30 dicembre 2013

"Brama di dipinto (di spazio) desiderio di pittura (di tempo) di Gianni Madella




di Luciano Luciani

Mantovano, classe 1931, Gianni Madella è un pittore che ha attraversato con pienezza tutta la complessa vicenda dell’arte italiana del secondo Novecento. 

Allievo di un Maestro dell’Astrattismo come Virgilio Guidi presso l’Accademia bolognese, negli anni cinquanta Madella matura le categorie concettuali e le tecniche utili al confronto con i più significativi autori italiani e stranieri del secolo scorso: le taglienti impaginature e l’affilata perfezione di Alberto Burri; i nuovi e imprevisti confini dell’emozione e della conoscenza individuati da Lucio Fontana; la spazialità carica di senso etico ed estetico di un Rothko; l’intensa e profonda esperienza informale di Fautrier; la tensione e la drammaticità informale di Pollock; la surrealtà misteriosa e cifrata di Osvaldo Licini, senza dimenticare gli interessi e gli stimoli derivanti a Gianni Madella dal suo lavoro di grafico pubblicitario esercitato per lunghi anni nella fervida Milano degli anni sessanta e settanta. 

Una ricchezza di lingue sperimentali che il nostro artista assume e rielabora con originalità, posizionandosi autorevolmente all’interno della generazione post informale. Ovvero, quei pittori che hanno cercato di guardare “nella velocità post industriale, là dove le forme diventano semplici, elementari, minime”: inquiete rappresentazioni dello spazio, costruzioni di geometrie primarie, pitture monocrome che si rimettono alla luce di un solo colore. Non la logora riproposizione di gerghi e codici artistici già acclarati, ma una sperimentazione coraggiosa che miri a cogliere le mutevoli trasformazioni della luce, le sottili tensioni tra visibile e invisibile, tra il materiale e l’incorporeo.

Oggi, Gianni Madella ci racconta questa straordinaria avventura intellettuale, artistica e umana non con il segno e il colore, ma con le parole di un libro densissimo. Brama di dipinto (di spazio) desiderio di pittura (di tempo), La Vita Felice editore, una raccolta di lettere, interviste, colloqui, brevi saggi, testi di conferenze e di lectio magistralis che si dipanano nell’arco di un operoso quarantennio tutto intriso di ricerche, prove, esperimenti e tentativi d’arte.

Ne  emerge il ritratto a tutto tondo di un’autentica e robusta personalità artistica, creativa e riflessiva insieme, capace d’invenzione e di netto, motivato giudizio storico/critico. Un combattente pugnace per i diritti dell’arte, un vero e proprio artista-agonista. E, infatti, il suo più affezionato recensore e studioso, Francesco Bartoli, non può non ricordare di Madella “la posizione pittorica duramente antagonista verso ogni forma di astrazione estrema” e il suo “scontro diretto con l’edonismo pittorico”. Sono possibili oggi, si interroga Madella, soluzioni diverse rispetto a una pittura che dalle babele delle lingue pittoriche intervenuta da Mondrian in poi, sembra aver abdicato a ogni suo linguaggio specifico? Esistono alternative alla velenosa miscela di velocità, forme e colori che stanno portando all’ottundimento dell’occhio umano, all’insensibilità del gusto? Sì, suggerisce Madella, con i suoi argomenti e soprattutto con il lavoro di una vita: ma solo se sapremo respingere la ricerca ossessiva del “nuovo” a tutti i costi, recuperare una velocità a misura umana, individuare “un tempo rallentato” in cui rivalutare forme cariche d’intensità fisica e morale.

Gianni Madella, Brama di dipinto (di spazio) desiderio di pittura (di tempo), La Vita Felice editore, Milano 2013, pp. 130, Euro 13,50

"Il cavallo ed io" di Camilla Palandri



Che cos'è un cavallo? Cosa sono dei cavalli in gruppo? Che rapporto si stabilisce tra uomo-donna e cavallo? Il racconto di un'esperienza reale, a volte rappresenta più efficacemente di un saggio.  

L’aria pungente del mattino domenicale ed il cielo ancora avvolto dalla nebbia sono la cornice dell’inizio.
Arrivo sempre fra i primi all’appuntamento, mi piace assaporare ancora il silenzio ed il torpore del mondo che si sveglia lentamente. Nuvoletta mi aspetta nel suo spazio recintato. Prendo la cavezza, gliela metto e la porto nel tondino a fare un po’ di corda tanto per sfogare gli ardori. Prima di ogni partenza, dopo giorni passati rinchiusi , i cavalli hanno bisogno di muoversi . Sono pieni di argento vivo,hanno tanta energia accumulata da consumare. Cambio di andature al palo,dieci minuti di riscaldamento e poi iniziano i preparativi della partenza. Si sella e si mette il morso. Nuvoletta a volte fa le storie, alza la testa ed io non riesco da sola, allora arriva Assunto e mi dà una mano.
Intanto nel piazzale si radunano i cavalieri, alcuni vengono da fuori con i propri carrelli. Quando i cavalli sono in branco inizia l’eccitazione, si scrutano l’uno con l’altro,anche fra loro come per gli umani esistono le reciproche simpatie e antipatie, non vogliono stare fermi, cominciano a scalpicciare ansiosi. A volte l’atmosfera  elettrica alla partenza, perché gli animali sono freschi e riposati e hanno bisogno di sfogarsi.

