30 gennaio 2015

"San Romano. Viaggio nella valle del Serchio" di Gianni Quilici




foto Gianni Quilici
Provo  un senso di stupore quando lasciando la strada veloce e anonima lungo la Valle del Serchio ci si inerpica verso San Romano su una strada invece intima, ma così stretta, che in certi punti è difficile e forse impossibile il passaggio simultaneo di due macchine e forse anche pericolosa, perché in certi tratti sarebbero necessari impianti di protezione. Ma lo stupore più grande nasce dal mutamento improvviso di paesaggio: dalla strada trafficata che s’impone su ogni altro elemento, alla fitta vegetazione di castagni, querce, betulle, che dà un senso immediato di essere dentro un’altra civiltà.

A metà strada, al margine di uno slargo, una casa abbandonata con capanna e un sentiero sulla parte opposta, che scende verso una proprietà privata, chiusa da una catena. Dinnanzi la visione di un paese, forse Cardoso, disteso sulla collina con il campanile in alto racchiuso tra la vegetazione.
 
La stradina sale ancora per poco quando d’improvviso, in uno spiazzo largo, ecco il paese, S. Romano, con un comodo parcheggio.
San Romano, si può leggere su un cartello segnaletico su sfondo giallo, si trova a 447 metri, anticamente era il castello di Spulizano (995) ed è oggi un borgo medievale nascosto  tra il verde sopra la valle del torrente Turrite. Che sia un borgo medievale con le case e palazzi, che si abbracciano, lo sapevo già, avendolo visitato in precedenza due volte, tanto che il desiderio di rivederlo era limitato, in quanto mi sembrava il paese scontato. Invece  è stata una sorpresa. Il tempo muta, muta anche i nostri occhi.
foto Gianni Quilici

Primo scatto: croce su di un piedistallo di un colore nero contro il cielo blu.
Lì vicino ecco l’oratorio di San Rocco del secolo XVII, ma largamente rimaneggiato con il prònao con tettoia e colonne e con il fianco di sassi e calcina e finestre inferriate più simile ad un’abitazione che a un luogo di culto. Alle spalle un delizioso campanile a vela.
Su un lato due panchine adatte ad una sosta contemplativa. Da lì parte la via centrale di pietra, che s’inoltra nel paese.


foto Gianni Quilici
Il campanile s’impone alla vista con un’originale mescolanza tra sacro e profano  con un’ampia terrazza terminale, la campana e  la porta incorniciata di pietra serena. La chiesa adiacente, S. Romano (XVI secolo), che ha dato il nome al paese, ha una piazzetta minuta ma ricca di dettagli: un monumento ai caduti della grande guerra e un roseto, una croce e due alberi insoliti, che partono quasi dalle radici  con innumerevoli rami, un muretto da un lato e una bella cancellata che la rinchiude dall’altro.  

foto Gianni Quilici
La via prosegue con poche biforcazione, qualche bel palazzo, qualche casa ben ristrutturata e case modeste o abbandonate, alcune delle quali rimandano la bellezza della loro autenticità.
Ma forse l’aspetto più architettonicamente poetico risalta in alcuni  sottopassaggi con porte ad arco,  travi di legno e aperture a mo’ di finestra nella parete di pietra.

Alla fine di uno di questi sottopassaggi, il più modesto, la via prosegue in un viottolo che porta verso la collina. Lì un uomo sta lavorando ad un muretto di pietre parzialmente franato. “Lo faccio a secco” mi dice dopo il mio saluto, “perché col cemento si sfigurerebbe tutto”. Davanti c’è la collina fitta di castagni, che nell’aria primaverile di oggi assumono quel bel colore marroncino chiaro che dà un senso di morbidezza. “Tutti quei castagni sono miei” mi dice “li pulisco ogni anno per bene, non voglio che sotto ci nasca una boscaglia di pruni. Quel castagno lassù, quello vecchio e più alto di tutti, lo vedete? E’ enorme, si vede anche da qui, ma vedendolo da vicino è impressionante”.

foto Gianni Quilici
Attraverso un sentiero che passa al lato del paese si ritorna all’oratorio S. Rocco da dove ero partito. Lì sotto, lungo la strada che porta a Motrone, c’è l’ultima insolita sorpresa: un lavatoio con tettoia, che come si può intravedere nell’immagine è notevole nella forma fantasiosamente geometrica, nella pietra, nelle colonne di mattoni.
In un lato l’acqua, che ancora oggi sgorga impetuosa e leggera da dei modesti tubi allora doveva essere inserita,  come si intravede nell’immagine, da una struttura scultorea e doveva formare con un lavatoio brulicante di vita un insieme di grande fascino popolare e forse anche architettonico.

San Romano di Borgo a Mozzano. Domenica 18 gennaio 2015.
   


28 gennaio 2015

"Guida al cinema di Stephen King" di Marcello Gagliani Caputo



di Gordiano Lupi

Pochi scrittori sono riusciti a condizionare il cinema come Stephen King: dagli anni ’70 a oggi, quasi tutti i suoi romanzi sono stati, più o meno fedelmente, portati sul grande schermo o in televisione, sintomo della straordinaria capacità dell’autore americano di raccontare storie fatte apposta per trasformarsi in immagini.

 Registi come Brian De Palma, Stanley Kubrick, Rob Reiner e Frank Darabont, solo per citarne alcuni, si sono cimentati nella trasposizione di un libro di King, ottenendo in alcuni casi un successo strepitoso, in altri dando una svolta alla propria carriera.

Il primo, nel 1976, fu De Palma che con Carrie – Lo sguardo di Satana, suo secondo lungometraggio, ottenne il passaporto per la gloria, seguito a breve giro di posta da Tobe Hooper che portò in tv Le notti di Salem (1978) e soprattutto da Kubrick e il suo Shining (1980), causa di decennali polemiche tra il regista e King, il quale si è sempre dichiarato contrariato della rilettura cinematografica del suo romanzo.

Partendo da queste basi, ma andando ben oltre, il libro ripercorre le tappe fondamentali che hanno fatto dell’autore americano uno dei più “sfruttati” al cinema, ma che lo hanno visto anche direttamente coinvolto (sua la regia di Brivido così come molte delle sceneggiature di altri film).

