29 settembre 2010

"I colori dei sogni" mostra di Marco Minucciani

di Luciano Luciani

Nell’esperienza artistica di Marco Minucciani, oltre alla molteplicità dei temi ispiratori, sorprende, innanzitutto, la straordinaria propensione a intercettare l’infinità varietà delle forme, la gamma inesauribile dei colori, l’illimitata disponibilità dei materiali, le ricchissime possibilità offerte dai differenti accostamenti… Ovvero, lo spettacolo della vita nella sua perpetua ridefinizione, nel suo rinnovarsi in modo sempre originale, nuovo, singolare.

E Marco Minucciani ha la sensibilità – acutissima - e le tecniche - raffinate - per cogliere, rielaborare e riesprimere, nella sua personalissima maniera, il senso profondo del mutamento, della trasformazione, della palingenesi di cui tutti noi siamo attori e spettatori, protagonisti e semplici comprimari. In questo lo aiuta una formidabile vitalità, esistenziale prima ancora che estetica: un’entusiastica energia che lo ha portato per lunghi anni a viaggiare in Europa, America Latina e Asia, inanellando esperienze e raccogliendo suggestioni che ritroviamo puntualmente in tutta la sua opera: nella grafica, nelle tele, negli inconsueti, bizzarri, ‘oggetti’ tra pittura e scultura che costituiscono gran parte dell’ultima fase dell’artista lucchese.

Motivo ricorrente della sua produzione una fortissima tensione emotiva, un’urgenza assoluta di comunicazione che trova agilmente la strada di un linguaggio pittorico denso di colori marcati: i suoi rossi, i blu, i gialli, il suo nero realizzano sperimentazioni cromatiche godibilissime all’occhio e di pregevole fattura strutturale. La sua tavolozza è quella degli stati d’animo e delle passioni, la sua ricerca muove alla scoperta delle copiose risorse offerte dalla costruttività del colore e della incisività del segno. Ed è con questi mezzi che Marco Minucciani indaga, nei modi di un erotismo insieme curioso e prorompente, la figura femminile: quella formosa, opulenta, dai fianchi generosi e i seni abbondanti, benigna dispensatrice di vita, piacere, cibo… Oppure, pone al centro della sua attenzione animali a densissima valenza simbolica come il toro o l’elefante: ‘bestia altera’, sintesi della irrefrenabile, indomabile, forza creatrice il primo, raffigurazione della struttura del cosmo il secondo, significativo di un’idea di pace, stabilità, forza, prosperità...

Eccole le polarità lungo cui si muovono le linee di forza dell’ispirazione di questo appartato pittore, e non solo, toscano: l’ansia di vita che ‘rugge dentro’ e il desiderio della serenità, l’esaltazione delle emozioni e la ricerca, faticosa, dell’armonia con se stesso e con gli altri. Una condizione umana ancora contraddittoria, ancora in gran parte irrisolta, ma feconda. Sì, perché questo magma ribollente degli impulsi, degli slanci, dei sogni Minucciani ha saputo dominarlo e tradurlo in un alfabeto espressivo singolare e perennemente in trasformazione: recentissima, per esempio, la modalità compositiva che vede l’impiego intrecciato di smalti e materiali poveri, quasi ‘di riporto’ per la costruzione di oggetti fantastici a metà tra la vita quotidiana e il sogno: bizzarre sedie tagliate a metà; specchi capricciosi nel loro decorativismo assoluto; stravaganti, e inquietanti, manichini; estrose chitarre, strampalati attaccapanni… E, last but not least, le complesse figure realizzate in lamiera, tagliando, forzando, comprimendo la materia difficile e ribelle fino a costringerla in sofferte figure antropomorfe.

Nessuna metafora migliore di questa per raccontare Marco Minucciani e il suo lavoro.


Marco Minucciani è nato a Lucca il 24 ottobre 1964.

Ha frequentato l’Istituto d’Arte “A. Passaglia”, partecipando già in questa fase aurorale alle prime mostre collettive. Apprezzato ritrattista, ha esposto con successo a Lucca e Firenze e lavorato su commissione ad alcune decorazioni figurate in numerosi locali della sua città. Poi, i viaggi: prima in Europa, in particolare Olanda e Spagna, quindi l’America Latina (Brasile, Colombia, Venezuela) e l’Asia (Thailandia, Nepal, India). Nei suoi rari rientri in Italia ha vissuto e lavorato soprattutto a Firenze dove presso privati si può ritrovare gran parte della produzione artistica di questo periodo.

26 settembre 2010

"Spiare cenni arcani di partenza”: le Parole di Antonia Pozzi

di Davide Pugnana

Antonia Pozzi aveva grandi occhi scuri. Sembravano occhi fabbricati dalla natura per accogliere il dolore, in un fondo di estrema grazia. Non erano gli occhi di Alda Merini lavorati dal disincanto ironico, né quelli lucidi di perfezione di Marguerite Duras, la bambina nata nel Vietnam del Sud. Molti ritratti fotografici ci mostrano Antonia seduta sopra una roccia di montagna, una piccola viaggiatrice, fasciata di solitudine all’ombra di pareti altissime. E in quella penombra, lo scintillìo degli occhi da fanciulla in fiore sembravano riflettere un paesaggio che non vediamo, un al di là inaccessibile come gli infiniti leopardiani: una landa lucidata dal vento, percorsa da fremiti di luce e silenzi, da suoni e lontananze.

