione politica nell’arte,
Caroli è
andato svolgendo senza sosta e con un’ampiezza prodigiosa di visione
fino ad oggi.
Non intendo qui discutere i puntelli
periodizzanti e il campionario di opere trascelte da Caroli nel lungo
viaggio compiuto dalla pittura occidentale, dalla generazione del
Romanticismo europeo alle avanguardie novecentesche, fino al decennio
Cinquanta-Sessanta della Pop Art. Del suo impianto storiografico; del
suo metodo e della sua visione storica degli eventi; della sua capacità
di scorciare momenti di snodo in quadri di sintesi, come della sua
finissima ricostruzione dei “primari” del pensiero in figura, ho già
dato conto recensendo
Le tre vie della pittura (Libere Recensioni,
Novembre 2012). Quest’ultimo saggio mi dà la possibilità di focalizzare
il cannocchiale dell’analisi su di un aspetto che ho sempre avvertito
come cifra caratterizzante della produzione saggistica caroliana,
e, per dir così, come un valore aggiunto: la scrittura. Non la prosa
saggistica che racchiude un testo nei confini del suo “genere”
scientifico; ma un tipo speciale di aderenza del testo verbale al testo
pittorico che viene definita scrittura d’arte.
Non
sembri questa prospettiva un tradimento della vocazione argomentativa e
della missione persuasiva della forma-saggio. Leggere un saggio per come
è scritto; considerarne la fattura della prosa non equivale a perdersi
nell’elogio della forma, o nell’indugio estetizzante del lavorio di
cesello. Considerare il saggio - e nella fattispecie un saggio su di una
materia visiva come l’arte pittorica - alla luce della scrittura
significa toccare due livelli: da un lato, studiare il metodo di
ri-creazione delle opere, pittoriche o scultoree, attraverso la “messa
in parole” della loro sostanza visiva; dall’altro, cercare di delineare i
caratteri di questo uso della scrittura critica dotata di statuto
estetico e imbastita su valenze poetiche ed espressive. Si può, quindi,
parlare di “scrittura d’arte” quando la prosa acquista un’autonomia di
bellezza tale da affrancarsi dal brano pittorico preso in esame, senza
per questo perdere di rigore scientifico e di profondità interpretativa.
Su questo terreno, tenuto sul filo di confine tra scienza e arte,
prende corpo una sapiente traduzione in linguaggio verbale dell’immagine
pittorica. Nel 2005,
Vittorio Sgarbi ha dedicato un intero libro alla
comprensione della scrittura d’arte, assumendo come esempi massimi della
tradizione Vasari e Longhi. Riaprendolo, per cercare un’ulteriore
sponda teorica valida alla scrittura caroliana, ne riscopro la forza
degli assunti. Nel capitolo Ricostruire l’immagine, la prosa longhiana e
la natura della scrittura d’arte sono presentati così: “Quando si legge
una pagina di Longhi […] quando si leggono i saggi su Piero della
Francesca, su Caravaggio e sulla pittura ferrarese, si scopre, si abbia o
no in mente il quadro, che la parola riesce effettivamente, quasi in
virtù di un’equivalenza, a ricostruire l’immagine, e questo è il vero
scopo della critica. Cioè, la critica deve essere capace di formare un
nuovo corpo che si affianca al quadro e sta in piedi da solo. Ci sono
pagine di Longhi talmente poetiche, talmente forti, che potrebbero quasi
far a meno del testo pittorico che le ha motivate. Senza dubbio è
importante che abbiano un rapporto con quell’immagine, ma sono così
riuscite che potremmo anche non vedere il quadro.”(3)
A
voler cercare nei secoli passati un brano prosastico di questa levatura,
l’esempio forse più significativo proviene da un’epistola datata maggio
