29 giugno 2021

"Stasera niente stelle" di Elisabetta Carta

 


             Bambine senza idillio

 di Luciano Luciani

L’infanzia può essere raccontata in molti modi. Se alcuni tendono a privilegiare i colori rosati e stucchevoli di chi percepisce i bambini sempre e solo come fragili e innocenti, la forma più perfetta dell’essere umano, altri, al contrario, preferiscono evidenziare i tratti turbolenti ed egoisti di tanti rappresentanti dei cuccioli d’uomo, indocili, impazienti e privi di qualsivoglia dolcezza. 

Elisabetta Carta, attrice e scrittrice romana, con Stasera niente stelle alla sua terza, riuscita, prova sulla pagina, sembra, invece, optare per un personalissimo punto di vista: senza nulla trascurare della freschezza e dell’ingenuità infantili - perché, come si sa, fin dal tempo del terribile Giovenale maxima debetur puero reverentia – per raccontare di Alina e Beatrice, bambine amicissime tra loro, sì e no decenni, figlie della nostra contemporaneità, l’Autrice sceglie toni tutt’altro che morbidi, anzi aciduli, privi di indulgenze emotive e compiacimenti estetizzanti. 

Sul limite tra la fine dell’infanzia e l’inizio della prima adolescenza con tutto il suo carico di confusi turbamenti interiori, le due protagoniste, diverse per sensibilità, origine, storia familiare e condizione sociale, popolare la prima, borghese la seconda, adoperano al massimo grado tutte le loro categorie fanciullesche per decrittare il complicato mondo degli adulti, con le sue innumerevoli zone buie, le vanità, le pulsioni dei grandi spesso torbide e indicibili. 

E mentre le loro esistenze si dipanano secondo i canoni di un’ordinaria, apparente normalità, attorno alle due bambine si dispiegano gli orrori di un quotidiano esteriormente banale, ma tutto intriso di violenze, della ferocia del mostro della porta accanto o, chissà, ancora più vicino, e di mistero. Per esempio quello relativo alla repentina sparizione di una ragazza araba, Saira, bella e desiderabile, probabilmente fuggita sull’onda di un desiderio amoroso contrastato. O forse no, mentre su tutto e tutti incombe l’ombra oscura di un luogo magico ed enigmatico, quella piazza della Sedia del Diavolo realmente esistente da duemila anni a Roma, oggi nel cuore del cosiddetto Quartiere Africano. 

Rivissuta per linee interne con gli occhi ingenui, ma non troppo, di due piccole testimoni dei nostri giorni malmostosi, la storia si dipana fino al suo scioglimento finale in un crescendo di piccoli colpi di scena. Frammenti di verità che si addensano progressivamente ora grazie al caso, ora in virtù di un modo di conoscere la verità proprio dell’infanzia, più irrazionale e intuitivo che nutrito di un metodo d’indagine scientifico e razionale tipico della tradizione di tanti romanzi di mistero. 

Non c’è nessuna concessione all’idillio nelle pagine di Elisabetta Carta e neppure la nostalgia o la malinconia per un tempo forse felice, certo destinato a non tornare mai più. Invece il Lettore non potrà che apprezzare una scrittura personale che si muove per accenni, che dice e non dice, che evoca e allude quanto basta a far procedere una trama apparentemente semplice ma densa di complessità, a delineare un personaggio, a definire un carattere, a connotare una situazione.


Elisabetta Carta, Stasera niente stelle, Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2021, pp. 140, euro 12,00

 Elisabetta Carta, attrice di teatro e non solo, vive e lavora a Roma. Debutta con Luigi Squarzina, lavora con Gabriele Lavia, partecipa a numerosi sceneggiati e commedie televisive. 

Nel 2009 pubblica Cuore di scimmia, dedicato alla vita del pittore e poeta futurista Sebastiano Carta, suo padre, e successivamente dà alle stampe Un amore di troppo, un thriller a sfondo sentimentale ambientato nel cuore della vecchia Roma.

