24 novembre 2011

"Fantasmi d'amore" di Roberto Curti

di Gordiano Lupi www.infol.it/lupi

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Roberto Curti è uno studioso competente e appassionato del nostro cinema di genere, collabora con Blow Up e al Mereghetti, ha scritto un’interessante monografia su Tonino Valerii e il fondamentale Sex and violence – percorsi nel cinema estremo (Lindau, 2003), insieme a Tommaso La Selva.

Fantasmi d’amore è una vera e propria bibbia, indispensabile per tutti i cultori del gotico, quel cinema nostrano caratterizzato dalla presenza di cripte, cimiteri, tombe scoperchiate, castelli cadenti, scienziati pazzi, servitori storpi, teschi e scheletri, passaggi segreti, streghe, vampiri, visioni di morti scarnificati, balli con musica d’altri tempi e quadri che ricordano antenati scomparsi.

Curti non si limita al cinema, ma opera riferimenti colti di tipo letterario, sottolineando l’importanza del melodramma, della letteratura scapigliata e decadente, ma anche della poesia sepolcrale inglese. Il gotico mette la figura femminile al centro della scena, presta grande attenzione al mito del vampiro, dà importanza al bianco e nero, ma anche a una colorazione soffusa.

I primi film gotici italiani portano la firma di due grandi autori come Mario Bava e Riccardo Freda, che con La maschera del demonio (1960) e I vampiri (1957) dettano le basi fondanti del genere. I vampiri è universalmente considerato il primo film horror italiano e si ricorda come la data di nascita del gotico cinematografico.

Il gotico lascerà il posto agli spaghetti western, ma non scomparirà del tutto e vivrà una seconda giovinezza in alcune pellicole minori degli anni Settanta e Ottanta.

Negli anni Sessanta il gotico fa furore anche nella letteratura di bassa lega, nei fumetti neri e porno – horror, nei Classici di Dracula, nelle collane pulp della Ediperiodici e nei fotoromanzi di Killing.

La televisione non è indenne dal fascino dell’orrore, molti gli sceneggiati importanti che attraggono il pubblico: Il segno del comando e Ritratto di donna velata non sono che due esempi. Il gotico mette in scena vizi e perversioni, sadismo e lato oscuro dell’animo umano, grazie a sceneggiatori come Ernesto Gastaldi che scrivono opere intense e piene di colpi di scena come L’oscuro segreto del dottor Hichcock, La frusta e il corpo, La cripta e l’incubo. Scrittori classici come Le Fanu vengono saccheggiati a piene mani dagli autori del gotico italiano, al punto che Carmilla, perverso vampiro al femminile, è un personaggio che troviamo modificato in tutte le salse possibili e immaginabili. Nel suo libro Curti parla anche di tecnica e fa capire come il gotico segni la nascita dello zoom nel cinema di genere, per semplificare la preparazione delle inquadrature e velocizzare le riprese, eliminando i carrelli.

Roberto Curti ci regala un’opera straordinaria, cinquecento pagine zeppe di dati, considerazioni, appunti, annotazioni critiche, curiosità che faranno la felicità dei cultori ma anche dei semplici appassionati di una materia meritevole di un serio approfondimento.

Il prezzo è un piccolo difetto, ma non dipende dall’autore: 32 euro sono eccessivi per un libro in brossura, stampato in digitale e su carta scadente. Vero che è un lavoro dedicato a una nicchia, ma est modus in rebus


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Roberto Curti

Fantasmi d’amore

Il gotico italiano tra cinema, letteratura e TV

Lindau – Euro 32,00 – Pag. 500

"Il caffè" di Luciano Luciani

foto di Gianni Quilici

Giunto dal Medio Oriente a Venezia nel 1615, il caffè - e il quasi universale rito della tazzina della nera bevanda – presenta una storia complessa che si intreccia strettamente con le vicende, magari meno visibili ma non per questo meno importanti, della formazione delle abitudini, del costume e del gusto dell’uomo moderno. Divenuto, in breve tempo, Amsterdam il principale mercato all’ingrosso del caffè di tutto il mondo, si moltiplicarono in Europa le “botteghe del caffè”, i bar di allora: nel nostro Paese, già nel ‘700, il veneziano ‘Florian’ assurgeva a fama mondiale come luogo di sopraffine delizie del palato. In Inghilterra il primo caffè, venne aperto a Oxford nel 1650 e due anni più tardi anche Londra conobbe questa nuova ‘istituzione’. Ma passeranno vent’anni prima che anche Parigi si adegui alle mode provenienti dalla capitale inglese.

