25 luglio 2022

L’ultima intervista" di Eskhol Nevo

 

di Giulietta Isola

”Un tempo mi alzavo felice e oggi mi alzo triste. Non sono certo di sapere il perché, né ho idea di come uscirne”
 
        Più di dieci anni fa sullo scaffale di una libreria fui attratta da “La simmetria dei desideri” di un certo Nevo, nome a me sconosciuto, mi conquistò, prima della lettura, il fatto che fosse israeliano, lo amai da subito e da allora non lo ho mai lasciato. 
        L’ultima intervista è un concentrato delle sue buone qualità a cominciare dalla scrittura sempre fluida e la sensibilità mai buonista, con cui tratteggia la psicologia dei personaggi. Lo schema è curioso: un’intervista ricevuta via mail alla quale rispondere che Nevo ha la capacità di far diventare un romanzo. Le risposte costruiscono via via una vera e propria narrazione, il protagonista scrittore allarga il campo, divaga, si muove liberamente tra presente e passato, si confessa uscendo dal ruolo di intervistato, parla della sua depressione, del momento difficile che vive con la moglie Dikla, dei suoi bambini, dei discorsi politici che scrive, della paura di perdere l’amico Ari gravemente malato e, soprattutto, converte, trasforma, trasferisce, ogni evento ed emozione della vita in letteratura. 
       La moglie lo rimprovera per questo: ami me o il mio personaggio, sembra domandargli; abbiamo una vita nostra o per te la vita è occasione di un furto, una sottrazione, che rubi per riempirne i tuoi romanzi? 
        L’anonima intervistatrice pone domande generiche alle quali Nevo non risponde mai direttamente, utilizza ogni domanda per innescare un ricordo dal quale nasce un racconto o una indagine dolorosa nel presente . 
         Nevo è straordinario nell’aprire nuovi percorsi e nell’esplorazione del quotidiano, il “non memorabile”, quello delle preoccupazioni, ansie, desideri frustati, l’andare avanti con pesantezza ed intanto riflette sulle cose perdute, divaga fantasiosamente, ricorda vicende del passato, assembla e mette le tessere al posto giusto per rivelare la storia di un uomo non sempre perfetto, di un matrimonio, una famiglia, un Paese. 
         Nevo soffre di nostalgia , anche in queste pagine le lascia grande spazio, è un fil rouge che percorre tutto il libro assieme all’arte ed all’amore, non manca mai il suo sguardo profondo e sensibile, tanto empatico da farmi riconoscere nelle sue atmosfere al di là di ogni diversità culturale, è ironico e coraggioso, riflessivo su temi delicati come la situazione in Israele ed i rapporti fra le etnie, la Shoah, è effettivamente capace di non mentire, o meglio di non mentirsi, e consapevole che non esiste verità assoluta, gli errori vanno vissuti per capirli e assolversi . Molto consigliato.
 
L’ULTIMA INTERVISTA di ESHKOL NEVO NERI POZZA EDITORE




20 luglio 2022

"Le separazioni d'argento" di Daniele D'Arrigo e Laura Guidugli

 

di Elisa Bertoni

    Le separazioni d'argento: diario, romanzo epistolare, romanzo di formazione, orto di aforismi, giallo, romanzo psicologico o allegorico: la lettura di questo libro rende già difficilissimo inquadrarlo come genere. L'assenza di una sua perspicua identità, lungi dall'apparire una debolezza strutturale che toglie organicità, rappresenta invece l'ingrediente che lo rende prezioso, l'azzardo che rinnova, il rischio che lo fa unico nella sua assenza di genere. Le separazioni d'argento è innanzitutto se stesso, un romanzo che sfugge al confronto.

