31 agosto 2022

"E’ dura la vita degli insetti" di Andrea Appetito

 

      

       Gli insetti arrancano. È dura la vita degli insetti. Le loro piccole dimensioni spaventano molti. Si fingono morti per eludere le dita che schiacciano e riprendono il cammino guidati da una bussola segreta. Sono capaci di mirabili avventure come il ragno appena uscito dalle pieghe del libro di poesie che sto sfogliando e di cui probabilmente ignora l’autore perché quello che conta di più è la piega e non il poeta. Mentre digito sulla tastiera l'insetto torna tra le pieghe del libro e chissà se domattina sarà ancora vivo oppure stecchito tra due pagine di versi. 

       Queste vite minori parlano un linguaggio che non conosciamo si agitano in maniera disordinata e caotica eppure hanno un compito assegnato nell’ordine geometrico del mondo. Prendiamo ad esempio gli stercorari, preziosi come le api, sottovalutati come l’ombra delle nuvole. 

       Il ragno ora passeggia sulla copertina gialla con spirito boulevardier fino a raggiungere il bordo. Sembra a suo agio sul mio libro ma poi s’acquatta all’improvviso tra le lunghe zampe sottili meditando qualcosa di tragico. Tutti gli insetti sanno che può capitare di svegliarsi una mattina e ritrovarsi trasformati in umani.

 

27 agosto 2022

 



di Marigabri

“I russi sono matti” scrive Paolo Nori, e un pochino matto dev’esserlo pure lui; di sicuro è matto completo per gli autori russi perché la letteratura è qualcosa che ci tocca nei punti nevralgici, che ci scombussola, ci scuote e ci sobbalza dalla pacata inerzia che a volte (spesso) siamo.

Insomma: la letteratura è qualcosa che fa male e a Paolo Nori questo far male piace.

(“A me, ci ho messo degli anni a capirlo, non piace divertirmi, a me piacciono le cose che fanno piangere, come la letteratura russa e le partite del Parma.”)

E più male di tutti probabilmente glielo fa Fëdor Michajlovič Dostoevskij, scrittore dalla vita travagliata, a cui Nori dedica questo libro (romanzo, dice lui, ma definirlo in qualche modo sarebbe riduttivo); un libro che non parla soltanto (con molte stupefacenti digressioni) della vita di Fëdor Michajlovič Dostoevskij, ma anche di quella di Paolo Nori. E soprattutto parla della mia vita e di quella di ciascun altro che si cimenta a leggere i contenuti di Paolo Nori nella prosa di Paolo Nori: ovvero la sua parlata con quell’accento emiliano cantilenante che si fa scrittura. E perciò unico e divergente (oltre che a tratti divertente; però sempre con quel fondo amaro di chi ha un’indole malinconica), matto e geniale come i suoi russi che tanto ama.

“Perché la letteratura, il romanzo, è, sempre, dalla parte del torto. Non nasce nelle corti, nasce nelle piazze dei saltimbanchi, nelle case dei malati, dei cialtroni, degli zingari, dei ladri, dei truffatori, dei briganti, dei meridionali, degli italiani, dei mostri, degli idioti.”

E così la ferita di chi per la prima volta incontra stupefatto sé stesso nelle pagine di un libro sanguina, sanguina ancora.

Paolo Nori. Sanguina ancora.  Mondadori

Fine modulo

 

23 agosto 2022

"Cuore pendente" di Cristina Lastri

 

                   LE PAROLE DEL CUORE
di
Giovanna Baldini

       Alla fine del libro, arrivata all’ultima pagina la mente è confusa, il cuore pieno: emozioni, ricordi, informazioni turistiche, storiche e letterarie, criticità attuali della città amata.

      La Pisa di Cristina Lastri è tutto questo: il suo mondo infantile, adolescenziale e maturo; una realtà che l’avvolge e la protegge, che diventa amica e compagna. Tutto della vita dell’Autrice è successo a Pisa, dai giochi agli amori, e continua ad accadere nei fatti della vita recente.

       La quotidianità è descritta a volte con un velo di malinconia, a volte con impeto, sempre comunque con una partecipazione grande, immersa nella luce ariosa della città.