Un successo apparentemente inarrestabile, quello della amara pozione: eppure, anche al caffè toccò il destino di essere al centro di polemiche, accuse, diatribe. Se i suoi sostenitori, forse esagerando, lo presentarono come eccellente rimedio per curare le malattie dello stomaco e del fegato, per rafforzare il tono cardiaco, per eliminare l’idropisia, per combattere la scabbia, i dolori della milza, le infiammazioni polmonari, i vermi e un’infinità di altri guai fisici, non mancarono i feroci detrattori dello scuro beveraggio venuto dall’Oriente.

Bacone da Verulamio, per esempio, in contrasto con l’opinione della maggioranza, non esitava a condannare il caffè come un potente narcotico.

Francesco Redi, nel suo festosissimo e celeberrimo ditirambo, Bacco in Toscana, dichiarava: “Beverei prima il veleno,/Che un bicchier, che fosse pieno/dell’amaro e rio caffè”. Il letterato toscano, tuttavia, ci ripensò e in una lettera privata giudicava il caffè, purché ben corretto dallo zucchero, una bevanda deliziosa.

Per lungo tempo, i “tuttologi” di tre secoli orsono si divisero riguardo alle virtù dimagranti o ingrassanti del caffè. Innumerevoli, e tutti discutibili, gli argomenti portati a sostegno dell’una o dell’altra parte: rimase famosa la prova cosiddetta “dei Turchi”, basata sul fatto che tra gli abitanti dell’Anatolia (famosi allora come sfrenati consumatori dell’aromatico infuso) sembravano assai più numerosi che tra gli altri popoli gli individui decisamente obesi e tendenti alla pinguedine: ciò rappresentava – secondo alcuni – la prova migliore delle virtù ingrassanti del caffè.

Non si riuscì, naturalmente, a individuare l’argomento decisivo in favore dell’una o dell’altra tesi e le discussioni si esaurirono a mano a mano che si diffondeva il consumo del caffè.

Non mancarono, però, nel tempo molte altre accuse: si attribuì alla scura pozione il potere di provocare cecità, emorragie, paralisi, coliche intestinali, febbri perniciose, infiammazioni epatiche e renali… Ma una delle offese più terribili mosse alla bevanda fu certamente quella di rendere l’uomo impotente. Il Linneo, famoso naturalista svedese, lo chiamava addirittura potus caponum, bibita dei capponi e questa calunnia contribuì di sicuro a diminuire la celebrità e il consumo di caffè tra la fine del XVII secolo e l’inizio del XVIII secolo. Luigi XIV, ad esempio, fu decisamente contrario all’uso della bevanda e i maligni sussurravano che tale avversione gli fosse stata suggerita dalla marchesa di Montespan, che in dodici anni di relazione dette al re Sole la bellezza di sette figli. Anche la facoltà medica di Parigi si allineò alle direttive regie in fatto di filtri e infusi e con atto solenne dichiarò, nel corso di un’assemblea, che il peggior vino era sempre più innocuo e giovevole alla salute del miglior caffè.

Monarchi assoluti e tiranni non lo ebbero mai in molta simpatia: non solo il re Sole fu un antipatizzante della nera pozione, ma Carlo II Stuart (1660 -1685), appena rientrato in patria e da poco insediato sul trono dopo la parentesi di Cromwell, non manifestò particolari scrupoli nell’ordinare la chiusura di buona parte delle “botteghe del caffè”, moltiplicatesi in Inghilterra a partire dal 1650, timoroso che potessero diventare centri di opposizione e di rivolta.

E il sospettoso Stuart non aveva tutti i torti a temere i locali in cui si somministrava il caffè come luoghi privilegiati per la diffusione delle idee rivoluzionarie: cento anni più tardi, a Parigi, saranno proprio i Caffè le sedi in cui si ritroveranno i letterati, i filosofi e gli oppositori della monarchia francese. Proprio da uno di questi locali, nel luglio 1789, partirà l’appello per quell’assalto alla Bastiglia, che segnerà l’inizio della rivoluzione francese.

Nei primi anni del XIX secolo, con la scoperta del principio attivo del caffè, la caffeina e con il successivo isolamento di quest’ultima, avvenuto nel 1820, si entra in una nuova fase della complessa storia del caffè: quella scientifica e in particolare sul suo principio attivo si moltiplicarono gli studi e le ricerche.