1544 al “signor compare Tiziano”(4). Sotto il cielo di una sera
veneziana prossima alla notte,
Pietro Aretino ha cenato in solitudine,
contravvenendo alle sue abitudini di uomo mondano. Da giorni ha la
quartana, una febbre di origine malarica che ritorna ogni quattro
giorni. I cibi non gli lasciano in bocca nessun gusto e il corpo
di uomo prossimo ai cinquant’anni si muove a fatica. La lettera registra
in presa diretta, come una stenografia degli istanti, i gesti e i
pensieri di quella sera di amara, cupa solitudine. Pietro si alza da
tavola “sazio de la disperazione” e si trascina al davanzale della
finestra, abbandonando sulla balaustra “il petto e quasi il resto di
tutta la persona”. Fuori, Venezia pulsa di luci e di vita; sul Ponte
Rialto, nella riva dei Camerlinghi, nella Pescaria, il popolo sciorina e
si dà convegno per assistere alla regata “di barcaiuoli famosi”. Voci
miste, “turbe” salgono dalle calli alla finestra dello scrittore, mentre
in lontananza le barche sono pigre navicelle volanti che s’incontrano
nell’ora del giorno, quando il mare abbraccia il cielo e nessun contorno
li separa più. Come dentro una veduta veneziana di Federica Galli, le
gondole sono spaurite virgole nere nello specchio di silenzioso
cristallo della laguna; e lasciano scie invisibili di solchi sulla pelle
del Canal Grande, mentre “forestieri” e “terrazzani” stanno in una
calma attesa da scacchiera. In Pietro, la morsa della quartana diventa
umor melanconico: “fatto noioso a se stesso”, sente la terribilità del
pensiero che divaga senza approdi nel vuoto. Alza gli occhi verso il
cielo, come secoli dopo faranno Constable e Turner per studiare, in
quelle loro tele cariche di meteorologia visionaria, brani di nuvole e
di tempeste. Un sussulto lo scuote: “da che Iddio lo creò, [quel cielo]
non fu mai abbellito di così vaga pittura di ombre e di lumi.”. L’occhio
di Aretino si dilata: il cielo di Venezia subisce una trasformazione
repentina. Al dato naturale delle nuvole, del vento, delle striature
violacee e bluastre del tramonto si sovrappone una campitura di
chiaroscuri. I guizzi del reale ricordano pigmenti di colore, velature,
trasmutano di essenza. Qualcosa che sopravviene ad un tratto spacca in
due la lettera e ne muta registro. Qualcosa che deve essere affiorato
nella memoria dello scrittore: in quell’istante di risveglio la penna
vorrebbe trattenere tutte la fibra percettiva del cielo, ogni sua grana,
ogni suo tono, ogni suo palpito e respiro. “Onde l’aria era tale quale
vorrebbero esprimerla coloro che hanno invidia a voi per non poter
essere voi, che vedete nel raccontarlo io.” Solo la mano di Tiziano ha
saputo raccontare quel brano di natura diventando quel cielo che adesso
stava negli occhi febbrili dell’Aretino. A metà della stesura,
l’epistola abbandona i toni di basso dello sfogo solitario; la vaghezza
dei pensieri, fino a quel momento sbrigliati negli scenari aridi della
malinconia, trovano nello spazio tra paesaggio lagunare colto sur le
motive e memoria figurativa uno squarcio improvviso nel quale
s’allineano e mescolano gli sfondi sconvolgenti dipinti da Tiziano.
Poter esser Tiziano! Pietro ha sostato davanti ai suoi dipinti per
lunghe ore, portandoci sopra lo sguardo palmo a palmo; ne conosce ogni
agguato d’ombre, ogni campitura, ogni velatura e semitono. I suoi occhi
hanno interiorizzato e amato con gioia feroce le estenuate, pausate
lotte di timbri caldi e freddi, le ocre i blu i viola delle
nuvole a stracci, contro le quali l’indice di Alfonso d’Avalos si
disegna repentino e il gruppo della Madonna e Santa Caterina si dispone.