 Corredato dalla Prefazione di Stefano Pastor (Il giocattolaio e Figli che odiano le madri, Fazi Editore), dalla filmografia completa e impreziosito dalle interviste al regista Mick Garris (L’ombra dello scorpione, Shining per la tv, Riding the Bullet e altri) e alla protagonista di Cujo Dee Wallace, questo volume racconta la genesi di tutte le pellicole (o serie tv) tratte da opere di King e le analizza dal punto di vista critico.

Da Carrie a Shining, passando per It e Misery non deve morire, fino alla recente serie Under the Dome, il libro si candida a diventare una vera e propria bibbia per gli appassionati che potranno trovare aneddoti, curiosità e analisi critiche delle pellicole kinghiane, vivisezionate in ogni loro piccolo particolare. 

L'AUTORE:
 Marcello Gagliani Caputo è nato a Palermo il 30 ottobre 1974, vive a Roma ed è scrittore, saggista e giornalista pubblicista. Nel 2006 ha esordito nella saggistica cinematografica con ...Altrimenti ci arrabbiamo! Il cinema di Bud Spencer e Terence Hill per la casa editrice Un mondo a parte. L'anno dopo, con Andrea Salacone e Sergio Gualandi, ha pubblicato Bad Boys - La Figura del cattivo nell’immaginario cinematografico per la Morpheo Edizioni e ha partecipato al libro Christopher Lee - Il Principe delle Tenebre, Profondo Rosso Edizioni. Ha collaborato, per Edizioni Il Foglio, al volume Il Cinema di Michael Winner e ha pubblicato, con Roberto Donati, The Fincher Network (Bietti Edizioni), prima monografia italiana dedicata al regista. Nel 2013 ha partecipato al saggio The Walking Dead - L'evoluzione degli zombie in tv, nel fumetto e nel videogioco edito da Universitalia, mentre nel 2014 ha pubblicato l'ebook Zombie al cinema per Fazi Editore.

22 gennaio 2015

“Un tetto per la notte” di Robert Louis Stevenson




di Gianni Quilici

Ci sono dei romanzi o racconti, sui quali scrivere diventa difficile, perché il pensiero più istintivo è tanto semplice quanto frustrante: leggetelo! Leggetelo, perché non ve ne pentirete e non importa se il lettore sia alquanto sofisticato oppure alquanto modesto.

Questo ho pensato dopo aver letto velocemente il racconto Un tetto per la notte di Robert Louis Stevenson, in una edizione forse introvabile “L’argonauta” del 1987, che contiene un altro racconto La porta di Sire di Maletroit, quasi una fiaba,  gradevole come tutto ciò che ha scritto Stevenson, ma di cui si può fare a meno.

Un tetto per la notte è un racconto su François Villon, grande poeta maledetto, vissuto nel secolo XIV, che, arrestato quattro volte per episodi di malavita, e dopo essere stato condannato a morte, riuscì sempre a farsi rilasciare.

Robert Louis Stevenson
Perché, a mio parere, è un grande racconto? Proviamo in modo forse pedante a scomporlo un pochetto, inserendo per motivare il giudizio brevissimi spezzoni, che comunque non dovrebbero togliere per niente il piacere di leggerlo.

Primo: perché è straordinariamente visivo, scorre attraverso i nostri occhi come se fosse un film, in cui paesaggio e vicenda umana si fondono mirabilmente.
Stevenson, infatti, ci introduce subito in una Parigi notturna avvolta dalla neve che cade con “un’insistenza aspra e implacabile” con il vento tagliente che “sparpagliava intorno in mulinelli svolazzanti” con i fiocchi di neve che “scendevano ad uno ad uno, dall’oscurità della notte, silenziosi, turbinanti senza fine” eccetera eccetera.
Il freddo bianco e avvolgente della serata diventa ancora più implacabile, palpabile e assorbente attraverso il poeta, che è costretto a vivere fuori al ghiaccio, derubato, affamato con il rischio di finire congelato come è successo ad una donna su cui era inciampato, rimasta tra la neve “gelata e rigida come un bastone” oppure con la possibilità di venire catturato dalle ronde dei soldati, che giravano a frotte per la città e che avrebbero potuto prelevarlo ed impiccarlo senza tanti problemi, considerando che poco prima c’era stato, tra i suoi compari, un delitto, di cui era stato spettatore.

Secondo: l’immediata, viva e profonda capacità di descrivere ogni personaggio del racconto, anche quelli minori, riuscendo a armonizzare con molta abilità l’aspetto fisico con il carattere e viceversa.
Prendiamo come esempio Don Nicolas, frate della Piccardia “col saio rimboccato e le gambe grasse e nude”.
La sua faccia, gonfia e tumefatta come quella di un bevitore accanito, era coperta da una rete di venuzze congestionate, rosse in circostanze normali, ma ora di un violetto pallido (…) Il cappuccio gli era mezzo cascato giù dalle spalle, e formava una strana escrescenza ai lati del suo collo taurino. Se ne stava così a gambe larghe mugugnando, e tagliava la stanza a metà con l’ombra della sua massiccia corporatura”   
Ma straordinario è soprattutto Villon, ladro e derubato, teatrale e sensibile, orgoglioso e opportunista,  scaltro e angosciato.

Terzo: è infine un racconto di classe, nell’accezione marxista del termine. Alla fine Villon, infatti,  trova ospitalità da un vecchio gentiluomo, in una casa signorile con arazzi eleganti, brocche d’oro, stemma araldico. Qui, mentre sta mangiando e bevendo golosamente, inizia una conversazione che assume progressivamente i caratteri di uno scontro.

Da una parte “il signore  di Bristout, balivo del Patatrac”, come si presenta, orgoglioso dei suoi gradi, fedele a valori come la fedeltà a Dio, la cortesia d’animo, l’onore, la rispettabilità; valori nobili, secondo lui, rispetto ai piccoli bisogni terreni del mangiare e del bere.