       Le pagine, quindi, scorrono, talvolta, con la foga della scrittura diaristica e la posatezza della riflessione intima, talaltra.

       Libera dalla costrizione della metrica nelle poesie e dalle regole severe grammaticali e lessicali della prosa, perché il ricordo urge e viene fuori grazie a un vernacolo amato e identitario dell’educazione familiare, Cristina riesce a far fluire la sua scrittura con sincerità e senza infingimenti.

       Le parole le servono per fermare il vissuto in ogni suo più profondo senso e significato. Ritornano, così, le prime esperienze sentimentali, le canzoni indimenticabili degli anni passati, le mitiche Renault, le tappe importanti della donna, ormai moglie e madre. E intorno a tutto ciò Pisa, i suoi monumenti, la sua storia, le strade e l’Arno, quell’Arno d’argento, illuminato dalla luna, e tanto amato.

       È un flusso di memorie che srotola ricordi, immagini, considerazioni… Solo una volta, una critica a una Piazza, che si trasforma, vittima dei cambiamenti del tempo.

       Un rammarico fuggevole, il resto è sempre stupore e meraviglia.

     Voglio ricordare, parafrasandolo, un verso del grande Poeta che a Pisa conobbe momenti belli, che furono di sollievo ai suoi dolori dell’anima e del fisico:

Che speranze, che cori, o Pisa mia!

Cristina Lastri, Cuore pendente. Racconti e poesie scritti all’ombra della Torre, Felici editore, 2022, Pisa

 

 

21 agosto 2022

"Il diario del Minotauro" di Daniele D'arrigo

 


 

di Elisa Bertoni

       Un libro di racconti, forse ancor più di un romanzo, è una grande sfida sia per lo scrittore sia per un critico che voglia recensirlo. Lo scrittore deve riuscire in una sintesi efficace a creare una storia che regga, che appassioni: sa che non può sforare, a rischio di compromettere la riuscita del racconto. Non è un ingegnere di grattacieli o di grandi palazzi, ma piuttosto un orafo o un miniaturista, che nel microcosmo del suo gioiello e della sua pittura, deve riuscire a fare emergere un'immagine perspicua e affascinante. Nello stesso tempo, ogni piccola creazione viene accostata ad un'altra per dare vita ad un libro che ha un senso nel frammento ma ne ha uno anche nella globalità. 

       Se il romanzo è uno, il libro di racconti è nello stesso tempo uno e più, singolarità e pluralità. In questo caso l'autore rende ancora più stimolante il dialogo tra singolarità e pluralità perché i racconti sono inseriti in quattro sezioni, definite arcipelaghi, rispettivamente intitolati Sangue, E' questo amore, Case e Slittamenti. Dunque abbiamo il singolo racconto, la singola sezione e l'intero libro: in questo dialogo si nasconde una potente attrazione anche per un lettore critico, il quale è sollecitato ad analizzare le parti, ma per un inevitabile orgasmo intellettuale, è spinto anche a voler trovare un senso complessivo, quasi un filo conduttore, che potremmo anche definire, in questo caso, il “filo di Arianna” che conduce fuori dal labirinto della complessità dei significati, riconoscendo lo stesso mare nel variegato movimento delle onde. Resta l'umile consapevolezza dell'irriducibilità di un libro ad un discorso, nella certezza che quel filo conduttore individuato non è l'unico possibile ma solo una lente attraverso cui leggere il multiforme.