    Un libro che quasi non inizia e non finisce: “è proprio vero […] che non finisce mai niente” afferma l'ultima delle varie voci narranti a cui è affidato di mettere il punto conclusivo. In esso, non solo i narratori, ma anche i luoghi e i tempi, esterno-interno, passato-presente si confondono in un intreccio variegato proprio come quello dell'interiorità; la peculiarità del libro consiste proprio nel tentativo di costruire una fotografia non solo dei luoghi che si affacciano davanti allo sguardo dei personaggi, come l'uliveto di Antonio, la casa di Cremona, la villa in Camargue e la salita di Ilio alla grotta, ma anche e soprattutto lo scatto al mondo interiore; uno scatto “picassesco” per il tentativo di ritrarre tutte le prospettive ed anche “futurista”, perché se ne coglie il continuo movimento, mutevole e cangiante: la fotografia che rimane risulta impenetrabile ma comunque presente nella sua possibilità, evidente nella sua imprevedibilità, al contempo umile e presuntuosa nel volersi avvicinare all'infinito, all'assoluto rimanendo tuttavia relativa e soggettiva, singolare e plurale, sfocata e chiarissima.

    Indubbiamente anche un romanzo dialettico, in cui il numero due ha una importanza centrale.

    Partiamo da Annandrea, che costituisce il personaggio principale. Già il nome, doppio, riflette da un lato la sua duplice nazionalità italo-tedesca, ma nello stesso tempo, essendo Andrea per gli italiani un nome essenzialmente maschile, esso rivela una specie di ambivalenza, il maschile e il femminile che è anche specchio dei due autori, Daniele e Laura, e apre le porte a quel nucleo di mistero, di segreto, di detto e non detto che costituisce uno dei motivi di fascino del romanzo. Perché in fin dei conti la magia di questo libro consiste proprio nel rendere protagonista il lettore, costantemente chiamato a confrontarsi e ad interpretare, nella consapevolezza che in questo sforzo avrà anche una preziosa chiave per conoscere se stesso, dunque in sostanza un romanzo di formazione più per il lettore che per i personaggi della storia. Un libro assolutamente vivo, non fatto per un'unica lettura, ricchissimo di voci che provengono dallo sprofondo oscuro che, come una tinta nera, può spaventare ma allo stesso tempo contorna le nostre vite donando ad esse il risalto che non le banalizza, l'energia che non le uniforma.

    E il doppio è presente anche nella struttura ordinata del testo che cerca di contenere l'eruzione magmatica dei ricordi. Esso si divide in due parti, a cui si aggiunge un prologo ad apertura della prima ed un epilogo a chiusura della seconda. Esterno-interno, maschile-femminile, ordine-caos: solo tre esempi dei contrasti che continuamente fluiscono nel testo.

    Due sono poi gli amici dei protagonisti, Gemma, l'amica di Annandrea ed Ilio, l'amico di Antonio, dai caratteri così diversi ma ugualmente appassionati; due sono le donne di Antonio, e Annandrea risulta sempre divisa tra due uomini; due sono i Duccio che misteriosamente si danno il cambio e non smettono di rincorrersi tra le pagine; due sono le voci narranti della prima più ampia parte, e altre due quelle della seconda parte. Queste voci intrecciano il presente ai ricordi, quasi che la memoria, nella sua pregnante evanescenza emozionale, riveli l'irriducibile savia schizofrenia che è la vita.

    Ma veniamo al titolo: “Le separazioni d'argento” rovesciano in modo quasi sarcastico e paradossale la cerimonia ben nota delle nozze d'argento, tanto più che il romanzo prende le mosse da una cerimonia funebre. Antonio e Annandrea vivono in modo assolutamente diverso venticinque anni di separazione; eppure qualcosa continua ad unirli. Si respira un'aura decadente che li avvolge nonostante il primo cerchi di trovare conforto nell'ordine di una vita in cui tutto è numero e niente pare lasciato al caso, mentre l'altra si getti a capofitto nell'emozione da carpire al volo, tra assenze e ritorni. Entrambi sembrano frustrati nei propri bisogni profondi, nei desideri più vitali e alla fine, la loro vita si rivela come una fuga lenta e inesorabile verso l'autodistruzione. Dice Annandrea: “A casa mi sentivo straniera. Senza volerlo capire, lo ero sempre stata... Distruggermi è stato l'unico modo per aiutarlo e per aiutarci. Distruggermi”. E ancora lei: “Appena fuori dal portone un'euforia vittoriosa, da dentro, spingeva le mie gambe verso la stazione all'ennesimo treno...E dopo un po' mi sono accorta che in tutto questo spostarmi ritrovavo sempre le stesse cose. Un mondo diviso”. E ancora, lontana dalla famiglia nel nuovo appartamento di Cremona: “Penso che ora ho bisogno di questo vuoto, che il vuoto mi corrisponde... Voglio abitare il provvisiorio...”.