Dall’altro Villon, povero maestro di Belle Lettere, ladro, furfante, vagabondo e squattrinato, che però rivendica il proprio onore, perché sa cosa vuol dire soffrire con la pancia vuota.
Gli dice infatti osando criticarlo: “Se l’aveste provata voi tante volte quanto me” - sottintesa la fame- “forse il tono del vostro discorso cambierebbe”; e se non bastasse si pone sullo stesso piano, lui ladro, del gentiluomo pieno dei suoi valori di privilegio. Dice infatti: “ In ogni caso io sono un ladro, ma anch’io ho un mio onore valido come il vostro”
Il gentiluomo non può accettare questo tono e questi contenuti e lo caccia disgustato dalla sua presenza qualificandolo “vagabondo e farabutto impudente”, facendogli, tuttavia strada per un puntiglio d’onore e congedandolo infine con un: “Dio abbia pietà di voi”.

Come si intuisce anche nella sorprendente chiusa Villon non è uno stinco di santo così come il vecchio gentiluomo non è senza pietà e generosità.  Lo scontro, insomma, è ricco di perspicaci sfumature psicologiche e ideologiche.

Robert Louis Stevenson. Un tetto per la notte. Traduzione di  Piero Pignata e Rosa Clot-Tite. L’Argonauta.
Si può trovare anche come Ebook edizione Faligi Editore. 1,99 euro.             




“I mobili” di Angelica D’agliano





foto Gianni Quilici

E quando sono entrata in un negozio di mobili ho visto prima di tutto il continuo di un grande discorso tra molti professionisti, andato avanti per molto tempo. Idee sagomate nel metallo, nelle resine, nel legno impiallacciato, nelle paste sintetiche, nei tessuti industriali. E tutte parlavano, avevano un programma molto chiaro di "funzione ", di cosa è consentito e cosa no, un'opinione arguta e severa circa la scansione dello spazio. E sopra ancora al piacere dell'oggetto e a ciò che è consentito dalle necessità c'era la congettura orgogliosa (superiore? laterale ? posteriore?) di un marchio e il piacere , questo l'avevo compreso, o l'aspettativa di piacere di riconoscere e riconoscersi in quell'interpretazione particolare di tempo e di spazio, forse anche un po' l'ignorare fiduciosamente le strade attraverso le quali un disegno - di credenza, di libreria, di armadio - un disegno a predizione del futuro e del presente fosse divenuto un oggetto concreto.

Ma a me piacciono gli imprevisti. Mi piace toccare un pezzo di legno e sentirlo ispido. Toh, potrei abituarlo a me. Potrei provare con la carta , potrei metterlo su un paio di caprette. E poi potremmo mangiare insieme, io e il mio pezzo di legno. Potrebbe aiutarmi a sostenere un piatto , il fresco della tovaglia e forse una pianta ancora timida per un vaso più grande. E poi potrei cogliere della ceramica e disegnare fiori e uccelli, e incollarla sopra un lavabo di pietra.

Mi piace che di un mobile possa dire: le vedi quelle cicatrici, le ha fatte un cucciolo che era piccolo e brutto. Poi è diventato un lupo, è stato con me tanti anni e quando è morto gli toccavo la testa. Lo vedi quel piatto? Ci do da bere alle farfalle. È scheggiato così ci posso appoggiare un bastoncino e loro non annegano. E a quel punto se posso faccio una barchetta di carta e la regalo chi mi ascolta. La volta più bella fu quando una persona cara la prese e andammo insieme a vedere il mare.    

20 gennaio 2015

Trent’anni di “Documenti e studi”





di Luciano Luciani


Questo numero 37 di “Documenti e studi” se da una parte continua a rendere conto dei lavori attivati per il settantesimo anniversario della liberazione di Lucca, dall’altra non rinuncia a indagare negli ambiti temporali, precedenti e successivi, a quel 5 settembre 1944 che restituirono la Città Murata e gran parte della provincia alla vita democratica. 

Quindi, accanto al saggio di Jonathan Pieri sul tema della Guerra ai civili nel Comune di Massarosa e all’intervista (la prima, in trent’anni della nostra rivista!), Diciassette anni, partigiano, di Feliciano Bechelli a Franco Bravi, allora giovanissimo combattente della Divisione Garibaldi Lunense, l’attenzione dei collaboratori si è rivolta sia verso significative vicende locali più lontane nel tempo come nel caso di Giuliano Rebechi, Il “caso Raffo”. L’allontanamento violento del direttore commerciale della Cooperativa di Consumo di Pietrasanta ad opera dei fascisti nella primavera 1924, sia in direzione di momenti in cui si respirava già l’aria della riconquistata libertà con i suoi inediti problemi e le sue nuove difficoltà: così, accanto al contributo di Nicola Del Chiaro, Alle radici della Repubblica, La battaglia del periodico repubblicano lucchese “Il Baluardo” durante il quarto governo De Gasperi (1947 – 1948), compare anche un intervento apparentemente più “leggero” di Feliciano Bechelli Lucca, le prime partite di calcio dopo la liberazione che ci consegna l’immagine di una società civile cittadina desiderosa della normalità di qualche modesto svago, mentre, a poche decine di chilometri da Lucca, la guerra infuria ancora.

La scheda di Franco Pocci, Bruna Morandi Petri, riguardante un’importante figura femminile del cattolicesimo versiliese, attiva tra spiritualità e organizzazione nel secondo dopoguerra, inaugura una rassegna rivolta a raccogliere la memoria delle figure femminili attive sugli scenari provinciali del secolo scorso.

Tra le novità di queste pagine , la pubblicazione dell’apparato integrale degli Indici e degli Autori di tutti saggi apparsi su “Documenti e studi” dal primo numero all’attuale. Un utile strumento di lavoro offerto a studiosi e lettori per ricordare i trent’anni di questa nostra rivista. Con la necessaria modestia e una punta di orgoglio, pensiamo di poter affermare che nel corso di tre decenni questa pubblicazione, grazie ai contributi di gran parte della intellettualità cittadina e provinciale, ha saputo tesaurizzare una straordinaria messe di materiali documentari, testimonianze, ricostruzioni storiche, vicende biografiche di personaggi maggiori e minori sull’ultimo secolo e mezzo di storia di Lucca e della sua provincia, tali da costituire un corpus imprescindibile per chiunque intenda muoversi, con qualche consapevolezza storico-critica, nei complessi, tortuosi percorsi della storia locale recente.