Si dispone la fila nell’ordine stabilito dal nostro capogruppo, Assunto, il proprietario del maneggio ed anche la nostra guida nelle escursioni .I cavalli più riottosi di solito si mettono avanti , a volte anche in fondo.
Dipende dall’animale. Assunto spesso monta puledri sotto doma , cavalli quindi da tenere più sotto controllo perché sono le prime volte che escono alla scoperta del mondo e ne vanno controllate le reazioni, ma nelle sue mani esperte nessun cavallo diventa mai pericoloso.
Io di solito mi metto dietro ad un cavallo tranquillo , ce ne sono alcuni che proprio devo evitare, perché Nuvoletta non li sopporta e la loro vicinanza la porterebbe a scalciare.
Il primo brivido inizia appena usciti dal maneggio, in quanto ci troviamo a dover superare un sotto passo ferroviario. Prego sempre che in quel momento non passi il treno….. i cavalli sentendo quel frastuono sopra le loro teste iniziano a schizzare e siamo anche nella strada….
Poi attraversiamo la provinciale senza problemi e ci dobbiamo fare un pezzo di asfalto prima di poter entrare nei sentieri sterrati . E’ la parte più noiosa l’asfalto,però non si può fare diversamente.
Iniziano quindi le prime salite lungo i colli verdeggianti. C’è un percorso che facciamo sempre e passiamo davanti ad un allevamento di maiali che quando ci vedono arrivare, a volte, si precipitano giù in picchiata facendo confusione e può capitare che qualche cavallo s’innervosisca e scarti di lato, ma raramente. Ormai sono abituati a questo perché è un tragitto obbligato che conoscono.
In estate quando ci troviamo in questa zona ne approfittiamo per mangiare al volo le ciliegie colte direttamente dall’albero al passaggio.
I percorsi sono ogni domenica diversi però sempre su sentieri di montagna.
Dobbiamo arrivare per ora di pranzo , circa l’una, alla casetta, una piccola dimora che è stata affittata per il bivacco domenicale , dove ,oltre a consumare il pasto, ci riposiamo.
Adoro le salite anche se so che non è proprio lo stesso per i cavalli che sono costretti a portare il peso dei cavalieri. In salita andiamo sempre tranquilli , molto passo,per non affaticare gli animali.
Se il gruppo è numeroso, come capita alcune volte, si cerca di galoppare poco anche nei tratti pianeggianti, perché tanti cavalli insieme possono creare problemi quando sentono la competizione ed i rischi vanno evitati. Ma galoppare è bellissimo, una specie di danza magica in cui il tuo corpo asseconda ritmicamente il movimento del cavallo fino quasi a fondersi con esso, il vento che scompiglia i capelli, il paesaggio che scorre veloce e quel senso di libertà estrema. Quindi meglio quando siamo in pochi e possiamo concederci
questa esperienza per un lasso di tempo più lungo.
Qualche volta,quando vogliamo galoppare, andiamo verso il lago di Crocialoni ed è una meraviglia farlo sugli argini erbosi del padule. Un galoppo tranquillo, ma continuo quasi fino all’arrivo.
Durante le uscite non mancano mai gli imprevisti, ogni volta è un’avventura.
A volte all’improvviso un tronco sbarra il sentiero e allora bisogna convincere il cavallo a saltare. Nuvoletta a volte si rifiuta, allora devo scendere e convincerla a passare stando attenta che nell’impeto di superare l’ostacolo poi non mi calpesti. E’ una bella cavalla di razza maremmana migliorata, tranquilla, ma è una puledra ed ha alcune sue fisse, come le persone del resto.
I sentieri a volte sono stretti e bisogna stare sempre vicini al bordo interno, quello che è fiancheggiato dal ciglio, così se il cavallo scarta per un improvviso schiribizzo si è sicuri di non andare di sotto. E capita, mentre si procede tranquilli e beati che un rumore improvviso, un fruscio, uno svolazzo agiti l’animale. Il cavallo è un animale pauroso, basta poco per spaventarlo e allora inizia a sgroppare o scartare. Bisogna stare accorti per evitare di ritrovarsi in terra.
La parte che più detesto è la discesa, mi fa stare in tensione, ho paura che il cavallo scivoli. Ce n’è una tremenda di asfalto, molto ripida e sconnessa che sono sempre ben felice di evitare. In discesa bisogna stare rilassati, con il corpo all’indietro, assecondare il movimento del cavallo senza tirare le redini bruscamente, ma pronti a richiamarlo se si sente che va via.
Ce n’è anche un’altra in una zona molto fangosa che invece facciamo spesso. In alcuni punti i cavalli sprofondano nella melma ed io non vedo l’ora di attraversare velocemente. A volte in quel tratto anche Nuvoletta vuole andare più veloce ed io l’assecondo per uscire in fretta da quel pantano senza cadere, cosa che del resto non mi è mai capitata.
Intanto l’aria si è riscaldata, la nebbia dissolta ed il sole illumina il paesaggio circostante: ci sono punti in cui si godono panorami stupendi sulla vallata. I nostri cavalli cominciano ad essere “fumanti” per la fatica.
Durante l’escursione a me piace stare in silenzio, assaporare fino in fondo il senso di libertà che il contesto mi trasmette, io e l’animale in una perfetta sintonia. Però mi capita spesso di scambiare qualche battuta con i miei compagni di turno, cioè chi mi precede o mi segue. Di solito si parla di cavalli e cavalcate, non è certo quello il contesto per discussioni di altro genere, ma a me va bene così, come un camaleonte mi adeguo.
La dimensione del cavallo è libertà, istinto, vita naturale, niente a che vedere con il lato cerebrale dell’esistenza.
Mi piace la monta western quella che io pratico perché è la più adatta per le passeggiate e anche l’abbigliamento è molto più casual rispetto a quella inglese. Poi la sella americana dà più sicurezza ed è più comoda.
Quando arriviamo la prima cosa che facciamo è sistemare i cavalli: togliere la sella ed il sottosella che di solito è madido di sudore , steccare il cavallo e poi legarlo con la cavezza ad uno degli alberi circostanti. Mi piacciono quegli odori forti, di sudore, di sella , sono autentici . Poi c’è il momento conviviale del pranzo che si protrae per un tempo abbastanza lungo , il tempo in cui ci si rilassa e che per me è anche il più noioso, perché tutto sommato, a parte il cavallo, non ho altro da condividere con la compagnia . In questi momenti mi manca la parte mentale, lo scambio nella conversazione, mi manca la complessità.
Dopo pranzo c’è la siesta, fuori se è bel tempo , in casa se fa freddo. L’orario della partenza per il ritorno varia a seconda della stagione. Se è inverno ripartiamo abbastanza presto per essere a casa prima che faccia buio. Se è estate l’orario è spostato al pomeriggio inoltrato perché prima fa ancora troppo caldo e poi le giornate sono lunghe e non ci sono problemi.
Il viaggio di ritorno è in genere sempre più breve rispetto a quello di andata e a me piace sempre meno perché per lo più affrontiamo lunghi tratti di discesa. Anche in questo caso si varia l’itinerario, non facciamo mai la strada del mattino, ma c’inoltriamo per altri sentieri. Di inesplorati non ce ne sono però, perché a forza di andare li abbiamo girati tutti, comunque quando è un po’ che non si passa da un luogo è bello come se fosse la prima volta.
Al ritorno i cavalli sono più eccitabili, sentono l’aria di casa e spesso è proprio in questa occasione che accadono i maggiori imprevisti. Niente però che ricordi i primi tempi, quando eravamo tutti giovani e più incoscienti e allora ne accadevano davvero di avventure , a lieto fine per fortuna, ma avrebbero potuto
anche non esserlo. Cavalli che disarcionavano i loro cavalieri e poi ritornavano alla stalla attraversando la strada provinciale, galoppate folli senza pensare ai rischi della competizione quando i cavalli s’infuocano.
Era un altro periodo, adesso siamo tutti più grandi e maturi e le bravate sono dimenticate, anche perché i cavalli a disposizione hanno più “sangue” e si è consapevoli dei pericoli.
Arrivati al maneggio iniziano le operazioni di routine prima di rimettere il cavallo nel suo spazio. In estate di solito si fa anche un bel lavaggio rinfrescante, in inverno ci si limita a steccarlo e passeggiarlo un po’ per farlo asciugare.
La giornata è finita , si ritorna a casa con gli odori impressi sugli indumenti, i capelli arruffati, i pantaloni macchiati dal sudore dell’animale, gli stivali sporchi di fango e polvere, però mai stanchi, solo appagati del tempo speso in una dimensione in cui si è ritrovato il contatto con la propria parte istintiva e di conseguenza il benessere.

24 dicembre 2013

"Tokyo: scuola elementare" di David Alan Harvey



di Davide Pugnana

Credo che da qui - dalla posizione cioè di secondi osservatori di ciò che è stato osservato e fissato per sempre dal fotografo - il primo atto di fede sia la gratitudine. 