    Il topografo Antonio, sfidato dalla penna di Annandrea e sconvolto dalla notizia della sua grave malattia, abbandona il suo mondo inappuntabile, apparentemente semplice e piatto, eruttando nel suo magma emozionale per mostrarsi dotato di un sentire tutt'altro che superficiale ed elementare. “Ho speso una vita per contenere gli imprevisti e ridurre il rischio, convinto di poter costruire il mio destino... Io ci ho provato a rifare le scene della mia vita, anche con queste pagine, ma parola dopo parola, fatto dopo fatto, mi accorgo che non ho più la forza di avanzare...E ora affogo nella confusione, come avessi perso l'alfabeto di casa mia”.

    Un filo lo tiene ineluttabilmente legato ad Annandrea, la quale appare fin dall'inizio come una donna sfaccettata, inquieta e affascinante nel suo tormento che si nutre di passione e libertà, alla ricerca di quella musica assoluta che sempre rincorre e che si rivela beffardamente solo illusione degna di una scritta sulla sua bara. Annandrea stessa dichiara che la sua vita è stato il tentativo di raggiungere suo padre, morto precocemente mentre ascoltava l'ouverture della Tosca. E ci rivela in un'immagine simbolica la sostanza della sua vita: il volo di un bimbo proteso verso le braccia aperte del padre: “Perché è un gesto semplice, la sensazione della libertà e la certezza della casa”.

     Il volo verso il padre. Questo è solo uno dei simboli che precedono la rivelazione di una realtà. Perché è anche un romanzo di cose rivelatrici, che fanno percorrere il lettore dentro un mondo intricato in cui l'oggetto è concreto ma allo stesso tempo significato da esplorare che rende la vita un affascinante e misterioso viaggio attraverso i suoi sovrasensi.

    Si pensi ad esempio all'immagine iniziale del vestito da sposa: “Mi alzai, osservai il vestito da sposa, l'esile corpetto di pizzo e trine sull'ampia gonna in seta disteso sul cotto del pavimento, lungo e liscio, come un animale senza vita. […] Continuavo a guardare l'abito abbandonato sul pavimento, come un fiore fradicio, senza più alcuno splendore, vanamente avida di riafferrare lo spirito di quella festa già lontana”. L'abito come un morto involucro descrive un matrimonio che pare già quasi morto al tripudio del suo inizio. E ancora il vomito di Annandrea che non riesce a tirar giù il boccone di lepre cacciata dal marito, non appena avverte i granelli di piombo: rifiuto della caccia diventa di fatto un rifiuto del marito e la fine di una relazione. Le cose precedono gli eventi.

    Anche Antonio che, mentre guida, aspetta di pulire il parabrezza quando è tutto coperto di gocce d'acqua, rivela in quest'azione quanto è grande l'irrazionalità che gli pullula dentro e che si svela a poco a poco, a partire dalla pioggia sul vetro: “Mi piace osservare le gocce che s'ingrossano e si sformano in pochi secondi e ti fanno sentire senza controllo. Solo in quel momento aziono e spengo il tergicristallo. Poi daccapo. Ogni volta aspetto qualcosina in più per ripulire il vetro, spingo il limite un po' più avanti osservando l'acqua che si ingoia la visibilità, come se piovesse direttamente dentro gli occhi”. La sua voglia di controllo lo spinge inevitabilmente ad affrontare il non visibile, l'oscuro che sfugge ad ogni essere umano in quanto tale.