Nella consueta sezione della rivista riservata alle recensioni librarie segnaliamo quella riservata al libro di Moreno Musetti, Le nostre Indian, realizzata da Roberto Pizzi con particolare impegno e nei modi di un piccolo saggio di storia del costume e della mentalità.


19 gennaio 2015

"La danza ed il suo mistero" di Dafne



Anna Tsygankova e Matthew Golding

Mi è capitato spesso di riflettere sulla danza e sul suo significato più profondo. Su cosa abbia di diverso dalle altre forme di arte, su quale livello riesca a coinvolgerci, quali corde interne vada a toccare. E’ lampante che al centro del tutto vi sia il CORPO e le sue innumerevoli possibilità espressive.

Coloro che praticano la danza sono i detentori assoluti di questa possibilità espressiva e comunicativa, capaci di una vera e propria estroflessione dell’universo interiore attraverso il corpo.

 Doti fisiche e rara sensibilità interiore educate ed amalgamate da una rigorosa disciplina e da una continua ricerca fanno nascere quelle persone speciali che noi chiamiamo semplicemente “BALLERINI”, veri artisti che  ci consentono , se vogliamo, di attraversare il vetro opaco dei nostri confini sensoriali e sfociare altrove, stare un po’ in questo altrove e poi rientrare nel nostro mondo con una coscienza nuova, una coscienza sorpresa.

 “Quando un danzatore è all’apice della potenza, possiede due cose splendide, fragili e deteriorabili: la spontaneità, conquistata dopo anni di esercizio e la semplicità, non intesa nell’accezione usuale, ma come stato di semplicità assoluta, quello di cui parla T.S Eliot e che si consegue sacrificando assolutamente tutto” Martha Graham

Del resto i sentimenti ed i valori che la danza vuole studiare ed esprimere sono sentimenti e valori UNIVERSALI e come tali ci raggiungono, istintivamente.

Concepisco la danza come il frutto di una ricerca che è crocevia fra corpo e intelletto. La perfetta sinergia fra CORPO e MENTE e come avviene per i sistemi complessi durante una rappresentazione teatrale il tutto è sempre di più che la somma della parti.

Charles Baudelaire spiega così il valore aggiunto insito nell’arte della danza: ” La Danza può rivelare tutto ciò che la musica racchiude”



16 gennaio 2015

"Pensamenti: la soddisfazione”



noterella di Gianni Quilici

"Non c'è niente di più sterile della soddisfazione"
così ha detto una volta Roman Polanski.
Ed è sterile la soddisfazione quando diventa auto-contemplativa,
perché rimane statica, sempre uguale a se stessa, nel suo gratificarsi.

Immaginiamo, tuttavia, la soddisfazione che può nascere
dall’ applauso del pubblico dopo uno spettacolo
o dopo una sfida portata faticosamente a termine
 o banalmente da un incontro di consonanze affettive o intellettuali.
Sono soddisfazioni sterili?
No, possono essere altamente positive,
perché il bisogno di essere riconosciuti, gratificati
non è soltanto una  condizione psichica istintuale fortissima,
il principio del piacere freudiano,
ma può servire, 
se, andando oltre l’auto-compiacimento,
diventa slancio per non accontentarsi.

Lo slogan potrebbe essere quindi:
essere soddisfatti per non essere soddisfatti,
ne’ narcisisti, ne’ sadici, ne’ masochisti,
ma in movimento dialettico
sapendo che esiste sempre un oltre
rispetto a ciò che siamo.
[ 15 gennaio 2015 ]

"Breve storia del Cinema" di Massimo Moscati

di Gordiano Lupi www.infol.it/lupi

Un libro straordinario, scoperto per caso in una libreria di Livorno, acquistato come una folgorazione, scritto così bene che non riesco a staccarmene e vado pensando da giorni che andrebbe studiato, non soltanto letto.

Un testo indispensabile per chi ama il cinema e vuole cominciare a capirlo, soprattutto perché non è scritto in critichese, lingua incomprensibile – molto vicino al politichese - di cui si nutrono tanti saccentoni di casa nostra.




Scrivere di cinema non significa essere giocoforza astrusi e complessi, usare un italiano colto e forbito, cercare di non farsi capire se non da pochi eletti. Scrivere di cinema vuol dire raccontare la fabbrica dei sogni all’uomo della strada, al cittadino comune, al ragazzo che vuole avvicinarsi a un fenomeno culturale fruibile da tutti.




Bravo Moscati – giornalista e sceneggiatore, autore tra l’altro di un manuale di sceneggiatura e di un dizionario dei film - che parte dagli albori del cinema, ci racconta Welles, Chaplin, Bergman, Wilder, la commedia all’italiana, il melodramma, la nouvelle vague, il surrealismo, il neorealismo, il realismo poetico francese, il cinema giapponese, cinese, sovietico, persino messicano e cubano, in una suggestiva carrellata di ricordi.




Moscati compie un ben preciso percorso critico privo di omissioni, non trascura il gusto personale, racconta Hollywood, Cinecittà, il cinema indiano e palestinese, il periodo del muto, la comparsa del sonoro, il 3D e l’animazione, finisce per analizzare oltre mille film con passione competenza.




Un libro enciclopedico senza la pesantezza di un dizionario ma scritto con la leggerezza di un romanzo popolare, divulgativo e scientifico, di facile comprensione e al tempo steso tecnico.



Prima edizione 1999. Seconda edizione ottobre 2014. Costa soltanto dieci euro per quasi 500 pagine. Cosa aspettate a comprarlo?



Massimo Moscati. Breve Storia del Cinema. Bompiani – Pag. 480 – Euro 10


"Edgar Allan Poe, la penna e la bottiglia " di Luciano Luciani



Non accenna a diminuire la fortuna di Edgar Allan Poe. Dagli USA all’Italia continuano a moltiplicarsi la traduzioni, le edizioni, le riletture alla ricerca di una sempre maggiore consapevolezza critica dei testi dello ‘scrittore maledetto’ per eccellenza.