        E perché poi un racconto diviene il titolo dell'intera raccolta? Solo perché è il primo? O forse perché il mostro incarnato dal Minotauro può trovare ospitalità e parola nella coerenza delle storie che volutamente incastonano la realtà con tutte le sue voci come una pietra preziosa con le sue innumerevoli sfaccettature? Autenticità significa raccontare partendo da dentro, senza censure dettate da uno stereotipato linguaggio di convenienza. Il linguaggio originale, ricco e nello stesso tempo quotidiano e naturale diviene il mezzo attraverso cui esprimere il conflitto, la morte prematura, la rabbia edipica, la rivalità amorosa, il fine vita, il tradimento, tutti aspetti che sbocciano da semi di realtà, come li definisce l'autore, in cui il lettore può riconoscersi senza bisogno di erigere barriere. Anzi, uno dei meriti più grandi del libro è lo sprone a spogliarsi, ad accettare di sentirsi più nudi, vale a dire più vicini al proprio nucleo di verità, puntando la luce negli angoli di sé ritenuti più sporchi, più simili alla solitudine del Minotauro, drammaticamente “solo anche tra le braccia della madre”, come si legge nel testo. Perché prima o poi tutti avvertono una sensazione di sradicamento, di bisogno di ancoraggio ed allora, nella solitudine più profonda e spaesante, esistono comunque i racconti, da scrivere per ascoltare sé nello scorrere fluente della pagina e da leggere per sintonizzarsi con le voci degli altri. La scrittura prodotta e fruita diviene la grande madre cui appigliarsi, che non tradisce né abbandona. Afferma la giovane protagonista del racconto Tempo al tempo, alle prese con il “monstrum” cioè, secondo il termine latino, l'eccezionalità spaventosa di aver perduto troppo precocemente la madre : “E' con mia madre che ho imparato a giocare con le parole, a trovare un nido dentro le parole e a riconoscerne la forza risanatrice...Quella forza che non abbiamo trovato in nessun'altra medicina”. Dunque il libro è anche un monito a vincere con le parole e per le parole per le quali si avverte il profondo amore dello scrittore.

       Monstrum, forza della parola: a questi due concetti chiave se ne potrebbe aggiungere un terzo, il rovesciamento. Un potente filo conduttore è infatti ravvisabile nel tentativo di rovesciare i luoghi comuni, talvolta abbracciandosi al paradosso o al visionario che acquista il sapore di una magia attendibile. Perché il libro, anche quando pare creare situazioni al limite del verosimile, attinge con forza al banchetto della verità, tenendo conto che anche l'irrazionalità di certe esperienze allucinatorie si nutre della realtà dei nostri stati che in certi momenti sono fatti più di fantasmi che di concretezza. Accogliere e far parlare il monstrum, qualsiasi esso sia, è proprio un rovesciamento rispetto all'abitudine di volerlo nascondere negli oscuri e labirintici recessi della nostra psiche; senza contare che un monstrum intrappolato dentro rischia proprio di nutrirsi delle forze più vitali in nostro possesso, incarnate nel mito dalle carni giovani di cui annualmente si nutre il Minotauro.

       Questo bisogno di rovesciamento si riscontra appunto fin dal primo racconto inserito nella sezione “Sangue”. “Da secoli lascio che la gente mi tema, senza sospettare che sono io a temere il peggio”. Così parla il mostro umano dalla faccia taurina frutto dell'indicibile amplesso della madre Pasifae, moglie di Minosse re di Creta, con un toro; il mostro pervaso dalla brutalità della bestia selvaggia che deve essere separato dal resto dell'umanità; il mostro che divorava ogni anno sette fanciulli e sette fanciulle ateniesi, divenendo simbolo di ferocia disumana.

        Eppure, bisognerebbe avere il coraggio di amare quel mostro alla luce del sole, senza essere vittime del dissidio interiore da cui è lacerata Pasifae che, pur avendo desiderato questo suo ibrido figlio, lo nasconde, forse inconsapevole che esso rappresenta davvero qualcosa di speciale, perché, come afferma il Minotauro stesso “...dalla passione escono solo sorprese speciali, e io sono sceso nel mondo per mano della passione”. L'uomo vuole oscurare tutti quei pensieri che si scontrano con una forma socialmente costituita, fino a voler uccidere il Minotauro, come fece l'eroe ateniese Teseo. Ma l'uomo contemporaneo, incarnato dallo scrittore, non può più coltivare l'illusione di potersi disfare del monstrum uccidendolo, neppure se aiutato dal filo di Arianna; il Teseo contemporaneo ha invece il compito di liberare il Minotauro nutrendosi di esso e tenendosi ad un altro filo, quello del racconto, che accoglie l'indicibile ma gli impedisce comunque di superare il limite, lasciando che si esprima ma sempre entro le ordinate regole di un linguaggio che vuole comunicare autenticità, sottraendo la scrittura al rischio di scadere in retorica. Ecco l'originale rilettura rovesciata del mito: non sarà più il Minotauro a mangiare i giovani ma i giovani a mangiare il Minotauro, quasi un mitico Cristo che si immola perché la vita possa essere intera, non privata di quegli aspetti di vero che turbano e che parrebbero confliggere con il perbenismo socialmente premiato.