E del ‘cappuccino’ cosa si sa? Sembra che nel XVII secolo il Neihof, ambasciatore olandese in Cina, al suo rientro in patria abbia riportato con sé l’uso in voga presso i cinesi di mescolare il caffè con il latte. Anche il caffellatte fu ben presto oggetto di critiche e il Thierry, storico ed esponente di punta del romanticismo francese, lo accusò di provocare nientemeno che la leucorrea nelle donne e la cefalea negli uomini.

Fu questo l’ultimo e un po’ velleitario tentativo di ostacolare la lunga e trionfale marcia della popolare bevanda e di contrastare l’ormai quasi universale – e ripetuto più volte al giorno – rituale della tazzina.

Oggi gli italiani ne consumano oltre 30 miliardi l’anno: una tazzina e mezzo a testa al giorno, una quantità enorme che pure non colloca il nostro paese ai primi posti in Europa nell’uso – e nell’abuso – dell’amara pozione. L’Italia è superata di gran lunga dalle nazioni del nord Europa, dove ogni abitante beve in media ben quattro tazze di caffè ogni giorno. Per questo il Cic (Comitato italiano caffè) non esita a ritenere che i consumi possano essere ulteriormente aumentati, soprattutto tra i giovani.

Ed ecco spiegate certe interessate campagne stampa, secondo le quali cinque o sei o anche sette tazzine al giorno non fanno male. Anzi, danno tono, stimolano l’attenzione, incrementano la concentrazione, sollecitano i succhi gastrici e quindi favoriscono la digestione e così via caffeinizzando.

Ad uso del lettore e pro bono suo si ricordi che il nero stimolante venuto dall’Oriente contiene una quantità di caffeina che va da 0,10 a 0,20 grammi per tazzina e che già l’assunzione di un solo grammo quotidiano di questo alcaloide può creare seri disturbi al sistema nervoso, neuromuscolare e cardiovascolare. In parole semplici tanti casi d’insonnia, eccitabilità, tachicardia e disappetenza sono spesso da imputare non a cause remote e misteriose ma a quotidiane, inconsapevoli overdose della tanto familiare bevanda.





21 novembre 2011

"Paloma e l’Angelo" di Fabiana Taddeucci

di Luciano Luciani

Lucca o forse no, la Città raccontata in Paloma e l’Angelo di Fabiana Taddeucci. Il tempo, assomiglia a questo nostro presente, ma potrebbe anche essere un qualsiasi altro medioevo prossimo venturo, tanto rare e inessenziali appaiono nella storia le tracce della modernità. Paloma, il nome della protagonista: Paloma, ovvero colomba nella lingua di Cervantes; simbolo evangelico di purezza e semplicità, portatrice del ramo d’ulivo dopo il diluvio universale, metafora di pace e concordia.

Paloma, la protagonista di questo romanzo breve, è, invece, una giovane donna tormentata dalla memoria di un passato difficile.

Ha conquistato con fatica, Paloma, la propria libertà e quella delle proprie scelte e dei propri comportamenti e appare “strana” agli occhi dei conformisti, dei benpensanti, dei perbenisti: fuma, cammina scalza, porta uno zaino sulle spalle, veste di rosso, il colore dell’eros libero e trionfante, dell’ardore e della bellezza, della forza impulsiva e generosa.

Paloma non lo sa, ma incarna in sé tutte queste doti quando decide di entrare nella Città che sorge dalla pianura.

Una città bellissima: una sintesi mirabile di storia, arte e natura abitata, però, da uomini gelosi della propria condizione privilegiata ed egoisti, satolli e per niente ospitali.

Paloma e la Città: la protagonista e l’Antagonista.

Una favola: crudele e feroce come tutte le favole. Sì, perché Paloma, la nostra eroina, come in tutte le storie mitiche, sarà sottoposta a dure prove iniziatiche: la solitudine; un lavoro accettato solo per sopravvivere; la morte, tragica, del primo amico incontrato; l’amore, quello vero, fatto di passione e carnalità, trovato e poi perduto.

E al posto di quel sentimento smarrito, al posto del cuore strappato, non le resta che un bel dono, un regalo prezioso: una pietra di giada. Che sarà pure il simbolo dell’energia cosmica e della rigenerazione del corpo e dei sentimenti; sarà pure il simbolo dell’immortalità e della perfezione ma niente, niente può consolare dell’assenza di un amante amato come mai nessun altro prima… E allora per Paloma/colomba suonerà la musica dura dei rimpianti, dei conti con se stessa, delle memorie che sopraggiungono sempre più acute, taglienti, dolorose.