L’accensione del cielo veneziano era già tutta nella lama di luce che
fende d’un bagliore l’orizzonte abbasso della Pala Gozzi (1520), e
racconta il fermo stagliarsi degli edifici, l’incidersi contro un cielo
aranciato della punta del campanile di San Marco, alla cui geometrica
fermezza risponde, quasi per contrappunto, il torto profilo delle foglie
sul ramo e il zigzagare delle nuvole verso la Vergine. Sferzato da
questi brani pittorici, anche la scrittura epistolare di Pietro si fa
porosa registrazione, non più verbale ma pittorica, dello scenario
lagunare: le maglie sintattiche si allentano, i verbi scintillano, la
tavolozza lessicale si apre a tastiera accordando con somma precisione
sostantivi e aggettivi. Aretino ricreerà sulla pagina, unendo memoria
figurativa e moderna trascrizione en plein air, i cieli di Tiziano
venati di rossi sangue e di neri contro squarci di luce improvvisa:
“Imprima i casamenti che, benché sien pietre vere, parevano di materia
artificiata; e dipoi scorgere l’aria ch’io compresi in alcun luogo pura e
viva, in altra parte torbida e smorta. Considerate anco la meraviglia
ch’io ebbe dei nuvoli composti d’umidità condensa, i quali in la
principal veduta si stavano vicino ai tetti de gli edifici, e mezzi ne
la penultima, però che la diritta era tutta d’uno sfumato pendente in
bigio nero. Mi stupii certo del color vario di cui essi si dimostravano:
i più vicini ardevano con le fiamme del foco solare; e i più lontani
rosseggiavano d’uno ardore di minio non così bene acceso. Oh con che
belle tratteggiature i pennelli naturali spingevano l’aria in là,
discostandola dai palazzi con il modo che la discosta il Vecellio nel
far de paesi! Appariva in certi lati un verde azzurro, e in alcuni altri
un azurro verde, veramente composto de le bizzarrie della natura,
maestre dei maestri. Ella con i chiari e con gli scuri isfondava e
rilevava in maniera ciò che le pareva di rilevare e di sfondare, che io,
che so come il vostro pennello è di spirito dei suoi spiriti, e tre e
quattro volte esclamai: ‘Oh Tiziano, dove sète mò?’
Questa
capacità di costruire un’equivalenza tra testo pittorico e testo
verbale e, attraverso questa, giungere a tratteggiare pagine talmente
poetiche da reggersi da sé, è il comune denominatore della linea degli
scrittori d’arte. Certo, non è l’unico modo della parola scritta di
avvicinarsi all’arte. Ci sono molti e collaudati modi di scrivere sulle
opere. C’è quello rigoroso e documentato della prosa scientifica e
accademica, rifluito in manuali, monografie, articoli e contributi di
corto e ampio respiro; ed è questo un tipo di prosa esplorativa e
chiarificatrice; solidamente positivista, trapuntata d’erudizione e
d’intelligente senso della storia. Il suo raggio d’azione storicizza,
razionalizza, squadra, scolpisce, colloca fenomeni e personalità in un
ordito fittamente elaborato di trame che aggiungono, via via,
argini al grande letto della storiografia. Parallelamente, corre la
prosa dei giornalisti d’arte di solida formazione umanistica, con
scritti tutt’altro che riducibili alla compilazione di un giornale di
bordo della mondanità artistica, delle mode, delle Biennali, dei ‘casi’.
E c’è poi il territorio dell’arte di scrivere d’arte, come recita
l’eloquente titolo di una raccolta di interventi incentrati su uno dei
maestri assoluti della scrittura d’arte del Novecento:
Roberto Longhi.
Nel panorama della critica italiana del secolo scorso, esiste tutta una
linea di autori, tesa tra Longhi e Flavio Caroli - passando per
Francesco Arcangeli, Giovanni Testori, Roberto Tassi e altri - che è
possibile stringere come una costellazione di pleiadi. Le loro pagine
rifulgono di una rara tenuta e bellezza di stile: sono pagine sorrette e
nutrite da un’incessante esercizio dell’occhio sopra l’oggetto d’arte
poi volto in scrittura: ossia, incorporato e sciolto entro un processo
di trasmutazione della forma artistica in sostanza verbale. Questa
capacità di restituire a parole l’opera d’arte, facendola rivivere in
pagine capaci di reggersi da sé, senza più il sostegno dell’oggetto
artistico, è stata definita da Longhi stesso come “equivalenza verbale”.
Su questa via di ricerca, il lavoro dell’intelligenza critica
sull’opera e le percezioni tuffate nell’inchiostro della penna
trascinano con sé la scoperta, nella storia intima di questi
critici-scrittori, di una vocazione, ossia della presa di coscienza di
una latente inclinazione alla scrittura letteraria e poetica.
