30 ottobre 2019

“Il volto dell’amore” di Flavio Caroli


di Gianni Quilici

                           Flavio Caroli, è stata una delle  scoperte, a beneficio del grande pubblico, di Fabio Fazio. Scoperta benefica, perché ci troviamo di fronte ad un critico colto e acuto, appassionato e desideroso di comunicare con il pubblico e con  la capacità di saperlo fare.
Leggo “Il volto dell’amore”, e senza essere un critico d’arte, ne traggo benefici.
Perché?

                        Primo: Caroli ama delineare percorsi nella pittura, che, attraverso un tema, in questo caso l’amore, consentano di creare un filo che collega tra loro, con le loro specificità e differenze, secoli, correnti, pittori, senza ignorare, peraltro, la letteratura e il teatro.
                      
Secondo: l’amore viene trattato da Caroli nelle infinite possibilità in cui esso si può esprimere: dalla sensualità gaudente pagana degli affreschi pompeiani a quella introspettiva di Leonardo da Vinci, che non solo rappresenta, ma interpreta la psicologia  dell'amore; dall’amore sacro e familiare del Cinquecento all'amore naturale della pittura seicentesca e settecentesca; dall'erotismo lieve e carnale di Antonio Canova a quello magico e intenso di Francisco Goya; dal romanticismo risorgimentale di Francesco Hayez all'ossessivo tentativo di cogliere l'invisibile attraverso il visibile di Edgard Degas.
Alcuni dei percorsi segnano le tappe di un viaggio che vedrà le sue colonne d'Ercole sulla soglia del XX secolo, quando l'inconscio freudiano entrerà con prepotenza nella cultura occidentale.

                         Terzo: in questo percorso Flavio Caroli sceglie alcune opere, che a suo giudizio possono essere paradigmatiche, analizzandole con l’occhio di chi sa cogliere la complessità  nei suoi aspetti molteplici: storici, formali e  di senso.
                        
Quarto: Tutto questo consente al lettore, e al critico, una partecipazione attiva: di aggiungere o di tagliare, di polemizzare o di ampliare, perché Caroli ha il merito da una parte di essere esplicito nelle sue scelte e nei suoi giudizi; dall’altro di lasciare, anche a se stesso, la curiosità di giocare  creando nuovi itinerari dentro la storia dell’arte, come ha continuato a fare con altri libri. Non soltanto uno storico dell’arte rigoroso, ma anche giocoso, aperto e, per certi versi, smisurato.

Flavio Caroli. Il volto dell’amore. Oscar Mondadori. 2011.   
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29 ottobre 2019

"Lucca 1968: la cultura del movimento" di Gianni Quilici


Uno degli articoli tratti dal libro "E la vita cambiò - Il '68 a Lucca-" 
di autori vari. Carmignani Editrice

Che senza gli anni ’60 non ci sarebbe stato il ’68 è una banalità, tanto il pensiero è scontato. E’ soprattutto, infatti, a partire dagli anni ’60, che irrompe quel vento libertario che investe classi sociali e costumi, cultura e linguaggi fino ad invadere la politica. Anzi, si può dire che il vero '68 sono gli anni 60, compreso naturalmente il biennio 1968-69. Perché sono gli anni esistenzialmente più complessi, perché più aspro è stato il conflitto repressione-liberazione, perché la prima ondata di liberazione non è stata per niente legata a ideologie ossificate, perché anche il linguaggio è stato messo in discussione in molteplici modi e con una radicalità, che non è diventata però formalismo.

Per non farla troppo lunga, facciamo un esempio: il cinema.  Dagli inizi degli anni ‘60 esplode, infatti, un’ondata di film che rompono con il passato: il Free Cinema inglese e il cinema underground, la nouvelle vague francese e il nuovo cinema italiano, il cinema novo brasiliano e  i film della New Hollywood. Ecco emergere nuovi registi scandalosi e provocatori, visionari o anche sgrammaticati:  Cassavetes e  Mekas,  Rocha e  Oshima,  Godard e Truffaut, Resnais e Rohmer, Fellini e  Antonioni, Bellocchio e Bertolucci, Pasolini e Carmelo Bene e tanti altri ancora. E così si potrebbe dire per la musica, per le arti figurative, per il teatro, per il giornalismo, per la letteratura.