Ogni scatto fotografico, anche il più accidentale e 'cronachistico' frammento senza composizione (gli album di famiglia; una gita fuori porta; una linguaggia o un dito medio a dire l'adolescenza tribolata; o un bacio sopra le mura di Lucca, vent'anni fa o giù di lì) non ha solo l'effetto di stimolare i relè della memoria attraverso la fonte visiva; né ha solo il potere magico di restituirci il viluppo "morto" di sensazioni o i "vangeli" del quotidiano, come volevano Barthes e Susan Sontag. C'è una verità più semplice che ci fa amare la fotografia al pari di un talismano. La gratitudine verso il fotografo prima che toccare qualità e valori estetici, prima che celebrare l'attimo irripetibile della "scelta", proviene dalla gioia della percezione visiva che lo scatto ci inchioda su un brano di realtà del quale ci eravamo dimenticati; o la cui bellezza così non l'avevamo mai vista. 

Se dovessi scegliere un esempio d'en bas per spiegare questo tipo di rivelazione dello sguardo direi che il fotografo ripete il gesto della lavandaia: una lavandaia che prende un fazzoletto di realtà opaca e lo immerge in un liquido cristallino capace di detergerlo e restituircelo in una luce pulita e abbacinante. Il miracolo avviene quando si "tira su" l'immagine di realtà fissata e ci si accorge che dall'acqua affiora qualcos'altro. Ciò che prima era appannato e fuggitivo, ora è perfettamente leggibile e contemplabile. 

La fotografia ci mette nella condizione di vedere meglio brani di realtà verso i quali, per assuefazione, non prestiamo abbastanza attenzione. Che effetto fa il pic nic sul fiume di Cartier Bresson? O i lampioni languidi di Brassai? O quelle casupole dirute di Mc Curry, nelle cui cavità tanti globi di luce ci raccontano la miseria e la poesia del silenzio notturno? Che cosa leggiamo nelle pieghe delle mutandine delle donne di Helmut Newton?

 Ogni giorno, vediamo tavole apparecchiate, lampioni, servizi dei telegiornali da Gerusalemme, nudi femminili, eppure non li guardiamo mai davvero. Scorrono per un momento nei nostri occhi, carichi delle nebbie della pigra abitudine visiva; ma non lasciano traccia.

 Con la fotografia è tutto un altro dominio. Per il solo fatto di essere saldamente chiusa tra i quattro lati della cornice, rende tutto diverso. Ciò che nella vita reale sarebbe una famiglia in riva al lago può ora trasformarsi in una composizione di corpi nello spazio tra cose la cui essenza materica ci è improvvisamente nota (la grana di un cesto, la levigatezza della carta, la trama della tovaglia ecc). 


Chi vive nei grandi quartieri, con i palazzi altissimi di cemento degli anni Sessanta, sa bene la luce che filtra a geometrie tubolari ripetendo sul muro l'andamento delle grate e il panorama chiuso dalla finestra del vicino; quasi ogni giorno può affacciarsi e seguire le evoluzioni di un bambino che gioca a palla contro il muro. Lo guardiamo per un po' poi lasciamo che quello spaccato venga assorbito nel magma della cronaca quotidiana. La nostra stessa memoria scarta questa sequenza, o la mescola a stralci di ore anonime della nostra infanzia. 

Ma l'immagine di questo bambino con la tuta nera e rossa ha quella perfezione assoluta che ce lo racconta per la prima volta, con una segreta geometria della composizione formale che solo il fotografo può "ritagliare" oltre la casualità e la contingenza. Quel bambino non poteva stare che lì, proprio lì, tra quella striscia nera di mattonelle e il filo d'acqua dissecata sul muro di calce e miele; lì, eternamente sospeso come un arco teso da cui l'ombra sembra spiccar via violentemente per vivere la sua favola di Peter Pan. Questo bambino che non è più bambino, ma un corpo che ci consola come unica fantasia curvilinea in tanto rigore orizzontale e verticale. Proviamo a spostarlo mentalmente. Ci dispiacerebbe se fosse sotto la grata o perfettamente centrato. David Alan Harvey deve essere rimasto sempre in agguato con la macchina fotografica pronta a cogliere l'istante in cui la via sarebbe entrata in scena e avrebbe completato l'immagine nel modo giusto. Sicuramente deve amare la sezione aurea se l'ha composta con tanta perfezione di pesi; e la luce zenitale di Piero della Francesca; e gli accordi cromatici di Mondrian,con i rossi, i neri, i bianchi; e la levità dei cantafavole. E non sarebbe l'artista che è, se non fosse sensibile anche al mistero della luce, oltre che alla poesia della vita. 

Noi, dalla sponda di osservatori di secondo grado, dannati a contemplare il già visto e rinominato dagli occhi adamitici del fotografo, ci fermiamo e rivivere lo stupore di una porzione lavata di realtà; ne scopriamo le leggi e la grammatica, come fossimo sempre al primo anno della scuola dello sguardo.

22 dicembre 2013

"Se perdo te… quando il lavoro manca"




di Luciano Luciani

 L’attività, l’impiego, il mestiere, l’occupazione, la professione… in una parola il lavoro: un dato strategico nell’esistenza di milioni di uomini e donne perché per loro rappresenta l’unico strumento per entrare in relazione con una fonte di reddito e, quindi, ne determina sia il livello di vita, sia il progetto e l’organizzazione del futuro.

I modi concreti in cui si esercita il lavoro condizionano gran parte dell’idea che ogni individuo finisce per avere di se stesso. Joseph Conrad, uno scrittore apparentemente lontano da queste problematiche, acuto indagatore, però, dell’agitarsi dei problemi esistenziali sullo sfondo della crisi della società ottocentesca alle soglie della modernità, in un suo romanzo, Cuore di tenebra, trovò lo scatto di originalità, per consegnarci, ancora oggi attuale, un’intuizione importante: “Il lavoro non mi piace – non piace a nessuno – ma mi piace quello che c’è nel lavoro: la possibilità di trovare se stessi. La propria realtà per se stessi, non per gli altri – ciò che nessun altro potrà mai conoscere”.

E cosa succede nella testa e nel cuore delle persone quando questo diritto/dovere si fa sempre più fragile, precario, volatile? E quando, come purtroppo sta accadendo con sempre maggiore frequenza in questi nostri ultimi difficili anni, il lavoro viene a mancare del tutto, cosa avviene? L’esperienza e le cronache dicono che il lavoro umiliato, offeso e negato determina solitudine e perdita di identità, senso di inadeguatezza e caduta verticale di autostima. Produce 1,5 milioni di persone scoraggiate che neppure si attivano nella ricerca di un altro impiego. Genera rabbia e disperazione che possono arrivare anche alla tragica risposta individuale del suicidio. 

Ne derivano crisi e depressione, termini che, non a caso, economia e psicologia condividono: una crisi sociale che si sta infiltrando negli aspetti più personali e profondi delle nostre vite, una depressione che non può non richiamare quanti si occupano professionalmente degli “altri” a una nuova vocazione civile.