Dopo
la lettera dell’Aretino a Tiziano, almeno altri due campioni testuali
ci possono aiutare a ricostruire il solco genetico della scrittura
caroliana e ad averne, durante la lettura, un quadro più consapevole del
suo valore e della sua continuità con la tradizione italiana della
scrittura d’arte. Rimanendo nell’orbita dei pittori veneziani, cade in
taglio la pagina longhiana sul San Giorgio del Carpaccio, pittore
narrativo: “E il San Giorgio? An onta di malori innumerevoli rimane
ancora un quadro supremo; non però di piana decifrazione. Che mai,
infatti, di questa inscenatura arcaicamente profilata e stemmata che, in
apparenza, vuol riportarsi ai vecchi esemplari di cinquant’anni prima,
ai cassoni di Paolo Uccello? Solo chi conosca bene il Carpaccio sciolto e
profondo può annuire all’astuzia culturale che qui evoca, attraverso la
più vecchia ed araldica iconografia, l’antichità della favola
cavalleresca […] Creò così, tra drago e cavaliere astato, questa specie
di immane rosta in ferro battuto alla ribalta del quadro; al di là
però, eccolo esplorare a fondo fino all’orizzonte il vasto palcoscenico
naturale che gli è caro: prima il terreno stregato dove la morte espone
lucida, tra i ramarri, le botte e i fili d’erba avvelenati, i suoi vari
‘memento’: le collezioni di teschi, il braccio che fu elegante, il
lurido frammento di un eroe sfortunato, i resti della donzella dove la
camiciola smangiata sul petto integro, la mezza manica sul braccio
che riposa, il torso sfibrato come una corteccia dolce da masticare, si
compongono nei segni di un affetto supremo; più lontano, i palmizi che
sfilano lungo la città balconata donde gli abitanti, minutissimi,
guardano alla rovescia il nostro stesso spettacolo; più in fondo ancora,
sotto il cielo imbrattato di nubi, l’orizzonte marino con il veliero
che s’incanta stupefatto sotto la rupe forata.”(5)
Pagine
di altrettanta abilità e profondità di osservazione fusa ad una fattura
stilistica capace di venirci incontro in completa autonomia, tornano in
Francesco Arcangeli, che fu, come lo stesso Caroli, allievo di Longhi.
Tra le ‘pagine di galleria’, dove Arcangeli ha fissato pezzi di
raffinata oreficeria critico-narrativa dedicati a grandi e piccole
mostre, spicca una memorabile traduzione in parole della
Battaglia di
Montebello di Giovanni Fattori (Museo Civico Fattori di Livorno): “Nella
Battaglia di Montebello il livornese risponde, dalle coste di un mare
comunicante, alle marine di Palavas che Courbet dipinge, talvolta, entro
la luce splendente che il suo occhio di medioeuropeo affissa nel
Mediterraneo. Non indegnamente, il toscano moderno, non più sotto la
luce zenitale di Piero, anzi entro l’ansia sospesa di una polvere di
battaglia, concepisce un grande spento intarsio d’azzurri, di grigi, di
verdi, agitato e compreso entro un’area ‘all’infinito’; dove sordi e pur
solenni accadimenti - la tela, tre metri di largo - , dove giberne
bandoliere casacche pantaloni dorsi di cavallo chepì si posano forti nel
tramestio mortale, sotto un indimenticabile cielo di cenere.”(6) E
ancora ai cieli dei pittori, a quella “storia naturale dei cieli” che la
ricerca di Constable isolerà in brani di assoluta e poeticissima
pittura, dedica pagine di raffinata scrittura
Roberto Tassi: “Constable
indagava il volto della natura, i giochi della luce, i cambiamenti
d’atmosfera, conosceva la forma e la diversità delle foglie, il tipo di
piante, come un naturalista; così le note che scriveva in margine ai
suoi quadri nuvole, il cui stesso titolo di ’studi’ più che un
significato di preparazione per quadri ’finiti’, che in realtà non
faceva, avevano quello di documentazione scientifica […] ma ecco che
l’obiettività cominciava ben presto a tralignare, quelle righe scritte
sulla stessa base del grande foglio di carta sul quale nasceva
l’immagine bellissima e vera di un cielo nuvoloso, mostravano subito il