      Già a questo primo assaggio è possibile cogliere l'inesauribile ricchezza di questo libro. Varie potrebbero essere le tematiche verso cui indirizzare la nostra ricerca.

1.      SCRITTURA. Annandrea affida alla scrittura l'ultima parte della sua vita, come mezzo per sciogliere i nodi irrisolti, in particolare quello con il figlio. La scrittura autobiografica è come la chiave di una stanza sconosciuta che si può aprire leggendo quelle pagine. La scrittura di sé non è solo terapia, ma è anche possibilità di penetrare in zone oscure, un misterioso viaggio che nello stesso momento in cui può spaventare, proietta in una dimensione che allarga le pareti stesse della nostra stanza. La scrittura è ciò che con delicatezza prende in mano i fili che nella memoria non si separano mai del tutto, li sdipana e li racconta nel loro groviglio di sentimenti e li intreccia nel fluire di un racconto variopinto come polifonico è il romanzo. Parlare dell'io non deve essere visto come egorroica esplosione di narcisismo incontrollato, ma come ricerca di autenticità che solo nel confronto con se stesso, con la portata delle proprie emozioni e sentimenti può senza presunzione di assoluto definirsi verità.

Ma nel romanzo c'è anche chi, come Ilio, scettico e materialista, considera la scrittura “lo scarico di uno sciacquone”, lo sbrodolio di cazzate esistenziali. Persino in questo caso la dialettica dei punti di vista fa parlare anche chi ha deciso di vivere una vita senza introspezione, ma non per questo con meno calore e slancio vitale. Nel romanzo, che celebra l'importanza della scrittura autobiografica, c'è dunque anche spazio per chi la scrittura la ridicolizza, riscattando tuttavia se stesso nell'abnegazione e nel sacrificio volto a salvare l'amico di una vita.

2.      MUSICA. Questo tema ricorre continuamente nel testo, sia in senso proprio, con l'ampio spazio dedicato a Beethoven, sia in senso figurato, come la voce che risuona e unisce i protagonisti della vicenda. La musica si associa a vari momenti e stati d'animo, il ricordo della morte del padre di Annandrea, la passione per Simon e le sue estasi nell'eseguire i brani al pianoforte, la vitalità della gioventù, la rabbia di Antonio. Curioso che anche il romanzo sia frutto di una scrittura a quattro mani, termine anch'esso musicale che ben si associa alla polifonia della storia.

3.      CACCIA. Tutto il libro è costellato di immagini legate alla caccia. I ruoli spesso si invertono ed il cacciatore diventa preda. Si potrebbe ricordare a questo proposito il mito di Atteone, un cacciatore che scorge nuda Diana, la dea della caccia e da lei viene mutato poi in cervo, dunque da cacciatore diviene preda. Annandrea, cacciatrice inconsapevole di uomini e donne, per il suo spontaneo fascino, viene a sua volta predata e dilaniata con uno stillicidio di incontri e la mancanza di centralità nel cuore dell'uomo che ama; Antonio, cacciatore per passione, predato dall'amore per sua moglie, e sul finale cacciatore e preda al tempo stesso, inseguito ed inseguitore: un po' la sorte di ogni essere umano quando si accorge che la vita è una gigantesca caccia in cui siamo al contempo costruttori e inseguitori dei nostri sogni, anche se talvolta prede degli stessi essendo i sogni a travolgerci. Si pensi alla frase che sul finale Annandrea affida alla sua infermiera: “Prima di fare una cosa, sognala”. Annandrea ha inseguito il suo sogno o si è fatta cacciare da esso?