       Da questo punto di vista non devono stupire esternazioni che potrebbero turbare, ma che sono “mostri di realtà” originati dalla passione e per questo mai gratuiti e fini a se stessi.

      Si leggano da La luce è spenta le lucide parole di un figlio di fronte alla malattia incurabile che ha colpito il padre: “I malati possono essere profondamente noiosi come i sani, e mandarli a quel paese, mandarli da qualche parte finché sono in vita, è un sacrosanto diritto: e andate a fare in culo, perlomeno andateci prima di morire!”. Chi conosce autenticamente la malattia sa come essa sia capace di trasformare non solo il corpo ma anche la mente del malato, rendendo le relazioni sempre più tese ed affannose, nel groviglio di sentimenti fatti di paura, dolore, orgoglio ferito, senso di inadeguatezza e di precipitosa perdita: raccontare la malattia nella sua realtà significa perciò salvarla almeno dall'apparenza di una facile carità dovuta di fronte all'essere umano che soffre e che meriterebbe tutta la dolcezza, la comprensione infinita che la compassione umana e cristiana è capace di sprigionare. Il racconto insegna a comprendere anche gli stati d'animo di chi del malato si prende cura, senza che i sentimenti talora contraddittori possano essere giudicati, ma appunto liberati, affrancandosi dal senso di colpa sempre in agguato, specie quando si tratta di “onorare il padre e la madre”. A questo proposito risulta decisiva la rilettura del Padre Nostro che ne fa il giovane protagonista del racconto Diciannove anni: “Padre stronzo mio, che sei davanti a me, sia maledetto il tuo nome, schianti il tuo potere e sia fatta la mia volontà, in terra, in cielo e ovunque. Dammi oggi il tuo fiele quotidiano, rimetti a me la sfiga di esserti figlio come io ributto addosso a te la mia rabbia, non m'indurre in parricidio ma liberami dal male di averti davanti”.

       Se questo passo, decontestualizzato, potrebbe apparire di blasfema gravità, Daniele D'Arrigo riesce a renderlo non solo giustificato ma necessario, facendoci partecipi dall'interno del conflitto che si muove nel cuore del giovane, alla ricerca di una realizzazione in amore che passa attraverso un taglio netto, oltre le manipolazioni affettive che caratterizzano più o meno intensamente la quotidianità delle relazioni familiari: a diciannove anni non sappiamo se saremo in grado, spezzata la corda, di navigare da soli nel mare della vita. Rovesciamento potente, dunque, del quarto comandamento.

        Anche nel racconto intitolato Il tuffo la voce che si esprime in prima persona è quella di un ragazzo, anche lui capace di leggersi dentro al di là di idealizzazioni programmatiche suggerite dalla convenienza sociale. Orfano di madre che non ha mai conosciuto, guardando una foto di lei a Venezia, afferma con spontanea genuinità: “...a me questa mamma non dice nulla. E' una perfetta sconosciuta”. Parole di verità, non onora un fantasma vuoto, piuttosto, chiamato a raccontarla, costruirà la “sua” mamma, attribuendo ad essa le caratteristiche fisiche e caratteriali colte in figure femminili effettivamente conosciute. Al fantasma imposto sostituisce il parto libero della propria autentica immaginazione. Ed è proprio in questo racconto che il tema del rovesciamento viene esplicitamente menzionato, in uno svelamento che diventa quasi violento nel cuore di un ragazzo che per la prima volta sperimenta la cinica amarezza della disillusione: “...Bufalone ha un cuore. Incredibile. Il mondo s'è rovesciato e mi viene da ridere”. E questo mondo rovesciato, ripetuto poco sotto nella pagina, non va accolto con paura, ma quasi con il sorriso che esplode quando il disorientamento è talmente profondo che poco ci manca alla follia.

       E così, andando avanti nel libro, troviamo tante situazioni che sfiorano il paradosso e che pure hanno il sapore genuino di una pietanza condita di realtà.