Per discuterne assieme, psicologi e sindacalisti, psicoterapeuti e amministratori si sono ritrovati a marzo del 2013 presso la Cittadella di Assisi per parlare di lavoro, ponendo al centro di questa riflessione collettiva le parole di una famosa canzone di Patty Pravo anni ’60 per trattare, mezzo secolo più tardi, non di amori perduti, ma di lavori persi: quello che gli adolescenti non riescono più a sognare; quello chimerico inseguito dai giovani adulti; quello da cui si rischia di essere estromessi in età adulta, all’improvviso; quello che, in altri casi, non si potrà lasciare sino a tarda età; quello, ancora, che, con preoccupazione, i genitori immaginano per i figli e le figlie.

Un libro, Se perdo te… quando il lavoro manca, Crisi e arti terapie, Pliniana 2013, raccoglie i contributi emersi in occasione di questo interessantissimo e utile  convegno: ma non è un libro triste, non è intriso di malinconie sociali. Se le sue pagine parlano – e non poteva essere diversamente - dell’immaginario del precariato, raccontano anche di belle esperienze di auto mutuo aiuto come quella attivata presso la Camera del Lavoro di Milano, di invenzioni sociali, di nuove e più piene relazioni con gli altri, di attimi felici …

Se perdo te… quando il lavoro manca, Crisi e arti terapie, Pliniana 2013

19 dicembre 2013

"Ausmerzen (Vite indegne di essere vissute)" di Marco Paolini

Cosima Di Tommaso

 Ho letto l’ultimo libro di Marco Paolini, Ausmerzen, (Vite indegne di essere vissute),  tutto d’un fiato, non si può non farlo e, nell’ultimo respiro con il libro in mano, ho pianto, Dio mio se ho pianto.
 

Marco Paolini, qui narratore, porge al lettore la storia di uno sterminio di massa, ignoto ai più, di cui si parla solo – in certi convegni di psichiatria. Si tratta di Aktion T4, ovvero, ben trecentomila esseri umani, sistematicamente uccisi, ritenuti geneticamente inaccettabili, sposando i principi dell’eugenetica. Si tratta di zingari, disabili mentali e non. Il libro apre uno squarcio imprescindibile e angosciante, su eugenetica, scienza ed etica, e sulle politiche del potere che le usano in modo bieco. Marco Paolini è un narratore appassionato e indignato che incontra o dovrebbe incontrare, la coscienza di ognuno di noi.
 

E’ sconvolgente apprendere che la scienza, o certa ricerca scientifica, possa usare e prestare il fianco a quello che io chiamo, ‘’lato oscuro’’ nell’uomo (paura, ignoranza), al punto che diventa quasi un fatto normale, in nome di una non ben specificata, salute degli altri individui.
 

Ciò che fa ancora più male è che ‘’ci stiamo abituando’’, eppure è passato tanto tempo da allora. Ma non è solo questo il punto: ad aver paura del ‘’diverso’’, che sia immigrato o disabile e, in nome di una crisi imperante, che taglia tutti i costi a tutti i costi, si è disposti a giustificare che essi siano, dopotutto, ‘’vite indegne di essere vissute’’, tutt’altro che portatrici di diritti.
 

Il racconto di Marco Paolini, s’incontra con quello di Mario e diventa un urlo di civiltà, alla civiltà dell’uomo contemporaneo. E’ fin troppo facile condannare il passato, ma qui c’è da salvaguardare prima di tutto un presente e un futuro. Tanto importanti sono il mestiere dell’insegnante di sostegno, del professore, dell’operatore di strada che, come giustamente ritiene Luigi Ciotti, apra a ‘’…l’idea che il futuro sia una cultura dell’integrazione che si fa cultura dell’interazione.’’ Quanto è fondamentale oggi, più che mai, l’azione educativa! Quanto è fondamentale oggi, ribellarsi alla subdola comunicazione strisciante, propinata dai ‘’persuasori occulti’’ e manipolano il sentire comune. 

 Davvero un ottimo libro, d’impegno etico e civile che ìncita l’uomo di oggi, a svegliarsi, alzare la testa e ad agire, per ‘’…rendere normale domani quel che ieri era impossibile’’. Limpida, scorrevole, scattante la prosa, tipica di un linguaggio ‘’parlato’’, meglio, ‘’sentito’’ in sé, prima di essere portato in scena.

Marco Paolini, Ausmerzen, (Vite indegne di essere vissute), Einaudi, 2012.

17 dicembre 2013

"L'uso della vita" di Romano Luperini




di Luciano Luciani

Figlio di un partigiano, cresciuto a pane e Partito comunista, il giovane Marcello, in rotta con l’uno e con l’altro, si immerge con naturalezza nel movimento degli studenti della sua città, Pisa, destinata, nel breve volgere di mesi a diventare uno dei centri più significativi di quell’insorgenza giovanile diffusa in tutta Europa che, ancora oggi, si è soliti ricordare come il Sessantotto, il primo degli “anni formidabili”. Occupazioni di istituti universitari, le assemblee, gli infuocati dibattiti politici, gli scontri con la polizia, il duro confronto con le tradizionali organizzazioni della sinistra, partiti e sindacati, le polemiche con gli adulti e il loro mondo, diventano così l’“eccezionale normalità” di un giovane di poco più di vent’anni, colto – si è appena laureato – che si divide tra la ricerca di un lavoro e la partecipazione, appassionata e disinteressata nonostante dubbi e incertezze, a un vero e proprio terremoto politico e sociale, civile e generazionale. Un sommovimento totale, un vero e proprio “assalto al cielo”, che non esclude il mondo dei sentimenti: un terreno su cui il nostro protagonista, ferratissimo nel campo delle dottrine storiche, filosofiche e politiche, rivela tutte le sue debolezze e inettitudini, a partire da quella sessuale, deludendo e rimanendo deluso: quasi una prefigurazione di un più largo disinganno che si consumerà quando il movimento degli studenti passerà “dalla leggerezza e dalla felicità iniziali a strutture più pesanti e organizzate che lasciano intuire i tragici sviluppi successivi” (da una Nota dell’Autore). Non a caso il romanzo di Romano Luperini, docente di letteratura moderna e contemporanea presso l’università di Siena e, a suo tempo, militante e dirigente politico, si chiude con il primo evento tragico di quella stagione i fatti della Bussola: il 1 gennaio 1969, infatti, nel corso di una pacifica manifestazione di studenti davanti al locale notturno “La Bussola” di Viareggio, individuata come uno dei luoghi-simbolo dell’ostentazione del lusso e dello spreco, si verificano scontri tra polizia e dimostranti che si concludono con un ferito grave, il giovane pisano Soriano Ceccanti, destinato a rimanere su una sedia a rotelle per tutto il resto della sua esistenza.

Insieme al protagonista, le cui vicende sono in gran parte modellate su quelle dell’Autore, e a personaggi di finzione, frutto di una ben riuscita creazione narrativa, agiscono sulla scena del racconto figure storicamente determinate come Franco Fortini. Adriano Sofri, Massimo D’Alema, Luciano Della Mea “le cui parole e le cui azioni” scrive Luperini “possono essere spesso oggettivamente documentate”. Romanzo storico,quindi, questo L’uso della vita, misto di storia e d’invenzione, secondo la migliore lezione manzoniana che nel sottotitolo porta un numero significativo e oggi scandaloso: 1968. Un anno a cui oggi i moderati e i conservatori di tutti i tipi e colore politico sono soliti attribuire, sbrigativamente e soprattutto per autoassolversi da ogni responsabilità, l’origine di tutti i mali civili e culturali che ci affliggono attualmente. 