4.      MORTE. Questa parola e tutti i termini che la possono rievocare sono chiave nel libro. Del resto anche una separazione si può interpretare come un lutto simbolico, come una perdita, un abbandono. Il libro inizia con un funerale e termina aperto con una sparizione. Immagini ed espressioni di morte si susseguono incalzanti. “E quando la morte ti sfiora contropelo, quando risucchia qualcuno con cui hai spartito un pezzo di vita, con questa persona muore anche qualcosa di te. Come portassimo dentro un numero di piccole morti da sperimentare prima della nostra”. E ancora: “La morte interrompe una vita, ma non quella degli altri che continuano ad avere fame”. Eppure nonostante questa presenza martellante e oscura il messaggio finale che ne esce non è di un nichilismo senza speranza. “Non finisce mai niente”, come già ricordato, sono le ultime parole del romanzo, dunque la negazione stessa della morte. Possono morire i sogni, gli individui, ma non la traccia del loro passaggio che continua a rimanere nei ricordi, nella scrittura, nel caso che fa incontrare e riaggancia vite e storie.

     Un romanzo dunque dalle molteplici chiavi di lettura, che non deve neppure spaventare nel timore che l'abbondanza di introspezione avvinghi il lettore nei gangli di una sterile ruminazione. E' infatti, come già affermato, anche un romanzo fotografico in cui i momenti interiori acquistano icasticità e non annoiano, un libro che bene si presterebbe ad una trasposizione cinematografica per la ricchezza dei personaggi e delle storie raccontate, per l'alone di mistero e di sospensione che avvolge i fatti e che interroga chiunque decida di approcciarsi ad essi. Che aspiri anch'esso a divenire una musica assoluta, come la sua protagonista?

Daniele D'Arrigo e Laura Guidugli. Le separazioni d'argento.

 

 

15 luglio 2022

"Una vita vissuta" di Mauro di Prete

 

  La preziosa testimonianza

di Luciano Luciani

        Non ne ho mai fatto parte, perché al tempo degli eroici furori, quando si trattò di scegliere in quale direzione indirizzare passioni, rabbie e voglie di cambiare il mondo, optai, anche per rispetto alla tradizione familiare, per l’usato sicuro del Pci berlingueriano…

        Però, per Lotta Continua e i suoi militanti ho sempre nutrito una particolare simpatia, non prive di una punta, e anche qualcosa di più, d’ammirazione. Mi piaceva la loro imperterrita radicalità, la pratica coerente della propaganda del fatto, la presenza, indiscutibile, tra le loro file di proletari e sottoproletari veri e la loro capacità di aprirsi, trovando anche linguaggi nuovi, a sempre nuove categorie di sfruttati: dagli operai di linea del nord ai pescatori del sud, dai proletari in divisa delle caserme ai dannati delle terra che languivano nelle carceri… 

       Mi attirava, anche, il loro giornale “Lotta Continua”, diretto da firme prestigiose – da Pio Baldelli, a Roberto Roversi, da Pier Paolo Pasolini ad Alexander Langer -  e capace di titoli ironici, incisivi, mobilitanti, talora poetici. Sì, in non poche occasioni mi sono dispiaciuto di non condividere con loro, con i militanti di Elleci, obbiettivi, slogan e pratiche politiche, ma tant’è.

       Quelle vicende, quei protagonisti, lontani ormai più o meno mezzo secolo, mi sono stati restituiti recentemente con pienezza di luci, ombre e contorni da una piccola pubblicazione, settanta pagine con qualche foto, a firma Mauro di Prete, titolo Una vita vissuta, stampato evidentemente alla macchia perché privo di qualsiasi indicazione editoriale a partire dal prezzo di copertina: “È a offerta libera” m’ha detto Paola, l’edicolante sul cui bancone mi sono imbattuto nel libretto. 

        Dentro, una “storia di vita” che inizia così, dura: “Sono nato a Pisa, in piazza della Pera. Mia madre lavorava all’ospedale, mio padre in quel periodo era in Germania, nella Ruhr, a lavorare nelle miniere di carbone. Sono nato il 25 settembre 1936” (p. 11). Percorre, Mauro, tutte le tappe del cursus honorum di un proletario toscano dell’immediato, durissimo, dopoguerra: famiglia impegnata allo spasimo a coniugare sopravvivenza e dignità; scuola poca, lavori molti, in Italia e in Europa, sempre precari, però, e maltrattati; simpatie politiche e sindacali, almeno fino ai trent’anni, orientate a sinistra, ma prive di particolari entusiasmi: dentro una rabbia montante contro lo stato di cose presenti da cambiare e presto, inventando nuovi strumenti di partecipazione alla politica e alla lotta sindacale… 

       Intanto, tutt’attorno accadevano cose straordinarie: per esempio, l’eccezionale crescita dell’economia italiana che registrava incrementi senza precedenti nei livelli d’occupazione, nei consumi interni, nelle esportazioni. Nuove laceranti ingiustizie si aggiungevano alle antiche e rendevano intollerabile, soprattutto alle giovani generazioni, un modello economico, sociale e culturale iniquo e autoritario: è il capitalismo, bellezza! 