       Nel racconto Scegliere casa il rovesciamento pare cogliersi quando la coppia protagonista preferisce costruire “il fuori” che non c'è piuttosto che “il dentro” dell'abitazione che l'agente immobiliare sarebbe lieto di mostrare. Sembra quasi la metafora di un amore fragile che si costruisce nell'esterno in un'apparenza volatile e non nel profondo, sulla realtà dei sentimenti. Anzi, c'è un preciso evitamento che frena nel guardare dentro forse per paura di scontrarsi con il fallimento della storia, che non ha possibilità di radicarsi e continua a nutrirsi di reciproche fantasie.

      Ed ancora strabiliante paradosso quello che lega, attraverso un muro che costa come una casa, una coppia capace di vivere insieme per quarantacinque anni, avvelenandosi costantemente. Si chiede il narratore: “Cosa ci tiene attaccati a uno scoglio frantumato? Questi due erano malati gravi e si erano ammalati conducendo semplicemente una vita agiata e pessima. Accumulando cose e case, miserie e dispetti...”. Una dipendenza patologica fa desiderare la costruzione di un muro al prezzo di oltre duecentomila euro, che possa permettere di vivere perfettamente separati ma nella stessa casa: “E' nella divisione che hanno trovato e custodito la massima unione”, sentenzia il narratore, arreso all'apparente assurdità di una realtà sperimentata.

       Nel racconto E' tutto normale, buon compleanno anche il titolo parla da solo. In cosa consiste questa normalità dichiarata? Ciò che apparentemente potrebbe apparire non normale, come ad esempio il gesto di origliare, unanimamente considerato discutibile e condannabile, viene per certi aspetti riabilitato, come mezzo di intimità profonda, di fratellanza nella nudità, laddove i rapporti con i vicini di casa sono inesistenti ed il prossimo continua ad essere sempre un lontano. E così la guerra, con i suoi orrori spaventosi, stupisce quando si comprende che può trasformare ma non cancellare la vita che si conduce anche durante la pace: “Con guerra si muore molto facile, senza cancro. Si spara, si piange e poi si ama, come vagiaina mia e penis tuo. Poi si mangia, si dorme, si spara. Poi si ama. Poi si prega. Poi si spara. Poi si ride. Poi si dorme. Poi si piange con mitra vicino...Tutto normale in guerra e tutto normale in pace...” sostiene Dru, la fidanzata croata di Simone, protagonista narratore. Evidente, dunque, il gusto di rovesciare i luoghi comuni, dal momento che, proprio come afferma Simone: “Di luoghi comuni siamo tutti bravi ad ubriacarci”. Per questo lo psicologo protagonista di Cambio di programma, sembra quasi sfidare il comandamento “non uccidere”, immedesimandosi nel ruolo di assassino per una omonimia che basta di per sé per farlo sentire colpevole. Il racconto è cadenzato dalla ripetizione di “capita” che vorrebbe normalizzare ciò che invece non capita: attraverso questa ricercata insistenza “la realtà sabotata” pare essere compagna dei nostri giorni, costantemente attraversati dai nostri fantasmi.

      Il Minotauro mangiato dai giovani destinati al suo pasto è dunque il simbolo di questo rovesciamento che ritroviamo in tutto il libro, necessario per poter essere in contatto profondo con la verità di noi e non con quello che ci hanno raccontato, sganciato dalla nostra esperienza emozionale, perché può farsi davvero racconto solo quello che parte da dentro, solo il nostro racconto. Daniele rende possibile, grazie ai semi di vero, che questi racconti diventino anche nostri racconti.

      Per concludere, una delle caratteristiche della narrativa di Daniele è quella grande capacità di trarre lezioni dall'esperienza della vita oltre i luoghi comuni ed i personali mostri, esperienza che per un amore profondissimo per le parole si tramuta naturalissimamente in racconti: le lezioni emergono spontanee senza dita che spuntano precettorie dalla cattedra e talora si concretizzano in sentenze aforismatiche che in parte possono ricordare lo stile senecano nella capacità di sintesi perfetta in cui non si può pensare una parola in più né una parola in meno. Questa concettosità non appesantisce la pagina, perché la storia continua a fluire senza intoppi, la rende soltanto preziosa, facendo capire che ogni esperienza, anche la più drammatica e straniante, può diventare un serbatoio di carburante che ci consente di procedere in una doppia direzione: quella della verticalità e quella dell'orizzontalità, stabilendo quasi una proporzionalità diretta in base alla quale più si scava nel profondo, più la vista personale si allarga. Se si volesse trovare una metafora si potrebbe paragonare la raccolta dei racconti ad una collana: vari fili dorati che sono le storie, sono intervallati da perle lucenti, le massime, che brillano isolate e nello stesso tempo perfettamente inserite nell'oggetto. Il consiglio è di acquistare questa collana: la forza invisibile della sua bellezza sarà capace di impreziosire la vita del lettore.