Questo libro, il Sessantotto, lo racconta dall’interno e ricostruisce le ragioni e le passioni, le motivazioni e le rabbie di un’intera generazione. Generosa e sconfitta, ma che, pure, ha saputo lasciare segni profondi non solo nella coscienza del proprio tempo, ma anche in quella degli anni successivi sino ai nostri giorni, un cinquantennio più tardi.

Un romanzo sincero e intenso, utile per chi c’era, per chi non c’era, per chi ha dimenticato.


Romano Luperini, L’uso della vita. 1968, TranseuropA Edizioni, pp. 138, Euro 12,90

16 dicembre 2013

"Ida" di Irène Némirowsky




di Gianni Quilici

Irène  Némirovsky, anche in questo romanzo breve o lungo racconto, dimostra di avere  una notevole capacità narrativa nonché di penetrazione psicologica.
La capacità narrativa è nell’attenzione ai dettagli e nel farli diventare flusso narrativo coinvolgente.
La penetrazione psicologica è nel  lungo soliloquio della protagonista, Ida, tra presente e passato , che scava così tanto e bene, che noi lettori abbiamo negli occhi e nel pensiero la radice più profonda del suo Io, nel momento in cui la sua vita sta cambiando, perché l’età che incalza non le consente più di sostenere quel ruolo di  bellissima ragazza, che ha calcato i palchi della music-hall parigini, divenendo famosa, ammirata e indiscutibile “prima donna”, a cui era ossessivamente legata. Dice di sé infatti:
Quello di cui ho bisogno, quello che apprezzo, quello che mi piace è l'amore della folla, l'ombra, il desiderio, quel roco balbettio che aumenta nella sala quando compaio, quella bramosia anonima... Quanto mi piace.. Perderla? No, piuttosto preferirei morire...”.

 I primi segni della “vecchiaia”, la mancanza di forze fisiche adeguate, la presenza di Cinthia, la sua fresca, giovane, bellissima rivale fanno nascere in Ida un flusso di ricordi tra il compiacimento di sé, la nostalgia e l’angoscia. Soprattutto l’angoscia.

Irène Némirovsky coglie molte sfaccettature di questa solitudine: l’amore sfrenato per il successo e il lusso, l’egocentrismo per quella che lei è stata e ancora crede di essere, l’invidia delle colleghe, di cui si sente circondata e assediata, la paura di perdere la sua supremazia, gli accorgimenti adottati per evitare rughe e stanchezze, e i ricordi del passato, i ricordi degli amori che non sono stati per egoismo e soprattutto un trauma, il più radicale: l’essere stata additata nella giovinezza come la figlia di una tenutaria di un bordello, come la figlia di una puttana.

Un racconto perfetto, perché rappresenta un personaggio ed una situazione emblematica del cabaret anni ’20, che in questa perfezione ha forse il suo limite. Perché rimane una registrazione di una condizione veritiera ma senza contrasti, perché Ida non ha voluto, né cercato, né forse voleva cercare n volere una qualche libertà, né niente e nessuno l’ha messa in crisi o comunque in movimento, se non il fluire inesorabile del tempo. In questo senso Ida rimane più che un romanzo un racconto, un perfetto racconto lungo sulla decadenza di una donna nella Parigi degli anni ’20, ma non si allarga, non vuole allargarsi ad una crisi più generale che investirà l’Europa e porterà sconvolgimenti sociali e politici.

IDA. Irène Némirovsky. Traduzione di Monica Capuani. Elliot 2013. 64 pgg. Euro 7,50.

15 dicembre 2013

"Voracità" di Elfriede Jelinek



di Camilla Palandri

A prima vista, leggendo l’introduzione, si potrebbe pensare di trovarsi di fronte ad un romanzo poliziesco, ma, fin dalle prime pagine, l’impressione svanisce. Quella che la scrittrice ci presenta è una storia che parla di masochismo affettivo femminile, di relazioni torbide e personaggi disturbati .

Donne belle, giovani e meno giovani, si lasciano sedurre e si abbandonano completamente al loro torturatore, l’affascinante poliziotto di mezz’età Kurt Janisch che ,attraverso il possesso fisico, mira ad impadronirsi dei loro beni materiali, le case.
Sono rapporti tortuosi quelli che lui instaura con le sue vittime, senza nessuna concessione al sentimento, basati sul sesso brutale ed aggressivo. Le donne rappresentano solo il mezzo per appagare la sua voracità di possedere.
E’ un’attrazione ossessiva quella che rende queste donne dipendenti fino a diventare schiavizzate, totalmente incapaci di liberarsi dalla sottomissione.

Il poliziotto sfrutta sempre la stessa tattica per avvicinare le sue prede e renderle succubi: la divisa . Finge d’interessarsi a loro, ma in realtà è solo l’avidità a spingerlo a frequentarle. Un’avidità non di corpi, ma di proprietà. Insaziabile come il desiderio che alimenta nelle sue vittime disposte a subire tutto, a consumarsi nell’attesa e a lasciare che distrugga le loro stesse vite. Donne sole ed infelici che cadono nella sua trappola, perché rappresenta la realizzazione del loro desiderio d’amore e per questo sono disposte ad annientarsi fino alla morte.

Kurt Janisch è un uomo senza scrupoli , non c’è alcun rimorso in lui, nemmeno quando arriva ad uccidere la giovanissima e bella Gabi forse perché diventata scomoda testimone della sua relazione con la matura e ricca Gerti. Con freddezza occulta il cadavere nel lago e partecipa poi alle ricerche in veste ufficiale, senza tradire la minima emozione quando esso verrà scoperto, sicuro della propria impunità.

Ha una vita di facciata il poliziotto, una famiglia come tante, una moglie che si occupa della casa e cura il giardino, un figlio grande con un impiego, un nipote. E’ il contesto di finta normalità che gli serve per agire indisturbato. Nessuno conosce la sua vera natura nel piccolo paese della provincia austriaca in cui abita. Nessuno forse scoprirà mai che è il diretto colpevole della morte di Gabi e quello indiretto del suicidio finale di Gerti.

Il linguaggio usato da Elfriede Jelinek è spesso crudo e complicato. Risulta difficile superare l’impatto iniziale perché lo stile è ostico, non coinvolge e si ha la tentazione di abbandonare subito la lettura. Non è facile seguire il filo degli eventi , la narrazione è continuamente interrotta da digressioni sui temi più vari e le vicende sono più accennate,sottintese, che narrate, circondate da una sovrabbondanza di parole che allontanano dal contesto e lasciano un senso d’incompiuto al romanzo.

Non è dato sapere quale sarà la fine del poliziotto, solo conoscere l’esito drammatico
delle sue seduzioni. La debolezza umana è ciò che maggiormente traspare nel racconto,debolezza legata al sesso che si esprime nella sua forma più violenta e distruttiva nel rapporto fra le vittime e il loro carnefice .