Quando lo stesso obiettivo la seguiva nelle stanze della casa, l’arco delle labbra si contraeva; diventava un ferita sottile, un taglio sotto la linea netta del naso; gli occhi si pietrificavano in due laghetti marmorei, come quelli delle nobili donne del Bronzino. Il suo sorriso ricordava la disperazione vitale e la feconda malinconia dei sorrisi di Silvia Plath. Come la bella poetessa americana in lotta contro gli anni Cinquanta, anche Antonia si è uccisa presto, a soli ventisei anni, rompendo la campana di vetro che nutriva la sua sensibilità e permetteva alla sua vena artistica di non perdere la lucidità necessaria per trasformare la vita in parole, “asciutte e dure come sassi o vestite di veli bianchi strappati”.

“Vivo la poesia come la vene vivono del sangue”, scriveva un’Antonia ventenne nel suo diario. Era nata nel 1912, in una Milano brillante di spregiudicatezza ed eleganza, che tanto piaceva a Stendhal; era caduta nelle trame di un romanzo familiare subito biforcato: una madre distante, presa da impegni mondani, e una Antonia bambina che ripiegherà il suo affetto su di un padre che amava portare l'intelligenza della figlia nella società milanese come un fiore all’occhiello; che interveniva con mano pesante sui suoi scritti, censurando tanta parte della sua storia intima, e, nel contempo, dava in pasto agli amici la pubblicazione del suo diario in poesia.

Quel paesaggio che non vediamo nelle foto fa parte di una toponomastica lombarda che si snoda dalle sponde del Ticino alle valli montane di Lecco, con un fuoco spaziale bel delimitato: Pasturo, il luogo d'intensità, reale e magico, nel quale Antonia si rifugia per leggere e scrivere, tra boschi di aceri e abeti, tra sentieri che portano fin sulle cime più alte. Anche lei, come Emily Dickinson, potrebbe dire: “L’infinto ha la latitudine di casa” . Ma in questo spazio scriverà cose meravigliose: le sue liriche nascono da un talento artistico - e critico - figlio di un tempo biologico brevissimo, ma di un'altrettanta precocità espressiva e una profondità di pensiero affini a precedenti illustri, nella storia dei giovani cari agli dèi, quella delle libere comete luminose alla Rimbaud.

La storia della vita di Antonia è stata segnata da una precoce aspirazione alla morte e da una acutissima percezione della malinconia, trasformata spesso nella coscienza dello scorrere fuggitivo del tempo, sentito come epifania della inconsistenza e della friabilità della vita. Un’immagine poetica fissa questa precarietà, questo intimo doloroso: “Fermi sugli argini/ reggeremo lanterne/ a esplorare/ il pericolo dei ponti” (Morte di stagioni). La malinconia delle nature creative mostra questi due volti: una cifra che, nel processo conoscitivo, si nutre dello Stimmung, ossia della vertigine di gioia e dolore che porta a scrivere esplorando bordi sfrangiati e abissali, con in mano una “lanterna”; e, parallela o alternata, una spinta (umana) autodistruttiva, un fuoco che può portare alla morte anche la più resistente delle Fenici. E, infatti, Antonia morirà suicida a ventisei anni, trascinata da una malinconia lacerata e inavvertita, dolce e stremata, oscura e luminosa. Nelle sue poesie, e in misura ancora più immediata e intensa nei suo diari, si coglie questa linea umbratile e inafferrabile: una tristezza elegiaca che avvolge il nocciolo inesorabile della disperazione come destino di vita, come motore della creazione e come orizzonte fatale.

Se entriamo nel mondo ctonio dei suoi diari - questi custodi dell’interiorità, come li definisce Eugenio Borgna - scopriamo giacimenti di bellissime riflessioni sulla vita e sul tempo, sull’arte e sull’amore. Le pagine dei suoi quaderni si leggono col batticuore, e lasciano straziati: siamo attraversati e investiti da una cascata di emozioni e di speculazioni temerarie, ancorate a tematiche esistenziali roventi, isolate da una scrittura limpidissima. Qui, tutta la cultura e la formazione di Antonia si aprono a ventaglio, sotto la luce della grande lezione mitteleuropea: Rilke, Pound, Valery, Eliot, l’amato Flaubert (al quale dedicherà la sua tesi) e soprattutto il Mann di “Tonio Kroger”. E’ dall’incontro con questo romanzo lirico, ricco di dialoghi sull’arte e di confessioni, che Antonia comincerà a riflettere sulla funzione dell’artista, sulla sua condizione, sul nesso difficile tra arte/vita; si chiederà se l’artista sia o no “colui che non arriva alla vita, ma colui che va oltre la vita”; si darà una risposta: “non si può cogliere una fogliolina sola dell’alloro dell’arte sans la payer de sa vie”, fino all’identificazione con Tonio: “Io sono adesso come Tonio Kroger nella tempesta, sono appena uscita alla riva, vivo ancora di atti che non so tradurre in parole. Forse - chissà - l’età delle parole è finita per sempre.” Al massimo della chiusura il massimo dell’apertura, un passaggio nodale e contraddittorio, come vuole la malinconia creativa: su questa affermazione negativa si costruisce il percorso si scavo e di ricerca poetica di Antonia Pozzi.