 

(da “NATURALMENTE. Fatti e trame delle Scienze”)

26 giugno 2021

"Il libro della creazione" di Sarah Blau

 


di Giulietta Isola

“In questo libriccino, cui sei tanto affezionata, si trova l’idea che delle combinazioni di lettere possono formare mondi, e creare vita. Ogni lettera che pronunciamo stupidamente, insensatamente, con cattiveria, ingenuità o indifferenza, ogni lettera crea qualcosa. “Telmaaaaa!” e voilà! Qualcosa viene alla luce.”

Telma è la protagonista di questo strano, magico romanzo, che sa di Zohar, di Kabbalah, di rivolta e di ribellione, una lettura da assaporare lentamente, io sono stata vorace, l’ho mangiato in un sol boccone e mi sono lasciata trascinare in un mondo eccentrico e sconosciuto. 

Mi aveva molto incuriosito una intervista di Sarah Blau nella quale ha dichiarato di aver rappresentato se stessa intorno ai 30 anni e di aver scritto questo libro per poter sopravvivere prima di tutto a se stessa, al suo voler essere donna nel modo più profondo, articolato e combattivo possibile. 

L’autrice è irriverente, femminista, religiosa, studiosa di argomenti ebraici da un punto di vista femminile, ingredienti di mio grande interesse e questo “Libro della creazione” si è rivelato una lettura complessa e potente. 

Telma conosce ed ha famigliarità con il testo, riesce a creare il suo Golem, buono e perfetto, un uomo da amare, lo chiama Shaul, “Colui che è richiesto”, lo crea per amore, non per fare la guerra come era successo alla nonna, eroina della rivolta del ghetto di Varsavia, dalla quale ha ricevuto il testimone e una missione nella vita: abitare la sua casa avuta in eredità e soprattutto maneggiare con cura il Libro della creazione

In questi obblighi c’è un unico peculiare significato: mantenere vivo lo spirito rivoluzionario e combattente di chi ha cercato di opporsi alla violenza nazista, di chi, donna, ha cercato di trasformare il mondo in qualcosa di diverso dall’accettazione e dalla sottomissione a voleri superiori, di chi ha voluto combattere per la libertà, di tutti. 

Telma è una ragazza inquieta, affascinata dal misticismo, vive un rapporto intenso con la nonna ed è in eterna competizione con la cugina più brava, più bella, più socialmente accettabile di lei, insegna la storia che sua nonna ha vissuto ed ha sia con il lavoro che con la sua femminilità un rapporto conflittuale. 

Ha paura di quella forza tutta femminile che le scorre nelle vene e che è costretta a imbrigliare e soffocare per prassi e convenzione, è doppia: si barcamena fra l'immagine di sé che intende dare agli altri e quella che nutre nel proprio inconscio. 

E' una donna fragile con scarse esperienze sentimentali ed una sessualità contorta, succube delle sue passioni. La tensione fra le due si manifesta anche nella scrittura che alterna discorsi in prima e seconda persona ed esplode quando cerca di creare l’uomo perfetto, un golem. Mi resta da capire se la creazione è concreta o se invece è la proiezione di un desiderio intimo, o un simbolo di quanto le parole, i pensieri, i sogni siano capaci di creare una realtà parallela forte, pervasiva e intensa quanto o più della realtà comunemente accettata. 

Telma si salva in mondi da lei creati, ma combatte in quello reale perché nulla sia conforme, scontato, previsto e perché nulla vada dimenticato, nemmeno la guerra, nemmeno l’amore. 


Sarah Blau ha una scrittura tesa, cupa e visionaria, costruisce un’atmosfera instabile, sospesa, è un’anima autenticamente gotica e dark, contraddittoria, trasgressiva, sfrontata e moderna, direi un po’ disturbata, preda di ricordi rimossi, di rimorsi nascosti e di impulsi insoddisfatti. Con lei ho fatto un viaggio tortuoso nel bene e nel male, all'interno di una donna e dei suoi fantasmi, talvolta mi sono riconosciuta nelle sue fobie, nella rabbia repressa, nel desiderio di essere apprezzata ed amata ed un po’ anche in quella malvagità intrinseca in ognuno di noi. 

Consigliato a molti, ma non a tutti.