Voracità. Jelinek Elfriede . Traduzione di Barbara Agnese. Frassinelli 2005, 409 p.,


13 dicembre 2013

"La città invisibile" mostra fotografica di Irene Kung



La città invisibile” una mostra 
di Irene Kung 
al “Photolux Festival”


"D'una città non godi le sette 
o le settantasette meraviglie,
ma la risposta che dà 
ad una tua domanda". 
  Italo Calvino 


di Gianni Quilici

Una trentina di scatti su monumenti celeberrimi: Tour Eiffel e Notre Dame,  Pantheon e auditorium di Roma, Santa Sofia e Church le Corbusier, Empire State Building e la piramide di Cheope in Egitto.
Irene Kung, però, ce li fa vedere come non li abbiamo mai visti. Ossia li ricrea, senza deformarli, ne’ falsificarli. Evoca un’atmosfera, un’atmosfera ammaliante ed enigmatica.

In che modo?
Attraverso una grande professionalità: una cura meticolosa nella scelta e nella perfezione dell’inquadratura, nelle linee geometriche e soprattutto nel rapporto luce-ombra.
Questa professionalità è, per così dire, al servizio di un senso espressivo, che  riesce a trasmettere un’anima ai monumenti. Utilizzando in modo straordinario il contrasto luce e buio. L’oggetto preso in esame si rivela nella bellezza delle sue forme, in alcuni dettagli, scolpite da una luce tanto più netta, perché contrapposta a un’oscurità talvolta graduale, che nasconde il resto delle forme o appena lo rivela.

C’è questa foto, Casa Paris , che seppure un po’ diversa dalle altre, perché non è un’architettura altrettanto famosa, perché utilizza il colore, invece del B/N,  esemplifica comunque l’analisi fatta.

E’ uno di quegli scatti, che colpiscono immediatamente l’occhio, perché è una sorta di bellezza al quadrato. La bellezza della realtà inquadrata e la bellezza del tipo di scatto.
Infatti, tanto più è forte la suggestione visiva di questo intrico nudo di rami, che posano sul colore caldo e luminoso del palazzo, tanto più è messo in evidenza, sottolineato, raccolto in quella sorta di (quasi) cerchio di luce, che le ombre circostanti hanno formato.
Una foto reale e onirica, che fa pensare al surrealismo e in particolare a Magritte.
L’interrogativo che si potrebbe porre è se sia fin troppo estetica, estetizzante. Un interrogativo che lascio aperto.

LA CITTÀ INVISIBILE , a cura di Enrico Stefanelli.
IRENE KUNG, nata a Berna nel 1958, prima di stabilirsi a Roma, Irene Kung ha vissuto e lavorato a Madrid e New York come graphic designer, pittrice e fotografa.

11 dicembre 2013

"Lettera ai giornali" di Angela G. Palermo



Viviamo in un universo mediatico, in cui la sovrabbondanza di messaggi consuma quasi ogni comunicazione nell’arco di qualche ora, giorno, settimana.
Questo riguarda anche quei prodotti che hanno una distribuzione nazionale, siano essi libri o film. Molto più precari sono gli articoli di giornali, quotidiani e riviste, che solo in pochissimi casi saranno raccolti in libri.
Nessuna possibilità di vita hanno invece le lettere ai giornali, che possono durare quel giorno per poi perire, anche quando hanno uno spessore intellettuale e morale, che va oltre la situazione specifica.
Questo vale per la lettera di Angela G. Palermo, che merita di essere letta e inserita in queste recensioni libere.

C’è un fatto, un incidente stradale, un incidente causato dall’imprudenza altrui, un incidente che improvvisamente cambia la vita di una giovane donna, facendo da spartiacque tra un prima e un dopo per le conseguenze fisiche ed economiche, psicologiche e professionali.
Da qui questa lettera spedita ai giornali, in cui Angela analizza i suoi stati d’animo ( rabbia e senso di ingiustizia, sconforto e disperazione), riflette sulle cause oggettive dell’incidente e su che cosa il governo nazionale e l’Europa potrebbero fare e non è stato fatto.  
C’è nella lettera la limpidezza nobile della ragione: nel dolore  e nella stessa rabbia; c’è perfino la compassione, che diviene quasi  senso di colpa, nei confronti di chi, “invece, giace morto su chissà quale lembo di asfalto”. (Gianni Quilici)


LETTERA APERTA AI GIORNALI
di  Angela G. Palermo

L’8 settembre 2012 sono stata investita da un’automobile che andava a velocità sostenuta. Ero in sella alla mia bicicletta e ricordo solo un tonfo sordo, poi il buio e il risveglio con dolori indescrivibili.
La giornata si preannunciava uguale a tante altre piene di impegni. Invece un giorno qualunque, in un posto qualunque, la tua vita cambia per sempre. E quel giorno così banale, si trasforma nello spartiacque tra la vita di prima e  quella di dopo. Dopo l’ “incidente”.

I miei sentimenti prevalenti in questa situazione sono assai diversi e tra loro contraddittori. Ad un senso iniziale di rabbia si è andato accostando un sentimento di ingiustizia. Poi i giorni passavano e le sofferenze, invece di diminuire, aumentavano, così da trasformare la rabbia in sconforto e il senso di ingiustizia in disperazione.

Ingiustizia perché? Perché la verità è che sulle strade la prudenza non salva dall’imprudenza altrui. Perché per moda, in tante trasmissioni televisive, sui giornali, si predica il dovere di utilizzare mezzi alternativi all’automobile per “vivere meglio”, “per vivere bio”, per “tenersi in forma”. E così, noi ci si sente quasi dei paladini che al posto delle armi utilizzano sempre la bicicletta, infallibile arma verde in difesa del nostro pianeta che non sta morendo ma che stiamo assassinando.
Le nostre strade sono sempre più simili a  campi di battaglia dove troppi “soldati verdi” muoiono sul campo, uccisi da automobili simili a mine vaganti.

I governi nazionali e l’Europa dove sono? Perché non intervengono a sostegno di leggi che promuovano una vera rivoluzione verde? Si dovrebbe, per esempio, investire di più in piste ciclabili, dotare le strade di una segnaletica stradale più specifica e, non da ultimo, appoggiare la proposta di alcune associazioni di introdurre il reato di omicidio stradale e costringere le assicurazioni a pagare somme più importanti alle vittime o alle loro famiglie.

Nessuna somma può ripagare delle sofferenze fisiche e psicologiche che un “incidente” come il mio può provocare, ma questa indifferenza è insopportabile. Io sono stata “fortunata” perché sono viva, ma per la maggior parte delle persone che vengono travolte con quella violenza la vita si conclude sull’asfalto.

La signora che mi ha investita non solo non ha chiamato i soccorsi, ma non mi ha mai contattata per chiedermi come stessi. Giacevo in fin di vita sull’asfalto e mi ha salvata un ciclista medico che passava per caso di là. Gli atti inqualificabili come quello della signora che ha investito me, devono diventare aggravanti imperdonabili in tribunale. E invece, mentre io devo imbottirmi di morfina per alleviare dolori insopportabili, la signora è libera.
Libera di dormire senza dolori, libera di abbracciare suo marito, libera di alzarsi, libera di mangiare, libera di uscire, libera di lavarsi, libera di leggere, di scrivere senza sentire dolore, libera di respirare senza che il respiro stesso tolga il fiato.