Le sue poesie - oggi edite da Garzanti nella collana Gli Elefanti, col titolo “Parole” - sono il diario più intenso della sua anima. In esse è possibile seguire le figure (le proiezioni dell’io lirico) che la malinconia assume, i suoi timbri, il suo alfabeto simbolico, la sua bellezza ferita e assorta. Montale rimase così colpito da questi versi così lucidi e maturi, da abbandonare la sua solita pacatezza critica: “.” Anima di eccezionale purezza e sensibilità, che non poté reggere il peso della vita, Antonia Pozzi richiede una lettura che faccia vivere in noi gli sviluppi che essa conteneva e non espresse che in parte”; e ancora: “voce leggera, pochissimo bisognosa di appoggi, essa tende a bruciare le sillabe nello spazio bianco della pagina

Proprio da appoggi interni sembra nascere la sua ‘parola’ lirica, che tante volte diventa tema poetico e interlocutrice privilegiata: “Parole - vetri/ che infedelmente / rispecchiate il mio cielo - /di voi pensai / dopo il tramonto / in una oscura strada / quando sui ciottoli una vetrata cadde / ed i frantumi a lungo / sparsero in terra lume - “ (Riflessi).

Ma se vogliamo capire alcune molle generative di questa parola artistica - parola che Antonia voleva flessibile e trasparente, punta di roccia e morbido tessuto insieme - dobbiamo spostarci sul terreno della saggistica, dove si muovono i giovani insonni e i sognatori di paradisi perduti di Mann e Musil, e dove le donne di provincia inventate da Flaubert, cariche di desideri ed evasioni, animano le ore di lettura del bueno retiro di Pasturo. Nell’ultimo anno della sua vita, la lente critica di Antonia si sposterà ad un libro di Huxley,Eyeless in Gaza”, sul quale scriverà un saggio. Di queste pagine ci interessa un passaggio, illuminante per capire le polarità del genio malinconico di Antonia, il suo vivere ( e scrivere) nel mezzo della frizione e dell'abrasione tra la vita e la morte: “Questo tema del sangue - scrive - ci introduce direttamente nel mondi di Eyeless in Gaza, di Sansone cieco al mulino con gli schiavi, che nelle profondità delle su tenebre coscienti esplora il mistero della vita, giù fino all’analisi del suo sangue e di quello dei fratelli, giù fino al disgregamento fisico e spirituale della personalità in atomi vitali indifferenziati e poi, da questo smisurato mare sotterraneo, a capofitto, in uno slancio deliberato, di nuovo nella vita, nell’amore della vita - anche se questa dura una notte sola e l’indomani sarà la morte (anzi, proprio nella morte accettata e cercata in nome di quella vita riconosciuta concreta e assunta a idealità, sta la resurrezione del mondo dell’intellettualismo apatico, il riscatto del pensiero nel gesto).”

Un topos su tutti, una delle più belle immagini poetiche della nostra tradizione, ci accompagna dentro gli occhi di questa grande poetessa: in quel paesaggio visitato da luci e ombre, dove la parola ha il dovere di essere più forte del dolore e dove forze e pulsioni si agitano sfavillanti accanto a piccole cose che scalpellano; dove l’io vive come un “velo d’acqua sospeso su di un masso in mezzo alla cascata”; e dove il tempo si fa sabbia, scivola, dilegua, scompare, ma lascia in noi “nelle rughe della pelle, dei granellini sparsi”, trovati solo a prezzo di guardare passaggi segreti, scie, smarrimenti di rotte sbagliate, qui l'io lirico, come una nave, corre per cogliere tutti i possibili “cenni arcani di potenza“ : “Io vengo da mari lontani -/ io sono una nave sferzata/dai flutti/dai venti-/ corrosa dal sole - macerata dagli uragani - / io vengo da mari lontani/ e carica d’innumeri cose/ disfatte/ di frutti strani/ corrotti/ di sete vermiglie/ spaccate - / stremate (…)io sono una nave/ una nave che porta/ in sé l’orma di tutti i tramonti/ solcati sofferti - (…)Risogna la nave ferita/ i primissimo porto -/ che vale/ se sopra la scia/ del suo viaggio/ ricade/ l’ondata sfinita?” (Il porto).


Tre poesie di Antonia Pozzi:

"Sorelle, a voi non dispiace..."

Sorelle, a voi non dispiace
ch’io segua anche stasera
la vostra via?
Così dolce è passare
senza parole
per le buie strade del mondo -
per le bianche strade dei vostri pensieri -
così dolce è sentirsi
una piccola ombra
in riva alla luce -
così dolce serrarsi
contro il cuore il silenzio
come la vita più fonda
solo ascoltando le vostre anime andare -
solo rubando
con gli occhi fissi
l’anima delle cose -
Sorelle, se a voi non dispiace -
io seguirò ogni sera
la vostra via
pensando ad un cielo notturno
per cui due bianche stelle conducano
una stellina cieca
verso il grembo del mare.

***

"Grido"

Non avere un Dio
non avere una tomba
non avere nulla di fermo
ma solo cose vive che sfuggono -
essere senza ieri
essere senza domani
ed acciecarsi nel nulla –
- aiuto –
per la miseria
che non ha fine –

10 febbraio 1932


***

"Voce di donna"

Io nacqui sposa di te soldato.
So che a marce e a guerre
lunghe stagioni ti divelgon da me.