Il libro della creazione è ora posato sullo scaffale, in soffitta. È molto più sporco di quanto non fosse la prima volta che i miei occhi di bambina ci si posarono sopra. Suppongo che diventi un po’ più sporco a ogni utilizzo, ma anche più potente. L’uso non lo indebolisce, al contrario, come succede a un corpo sfibrato che si rinforza dopo tanto esercizio in palestra."

IL LIBRO DELLA CREAZIONE di SARAH BLAU CARBONIO EDITORE TRADUZIONE di ELNA LOWENTHAL EUR 16.50

 

22 giugno 2021

"Garibaldi" di Luciano Bianciardi

 


di Carla Rosco

Luciano Bianciardi, di qualunque cosa abbia scritto, è stato un ottimo narratore: chiaro, avvincente.

“Garibaldi” è l’ultimo libro che scrisse, pubblicato postumo nel 1972, un anno dopo la sua scomparsa non ancora cinquantenne, e dedicato ad un eroe da lui molto amato:”Qualche volta noi scherziamo con tutti i busti, le targhe, le lapidi che si trovano in ogni piazza d’Italia ... Garibaldi fu dappertutto e dappertutto portò la sua presenza e la sua parola”.

Cominciando dalla fine del libro che si legge d’un fiato, a Caprera Garibaldi scrive il suo testamento politico: ai figli e agli amici lasciava il suo amore per la Libertà e per la Verità; al suo letto di morte non dovevano avvicinarsi sacerdoti, considerati discendenti di Torquemada.

Leggendo questo prezioso testo si ha la sensazione che l’Italia si è unita quasi per miracolo, tante furono le vicende che l’attraversarono e tanti furono gli uomini necessari per combattere ma anche per decidere sul da farsi. Un carosello di situazioni intricate ed esplosive, che senza le personalità di Garibaldi, Cavour, Mazzini poteva finire in un nulla di fatto.

Quando nel 1860 il tentativo borbonico di bloccare l’avanzata dei garibaldini (battaglia del Volturno) terminò con la vittoria di Garibaldi fu chiaro, una volta per sempre, che l’eroe dei due mondi era non solo audace e geniale, ma anche capace di condurre una battaglia campale in piena regola.

Seguirono settimane di inazione e intanto il re si era messo alla testa del suo esercito per entrare nel nuovo regno. Come tutti sanno, la stretta di mano fra il re e Garibaldi avvenne nei pressi di Teano:”Non sapevano cosa dirsi. Cavalcarono per un tratto fianco a fianco, garibaldini e regolari si mischiarono, ma per breve tempo, poi tornarono a separarsi, di qua le camicie rosse, di là i cappotti turchini, come due liquidi di diversa densità, incompatibili”.

Le popolazioni del sud non accettarono “l’occupazione piemontese” e cominciarono una guerra che si preferisce chiamare “brigantaggio”. Durò quasi cinque anni stremando l’esercito italiano, le popolazioni, le campagne. Napoli, che era la più grande e una delle più belle città d’Italia, cominciava la sua decadenza.

Il “miracolo” dell’unità d’Italia era stato raggiunto con l’intrigo e con la forza.

Il testo è preceduto da un profile bio-bibliografico di Bianciardi, mentre alla fine si trova una recensione di Giancarlo De Cataldo: “Bianciardi ama Garibaldi di un amore intenso e rispettoso ... lo ama senza mezzi termini e senza compromessi, al punto da restituirne, in pagine puntualissime sotto il profilo dell’accertamento storico ... la stessa perfetta icona che generazioni di studenti avevano imparato a conoscere”.

Di Luciano Bianciardi (1922-1971) ricordiamo “La vita agra” (1962), il suo capolavoro, che ebbe una popolarità immediata e da lui inaspettata.          

 “Garibaldi”   Luciano Bianciardi    minimum fax Edizioni    pag.153  euro 14

 

21 giugno 2021

"Il fantasma esce di scena" di Philip Roth

 

di Marigabri
 

“Mi ero abituato alla solitudine, a una solitudine senza angosce, e con essa al piacere di essere irreperibile e libero: paradossalmente, libero soprattutto da me stesso.“

       Lo scrittore fantasma è tornato a New York dopo alcuni anni di volontario isolamento in una casetta situata nella zona montagnosa del Berkshire, lontano da tutti e da tutto.