I suoi racconti straordinari, fantastici, di viaggio, che avranno una grande influenza sull’ispirazione di Jules Verne, polizieschi, per i quali egli inventò il detective Dupin, archetipo di tutti gli ‘investigatori dell’intelligenza’ da Sherlock Holmes ad Hercule Poirot, sono ancora gustati con coinvolta apprensione da milioni di lettori di tutte le età, in ogni parte del mondo. Ma Poe non è solo l’iniziatore di ‘generi’ che tanta fortuna hanno avuto dalla seconda metà dell’Ottocento ai nostri giorni: è anche poeta di versi ‘visionari’, “invenzioni di ritmica bellezza e musica pura” e nemmeno è da trascurare il suo epistolario. Soprattutto le lettere d’amore scritte nell’adolescenza quando s’infatuò di Jane Stith Stanard, una sua insegnante, donna già matura e destinata a morire pazza, e quelle alimentate dalla passione del romanziere per la cugina Virginia, minata dalla tisi e sposata nel 1835 in circostanze drammatiche, quando la giovinetta aveva solo 13 anni e ne dimostrava anche meno.

Critici e biografi hanno dedicato centinaia di saggi volti ad indagare tutti i possibili anfratti della sua allucinata fantasia e i motivi che hanno determinato la sua costante sensibilità per l’orrido e il fantastico.

Questi furono forse legati strettamente al dramma umano che egli visse a soli due anni: un mattino del 1811, in un albergo di quart’ordine a Richmond, l’Indian Queen Tavern, in una cameretta angusta, nella quale si respirava un’aria pesante e fetida, su un misero giaciglio moriva Elisabetta Poe, sua madre, donna di grande bellezza e di notevole talento artistico, figlia di attori e vedova di David Poe, un modesto teatrante scomparso qualche mese prima consumato dalla tubercolosi. Nella stanzetta del sordido albergo c’erano solo loro due, madre e figlio: ed Edgar, dei cui pianti nessuno si accorse, abbandonato a se stesso, scrutò il volto emaciato della madre che agonizzò per due giorni accanto a lui, prima di chiudere per sempre quei suoi grandi occhi neri, disperatamente fissi sul piccolo che l’aveva vegliata giorno e notte.

A proposito delle macabre fantasie di Poe, un suo biografo scriverà: “Non è la memoria a ritenere coscientemente fatti ed episodi, ma è il subcosciente, sconosciuto a noi stessi, a determinare quella base su cui si formerà il carattere e il destino. Perciò tutte le donne di Poe saranno malate, avranno il marchio delle immagini che egli ebbe a due anni accanto al letto della madre. Per tutta la vita, Poe subirà attrazione e repulsione per il sangue, che gli ricorderà quel filo di sangue che scendeva dalle labbra della madre “.

Elisabetta Poe aveva una sola, vera amica e sarà lei, Frances Allan, a prendersi cura del bambino e a ospitarlo nella sua grande casa dominata dal marito, commerciante di tabacco e schiavi.
Il piccolo Edgar, insieme alla sorella Rosalba, fu adottato dagli Allan, dai quali prenderà l’altro suo cognome. Visse un’infanzia serena, confortato dall’affetto sincero della madre adottiva, che però morì quando il futuro romanziere era ancora fanciullo. La sua educazione fu assunta allora in prima persona dal signor Allan, un uomo ricco e prodigo, che condusse Edgar non ancora quindicenne in Inghilterra, luogo deputato per ogni educazione degna di questo nome, e lo sistemò in uno dei migliori istituti privati. Per il ragazzo, sensibilissimo, il college sarà soltanto un “ tetro e tristissimo ambiente inglese”. Lì non riuscirà mai ad essere partecipe dello spirito dei suoi compagni di studio, pur affrontando con decisione le difficoltà dei corsi, sempre capace ma mai eccellente.

Negli Stati Uniti il giovane Edgar tornerà solo al termine di questo lungo periodo di preparazione. Con gli Allan frequenta la migliore società, acquista maniere da gentiluomo, si iscrive all’Università della Virginia. Con ingenuità e candore si tuffa nella bella vita: beve, gioca d’azzardo, contrae debiti e, quando il padre adottivo cerca di riportarlo sulla retta via, lascia tutto e tutti e se ne va a Boston dove pubblica un primo libretto di versi, Tamerlano e altre poesie (Tamerlan and other poems, 1827): non gli darà la fama e neppure la notorietà, ma lo renderà consapevole delle sue possibilità di scrittore.

Ma inizia anche la sua esistenza errabonda. Da questo momento vagherà sempre inseguito dai creditori, fino a cercare ospitalità a Baltimora presso una zia, Maria Clemm. Qui conosce Virginia, la fanciulla tredicenne che sposerà senza esitazione, nonostante la giovanissima età della ragazza, sicuro di aver finalmente incontrato il grande amore. Edgar Allan Poe ha allora soltanto ventidue anni. Pubblica un’altra raccolta di versi e nel 1830, dopo essersi arruolato nell’esercito, viene ammesso all’Accademia di West Point, da dove, più o meno un anno dopo, verrà espulso con una sentenza della corte marziale.

Indifferente a tutto, se ne torna tranquillamente a Baltimora e per guadagnare qualche soldo partecipa ad un concorso letterario con un racconto, il celeberrimo Manoscritto trovato in una bottiglia: vince cento dollari. Intuisce che i racconti del brivido sono destinati ad avere una grande presa sul pubblico dei lettori, incoraggiato in ciò dagli editori che vedono nella sua scrittura allucinata e macabra la possibilità di buoni guadagni.
Crea così, come mosso da un’istintiva vocazione all’horror, un genere nuovo che dominerà e domina tuttora la letteratura del brivido, maestro riconosciuto anche dai grandi novecenteschi dell’orrido e del fantastico, da Lovecraft a King.