Curva sul focolare aduno bragi,
sopra il tuo letto ho disteso un vessillo -
ma se ti penso all’addiaccio
piove sul mio corpo autunnale
come su un bosco tagliato.

Quando balena il cielo di settembre
e pare un’arma gigantesca sui monti,
salvie rosse mi sbocciano sul cuore;
Che tu mi chiami,
che tu mi usi
con la fiducia che dai alle cose,
come acqua che versi sulle mani
o lana che ti avvolgi intorno al petto.

Sono la scarna siepe del tuo orto
che sta muta a fiorire
sotto convogli di zingare stelle.

18 settembre 1937


24 settembre 2010

" Tra D'Arrigo e Satta: i grandi romanzi italiani dimenticati" di Davide Pugnana

La storia del romanzo italiano è densamente punteggiata di capolavori dimenticati, o incompresi, o ingiustamente caduti in un oblio editoriale. All'altezza della loro genesi interna, della loro crescita e maturazione nelle mani dell'autore, prima ancora che vengano mandati nel mondo a completare la loro esistenza, queste opere sembrano già segnate da una fatalità oscura che le rende straniere e incomprensibili al continente dei lettori e degli studiosi.

La cifra di estraneità di questi romanzi si misura nella loro mancata collocazione entro un sistema di generi e sottogeneri, nei quali si è mappato e ramificato il romanzo moderno, lo specifico 'novel' della terminologia critica anglosassone, quella forma narrative che è venuta formandosi a partire dalla crisi e dal rovesciamento parodico del poema epico-cavalleresco inaugurato dal Don Chisciotte, dallo psicologismo a più dimensioni della "Principessa de Cléves", con la vita segreta dei personaggi, resa per segnali latenti; e, infine, con l'homo faber di Defoe, il Robinson calato in una dimensione spaziale periferica e abbandonato alla scoperta delle risorse del suo ingegno nudo.

Da questi tre archetipi prende le mosse non il romanzo tutto, ma il romanzo modernamente inteso, a cavallo tra fine del Sette e inizio dell'Ottocento, così come, ancora nell'oggi, lo avviciniamo con sensibilità di moderni. Questa storia complessa di una 'forma' bastarda perché esclusa dalla mappatura aristotelica dei generi e degli stili, ma flessibile fino al punto di rinnovarsi e trasformarsi sempre, a ogni torno di generazione, capace di fagocitare e incorporare ex-novo stilemi di altri generi tradizionalmente solidi - questo contenitore proteiforme, che inventa da sé le proprie regole espressive e struttive, trovandole spesso strada facendo, si è portato dietro la tara (o particolarità), fatalistica e feconda, di essere sbilanciato in avanti rispetto al gusto e all'orizzonte di attesa dei lettori del suo tempo, o di elaborare un mondo narrativo così nuovo da non venir percepito tale al suo apparire.

In questa intelaiatura storica si inseriscono i grandi rifiuti, come quello editoriale del Gattopardo da parte di Vittorini, o la condanna diaristica dell'Ulysses da parte di Virginia Woolf. Oppure, ancora nel Novecento italiano, si è assistito a memorabili eclissi e morti editoriali di romanzi strani, ossia per eccellenza incollocabili in una prospettiva di gusto contemporaneo. E' il caso di due capolavori come "Horcynus Orca" di Stefano d'Arrigo e Il giorno del giudizio di Salvatore Satta.

A interrogarsi sulla loro scomparsa era stato George Steiner, un maestro del pensiero critico, tanto osteggiato quanto amato da un pubblico appassionato dell'interpretazione comparativista. Nel novembre 2003, Steiner scrisse un magistrale articolo sul "Corriere della Sera", in cui narra la sua scoperta di D'Arrigo e si spinge ad accostarlo al mondo narrato da Satta, dimostrando come l'imprevedibilità espressiva della forma-romanzo, la libera invenzione in progress delle sue regole e tecniche, sia a un tempo punto di forza e motivo di esclusione.

Trascrivo qui, per intero, l'articolo di Steiner.

"Il mistero dell'Orca Moby Dick d'Europa"

Nulla è più frustrante, per un lettore appassionato, di trovare un libro che per lui è travolgente, un capolavoro, e scoprire che quasi nessuno lo conosce e che non è facile persuadere gli altri a condividere il piacere che gli dà. Come può essere che un libro che lo colpisce profondamente, che trasforma il suo panorama interiore, rimanga oscuro e, in larga misura, non letto? O che i colleghi, gli amici a cui comunica il suo entusiasmo rimangano scettici o addirittura rispondano in modo negativo?

Il titolo mi affascinò molto. Non ricordo dove esattamente lo sentii la prima volta o se l' incontrai per caso in qualche opera di consultazione. Se ben ricordo, fu a Torino, dove davo una conferenza molti anni fa, che le enigmatiche, ossessive parole, Horcynus Orca, mi colpirono per la prima volta. In realtà non avevano molto senso per me. Quando indagai in diverse librerie, fui informato, da librai che a loro volta avevano sentito nominare quel titolo solo vagamente o per nulla, che il romanzo di Stefano D' Arrigo (ora riproposto in una nuova edizione da Rizzoli, ndr) era esaurito e che c' erano, nella miglior delle ipotesi, voci sporadiche di una futura riedizione. Perplesso, ricorsi all' eccellente Cambridge University Library. Lì trovai una copia della prima edizione (1975) che nessun lettore in precedenza aveva mai preso in prestito!