Primo scipero studentesco a Lucca

E tuttavia il movimento studentesco, che scoppiò impetuosamente e improvvisamente anche a Lucca, ha alle spalle un retroterra culturale modesto, prodotto di una società conformista, dove domina una cultura cattolico-democristiana e una scuola selettiva e classista che reprime creatività e partecipazione. Certo esistono in città punte avanzate, soprattutto individuali,  nella musica e nella letteratura, nella pittura e nel cinema, ma circoscritte al centro storico in un ambito sociale  di media e piccola borghesia.

Ci sono tuttavia alcuni avvenimenti politici internazionali e nazionali e  correnti di pensiero, che agiscono sotterraneamente in coloro che  frequentano le Università e anche in alcuni che saranno protagonisti del ’68 lucchese. In sintesi:
1) la guerra di popolo dei vietcong, che, in modo imprevedibile, oltre ogni logica di rapporti di forza,  sconfigge la grande potenza economico-militare degli Stati Uniti;
2) la presenza di esperienze cattoliche avanzate, come conseguenza del Concilio Vaticano II, e la grande influenza che avrà la pubblicazione  di Lettere ad una professoressa di Don Milani;
3) la presenza di un’avanguardia sindacale e operaia anche a Lucca, legata alla rivista dei Quaderni Rossi, che si sta organizzando nelle fabbriche più grandi del territorio;
4) il movimento dei beat lucchesi, che paradossalmente vive a Lucca una delle esperienze culturali più vive e avanzate e che per le qualità culturale e l’impatto provocatorio  dei suoi leader agisce profondamente nell’immaginario giovanile e non solo.  



La stragrande maggioranza degli studenti, che parteciperà ai movimenti del 1968-69 è però, a differenza di Pisa,  formata,  in gran parte, da studenti medi, ragazzi e ragazze giovanissimi,  senza bagagli culturali alle spalle e che scoprirà in quei mesi e in quegli anni le sue ideologie e il suo immaginario, le sue letture e i suoi maestri.
Ben presto su tutti dominerà la triade, tante volte gridata come slogan dei cortei, Marx, Lenin e Mao Tse Tung. Di Marx si legge soprattutto Il manifesto del partito comunista”, di Lenin il Che fare? e Stato e rivoluzione, di Mao Il libretto rosso e opuscoli specifici del suo pensiero. Sono letture molto ideologiche, non collocate nel contesto di un capitalismo avanzato, che muterà progressivamente e rapidamente condizioni di vita,  classi sociali, consumi e culture. Pochi di loro leggono e utilizzano i Quaderni dal carcere di Gramsci, necessari per capire la specificità italiana ( la formazione dello Stato e la questione cattolica e meridionale, la forma del Partito e il concetto di egemonia). Ancora meno vengono letti  Marcuse e i filosofi della Scuola di Francoforte, che avevano studiato quelle società di tardo capitalismo, di cui entrava a far parte anche l’Italia. Colpisce, invece, e colpirà sempre di più l’immaginario la vita politicamente avventurosa di Ernesto Che Guevara, la sua idea di rivoluzione permanente e la necessità di creare un “Hombre nuovo” e la sua immagine riprodotta in un manifesto  farà il giro del Pianeta ed è tuttora una delle icone simbolo del ‘900.
Molto importante è  la musica, come molti interventi hanno qui nel libro sottolineato. Perché la musica ha un’immediatezza in sé che la parola e l’immagine non possono avere. E quindi sia le canzoni dei cantautori nostrani da Guccini a Fabrizio De Andrè che quella gioiosa, rivoltosa, profetica che arrivava dai Beatles e dai Rolling Stones, dai Pink Floyd e Bob Dylan rappresentavano una visione del mondo “altra” rispetto al conformismo censorio e mortifero dell’Italia dominante. 
Il beat lucchese. Bruno Lugano
Non fanno, invece parte dell’immaginario e del dibattito lucchese, il cinema e la letteratura, che rimangono consumi privati, non sono oggetto ne’ di dibattito (se non in casi ristretti), ne’ soprattutto di attività produttive. Non ci sono a Lucca romanzi, racconti, poesie in quegli anni, non ci sono filmati e, purtroppo, non ci sono neppure foto, se non pochissime e casuali.
Certo c’è chi continua a leggere individualmente. E’ sempre vivo il mito on the road di Jack Kerouac e l’urlo di Allen Ginsberg, intriga l’erotismo vitalistico di Henry Miller o l’avventura mistica di Herman Hesse e forse anche la testimonianza intima del Mestiere di vivere di Cesare Pavese.
Vale un discorso simile anche per il cinema. Prima durante dopo il 68 escono film, molto diversi tra loro, che rappresentano i sentimenti e l’atmosfera di quegli anni: la rabbia e la fuga, il viaggio e  la rivolta, la lotta e i mutamenti di costume e di linguaggio. Film, molto diversi tra loro: Pugni in tasca, Fragole e sangue, Cinque pezzi facili, Woodstook,  Easy Reader,  If, Antonio Das Mortes, Blow up, “Teorema, Porcile,  ,Zasbrinski Point, 2001 Odissea nello spazio, Nostra signora dei turchi, Grazie zia. Mash, Festa per il compleanno del caro amico Harold, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, Z l’orgia del potere, 12 dicembre e tanti altri. Alcuni di questi film sono stati certamente visti dai “giovanissimi sessantottini”, ma non hanno avuto spazio alcuno a livello pubblico come strumenti di riflessione e di confronto.