La sua è un’arte che ha connaturata in sé il demoniaco, con intrecci di una fantasia esaltata e terrificante, che si compiace nei suoi scritti di inventare e sciogliere gli enigmi più complicati. Con il personaggio del detective Auguste Dupin inaugura un genere poliziesco destinata a durare a lungo, influenzando non solo gli scrittori di ‘gialli’ sino ai nostri giorni, ma anche i grandi registi di Hollywood. Per esempio, lo stesso Alfred Hitchcock non esiterà ad ammettere di aver letto e riletto i capolavori di Poe per trovare ispirazione ai suoi film. Nonostante la celebrità letteraria quasi raggiunta, tormentato da costanti problemi psicologici, oppresso da una lacerante malinconia, avvilito da una perenne depressione che cerca di superare con il sostegno e il conforto dell’alcool, Poe conduce un’esistenza dissoluta, stravagante, trasgressiva, costantemente ‘al limite’ e oltre.

Per il denaro manifestò addirittura avversione e passò in un breve volgere di tempo dalla agiatezza economica alla più squallida miseria, una condizione che lo accompagnerà fino alla fine della sua vita, soprattutto dopo aver perduto anche l’affetto della sua Virginia, morta giovanissima dopo un’agonia che gli fece ricordare da vicino quella materna. “Io non sono riuscito ad amare che là dove la Morte mescolava il suo fiato con quello della Bellezza“: così scriveva il romanziere con l’occhio evidentemente rivolto alla tragedia dei suoi affetti privati.

Straordinaria la sua sottigliezza di penetrazione psicologica all’interno dei terrori dell’animo, sapiente la sua preparazione alla catastrofe, di una ingegnosità maniacale i suoi enigmi e i suoi modi per scioglierli. Da questi elementi nascono I racconti del grottesco e dell’arabesco (Tales of the grotesque and the arabesque, 1840), Lo scarabeo d’oro (The gold bug, 1843), Gli omicidi della Rue Morgue (Murders in the Rue Morgue), La lettera rubata (The purloined letter) per ricordare solo i testi più avvincenti e famosi. L’alcool e la penna erano i suoi compagni più fidati, gli unici amici che riuscivano a dargli forza e una qualche sicurezza.

Non ebbe nemmeno la soddisfazione di apprendere che Mallermé aveva tradotto le sue poesie e mai gli venne in mente che Verne, Stevenson e Wilde avrebbero, qualche anno più tardi, tratto non pochi insegnamenti dalla sua ingegnosità speculativa.

Gravato da tare psichiche, da inibizioni sessuali, dall’impotenza dovuta all’uso dell’oppio, dal lacerante e sempre presente ricordo della madre, Poe morì a soli quarant’anni, in una grigia giornata d’ottobre in uno squallido vicolo di Baltimora “mentre accanto a lui un compagno di sbronze gli cantava con voce gutturale una triste nenia d’addio. Se ne andò senza particolari rimpianti, se non per la bottiglia vuota abbandonata al suo fianco dalla quale aveva tracannato anche l’ultima goccia”.


12 gennaio 2015

"I dieci comandamenti " di Roberto Benigni




Roberto Benigni ha la sua sigla: la marcetta circense di Nicola Piovani allude a clowns e piroette, con un po’ di malinconia e un po’ di mistero; dopo qualche secondo che è iniziata, lui fa la sua entrata in scena, gesticolando: è il comico, il saltimbanco, l’imbonitore...
Questa volta l’attore si cimenta con una prova, che colma di soddisfazione tante persone, ma fa anche storcere il naso a parecchie altre ( “Che si mette a fare ora: il predicatore cristiano?” ):  I dieci comandamenti, appunto.

La cosa che più conta, secondo il mio parere, al di là di credere o non credere, è il messaggio liberatorio: una libertà intesa come fatica e conquista; un messaggio di amore e di pace.

L a chiesa c’entra poco. Anzi. Ciò che tradizionalmente il catechismo ci ha insegnato dei dieci comandamenti viene messo in crisi. A cominciare dalla numerazione: non 3, ma 4 i comandamenti “verticali”, che riguardano cioè il rapporto tra l’uomo e Dio; non 7, ma 6 quelli “orizzontali”, sui rapporti degli uomini tra di loro.

Continuando, “Non nominare il nome di Dio invano” non è il divieto banale di bestemmiare ( e qui Benigni inserisce un esilarante siparietto in toscanaccio sulle bestemmie di un tale ), ma l’obbligo di non usare mai il nome di Dio per commettere azioni cattive ed empie, come fare una guerra; il sesto comandamento viene ricondotto alla sua formulazione originaria: “ Non commettere adulterio”, che non ha niente a che vedere con “Non commettere atti impuri” ( anche in questo caso, si fa una lunga allusione all’interpretazione sessuale del divieto ed ai mille tormenti, fisici e psicologici, di un ragazzo)   ed è contestualizzato nella realtà socioculturale del tempo; un altro esempio riguarda i due comandamenti finali, originariamente un unico comandamento, che vengono letti  sotto il profilo non del desiderio vero e proprio, ma dell’invidia.

La lettura dei testi è filologica, nel senso che è una traduzione letterale dell’ebraico, contestualizzata e con le sue implicazioni storiche e filosofiche: Benigni ( e i suoi collaboratori ) fanno un’operazione di interpretazione critica e filosofica della Scrittura.

La fede c’entra, ma è quasi un patto tra lui e il pubblico: se Benigni non credesse in Dio, non comincerebbe nemmeno la performance; qui, ora, nessuno può mettere in dubbio l’esistenza di Dio.
E del resto è un Dio di libertà, di amore, di infinito; è anche un Dio illuminista, il Dio del silenzio e del colloquio con se stessi.

E’ una performance, in cui il comico mette in evidenza energia, memoria, generosità e intelligenza; alle spalle c’è lo studio, ma nel suo manifestarsi troviamo sempre un approccio colloquiale, un discorso anche contorto, anacolutico e un uso del dialetto, sia pure più controllato di altre occasioni. 

Il tutto accompagnato da una mimica del volto e della gestualità immediatamente comunicativa.

E’ una performance che non conosce quasi tregua ( due puntate , ciascuna della durata di un’ora e mezzo ), se non le brevi pause che preludono alla lettura del testo. E naturalmente niente pubblicità.
   