Già a una prima occhiata capii che il mio mediocre italiano sarebbe stato insufficiente a venire incontro alle esigenze di D' Arrigo. Non solo il dialetto siciliano è spesso problematico anche per un italiano, non solo l' idioma usato dal narratore e dai pescatori che raccontano, che rappresentano la narrazione epica, è tecnico e densamente lirico, ma l' ambiziosa solitudine e l' originalità di D' Arrigo contribuiscono a rendere il tessuto narrativo complesso e polifonico come quello di Gadda o di Joyce. I dizionari sono una delle mie buone abitudini e mi furono d' aiuto. Ma spesso mi trovai, matita in mano, a leggere e rileggere la stessa pagina nello sforzo di capire; consapevole che molto di quel che c' era scritto mi sarebbe rimasto oscuro.

Non importa. Il moto oceanico della storia, il fantastico potere dell' intreccio di motivi arcaici mitologici e della feroce realtà della Seconda guerra mondiale, la capacità di D' Arrigo di dare una vita violenta e lirica agli elementi del tempo e del paesaggio, del mare e della terra, mi fecero superare ogni barriera linguistica e grammaticale. Come sanno fare solo rari maestri, D' Arrigo ben rappresenta il paradosso per cui l' Orca, il rapace mostro delle profondità marine, è allo stesso tempo portatore di morte e di forza vitale. L' oceano, l' aria, le rocce risonanti di echi, gli animali che le abitano sono elettrizzati dalla minaccia rappresentata dall' Orca, ma anche dall' ammirazione per la sua indistruttibilità. A loro volta gli abitanti del villaggio, gli amanti, i funzionari fascisti, gli occupatori tedeschi che costituiscono i numerosissimi personaggi superbamente caratterizzati sono emotivamente colpiti dall' oscuro Minotauro del mare, che lo incontrino direttamente o no. Pesando attentamente le parole, direi che alcuni episodi - la fuga dei delfini dall' Orca ferita, il massacro di un giovane soldato tedesco isolato da parte di donne e bambini assetati di vendetta (queste due scene sono, naturalmente, in profonda contrapposizione) - rimarranno tra i grandi momenti di tutta la letteratura. Ci sono stati tra gli scrittori italiani, a cominciare da Elio Vittorini, dei ferventi sostenitori di questo libro. Ma in Italia esso rimane praticamente ignorato e all' estero sconosciuto. Io ho predicato in favore del genio dei Fatti della fera (un titolo precedente), ma per lo più invano. Eppure esso è senza dubbio la risposta europea a Moby Dick.

Fu durante una sera di vento gelido a Siena, dove ero guest professor all' università. Un collega mi chiese: «Sai qual è la frase più terribile della letteratura italiana dopo Dante?». Tentai varie risposte, citando tra l' altro Machiavelli e Primo Levi. «No - disse il mio interlocutore -. La frase più feroce è quella pronunciata da Don Sebastiano Sanna Carboni alla povera moglie, dispoticamente sfruttata, nel primo capitolo del Giorno del giudizio di Salvatore Satta: Tu stai al mondo soltanto perché c' è posto».

Immediatamente lessi il libro e lo trovai un capolavoro. Lo stile di Satta, derivato in parte dalla consuetudine con il linguaggio legale, in parte da Tacito, uguaglia quello di Swift o di Stendhal. Il ritratto di Nuoro, di una comunità tagliata fuori da un mondo esterno che teme e disprezza allo stesso tempo, di un ambiente sardo aspro e implacabile come le rocce che bruciano al sole di mezzogiorno, costituisce una delle più alte opere di immaginazione politica della letteratura moderna. Ci sono magnifici momenti scenografici, come la notte in cui Nuoro ha la luce elettrica per la prima volta o la vendemmia. La rappresentazione mordace, e tuttavia meravigliosamente indulgente da parte di Satta della vita di provincia, degli intrighi ecclesiastici, delle gerarchie del potere locale che si intrecciano nel Caffè Tettamanzi, appartiene all' arte narrativa analitica di Balzac, all' Educazione sentimentale di Flaubert. Ma la concentrazione dei testi, la tecnica lapidaria - Satta veramente scrive sulla pietra (litografia) - ottengono un effetto unico. Non c' è una frase superflua. Il 16 luglio 1982, dopo un viaggio faticosissimo nel caldo incandescente, mia moglie e io arrivammo nella piazza S. Satta di Nuoro. Trovammo l' alquanto melanconica libreria che è il centro degli studi su Satta. Un dibattito per Il Giorno era stato organizzato nella Biblioteca Sebastiano Satta nel maggio del 1979. Un convegno internazionale veniva progettato per il 2002. Sono segni incoraggianti, ma anche a Nuoro la presenza largamente predominante è quella di Grazia Deledda, il cui regionalismo sentimentale ottenne il Premio Nobel nel 1926. Quando il romanzo fu tradotto in inglese, ne proclamai la grandezza in una recensione sul New Yorker. Ma, per quanto ne so, le vendite sono state insignificanti e Salvatore Satta è probabilmente noto soprattutto come filosofo del diritto.