Due giorni dopo l’ “incidente” mi hanno contattato vari licei per proposte di supplenze annuali, ma io non ho potuto certo firmare il contratto né assumere servizio. Mi sono così ritrovata anche senza lavoro, senza il pagamento della malattia, perché non ho un contratto. Senza il punteggio. Per un professore precario come me questo vuol dire essere scavalcati in graduatoria, con tutte le conseguenze che questo comporterà. Sono formalmente disoccupata, eppure le spese che devo sostenere sono ingenti. Ho dovuto acquistare tante medicine, stampelle, busto, pannoloni, pagare per richiedere la cartella clinica,etc. I sindacati dicono che non c’è niente da fare: “Signora, è la legge. Noi non possiamo fare niente. Solo in caso di gravidanza difficile lei può accettare una supplenza senza assumere servizio. In caso di incidente stradale, lei non è tutelata dalla legge”. Piccola lezione di paradosso all’italiana: la gravidanza è una malattia, la malattia non è una malattia. 

Mi chiedo: questo è uno Stato di diritto? Questa è sanità pubblica? La verità è che la nostra Italia non è una democrazia e che è vero che solo i ricchi possono curarsi adeguatamente. Il resto dei malati deve chiedere aiuto alle famiglie, se può, o semplicemente arrendersi alla triste realtà: non curarsi.

Io non so perché Dio abbia deciso di salvare me e non qualcun altro. Confesso di vivere questa mia condizione con un certo senso di colpa nei confronti di chi, invece, giace morto su chissà quale lembo di asfalto. Mentre ero in ospedale è morto un ragazzo in un “incidente”. Mi sentivo in colpa.

Io guarirò. Ci vorrà tanto tempo ma guarirò. Ma non sarò più la stessa persona. Il mio corpo è stato martoriato e il mio spirito ferito. Penso spesso a quando, fra qualche mese, uscirò di nuovo. Dove troverò la forza di non avere paura?
Io non riesco a spiegare quello che provo. E’ troppo complesso. Ho visto la morte e ho avuto paura. Tante altre volte l’ho invocata perché i dolori fisici sono insopportabili.

Sono tante le cose che mi mancano in queste lunghe giornate tutte dolorosamente uguali: studiare in biblioteca, entrare in classe, correre. E non so se potrò mai più tornare ad assaporare la fatica della corsa a causa delle condizioni della mia gamba destra. Ho riportato una frattura bimalleolare alla caviglia. L’osso ha bucato la pelle. A causa di ciò hanno dovuto inserirmi viti e  ferri all’interno della gamba. Ho cicatrici orrende sia sul lato esterno della gamba che sul lato interno. E’ stato un intervento di quelli complessi, a detta dei medici. Ma non devo lamentarmi perché l’altra frattura, quella vertebrale, poteva portarmi conseguenze ancora peggiori: la paralisi. La vertebra guarirà con l’aiuto di un busto molto costrittivo che sarà il mio compagno per tanti, troppi mesi. Senza di quello non posso nemmeno alzarmi a mezzo busto e quando lo indosso provo dolore e faccio fatica a respirare. Ho riportato anche una fratturina alla mano destra, varie contusioni ed escoriazioni, una ustione. Mi sanguinavano vari organi interni e ho avuto anche un ematoma a livello celebrale. Il viso, però, mi è stato preservato.

A detta di tutti devo essere contenta.
Contenta?!
Io non sono affatto contenta. Ho salva la vita ma non ho più la mia vita. E non l’avrò più. Tuttavia, per una sorta di economia mentale, devo tradurre questa esperienza in un’opportunità. E poiché i sensi di colpa non sono utili se rimangono tali, devo fare qualcosa per le persone che, come me, sono rimaste vittime di tentato omicidio stradale colposo. Iniziamo a non chiamarlo più “incidente”.

E’ per questo che mi sono permessa di scrivere pubblicamente di me. Altrimenti non l’avrei mai fatto. Chiedo perdono per quest’atto che spero non sia male interpretato. Volutamente mi sono soffermata su particolari un po’ crudi. Credo che leggere la storia di una persona a noi vicina ci faccia riflettere maggiormente. Siamo talmente bombardati dalla cronaca, tanto da non farci più caso.

Permettetemi un’ultima riflessione. Non le medicine, non la consolazione di avere la vita salva, non il pensiero della guarigione aiutano tanto quanto l’affetto delle persone che ti vogliono bene e che ti incoraggiano a non mollare.
Se voglio tramutare questa terribile esperienza in un’opportunità, devo partire da qui. Dall’incredibile solidarietà che mi è stata dimostrata e dall’affetto che mi è stato donato senza averlo mai meritato.
Per questo mi commuovo e vi dico grazie dal più profondo del mio cuore, invitandovi, umilmente, ad approfittare dei tanti miracoli che la vita ogni giorno ci concede di vivere.



“Documenti e studi” num. 35





 
Lucca 1987. Festa dell'Unità. Da "Lucca che vive" di Gianni Quilici.
di Luciano Luciani


A quasi un quarto di secolo dalle tormentate vicende che hanno accompagnato la parabola e il tramonto del Partito comunista italiano, è giunto il momento, almeno a giudizio della redazione di “Documenti e studi”, di cominciare a ripensare storicamente quella esperienza politica: un percorso che iniziamo in collaborazione con la Fondazione “Sinistra. Storia e valori”, ai cui Associati porgiamo le nostre più sentite condoglianze per la recente, repentina scomparsa del loro presidente, Aurelio Russo.

Cosa è stato veramente il Pci? Davvero, come vogliono i suoi detrattori si è trattato solo, come scrive Emanuele Macaluso, di “un corpo estraneo  alla nostra società, di una agenzia sovietica al soldo del Kgb, nel migliore dei casi di una Chiesa con i suoi sacerdoti e i suoi riti da studiare come fa un archeologo dopo uno scavo”? Oppure i suoi settant’anni di storia, percorsa da lotte, difficoltà, successi e insuccessi, hanno inciso, e profondamente, nella vicenda italiana del secolo scorso e hanno fatto di questo partito, soprattutto dopo il secondo conflitto mondiale, uno dei principali protagonisti sia del risanamento e del rinnovamento del Paese, sia di nuovi rapporti internazionali? Quale, dunque, il suo ruolo nella storia del secondo Novecento, ancora poco indagato dalla storiografia al contrario degli anni dell’opposizione al fascismo e della Resistenza? Come è stato possibile per il Pci degli anni della Ricostruzione, del boom economico, degli anni settanta che lo videro proporsi come forza di governo, far convivere al proprio interno, e spesso nella coscienza stessa dei suoi militanti, un’adesione sincera e convinta alla democrazia e il legame simbolico ed emotivo, ma non per questo meno stringente, con tutti gli altri comunismi del mondo che quella stessa democrazia rifiutavano e combattevano? Come è riuscito questo partito da posizioni minoritarie a costruire una vasta organizzazione capillarmente diffusa sull’intero territorio nazionale, ricca di relazioni con la società civile e capace di orientare tra un quarto e un terzo dell’elettorato? E quale giudizio dare del progetto politico del Pci che per quasi mezzo secolo riuscì a portare a sintesi politica bisogni operai e aspirazioni di consistenti segmenti di borghesia, storie di popolo lavoratore e grandi tradizioni intellettuali?