10 gennaio 2015

"Cune". Viaggio nella Valle del Serchio di Gianni Quilici



foto Gianni Quilici

Prima di entrare nel centro storico di Borgo a Mozzano un cartello stradale indica Cune; la strada sale rapidamente, mentre un avviso recita “strada stretta senza parapetti con cigli franosi”. Saranno quasi 5 Km ed ecco apparire a 515 metri circa Cune, in bella posizione panoramica alle pendici del monte Bargiglio, con uno dei due parcheggi proprio all’inizio del paese.

Cune si estende soprattutto in lunghezza con una via principale che attraversa tutto il paese fino a un  sentiero che s’inoltra  sulla montagna. 

La mattina è quasi primaverile, con un sole carezzevole, senza un alito di vento . Una donna anziana che cammina appoggiandosi al bastone mi scruta incuriosita, la mano sugli occhi a pararsi dal sole. “Buongiorno” dico subito, “buongiorno” mi risponde.

foto Gianni Quilici

Qua e là ci sono ancora strisce di neve, che, sciogliendosi, bagna la strada o che gocciola giù dai tetti. La chiesa di  S. Bartolomeo si trova al centro del paese con una piazzetta che si confonde con due vie: la principale e un’altra che porta all’unico sottopassaggio presente nel paese . All’interno della chiesa, leggo, si conservano tele della Scuola del Marracci (sec.XVII), un dipinto su tavola di scuola toscana (sec. XV), un'edicola in marmo (sec. XVI) e una statua policroma in legno di S. Bartolomeo.  Davanti, su un lato, si slancia il campanile merlato con bifore . 




foto Gianni Quilici
E poi palazzi o case ristrutturate  con qualche bel  portale di pietra, case vecchie, case abbandonate, capanne che fanno oggi da ripostiglio, case gialle o arancione, biancastre o grigie, cortili e  marginetta con presepe, forni a legna e terrazza con tettoia eccetera eccetera 

 Il punto di ritrovo sembra essere il circolo Acli con teatrino, dove si organizzano tornei di briscola, cene e qualche spettacolo. Più avanti l’ambulatorio con un giardinetto con altalena, scivolino, panchine, che viene rasato ogni 15 giorni dagli uomini del paese, secondo un calendario esposto pubblicamente.

foto Gianni Quilici
Siedo sulla panchina di legno addossata alla chiesa. Si avvicina, sedendosi, un uomo che mi dirà poi d’avere 88 anni “ben portati” aggiungo io e mi racconta, dopo esserci felicitati entrambi della giornata così piacevole, che quest’anno le olive, che pure facevano piegare i rami da tante che erano, sono marcite per via delle mosche, che anche l’uva viene divorata dai cinghiali e da altre bestiacce, e che le patate vengono mangiate dalle formiche. Una volta, mi dice, questo era un paese di 400 abitanti, c’erano vacche, pecore e asini, che servivano per portà la roba e chi aveva dei terreni li teneva puliti. Ora non pulisce più nessuno, i pruni sono arrivati alle porte del paese, vacche non ce n’è più una. I pochi ragazzi rimasti vanno a scuola giù  a Borgo e chi lavora va nelle fabbriche della Piana. 

Quando scendo di nuovo con la macchina verso Lucca penso una banalità: che se avessi parlato anche con altri: uno dei due ragazzi che ho incontrato o una donna giovanile con aria assorta, la visuale del Paese  si sarebbe allargata ancora di più ed ho provvisoriamente concluso che questi miei viaggi di un’ora  o due sono hanno necessariamente gli occhi di un turista curioso, di un visitatore. Colgono alcuni aspetti e ciò  ha comunque senso; ma non possono cogliere molto di più.

Cune 4 gennaio 2015.
   

08 gennaio 2015

"Divorati (Consumed)" di David Cronenberg



di Riccardo Dalle Luche

 Il nuovo Cronenberg non è un film ma un romanzo, per quanto si tratti di un romanzo molto visivo, in pratica una sceneggiatura solo poco più complessa e dettagliata di un film non (ancora) girato, che ricorda  moltissimo, per struttura narrativa e temi, i capolavori del regista canadese, Videodrome, Pasto Nudo, Inseparabili, Existenz.  

 I legami di Cronenberg con la letteratura sono antichi: figlio di uno scrittore ed editore ebreo di origini lituane, partito con interessi biologici, botanici ed entomologici, David Cronenberg si è poi laureato in Letteratura a Toronto prima di iniziare la sua fortunata carriera cinematografica divenendo il più visionario profeta delle mutazioni fisiche, mentali, protesiche e antropologiche del nostro tempo. 

Il suo cinema si è sempre “nutrito”, per usare una parola quanto più appropriata in questa recensione, della letteratura, sia mantenendo un nesso latente ma globale col suo gemello Philip Dick, del quale non è mai riuscito a trasporre niente, sia, invece, adattando per il cinema romanzi o testi anche molto complessi ed apparentemente poco filmici, di James Ballard, William Burroughs,, Stephen King,  Patrick McGrath e più recentemente Christopher Hampton, Tom De Lillo ed altri.

Il passo per la pubblicazione di  un romanzo è stato quindi assolutamente breve. Che dire del risultato? 
Più che un romanzo di fantascienza siamo qui di fronte ad una letteratura che nasce dal portare al limite e talora appena oltre il limite, le possibilità prossimo-future del presente, rese possibili dalla onnipresenza delle protesi tecnologiche  -hardware e sofware di ogni genere, qui meticolosamente citati e descritti con sfumature feticistiche tipicamente cronenbergiane.