Di nuovo mi chiedo, perché? Il gradimento da parte dei critici e dei lettori è, in letteratura, spesso assurdamente arbitrario. Viviamo in un' epoca di impazienza. Le difficoltà debbono essere evitate. Il kitsch confessionale, l' erotismo facile, espressi in una prosa immediatamente accessibile, sono preferiti laddove si leggono libri. Nondimeno, scrittori passati inosservati in vita sono entrati, con il passar degli anni, nel canone e hanno trovato un vasto pubblico di lettori.

Basta solo pensare all' accoglienza globale di Kafka, per esempio, o di Walter Benjamin o Borges. Benché se ne parli più di quanto li si legga, Joyce e Musil sono classici che si possono comprare in varie lingue e in edizioni economiche. Tuttavia per qualche ragione sospetto che né Horcynus Orca né Il giorno del giudizio «sfonderanno». Non vedo la formidabile saga di D' Arrigo o il classicismo di Satta sugli scaffali dei paperback, particolarmente nell' anglo-americano che ora domina il pianeta. Spero di sbagliarmi. Ma lo spero poi davvero? Gli incontri con i libri che ci cambiano la vita, che rieducano la nostra sensibilità sono ambigui come le relazioni intime. Da un lato desideriamo fortemente mantenerli privati, per noi stessi. Dall' altro vogliamo condividere la nostra fortuna, il nostro appagamento, con gli altri. Delle due posizioni, però, la discrezione è la più remunerativa. La magia suscitata in noi da un grande libro è meglio apprezzarla nell' intimità. O con una piccola tribù di compagni-appassionati. Il segno d' intesa è condividere l' apprezzamento, ma con discrezione, una stretta di mano tra spiriti affini. Sì, sono molto spiaciuto per l' ingiustizia fatta a queste due opere importanti e per la mia incapacità a porvi rimedio. Sono esasperato dall' indifferenza degli italiani verso due dei loro più grandi maestri moderni. Ma mi sento anche privilegiato perché ne so di più, perché porto con me un tesoro condiviso solo da pochi.

George Steiner

Il Corriere della Sera, 4-11-2003)

"Occasioni colorate" retrospettiva di Giuseppe Da Valle

di Angelica D'Agliano

Per me inizia tutto con una corsa di bicicletta e strumenti per la musica. Dei più disparati, ma noti anche agli ignoranti come le chitarre e il sassofono.

Dico per me, perché alle mostre di pittura non si sa mai quello che si vede e anche se si sa è sempre bene pensare a lungo e sapere di vedere, essere consapevoli che si sta vedendo col cervello e con la pancia. E io sono appunto entrata nelle stanze fresche di una mostra di pittura che durerà poco, nemmeno una settimana.

Ma Giuseppe Da Valle ha ragione. Le bici non sono di metallo. Le bici colano, sono una pasta scura, uno schizzo di raggi e ruote disperate. Le ruote, come il significato ultimo di tutto ciò che è circolare o rotondo, le ruote non ritornano su se stesse, al massimo girano e disegnarle è amore e fallimento insieme, è una cosa da fare con le dita e colori cattivi immemori. Tentativi cinetici.

Foto-0022Queste le prime cose che vedo di cervello e di pancia. Presto leggerò forse presentazione e catalogo e saprò forse ancora scriverò dell'altro.

Per ora mi sembra, so che Giuseppe Da Valle ama l'aria ama la musica e non conosce più né aria né musica perché quasi sicuramente è morto (capirò meglio leggendo)
.

Forse ama il disegno che può essere la musica nell'aria. Mi riferisco all'amore per gli strumenti dalle forme femminili, di estetica per così dire autosufficiente anche nel silenzio. Una chitarra può esitare, se si scompone da sola nelle sue infinite bucce di verde salvia, di albicocca rosso mattone, di contorni di filo spinato.
Sono arrivata tardi, devo pensare in fretta tutto quanto prima che spengano le luci e tutto il balbettio, tutte le cose urlate pregate, tutta la semplicità di sapere e non sapere, di sapere fino a un certo punto cosa dire e costruire il come (con le dita, una leggera sospensione del respiro che muta poche gocce d'acrilico in un tono o un altro tono) – prima che tutto questo diventi inintelligibile. Non so se Giuseppe Da Valle mi piaccia, se sappia non sappia. E sono contenta così.


OCCASIONI COLORATE. Retrospettiva su Giuseppe Da Valle e i lavori dei pazienti del centro salute mentale.
18 - 23 settembre 2010 Complesso S. Micheletto Lucca.
Un evento realizzato da Asl 2, La Mano Amica Società Cooperativa Sociale e Associazione Archimede




Foto-0023

23 settembre 2010

"L'africano" di J. M. G. Le Clézio

di Gianni Quilici

Lo aveva suggerito Giovanna Zucconi a Che tempo fa. L'ho letto, mi ha infine commosso.

E' una scheggia autobiografica, che ha come protagonista il padre dello scrittore e l'Africa.
Infatti a 8 anni lo scrittore è costretto a lasciare Nizza con la madre per raggiungere il padre, medico in Nigeria. Lì scopre la grandiosità dell'Africa, dove tutto -spazi, luce, natura- è estremo.