 Daniele D'Arrigo. Il diario del minotauro. peQuod

 

 

 

 

19 agosto 2022

"Semi di girasole" di Eliana Favilla

 


di Marisa Cecchetti

      Sono cento copie numerate e firmate quelle di Semi di girasole, nella collana Le mimose: “Cento copie, e non di più, da offrire come in dono ad altrettanti potenziali amici […] Cento amici e non di più. Cos’altro può pretendere chi scrive?” si legge sulla quarta di copertina.

      Eliana Favilla, lucchese, laureata in Lingue e Letterature Straniere, che ha cominciato a pubblicare fin dal 2004, ama profondamente la poesia e soprattutto ha una vastissima conoscenza dei poeti, tanto da consumare le pagine dei loro libri: “Frusto per devozione da laudario/il libro aperto/è notte quasi buia”(Frutti cascaticci).

     La raccolta è quasi interamente dedicata ai poeti a cui si ispira, con riflessioni, emozioni, stupori. La citazione di Ferlinghetti in apertura giustifica questa passione, perché la grande poesia sparge semi come un girasole impazzito di luce: “Un girasole impazzito di luce/sparge semi di poesie. Alcuni germinano”(Americans, III).

     Talora scopre qualcosa che li unisce, ma emerge soprattutto ciò che li differenzia, che li contrappone, e in questo modo lei si conosce nel profondo e si svela: “M’abbuio/di finito”(Sera) sono infatti due versi rivelatori, che risuonano, persi nello spazio della pagina bianca, come una potente dichiarazione di sé, per cui non si fatica a trovare una corrispondenza nelle parole dedicate alla Dickinson: “Tutta la vita/in una sfera -polpa/e succo con l’acerbo/il tempo dato/senza dolcezze-,/arido allegare,/poi un continuo di pioggia “(Pienezze).

     I poeti rompono la sua solitudine interiore, portano linfa vitale, e il  fare poesia la solleva dal quotidiano, perché “Ci vuole uno svolazzo/di parola/sdrucciola a dare abbrivio/al giorno inerte”(Un po’ di leggerezza). Ma il verso deve possedere determinati requisiti “Purché siano parole e abbiano il suono/d’un corso d’acqua dal filone lento/-un canale fra i campi di coltura:/il ciglio d’erba, poi la cavedagna,/i pioppi ad ombreggiare…Uno scorrere uguale, levigato…(Autoipnosi). E’ una definizione di poetica confermata in questi versi: “Occorre un’alternanza/al ritmo ch’è disteso/in eguale respiro,/una corta misura/per l’affanno/che prende alle salite” (Amant alterna Camoenae),

     Così lei dialoga con i poeti chiamandoli familiarmente per nome: “Alda,/m’inventerò le tue collane/per coprire l’ingombro/-ormai- del petto/e la tristezza/delle mie camicie(Vezzi).

     L’elenco è molto lungo: Baudelaire, Brecht, Carducci, D’Annunzio, Dickinson, Eliot, Lorca, Gozzano, Luzi, Montale, Ovidio, Pascoli, Saba, Sbarbaro, Rebora, Shakespeare, Dylan Thomas, Ungaretti, Woolf, Yeats.

    Baudelaire le fa contrappore “l’albatro regale” al proprio “Non volo/ e neanche canto/ma starnazzo./gallina dunque/il genere d’uccello” (Autoconsiderazione). D’Annunzio le regala “fresche e dolci” parole nella sera: “Senza mente/-senza il nucleo di ferro-/in leggerezza/e musica di seta/mi distendo” (La mia sera).