loro lato poetico, la sfumatura del sentimento. […] Egli sposa la vista
dell’emozione, l’indagine alla fantasia, l’esperimento alla pittura, il
distacco all’amore. Quelle note erano indicazioni scientifiche, ma
davano anche il senso poetico del tempo; la pittura di Constable porta
il sentimento dell’ora. E dopo di lui, a cominciare da lui, tutta l’arte
del secolo è una grande poesia del tempo indimenticabile e fugace,
dell’ora che ha in sé la sua eternità e subito passa. Essere fissati
alla memoria, quindi alla morte, dell’attimo e rendere l’attimo eterno;
essere piccoli, transeunti e assoluti. Quando la luce batte su un
muro il tetto fa la sua ombra, o quando avvolge un albero l’ombra cade
sul prato, quando è il momento della mietitura o quando dal sottobosco
esce un capriolo, o si allontana sul mare un nembo di pioggia, o
fioriscono i papaveri, la pittura indica questi attimi come una grande
meridiana; tutto è sospeso e intoccabile; nasce il senso umano,
irripetibile ed estremo della stagione e dell’ora.”(7)
Ma
a questo punto, prima di introdurre la prosa di Caroli, sento di
dovermi fermare per aprire un intermezzo a giustificazione
dell’intelaiatura massiccia di citazioni che tramano questa recensione.
La ragione di punta è senz’altro la necessaria centralità di essais
testuali, organizzati in un reciproco dialogo capace di restituire il
passo, la grana e la cifra di singolarità della scrittura d’arte. Un
altro motivo di fondo è l’uso della citazione come mezzo per stimolare
la ricezione del lettore, investendolo con punte acute di scrittura in
grado di allargarne la biblioteca mentale, e, attraverso le note a piè
di pagina, portarlo all’attraversamento della linea degli scrittori
d’arte. La citazione, infine, o meglio lo spirito della citazione,
compare qui secondo la lezione di Montaigne e di Walter Benjamin: come
strumento conoscitivo orientato a gettare luce sulle grandi idee, nel
rispetto storico della tradizione di pensiero e trapuntando il proprio
testo di voci come “agguati” che lascino il destinatario spiazzato.
In
questa famiglia di prosatori, dunque, s’incunea la scrittura di Flavio
Caroli. Chi si mette di fronte alle pagine di un critico d’arte arriva
sempre, prima o dopo, a chiedersi: “Come ci parlerà dei dipinti? Con
quale linguaggio avviterà nei nostri occhi i colori e le forme di quelle
opere che il libro, per limitata economia di spazio e di costi, non è
riuscito a riprodurre?” L’orizzonte di attesa del lettore di critica
d’arte è in questo senso tra i più esigenti. Proseguendo l’esplorazione
dei cieli nei brani paesaggistici, iniziata con l’epistola dell’Aretino
fino a Tassi, troviamo, nel primo capitolo sul Romanticismo, la resa in
parole della
Veduta di Zurigo (1842) di Turner: “Ciò che era sottinteso
nel dipinto giovanile [
il Ponte del diavolo, 1802] adesso è internato
nell’occhio come una verità inevitabile. Le norme spaziali sono
disciolte, liquefatte. Una sorgente luminosa sottile e obnubilata sparge
cerchi concentrici di nebbia e candore; tinge di rosa e malva i tetti, i
muri, i cieli, le montagne; trita le cose in una polvere alterna ma
omogenea; allarga l’universo di uno splendore stupefatto e abbacinante,
la luce primeva di una prima alba del creato.” Diverso registro ha la
resa in trama verbale de
Il mulino di Flatford da una chiesa sullo Stour
dipinto da Constable nel 1811: “Il fiumicello segna una traccia
prospettica ancora settecentesca. Ma il quadro è affondato nei
più struggenti e sobri sentimenti ottocenteschi. Il pennello accarezza
zolle madide di muschi e d’umidità, ‘sente’ un’acqua tersa e densa come
vetro, restaura il vecchio rosso dilavato e scrostato dei muri,
sintetizza con straordinaria modernità la macchia smeraldina di un
albero, lo fa dialogare col verde pastoso di un pioppo, abbozza querce
spiumate dal tempo, vede biaccose nuvole di gesso nel cielo limpido
delle giornate inglesi spazzate dal vento dell’Atlantico.”