Scrive:”Una libertà così intensa che mi eccitava, mi inebriava, mi procurava un piacere quasi doloroso...” “La distesa d'erba davanti alla capanna era immensa, pericolosa e invitante come il mare...” “Più che il volto, l'Africa era il corpo. Era la violenza delle sensazioni, la violenza dei desideri, la violenza delle stagioni...” “Una violenza aperta,reale, chemi faceva vibrare... Temporali come non ne ho visti né sognati, il cielo come inchiostro, striato di lampi, il vento che piegava i grandi alberi...”


Ciò che non conosce, cioè non capisce, è il padre, di cui soltanto ora è capace di tracciare storia e carattere. Questo amore retroattivo verso il padre e l'Africa è lancinante.


E' una nostalgia senza nostalgia, che dilaga senza sentimentalismi, come qualcosa che si è infine capito, ma che non si può più rivivere.



J. M. G. Le Clézio.
L'africano. Traduzione di Maurizia Balmelli. Instar libri, € 10


17 settembre 2010

"Una poesia" di Maria Luigia Longo

di Gianni Quilici


Ho vissuto

in un posto

dove il vento

accarezza le

spighe secche e dorate

e il lento

scorrere del tempo

è la trama stessa

delle giornate d'estate.



Da bambini

giocavamo a

rifare il verso

al vento

scivolando lunghi

sulle arsure.


Spesso

ancor'oggi

la tenerezza

ha il suono

dello scricchiolio

degli steli mossi.


Ed è in quegl'echi sfumati

che le voci di dentro

s'acquietano un poco.

Maria Luigia Longo


Maria Luigia Longo è lucana, è nata infatti a Stigliano (Matera) nel 1975, vive a Lecco, dove insegna. Conosce la nostra città e in autunno presenterà il volume di versi “Paesaggi di tempo” -Samuele editore- da cui è tratta la poesia in questa pagina riprodotta.

La Longo ha iniziato con la raccolta di versi “Stati d'animo quello che resta” -Salice editore- nel 1994; ha pubblicato una poesia-omaggio “Per Andrea Zanzotto” -Pulcino elefante- nel 2004; e ha scritto diversi racconti premiati.

Leggendo la sua poesia si percepisce progressivamente una musica che si dipana verso dopo verso con la sua scansione lenta, tenera, inesorabile, dove i suoni delle parole sono leggeri e evidenti, necessari e non ricercati. Penso a parole come accarezza, secche e dorate, scivolando, scricchiolio, s'acquietano.

Leggiamola invece per vederla come se fosse un film. Forse per associazione figurativa, ci ho visto echi del film più intenso e riuscito di Gabriele Salvatores “Io non ho paura”: l'estate e l'arsura, i campi di grano e gli steli dorati, i giochi e la lunghezza favolosa del tempo...

Queste visioni raccolgono tre elementi tra loro intrecciati: la Terra, il Tempo, i Corpi e ne rimandano il senso profondo: carnale, figurativo, storico, antropologico. Con un'osservazione. E' una poesia di memoria, che bandisce la nostalgia come tempo favoloso, idealizzato, in qualche misura, regressivo. Infatti il luogo dove Maria Luigia ha vissuto non “era”, continua tuttora ad essere “ un posto dove il vento accarezza le spighe”. Non c'è un passato che ella rimpiange, c'è un passato che scolpisce nella sua bellezza e che associa con i sentimenti di oggi (la tenerezza che ha il suono dello scricchiolio degli steli mossi e forse una laica consolazione).

Nel libro ci sono naturalmente altri temi, oltre questi: il doppio e la sua indagine, la fine di un pensiero agonizzante e lo schiudersi degli occhi a un nuovo giorno, la vita come dialettica tra l'esserci e non esserci, la poesia sepolta che ritorna, la ricerca di un'identità poetica, l'amore e la bellezza, che si trovano anche laddove c'è dolore e povertà come evidenziano i versi finali del libro.

Essi cantano: “Un'altra bellezza vado cercando/ che pure è poesia/ e ha la forza di/ trascinarmi lì/ dove/ è il puzzo/ di sudore misto al pianto/ che nutre la mia voce-il mio canto”.


da Arcipelago 51, rivista dell'Arci di Lucca

“Poema del cante jondo” di Garcìa Lorca

di Gianni Quilici


Leggo un libro di poesie di Garcia Lorca: Poema del cante jondo.

Non la sua opera. Una raccolta tra tante.

Leggo che Garcia Lorca in una conferenza ha, tra l'altro detto, che il cante jondo “è un rarissimo esemplare di canto primitivo, il più vecchio di tutta l'Europa, che reca nelle sue note la nuda e commossa emozione delle prime razze orientali”

Trovo tuttavia fastidio. Sento i versi della poesia lontani. Artificiali. Manieristici. Come se Garcia Lorca volesse creare un mondo che non conosce, idealizzandolo. Idealizzandolo con gli strumenti della poesia. La parola evocativa, il sogno sensuale, la nostalgia, la musica ballata nei versi che si ripetono... Non poesia, ma volontà di fare poesia.