Forse l’unico personaggio che si impone, sicuramente nel dibattito nazionale, e, nei suoi limiti municipali, anche a Lucca, è Pasolini. Il regista-poeta-polemista, infatti, ha il coraggio e l’intelligenza sociologica da una parte di essere solidale con il movimento (realizzerà per Lotta Continua il film 12 dicembre), ma insieme di essere molto critico con la famosa poesia sugli scontri polizia-studenti di Valle Giulia a Roma. A rileggerla a distanza di tempo oggi,  al di là della modestia prosaica dei versi riconosciuta dall’autore stesso, va riconosciuto che Pasolini coglie alcuni dei limiti antropologici, oltre che culturali, del movimento stesso.  
In realtà in quegli anni tutte le energie ( o molte di esse) vengono concentrate nell’attività politica. La politica viene a coincidere, infatti, in buona parte con la vita, perché dentro la politica non ci sono soltanto riunioni, volantinaggio, assemblee, ci sono anche i rapporti interpersonali, sentimentali, sessuali. E c’è infine la propria identità in gioco in un confronto-scontro in divenire. C’è poco tempo per leggere o per scrivere, se non per ciò che riguarda strettamente la politica. 

27 ottobre 2019

"Voglio ringraziare Jack" di Maurizio Della Nave



Nel 1970 avevo 14 anni e durante quel novembre per caso ascoltai i miei primi due LongPlaying, “The Piper at the Gates of Dawn” ed “Atom Hearth Mother” dei Pink Floyd. Neppure un mese dopo mi capitò tra le mani una copia di “Sulla strada” di Jack Kerouac.

Quei due dischi li riascoltai spesso, talvolta mentre percorrevo il mio primo viaggio attraverso quelle pagine di Jack. Durante gli anni successivi ascoltai molti altri dischi e lessi molti altri libri, sempre seguendo un fiume in piena di emozioni e lentamente scoprendo mondi meravigliosi; qualche anno dopo avevo 19 anni e quel libro di Jack iniziò a dormire sotto la mia testa durante le mie prime lunghe fughe in autostop…

Forse, se non avessi ascoltati quei due dischi, se non avessi letto quel libro, se non avessi intrapreso mille viaggi attraverso tutte le direzioni che incontravo, adesso la mia immaginazione e la mia mente creativa non sarebbero state le stesse.

Dunque voglio ringraziare Jack. Certo, non solo lui, ma lui con quello e gli altri suoi libri ha dato il via al mio personale viaggio che sta ancora continuando crescendo esplorando… Un percorso che, lasciando poi Jack ed i suoi amici in lontananza, ha attraversato una manciata di anni, quei ’70 che mi hanno trovato troppo piccolo per il ’68 e forse un po’ grande per il ’77 e che mi hanno catapultato nel fantastico caos musicale e artistico degli ’80. Non avrei potuto desiderare o immaginare niente di più fantastico esaltante emozionante irripetibile sconvolgente! (Thanks a lot, life!)