      Un luogo simbolico, che fu il rifugio di E.I. Lonoff, il venerato scrittore che Nathan Zuckerman, ventitreenne giovane promessa della letteratura, andò a trovare arrancando tra muraglie di neve e le cui vicissitudini sono raccontate nel primo libro dedicato all’alter ego di Roth: Lo scrittore fantasma.

       Ora il cerchio si chiude. Zuckerman ha più di settant’anni. È arrivato il tempo dei congedi.

      Dalla tirannia del desiderio, dalla nostalgia di una virilità ormai perduta, dalla partecipazione accorata alla deriva della politica americana (è il 2004, rielezione di Bush), dalla vanità della fama (“i giorni vanagloriosi dell’autoaffermazione sono finiti”) e dall’illusione di poter guarire dalla sua malattia (“provai l’amara impotenza di un vecchio schernito che moriva dalla voglia di essere ancora integro”).

      Ma la città che vide la pienezza della vita e nella quale Nathan si persuade di poter riconquistare un rinnovato vigore gli riserva alcune sorprese, nella forma degli incontri: primo fra tutti quelli con Jamie, avvenente trentenne sposata con Billy, che risusciterà quei fantasmi del desiderio da cui il narratore si sentiva erroneamente al sicuro. La ruota viziosa che reclama dalla vita i suoi frutti più succulenti ricomincia così a girare, ignara del tempo e della decadenza fisica.

      “Non c’è frangente da cui l’infatuazione sia incapace di trarre alimento. Mi bastava guardarla per trasalire: lasciavo che mi entrasse negli occhi come un mangiatore di spade inghiotte una lama.”

     Ma c’è anche qualcosa che torna dal passato: ecco apparire, irriconoscibile e deturpata dalla malattia, Amy Bellette, la ragazza che quella notte di molti anni prima unì fatalmente la sua vita a quella di Lonoff e sulla quale Zuckerman fantasticò un impossibile congiungimento e una possibile storia di salvezza dai lager nazisti. (L’ebraismo rimane il tema di fondo che sentiamo spesso risuonare nei libri di P.Roth).

       Ancora: l’inesorabile confronto tra la belligerante vitalità della giovinezza e il declino implacabile della vecchiaia, tra la presunzione di conquistare lustro e fama di scrittore ed esserlo veramente, tra l’arte di scrivere romanzi e il saccheggio necroforo di scrivere una biografia: “E non è stupefacente che la propria bravura, i propri successi, quali siano stati, debbano trovare la loro consumazione nel castigo dell’inquisizione biografica?“ (Una biografia, Nathan. Non la voglio. È una seconda morte. Dà un altro alt alla vita rendendola immutabile per sempre”).

       E poi la scrittura, un altro effetto del desiderio: il fuoco dell’ispirazione e della disciplina che fa esistere ciò che non è. (Come dice Wisława Szymborska: “La gioia di scrivere/ Il potere di perpetuare/ La vendetta d’una mano mortale”).

       Infine su tutto si erge come uno spettro shakespeariano il tema dei temi: la morte; la falce che porta via tutti, puntale e implacabile, ma pur sempre inattesa (“morì come moriamo tutti: da volgari dilettanti”).

      “E strada facendo, come Amy, come Lonoff, come Plimpton, come tutta la gente al cimitero che aveva affrontato coraggiosamente l’impresa e il dovere, sarei morto anch’io, ma non prima di essermi seduto al tavolo vicino alla finestra, guardando fuori nella luce grigia di un mattino di novembre, oltre a una strada spolverata di neve e fino alle acque silenziose increspate dal vento della palude…”

      Cioè non prima di avere scritto le battute finali dell’eterna commedia del desiderio, fino al punto in cui la realtà afferma il suo primato sull’immaginazione e il Fantasma esce di scena.

 Philip Roth. Il fantasma esce di scena.Traduz. di Vincenzo Mantovani. Einaudi