Questi
esempi ci portano nel corpo vivo della narrazione verbale dell’icona
pittorica. In questo ombelico di segni materici, nella cui cavità il
codice linguistico della lingua pittorica diventa scrittura, Caroli buca
l’immagine: rende leggibile ciò che già accade sotto i nostri occhi in
figurazioni riconoscibili ma arcane, e che solo attivando la funzione
poetica della lingua - quell’apparecchiatura incandescente fatta di
metafore, aggettivi, frizione tra campi semantici anche distanti,
incanto musicale della sintassi, guizzo visionario - possiamo accedervi,
vedendola per la prima volta. L’esempio forse più calzante è la
decifrazione caroliana del nuovo realismo de
I mangiatori di patate
(1885): “Van Gogh è già grandissimo quando dipinge quella specie di
antro selvatico e caliginoso che contiene
I mangiatori di patate. […]
Non sa dipingere, Van Gogh, quando accumula i grigifumo dei Mangiatori.
Meglio: non padroneggia la pittura come le molte mani dotate
dell’Ottocento. Struscia col pennello terre ammorbate, verdi incupiti e
marci, ‘lumetti’ gessosi di luci approssimative, appena memori di un
lontanissimo Rembrandt. Appallottola la pittura con segno arrotolato e
ritornante, impastando le psicologie (tuttavia, sublimi) con pochi
tocchi rotanti di terra e nero. Ma che importa? Questo quadro è scavato
nella pietra stessa dell’animalità umana, e in una tenue, dolcissima,
tenerissima fede in qualcosa che ci salverà. Qui c’è lo strato basico
dell’umanità, la sua divina semplicità, e c’è la più nobile, elevata,
sacra certezza di un amabile riscatto.”
Chi si misura con
le opere d’arte cercando di ricrearle in una equivalente tessitura di
parole conosce bene la difficoltà di far aderire la forma della
scrittura al linguaggio novecentesco della dissoluzione della forma: la
ricerca astratta e informale. Come fare a trasferire la grammatica della
“via astratta” e della contaminata materia informale con il sistema di
segni della lingua italiana? Quali verbi e aggettivi, quali sostantivi e
quali slogature sintattiche dobbiamo scegliere per nominare, fino in
fondo, ogni minima fibra di questo linguaggio pittorico privato di
referenti naturalistici? Come si fa a scrivere sulle tele di Kandinsky,
di Pollock, di Burri, Fontana e Morlotti restituendone l’inaudita
gestualità del processo pittorico, la qualità “organica” dell’immagine,
gli spessori e l’attrito furente e abrasivo? E come farlo, soprattutto,
senza tradirne il midolloestetico depositandovi sopra cattiva
letteratura? A molti di questi interrogativi aveva già dato risposte la
prosa critica di Francesco Arcangeli. I suoi contributi su Pollock e
Morlotti sono tra i più alti toccati dalla prosa critica italiana
affacciata sulla sperimentazione estrema dell’informale e dell’astratto.