 E’ un romanzo corale, con un gruppo di protagonisti che gravitano intorno ad una vicenda noir centrata su una coppia di maître a pensér francesi, dal satirico cognome Arostéguy, vagamente modellata, attualizzandole, sulle figure storiche Sartre-De Beauvoir e Althusser-moglie strangolata; fanno loro da contorno Nathan e Noemi, due fotogiornalisti freelance, che girano per il mondo tenendosi in contatto tramite iphone e ipad,  un vecchio medico venereologo che vive con una figlia semipazza, ex allieva dei filosofi francesi, ed infine un altro paio di ex allievi, tutti acculturati dai filosofi non solo in virtù delle lezioni accademiche ma anche dai passaggi nei loro letti promiscui, in omaggio, forse ironico ma non troppo, alla paideia greca. La centrale operativa del plot, che in Videodrome era un emittente misteriosa di Pittsburgh, viene qui collocata nell’ultimo regime comunista residuato dal secolo scorso, quello della Repubblica Popolare della Corea del Nord, con la sua dinasta di dittatori semideificati.
Come accade fin dai primi cortometraggi di  Cronenberg, attraversando la maggior parte dei suoi principali film fino alle sue ultime, siderali realizzazioni, la sessualità che connette ma non lega molti dei personaggi sembra totalmente svincolata sia dalla sfera sentimentale che dai limiti di genere, secondo il concetto base Freud-cronenbergiano, della omnisessualità come matrice regressiva e a-perversa che argina dalla follia.1  Di follia, ovviamente, ce n’è parecchia ad aleggiare sull’intera vicenda, benché la sua unica manifestazione palese sia l’apotemnofilia, cioè il desiderio di automutilazione che nasce dal delirio dismorfico che affligge Celestine Arostèguy, e che la porta a farsi amputare una mammella, con la condivisione del marito, fatto alla base dell’ipotesi di cannibalismo successiva alla sua sparizione.

Benché il cibo letterario che ci propina Cronenberg, se non altro col sapore certo del fatto-in-casa, sia dunque un po’ il solito minestrone di tematiche già note, la lettura nel suo complesso è gradevole, forse soprattutto grazie alla capacità di attualizzare il racconto in virtù dei dettagli tecnologici che, diversamente dal passato, non sono più automobili o schermi televisivi, ma protesi più strettamente connesse al nostro funzionamento sensoriale –qui c’è anche un sofisticatissimo apparecchio acustico di cui l’autore deve aver fatto esperienza personale, vista la sua età- che inesorabilmente hanno cambiato il mondo, anche nell’ultimo dei possibili paradisi ideologici dell’umanità, la Corea del Nord. 

Insomma, contrariamente a quanto pensava Heidegger, sembra dirci Cronenberg, la tecnica pensa e come, e realizza anche quello che pensa, modificando radicalmente le nostre esistenze senza distinzione di nazionalità, lingua, sistemi politici, credenze religiose, storie millenarie alle spalle.

David Cronenberg. Divorati (Consumed). Bompiani 2014


1 Dalle Luche R., Barontini A.: Trasfusioni. Saggio di psicopatologia dal cinema di David Cronenberg, Mauro Baroni editore, Viareggio-Lucca, 1997.



06 gennaio 2015

“Oneta. Viaggio nella Valle del Serchio” di Gianni Quilici






Corsagna vista da Oneta, insieme alla Valle del Serchio. 
Nel centro storico di Borgo a Mozzano si prende una strada a sinistra che subito sale; si costeggia per un tratto, magnifica visione dall’alto, il Ponte del Diavolo; si supera la Pieve di Cerreto e improvvisamente appare la neve ai bordi della strada, fino ad arrivare, dopo una breve discesa, a Oneta, a circa 314 metri di altezza.

Il paese si trova in una bella posizione aperta alla luce, di fronte la valle del Serchio, più lontane le colline con Corsagna ed alle spalle una collinetta con pini e alberi nudi. Si scende dalla macchina in un parcheggio sufficientemente ampio, quando si accende una di quelle fastidiose sirene d’allarme, chissà se da una macchina o da una casa, a cui si contrappongono, in un curioso contrasto, latrati di cani in lontananza.


foto Gianni Quilici
Oneta, ad una prima impressione sembra un paese un po’ ibrido (troppi colori tendenti al grigiastro) e malinconico (pare un po’ abbandonato), ma appena imbocchiamo la via principale, IV novembre, questa sensazione viene sostituita dal sentimento di autenticità che danno la  strada in pietra attraversata da un sottopassaggio, con il muretto di pietre a secco e case vecchie e più in alto la visione dimezzata del bel  campanile turrito. Soltanto sullo sfondo degli innocenti manifesti colorati attaccati al muro rompono appena questa unitarietà. 

foto Gianni Quilici
 Sensazione che si rinforza sulla piazzetta XX settembre ancora ricoperta di neve con i colombi in una grande voliera. Da lì si vede, infatti, il fianco della Chiesa di S. Ilario, rimaneggiata in più riprese, come è visibile da arcate chiuse successivamente; ma l’insieme eterogeneo di pietre, sassi e mattoni si armonizza comunque con il muro e la strada, con una fontanella raccolta in una bella nicchia e con una scultura che rappresenta un paracadutista, Daniele Matelli, caduto in servizio nel 1971 nelle acque della Meloria.

In un lato della piazzetta XX settembre si trova invece un pregevole bassorilievo, probabilmente recente, di Madonna con il bambino dai tratti sottilmente interiorizzati e più avanti alcuni palazzi ben ristrutturati con portali di bugnato, case invece abbandonate, cortili e perfino una palma.

foto Gianni Quilici
Uno dei punti più significativi, nella piazzetta della chiesa con il cavalcavia che conduce ad una casa, presumo, parrocchiale, sono gli scalini di pietra, che in due rampe (come si vede nella foto) portano alla piazzetta con al centro una graziosa grotta con madonnina.

“In paese sono rimasti circa un centinaio di persone” mi dice una giovane donna che da sempre abita ad Oneta “ con un comitato paesano che organizza ogni tre anni la festa di S. Lucia,  festeggiata proprio quest’anno a Natale, come è possibile vedere in un video presente nella rete” .

Quando ritorno alla macchina mi aspetta una luna bianca e luminosa, che risplende in un cielo celeste punteggiato da tante nuvolette color dell’arancio. E’ così sorprendente che non posso fare a meno di fotografarla più volte scegliendo diversi punti di vista: fra le luci degli auguri di buone feste,  fra rami di alberi, da sola con le nuvolette.


Oneta (Borgo a Mozzano), 1 gennaio 2015