Il finale con tutte le sue possibili interpretazioni è affidato alla intelligenza e alla sensibilità dei Lettori.

È importante, invece, sottolineare la qualità della scrittura. Un modo di raccontare, quello della Autrice, allusivo, insieme fantastico e realistico. Un mix originale, personalissimo, capace di evocazioni profonde e suggestioni sottili, che, senza parere, narra il nostro oggi, il nostro qui e ora. Per esempio gli inferni di una vita interiore non placata, ma perennemente in ricerca; i bordi frastagliati e affilati della nostra vita civile o incivile che dir si voglia; i lineamenti essenziali della catastrofe etica che è sotto gli occhi di tutti.

Non pensiamo, però, a questo libro solo come a un teatro della crudeltà: c’è posto, e tanto, per l’amore, l’amicizia, la pietas. In fondo ne basterebbe così poca per migliorare la vita quotidiana di tutti.

Pietas: ovvero rispetto, affetto, tenerezza, benevolenza…

Tutte doti di cui è provvisto abbondantemente Giò, ovvero Giovanni, barman generoso e altruista, disponibile e compassionevole in una città segnata dall’intolleranza e dall’incomprensione per ogni sia pur piccola diversità. Riuscita figura di deuteragonista, Giò nel senso di Giovanni, per amore,arriva ad accettare anche il diritto all’opacità di Paloma, il diritto al caos dentro di sé. Consapevole che gli esseri umani sono compositi, multipli, complessi, polimorfi e che ridurli alla trasparenza può voler dire solo diminuirli e impoverirli.


Fabiana Taddeucci, Paloma e l’Angelo Favola di fine millennio, Libertàedizioni, Lucca 2011, pp.64, Euro 10,00

"Il nuovo inquilino" di Javer Cercas

di Gianni Quilici


E' un romanzo che si legge in un volo.

Una mattina Mario Rota, professore di Fonologia in un’università del Midwest, negli Usa, facendo jogging cade slogandosi una caviglia. Da quel momento, sta tornando a casa sudato e zoppicante, iniziano le sue disavventure: l'affittuaria gli presenta il nuovo inquilino, Daniel Berkowickz, brillante, monopolizzatore e seducente, che, in pochissimi giorni, gli sottrae spazio lavorativo, credito, ragazza, amici.

Una storia psicologicamente avvincente, perché raccontata con chiarezza, con personaggi veritieri, dialoghi efficaci e pensieri sottili, che progressivamente creano un'atmosfera di persecuzione e di processo, di condanna e infine di incubo, fino a creare nel protagonista quasi uno sdoppiamento. Ho pensato, per qualche associazione, ad un film, ben più delirante di questo romanzo, come “L'inquilino del terzo piano” di Polanski, oltre che naturalmente a Kafka.

Tutto, infatti, sembra preludere ad una conclusione inesorabilmente catastrofica. La svolta finale è sorprendente e non può essere raccontata, perché se la si conoscesse, oltre a eliminare la sorpresa, produrrebbe forse anche un diverso tipo di lettura.

Ed è la svolta, che a me pare deludente, perché pretestuosa, in quanto produce un salto non motivato né stilisticamente, ne' ideologicamente, rispetto a ciò che fino a quel momento avevamo letto.

E' come se Javer Cercas avesse avuto paura di andare fino al fondo dei caratteri e della situazione ed avesse cercato di risolvere con un'idea brillante, perché inaspettata narrativamente e soprattutto aperta a tutte le ambiguità dell'interpretazione.

Ed è un peccato, perchè Mario Rota è delineato efficacemente, colto nella sua dolorosa, consapevole, automatica debolezza, come pure è tratteggiato vigorosamente il mondo universitario nei suoi banali modelli di efficienza e nella sua ipocrita ferocia.

Il nuovo inquilino” è il secondo romanzo di Cercas, scritto nel 1989, prima di due famosi romanzi, “Anatomia di un istante” e soprattutto “Soldati di Salamina”, vincitore quest'ultimo del Premio Grinzane e del Premio Mondello.

Javer Cercas. Il nuovo inquilino. Traduzione di Pino Cacucci. Ugo Guanda editore.

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