Scrive Arcangeli su
Grande sacco (1952): “Per Burri non si tratta di
incollare dipingendo, o di evadere o di riconfermare la pittura
giocando; si tratta, prima, d’intendere la frusta bellezza della
superficie d’un sacco, o il cupo brillare dei legni, o il rigido e opaco
splendere d’una lamiera; e poi, cucendo sottilmente, calcolatamente
bruciando e tingendo, e soprattutto alternando gli spazi di materia con
gli spazi di pittura, dializzando i nei neutri d’un fondo con i neri
brutalmente viventi e infetti di cenci e residui d’abbigliamento, dare a
tutto questo una nuova e diversa vita; sottolinearne una cupa e vivente
sostanza, o una incredibile possibilità di grazia. È soltanto issando
sulla parete il
Grande sacco del ‘52 (un’opera che a terra sembrava
bruta materia, scoraggiante per la sua irrimediabile apparenza
materiale), che ci si accorge di quanto le due sole brevi zone dipinte,
un bianco e un nero più intensi, respingano sapientemente la grande
superficie del sacco entro un velo di tono, malinconico e trattenuto. La
materia compare, allora, vera ma altra da sé; affiora la bellezza
della sua sostanza al di là della sua sostanza.”(8) E proprio a fianco
di Arcangeli Flavio Caroli scrive le sue pagine sull’astratto e
l’informale. L’ultimo esempio è quindi anche un confronto che mostra
l’intima, connaturata e serrata continuità, da aria di famiglia, della
tradizione italiana degli scrittori d’arte, da Longhi a Caroli. Ancora
una volta, a distanza di anni e nel solco aperto da Arcangeli, un
critico italiano si mette di fronte al
Grande sacco di Burri, perché
rimangono zone da esplorare: “E’ difficile immaginare lo scandalo che
procurarono, al loro apparire, i suoi quadri, eseguiti con logore tele
di sacco e poche, stemmanti campiture di colore. Eppure il
Grande sacco
possiede una scansione di spazi così solenne e misurata, così ampia e
perentoria, di eguagliare non tanto una pur implicita devozione al
‘neoplasticismo’ di Mondrian, ma l’imposto spaziale di un affresco
rinascimentale. E che dire di quella tela logora e ‘vile’, riscattata
all’arte nella luce tonale di un pomeriggio che ha il colore del caffè
tostato, e combina sinfonicamente note caramellate, e marroni di
castagne bruciate, e squarci bianchi raccolti come uova minerali a
contrappesare in alto una toppa quadrata come una forma aurea
pierfrancescana, e il nero assoluto, tizianesco, che incombe su questo
muricciolo consunto e perfetto, e la breve nota rossa, acutissima,
caravaggesca, che solo un grande colorista avrebbe potuto immaginare
così pura, per infondere vita e sacralità a questo paesaggio di morte?
[…] Se le slabbrature dei sacchi di Burri, come è stato detto, si
trascinano memorie di un’antica professione medica dell’artista, la
chirurgia di Burri è praticata sulla
stessa corteccia del mondo,
in interventi supremamente lucidi che, per essere salvifici, sanno
esprimere pietà tenera eppure impassibile. Se questi sacchi, come è
stato detto, conservano la polvere e l‘indigenza del francescanesimo
umbro, Burri è il più sontuoso, il più regale di tutti i monaci
medievali.”
Poter scrivere così, internando la lingua
verbale nell’esistenza materica di Burri, significa non allontanarsi di
un millimetro dal fuoco creativo di questo artista. Significa accorgersi
che la materia esiste e lungo i secoli, è impiegata dall’artista in
maniera nuova. Così come inventivo e camaleontico deve essere il
linguaggio della scrittura quando intende narrare l’essenza di una
ricerca artistica, in sé considerata, trasfondendola in un nuovo
‘testo’.
Flavio Caroli, La pittura contemporanea. Dal Romanticismo alla Pop Art. Electa.
Note
(1) G. Patrizi, Et in Arcadia ego, in Narrare l’immagine. La tradizione degli scrittori d’arte, Donzelli, Roma 2000, p. 5
(2) F. Porzio, Francesco Arcangeli, in Cronache d’arte, Skira, Milano 2002, p.157
(3) V. Sgarbi, Vedere le parole. La scrittura d’arte da Vasari a Longhi, Bompiani, Milano 2005, pp. 42-43
(4 ) P.Aretino, Lettere, III, in Scritti scelti, a cura di G.G. Ferrero, Utet, Torino 1970
(5) R.Longhi, Viatico per cinque secoli di pittura veneziana, in Da Cimabue a Morandi, Meridiani Mondadori, 1978, pp.638-639
(6) F.Arcangeli, “Macchiaioli”, in Arte e vita. Pagine di galleria 1941-1973, Accademia Clementina, Bologna, 1994, p. 563
(7)
R.Tassi, La storia naturale dei cieli, in L’atelier di Monet. Arte e
natura: il paesaggio nell’Ottocento e nel Novecento, Garzanti, 1989,
pp. 35-40
(8) F.Arcangeli, Opere di Alberto Burri, in Arte e vita. Pagine di galleria 1941-1973,