Dunque voglio ringraziare Jack e molti altri, per avermi accompagnato, e devo ringraziare anche me per aver saputo ben camminare attraverso tutti quei mondi, senza troppi errori e con la capacità di accogliere esperienze con discernimento e profonda attenzione, tuttora assieme a tutte quelle musiche e tutti quei libri che si fanno sentire nella mia testa mentre vivo amo lavoro cammino creo osservo ascolto e poi tutto il resto…

 

"L'operetta italiana" di Luciano Luciani

Accompagnano l'ascesa del fascismo le melodie dell'operetta italiana

Piuttosto appannato oggi il fascino dell'operetta, la “piccola lirica” che nella stagione più piena del grande melodramma ottocentesco  cominciò ad alternare brani musicali, danze e parti dialogate: forse ci appaiono troppo rosati, evasivi e fiabeschi i suoi temi poco adeguati ai tempi complicati e difficili con cui ci troviamo quotidianamente a dover fare i conti. 
A partire da La rose de Saint-Flour di Jacques Offenbach, 1856, le melodie di questo nuovo genere teatrale, specchio della società borghese di cento e passa anni fa, una Belle Époque carica di attese ottimistiche, accarezzano ancora piacevolmente l'orecchio, nonostante l'irrimediabile caduta di tante aspettative, di tante attese ottimistiche sorte in tutta Europa tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del secolo scorso. 
Una meteora luminosa e breve l'operetta, legata a particolarissime condizioni, piuttosto rapida la sua stagione. Però, le immagini che evoca hanno i colori vividi e smaglianti e gli scenari suntuosi di un'età che noi per primi, con forza, vogliamo spensierata e felice, popolata com'è di aristocratici ricchissimi, di località amene, di scenari ridenti, di amori mai del tutto impossibili, di problemi dinastici o politici mai irrisolvibili... 

Esemplare in tal senso risulta l'operetta italiana Il Paese dei Campanelli, 1923, tarda declinazione nostrana di un genere ormai in decadenza nel resto d'Europa, progressivamente sostituito dal teatro di varietà e dalle prime commedie musicali. 

E così, mentre gli italiani assistono impotenti agli ultimi sussulti dello Stato liberale e si consumano, una a una, le residue garanzie della democrazia parlamentare asfissiata dal fascismo incombente, niente di più evasivo - e comodo - che raccontare di una località  favolosa, situata più o meno dalle parti dell'Olanda, dove campane e campanelli hanno il vezzo di cominciare a suonare ogni qualvolta che mogli e fidanzate sono sul punto di tradire i loro uomini... 
Una fiaba scritta dal librettista Carlo Lombardo e svolta musicalmente, con garbato gusto liberty, dal maestro Virgilio Ranzato, violinista alla Scala di Milano con Toscanini e concertista di fama. La prima del Paese dei Campanelli, si tiene al Teatro Lirico di Milano il 23 novembre del 1923: il giorno 13 dello stesso mese il Senato aveva approvato a ristrettissima maggioranza la nuova legge elettorale che aboliva la rappresentanza politica proporzionale e reintroduce il sistema maggioritario. 
Ma nell'operetta, si sa, non c'è la tragedia della storia, non compaiono mai o sono solo appena accennati i drammi dell'esistenza: a volte vi circola un po' di nostalgia, un lieve palpito di malinconia per il tempo che passa, per la giovinezza e la bellezza che ci sfuggono. 

Due anni più tardi i due massimi esponenti dell'operetta tricolore, appunto Lombardo e Ranzato, tentano di bissare il successo ottenuto con Il Paese dei Campanelli. Ed ecco, per un pubblico in vena di facili esotismi, la storia di Cin-Ci-Là, bella e navigata attrice francese che, in quel di Macao, tra mille equivoci maliziosi, riesce a portare a termine l'educazione sentimentale del principe Ciclamino e di Myosotis, sua promessa sposa e fidanzata inesperta.  Nozze finali e allegre feste in tutta Macao:

O Cin-Cin-Là
O Cin-Ci-Là,
mordi, rosicchia, divora,
tormenta pure chi ti vuol bene,
le tue catene son fatte di fior!