       Per Mauro e migliaia e migliaia di giovani, come e più di lui, il comunismo si propose come l’orizzonte necessario e per lui e tanti altri si aprì la stagione – gioie e dolori, onori e oneri – della militanza politico-sindacale a sinistra del Pci: il Potere operaio pisano prima, Lotta Continua a Torino poi, quindi a Milano. Con l’Autore di queste pagine sempre dirigente naturale e carismatico in una lunghissima sequela di situazioni di movimento e di lotta, capace di trattare ora con gli esponenti più in vista dell’intellighenzia italiana di quegli anni, ora con l’operaio o il disoccupato o il detenuto…

       Ma anche il lungo ’68 italiano volgeva al termine. Di Prete racconta così quel crepuscolo velenoso: “Poi nel ’76 Lotta Continua, in un congresso a Rimini si sciolse. Con tutti casini che erano nati, con il femminismo. Che era il male minore… Il male peggiore, invece, era la lotta armata, Prima Linea, le Brigate Rosse. Tantissimi di Lotta Continua entrarono a far parte di queste organizzazioni armate, per cui c’è stato un periodo che la posizione di Lotta Continua era di dire “compagni che sbagliano”, poi “né con lo Stato, né con le Br. Posizioni da cani, equivoche…” (p. 49).

       E poi? Dopo cosa è successo? Morto un sogno, cosa ne è stato dei sognatori? L’autore ce lo racconta intrecciando i suoi ricordi, pubblici e privati, e le sue parole con quelli della moglie Isabella, militante genovese di Lotta Continua conosciuta a Milano alla metà degli anni Settanta. Un tempo lontano: da ripensare senza rabbia nelle ragioni della sconfitta e alla ricerca dei modi per riconvertirlo, quel fallimento, in una socialità da sviluppare secondo modi nuovi e originali: esperienze di commercio equo e solidale, microcredito, gruppi d’acquisto, produttori e artigiani, mercati contadini…      Consapevoli che “ogni cambiamento introduce mutamenti molecolari nelle esistenze di tutti. Essi penetrano nel costume, nella mentalità e, una volta acquisiti, difficilmente si perdono” (Canfora). Insomma, compagni, pazienza e ironia. Tanta 

Mauro Di Prete, Una vita vissuta, prefazione di Stefano Gallo, pp. 70, snp. Da cercare in rete o nei mercatini del Commercio equo e solidale.

12 luglio 2022

“L’altra amante” di Elisabetta Rasy

 


nota di Gianni Quilici

.        Un romanzo  costruito (dove preponderante è l’orchestrazione di Elisabetta Rasy), ma vero

Disperato, ma così sottilmente da risultare enigmatico. 

Originale e raffinato, ma impegnativo,  richiede tempo, non si può sorvolare, va assaporato, visualizzato per ciò che lascia trapelare

Quel tempo che (io) non ho dato.

       Una storia di amori latenti,  che nasce dalla lettura da parte dell’autrice di una novella di Honoré De Balzac , La fausse maitresse,  con quattro protagonisti (la signora Anna Marie Strohl, suo marito, l’Amministratore e Stella, donna marginale e irregolare ), una storia in cui sparisce il romanzesco dello scrittore francese, , “si spegne ogni urto e ogni urlo” come osserva Walter Pedullà, in cui rimane soltanto solitudine e desolazione, come se niente fosse accaduto.

Elisabetta Rasy. L’altra amante. Garzanti.