Per trovare riposte adeguate a questi interrogativi, centrali per comprendere la recente storia politica e civile del nostro Paese, forse, più delle grandi sintesi, possono rivelarsi preziose le ricerche e le indagini articolate a livello locale, attente alle fonti archivistiche e a materiali giornalistici, alle testimonianze dirette e alle memorie personali. È con tali intenzioni, e all’interno di un più ampio progetto di ricerca sull’Italia repubblicana, che proponiamo ai Soci dell’Istituto e ai Lettori di “Documenti e studi” n. 35 una corposa sezione intitolata, con le parole del celebre monologo poetico – politico di Giorgio Gaber, Qualcuno era comunista.

Il saggio di Lorenzo Orsi, Comunisti e rispettabilità. Identità sessuali e moralità dei comunisti italiani 1946 -1956 prende in esame la costruzione, come e perché, dell’identità e della rappresentazione dell’uomo e della donna comunisti, nei primi dieci anni di storia repubblicana del nostro Paese, dai sicuri approdi del mito ideologico all’improvvisa caduta delle certezze nell’ ”indimenticabile 1956”.

Con Sandrino Petri: un sindaco comunista nella provincia bianca, Stefano Bucciarelli offre ai Lettori un dettagliato e argomentato lavoro sulla personalità di Alessandro Petri (1893 . 1983), viareggino, socialista antimilitarista nella Grande guerra, antifascista negli anni del regime, prima sindaco “provvisorio” della sua città e poi eletto negli anni dell’immediato dopoguerra. Amministratore comunista stimato e amato dai suoi concittadini svolse con imperterrito impegno e abnegazione l’arduo compito di dare risposte concrete alle assillanti e innumerevole urgenze della sua gente nel difficile periodo postbellico. Una figura esemplare per la sua coerente attenzione al bene pubblico, rispettata dagli stessi fascisti e dagli avversari politici.

Nel contributo di Emmanule Pesi, La nascita e i limiti organizzativi del partito nuovo in Lucchesia 1943-1948, è presa in esame, calandola nella realtà locale, la tematica della elaborazione della prospettiva politica della “democrazia progressiva”, già elaborata dal Partito comunista nel corso della lotta di liberazione, e della costruzione del necessario strumento per realizzarla: non più un partito di quadri, ma un “partito nuovo”, nazionale e di massa.

In La questione di Trieste a Lucca (e una conferenza di Vittorio Vidali a Lucca, 1 ottobre 1953), Armando Sestani espone la tormentata vicenda del confine orientale italiano negli anni del dopoguerra e come questa, divenuta uno dei simboli della guerra fredda, sia stata rielaborata dalle forze politiche lucchesi. Particolarmente delicata la posizione del Partito comunista stretto tra la fedeltà all’Urss e la condanna del leader jugoslavo Tito come populista antisovietico, le memorie della vittoriosa guerra antinazista e gli interessi nazionali. Nel primo autunno del 1953, a chiarire la linea del partito, viene inviato a Lucca Vittorio Vidali, triestino, commissario politico in Spagna del celebre V Reggimento col soprannome di Carlos, dirigente del Partito comunista del Territorio Libero di Trieste, consigliere comunale della città e deputato…

Francesca Gori nel suo Il fondo della federazione provinciale di Lucca del Partito comunista italiano 1969 – 1989 dà conto del lavoro di analisi, inventariazione e riordino del materiale custodito presso l’Istituto storico della Resistenza e dell’età contemporanea in Provincia di Lucca, contestualizzandolo e indicando i criteri adoperati per la sua sistemazione.

Questa sezione della rivista è poi arricchita dal ricordo, insieme meditato e intriso d’affetto, di due figure di militanti, Fernando Cecchi, detto “il Bebi”(Lucia Del Chiaro – Rosano Paoli, Lo chiamavano tutti “il Bebi”) e Milziade Caprili (Stefano Bucciarelli, Ricordo di Milziade Caprili), scomparsi ma rimasti nella memoria di molti, comunisti e non. Storie diverse, le loro, differenti i loro ruoli e le responsabilità nell’organizzazione politica comunista: li univa il fatto che vissero con pienezza l’idea di un agire comune, l’aspirazione alla trasformazione della società, l’urgenza della giustizia sociale. Due esponenti, ognuno a suo modo importante di come si è configurato il vasto popolo della sinistra in quest’area della Toscana, nella seconda metà del secolo scorso.

Come già avvenuto, sia pure in maniera discontinua e non sistematica per il passato, a partire da questo numero “Documenti e studi” aprirà la sezione Risorgimenti e ospiterà con regolarità lavori, contributi e saggi riguardanti vicende, personaggi e tematiche risorgimentali. Non si tratta di un ampliamento arbitrario degli interessi dell’Istituto e della sua rivista, quanto piuttosto del recupero di una serie di questioni civili, politiche, culturali presenti alla coscienza di una larga area di opinione pubblica e di studiosi come hanno dimostrato l’inaspettato successo delle recenti celebrazioni per il 150esimo anniversario dell’unità d’Italia e, con un particolare riferimento a Lucca, la riapertura del Museo del Risorgimento rinnovato nei criteri espositivi e nella fruibilità. Risultati confortanti, ben accetti e utili perché non sono pochi, a tutt’oggi, i nodi storiografici che attendono di essere ripensati in maniera convincente ed esaustiva: pensiamo alla riflessione sul rapporto dominatori e dominati nel processo di formazione dello Stato unitario; al dibattito, ancora aperto, sul giudizio da dare intorno all’Italia postunitaria, la destra storica e la sinistra parlamentare, l’Italia liberale e giolittiana; il ruolo da attribuire ai “vinti”, siano essi i legittimisti filoborbonici o i repubblicani e i protosocialisti; le polemiche, innescate da alcune fortunate pubblicazioni edite nell’anno anniversario, circa il trattamento riservato al nostro Mezzogiorno dalle classi dominanti del paese, la discussione su come e perché il civile Risorgimento sia potuto degenerare nella barbarie del fascismo. Un complesso di problemi sui quali la storia contemporanea e i suoi operatori sono chiamati a fornire risposte nuove, non banali, argomentate e documentate, ampliando i territori d’indagine, facendo riferimento a sempre più vaste e organizzate risorse archivistiche, praticando più sofisticati metodi d’indagine.

È sulla base di tale esigenza che i Lettori trovano in questo fascicolo della Rivista due impegnati contributi: Roberto Pizzi con Collodi, personaggio del Risorgimento mette a fuoco Carlo Collodi come figura notevole del nostro riscatto nazionale, evidenziando il rapporto tra l’autore della Storia di un burattino e la Lucchesia, gli elementi che collegano lo scrittore a Lucca e l’attenzione riservata alla sua opera da importanti intellettuali lucchesi, mentre Le memorie epigrafiche e monumentali di Tito Strocchi in provincia di Lucca di Elena Profeti ci dimostrano come l’epopea garibaldina, incarnata a Lucca da Tito Strocchi, si sia mantenuta nella coscienza dell’opinione pubblica locale attraverso l’opera di artisti noti e meno noti che ne materializzarono il ricordo nella pietra.

Di Silvia Q. Angelini, Laura Di Simo, e Gianluca Fulvetti le pagine dedicate alle recensione librarie.


Numero 35 di “Documenti e studi”, semestrale dell’Istituto storico della Resistenza e dell’Età contemporanea in Provincia di Lucca