Ma ben altre sono le catene che si preparano per il popolo italiano. Il 26 dicembre 1925, una settimana dopo la prima milanese di Cin-Ci-Là al teatro Dal Verme, viene varata una legge sulle prerogative del capo del governo, Benito Mussolini, responsabile della propria azione politica solo di fronte al re, l'unico che lo può dimettere. Le Camere sono esautorate. Nello stesso giorno un decreto stabilisce che i funzionari pubblici che non diano piena garanzia di adempimento dei loro doveri o si pongano in condizione di incompatibilità con le direttive generali del governo possono essere licenziati.

02 ottobre 2019

"Vocabolario Bagaladese" di Francesco Antonio Romeo

 LA FORZA DELLE PAROLE
di Luciano Luciani

                              Tra gli alfabetizzati solo una minoranza scrive: poesie e memorie autobiografiche, racconti e romanzi... Ma un vocabolario, e per di più dialettale, è cosa rara e notevole. Francesco Antonio Romeo, “Ciccio” per familiari e amici, dopo una vita trascorsa in mezzo ai libri, - ha lavorato per quarant'anni presso la Biblioteca Universitaria di Pisa - finalmente in pensione, ha deciso di scriverlo anche lui un suo libro. 
                          
                         E come argomento ha scelto proprio quello di cui i libri, il materiale della sua professione, sono pieni, ovverosia le parole: per salvarle. perché nelle parole, - vocaboli e verbi, proverbi e modi di dire, nomi, toponimi e soprannomi - lì dentro, ci siamo noi: la nostra storia, il passato, il presente e anche il nostro futuro. 
                                 
                           E siccome custodirle tutte risultava un po' troppo impegnativo, “Ciccio” ha scelto di tutelare almeno quelle della sua lingua nutrice, il dialetto di Bagaladi, 460 metri slm 1025 abitanti, suo paese d'origine in provincia di Reggio Calabria. Le ha raccolte, le parole, con la pazienza certosina adeguata alla bisogna e con il rigoroso senso dell'ordine proprio della sua attività quarantennale.  Non da solo, ma - e questo merita di essere sottolineato - con un agire collettivo, aperto al nuovo e alla contemporaneità: il “gruppo facebook” A Bagaladi parramu così che lo ha aiutato non poco nella ricerca. 
                               
                            È stato costruito così il Vocabolario Bagaladese / Bagaladese-Italiano Italiano-Bagaladese, che nasce dalla necessità, acutamente sentita da questo appassionato estimatore della cultura locale, di documentare le trasformazioni intervenute nel dialetto della sua terra: valorizzare le palore abbandonate, quelle che si riferiscono a oggetti e situazioni della tradizione ormai sostituite dai modi di vivere attuali, e mettere il luce le parole nuove, quelle della contemporaneità, rimodulate in dialetto. 

                               Scorrendolo, questo vocabolario, si ha come l'impressione di un intreccio di passato e presente, di ieri e di oggi... Succede che maturando, invecchiando, tutti noi, come accade all'Autore, diventiamo un po' nostalgici e un po' conservatori: di un altro tempo destinato a non tornare più, e anche delle sue parole. E quindi, come hanno fatto tanti prima di noi, scriviamo versi, elaboriamo storie, mettiamo sulla carta la nostra versione dei fatti accaduti allora... 

                                 Di sicuro quelle stagioni lontane, “povere ma belle” - ma per chi c'era soprattutto povere – non furono felici e neppure particolarmente serene. Furono, però, piene di “senso”, che è proprio quello che più ci manca oggi in questi nostri giorni intrisi di smemoratezza, cattiveria e violenza. Contro questo deficit, chi ha ancora voglia e forza continua a battersi con le armi della razionalità, della giustizia, della conoscenza di cosa è giusto e cosa sbagliato. Sempre dolorosamente consapevole che “la maledizione degli uomini è che essi dimenticano”, ma altrettanto cosciente che un antidoto efficace contro una tale condanna è quello di provare, intanto, a salvare le parole e magari, perché no, a inventarne di nuove.

Francesco Antonio Romeo, Vocabolario Bagaladese / Bagaladese-Italiano Italiano-Bagaladese,  Città del Sole Edizioni, Reggio Calabria 2019, pp. 192, Euro 18.00