     Eliot la riporta indietro nel tempo e solo ora riconosce “Quella specie d’ossimoro/-profonde/memorie e desiderio…/non sembrava/crudele più di tutti i mesi/aprile” (Vecchi appunti), ed allo stesso tempo la guida ad una considerazione, sia pure altamente simbolica, sui nostri giorni: “Darle acqua, sì,/acqua che va portata/da lontano/-che non ha pioggia/la terra desolata/né sorgenti”(Pace ineffabile).

     F. G. Lorca è fissato nella morte con le ferite aperte: “Bocche di melegrane/al torso, ai fianchi” (Figurato. Ainadamar, 19 agosto 1936). Luzi compare, tra l’altro, in un tenero ritratto: “Uno sguardo/affondato nei calanchi/di rughe da folletto/millenario/ed un sorriso magro/-un tratto fino”(Ritratto estremo). Di Montale -per cui lei nutre una profonda venerazione- rende il riarso e la luce della terra ligure: “Vorrei portarti/un grigio sasso scabro/che ti rammenti/il secco delle canne/e l’ombra stinta,/il velo degli abbagli/vibrati e il crisocalco/delle onde”(Le solite arsure). Salvo poi riportare, per contrapposizione, uno sguardo impietoso su di sé e sulla propria mancanza di ispirazione: “Inutile la cerca/d’un umido che gema/nello scavo,/per quanto a proda/guadagnata al mare” (Satura). E addirittura sentirsi rifiutata dal poeta, come in una negazione della propria poesia: “Oggi ti siedo/ accanto, mentre sguardi/vago, s’una crepidine/di roccia/frangente[…]ti volgi con un’aria/infastidita…(Fan).

    Quella di Eliana Favilla è una poesia dal ritmo pacato, ricca di rimandi culturali, densa di simbologia, dal registro linguistico ampio e vario, infatti recupera l’inglese, lo spagnolo, il latino, ma attinge anche dal parlato: compaiono parole come la giumella, la cavedagna, l’attaccagno, i triboli; aggettivi come biava, tecchio, cascaticci, dolco, sdutto, mencio. Una poesia che si esprime attraverso una ricchezza di fiori, erbe, piante, acque - elementi costanti della ispirazione della Favilla. Alcuni titoli della intera raccolta contengono una lieve autoironia.

      La raccolta è suddivisa in tre parti: Le parole lucenti, Semi di girasole, Gli amici lucenti, quest’ultima sezione con versi dedicati agli amici vicini per comune sentire e creatività.

     Chiudono come in un ossimoro, accanto a tanta luce, questi versi di rimprovero alla vita e di apertura al sogno: “Hai rotto tutte le/promesse, m’hai negato,/eppure ancora canto/e volo e sogno./vado sull’isola/come Peter Pan,/nel posto alieno/delle mie vaghezze/ Who sees enough/in his duress/ oh, Edwin-/ may go as far…/…as far as dreams/have gone”(Edwin Arlington Robinson, Hillcrest). Chi vede abbastanza nella propria costrizione/può andare lontano quanto i sogni.

 

Eliana Favilla, Semi di girasole, Bandecchi &Vivaldi Editori Stampatori, 2022, pag. 144.

 

 

 

 

15 agosto 2022

"La lapide di Rosa" di Claudio Orsi

 


di Elisa Bertoni

Quale storia può nascondere una lapide?

       Lo sapeva Foscolo quando nel celebre carme Dei Sepolcri sottolineava l'importanza della tomba, non solo come mezzo per ricordare i propri affetti scomparsi, ma soprattutto come luogo privilegiato per costruire una coscienza civica che possa affrancarsi dalla barbarie, permettendo, grazie alla memoria, che l'umanità non si smarrisca nel vuoto di un oblio autodistruttivo.

       Il tempo può far sbiadire le scritte, anche quelle scolpite sulla roccia o impedire di comprenderne il contenuto: ecco perché diventa necessaria la passione di un ricercatore che sappia far parlare ciò che c'è scritto, come fanno poeti e storici, capaci grazie ad una curiosità mai doma unita ad inesausto amore per la verità, di dare voce a quello che, muto, aspetta di incontrare chi gli dia parola, liberando dal vincolo di una rigida lapide le storie ivi impresse.

       E' questo che è riuscito a fare Claudio Orsi, nel suo libro La lapide di Rosa: far parlare una pietra. La lapide diviene lo strumento di partenza per ricostruire eventi di storia locale che si inseriscono nel contesto ben più ampio della Resistenza, un frammento della propria terra che come una tessera di mosaico va ad impreziosire l'esteso quadro di uno dei periodi più complessi e drammatici della nostra storia nazionale.

       Apprezzabile il fatto che il narratore abbia rinunciato a romanzare gli eventi, rimanendo fedele alle asciutte testimonianze, come quelle ricavate dalle Cronache di Daniele Ricci, sacerdote della Parrocchia di S. Michele e S. Lorenzo di Moriano, e soprattutto alle genuine parole di Nanni Maffei, l'ormai novantaduenne figlio di Giuseppe, rimasto ucciso insieme a Rosa Rosenthal, ad Ugo Brandini e a Neno Sodini dal fuoco nazista che dalla Linea Gotica cercava di arrestare l'avanzata degli Alleati.

 Era il 24 settembre 1944.

      La testimonianza di Nanni Maffei ha tutto il gusto della storia orale: i ricordi fluiscono con l'evidenza di chi sembra che abbia ancora davanti agli occhi i fatti che commemora fino agli eventi di quel tragico giorno, i luoghi vengono ricordati con precisione, con i toponimi locali, quasi si sentisse il bisogno di definire e circoscrivere con esattezza il perimetro della tragedia per convalidare l'esattezza del racconto. 

     La vividezza dei ricordi di Nanni e la registrazione puntuale dei fatti da parte di don Ricci nel suo diario ci fanno percepire anche a distanza di ottanta anni la tensione di quei momenti in cui la paura poteva divenire viltà ma spesso anche indignazione e voglia di riscatto. A volte è la percezione dell'orrore a smuovere le coscienze. Si legga ad esempio don Ricci quando con accorata compassione registra l'incontro con una sfollata: “ho trovato questa giovane “sfollata” con un occhio portato via e con la testa sfracellata da una scheggia” o quando Nanni dichiara: “il corpo di mio padre non me lo fecero vedere”. Il non vedere il cadavere diviene paradossalmente la descrizione più compiuta se pur silenziosa di un corpo orribilmente mutilato.

       Eppure non si deve credere che il libro indulga ai particolari che fanno tragedia. Nelle pagine non c'è traccia di enfasi retorica ed è questa sobrietà di fondo a infondere alle pagine l'equilibrio della verità.

     Questo libro, alla maniera dei veristi, sembra essersi fatto da solo. L'umiltà di Claudio diventa alleata imprescindibile del suo amore e del rispetto per la verità storica nella sentita speranza che essa, sebbene più volte trascurata ed inascoltata, possa imporsi una volta per tutte come “magistra vitae”, guida affidabile contro la prepotenza subdola di più o meno latenti nuovi fascismi.

      Un libro eticamente rilevante, dunque, sia per il contenuto capace di veicolare l'autenticità in quella convivenza di atti drammatici e gesti di generosità mai glorificati o autocelebrati dalle persone coinvolte, ma presentati come naturali e spontanei; sia per il metodo, che eclissa chi ha avuto l'idea del libro per lasciare spazio alla storia: da una lapide alle fotografie, agli atti ricavati dagli archivi, alle Cronache di un parroco, ai giornali d'epoca fino alle preziose parole di un testimone.

      Ecco che cosa può fare un occhio che scruta, una mente che indaga, un cuore che scrive. Lo scrittore austriaco Karl Kraus diceva che “l'ironia sentimentale è un cane che ulula alla luna pisciando sulle tombe”. Io oserei dire che lo è l'ignoranza che può ammantarsi di apparente grandezza abbaiando all'inarrivabile luna, disconoscendo l'umanità e la concretezza che può derivare da una tomba.

      Claudio ha curato e rispolverato una tomba senza bisogno di ululare alla luna. Questo è La lapide di Rosa: sobrietà, umanità, concretezza

Claudio Orsi. La lapide di Rosa. Pag. 8o. Coloré. Giugno 2021.