Forse non capirò. Leggo qualche critico per fare un (minimo) confronto. Mi imbatto in Pasolini (1) e leggo

“... una piccola poesia di Mald'stam, che è sempre bello, anche nelle cose minori (al contrario di un Ungaretti, di un Quasimodo, di un Lorca, di un Pasternak, che, nelle cose minori, sono tremendi..”.

Forse si riferirà ad un tipo di poesia come questa, forse no. E' stupido, ma mi sento un po' legittimato, legittimato dalla mia impressione.


  1. Descrizioni di descrizioni. Einaudi


Garcia Lorca. Tutte le poesie.Traduz. di Carlo Bo. Garzanti.

12 settembre 2010

" Le benevole" di Jonathan Littel

di Riccardo Dalle Luche

Il romanzo scandalo di Jonathan Littel “Le benevole”, vincitore del Prix Goncourt nel 2006, è anche un grande romanzo storico di stampo tardo-ottocentesco, con tanto di citazioni interne (Tolstoj, Dostojewski, Flaubert), che descrive, sulla base di una straordinaria documentazione storiografica, l'apoteosi autodistruttiva del Terzo Reich, cioè l’invasione dell’Unione Sovietica, la Shoah, i bombardamenti di Berlino e la disfatta finale.

Littel ricostruisce minuziosamente non solo l’impianto ideologico del nazismo, esito finale del romanticismo e dell’idealismo tedesco, ma soprattutto la vita reale nelle organizzazioni militari e burocratiche impegnate con logiche che oggi diremmo aziendalistiche, in una doppia missione, bellica e genocida.

La forza di questo romanzo, che lo rende grande non solo per la mole (quasi mille pagine) sta proprio nella capacità naturalistica di tradurre in scrittura le copiose immagini documentaristiche (ad esempio il definitivo Shoah di Lanzamann) sulle atroci azioni naziste che tutti abbiamo visto e rivisto, ma mai abbastanza: la scrittura aggiunge alle immagini sensorialità tattili, olfattive, cenestesiche di chi si trovò, dissociando ogni volontà critica, a compiere i maggiori crimini compiuti dagli uomini contro gli uomini: maggiori sia per entità, con la necessità della trasformazione delle pratiche artigianali delle Aktionen e delle Einsatzen dell'ordine delle centinaia o delle migliaia, nei metodi industriali dei campi di concentramento, delle camere a gas e degli inceneritori, dell’ordine delle centinaia di migliaia e, complessivamente, dei milioni. Accanto alle azioni vere e proprie, l’ apparato nazista non ha cessato di celebrare i suoi metodi e i suoi rituali (le onorificenze, le promozioni, le procedure burocratiche, i regolamenti, la legge marziale) neppure sotto i bombardamenti alleati, nella Berlino che continuava incredibilmente a vivere pur perdendo parti sempre più estese della sua struttura urbana, né durante i patetici e tragici tentativi di evacuare i campi di concentramento nell’illusione di nasconderne le tracce alle inarrestabili truppe sovietiche.

E’ proprio nel contrasto tra l’altezza esaltata dell’ideologia e le sue tragiche e inopinate concretizzazioni, la carneficina, le epidemie, la denutrizione, le morti per fame e freddo non solo dei lavoratori-schiavi dei campi ma delle stesse truppe tedesche, inviate nei territori sovietici, le rappresaglie, le manifestazioni inumane degli sbandati, la distruzione radicale di un’intera nazione, che si coglie in questo romanzo come non mai la verità tragica del fallimento di un utopia, il dramma a perenne memoria di questa estrema ideologia di massa. E’ proprio perché tutto questo è accaduto con la partecipazione condizionata ma anche appassionata di un popolo e di persone dotate di intelligenza, cultura, sensibilità, buona educazione, cioè di tutti gli strumenti necessari per comprendere quello che facevano, che il romanzo trascende la dimensione storica acquisendo quella della tragedia universale. Forse il maggiore merito del libro è proprio quello di mostrare dettagliatamente la tragica distanza tra le idee che muovono la storia e ciò che gli individui si trovano a fare e fronteggiare nella loro messa in atto; questa distanza totale non riesce peraltro a distruggere la fede nelle idee, a indurre una critica e, di conseguenza, una trasformazione nel comportamento. E' questo che, esemplificato al massimo nel nazismo, rappresenta un motivo di riflessione di ordine universale, che ci riguarda tutti, come scrive l’io narrante-Littel nella introduzione.

Tuttavia Littel, non accontentandosi di questa strabiliante e maniacale dimensione storica, ha strafatto nel contaminarla con dimensioni interpretative e narrative di ispirazione psicoanalitica, non meno estreme della componente storiografica. Infatti l’Io narrante, l'ufficiale SS Maximilian Aub, è una figura complessa, da un lato costruita come archetipo della coscienza dissociata dei nazisti, dall’altra capace di una lucida consapevolezza, espressione dello sguardo a posteriori dell’autore. Queste contaminazioni fanno di questo romanzo una parodia grottesca delle asettiche memorie dei criminali di guerra.

L'io narrante è di madre francese (Littel, figlio d’arte, è un ebreo americano che ha scritto il romanzo in francese ed ha ottenuto, dopo la pubblicazione ed il grande successo del libro, la nazionalità francese); ha dell’autore l’intelligenza, la cultura raffinatissima e una sensibilità che gi consentono di poter capire e giudicare ragionevolmente e correttamente tutti gli altri ufficiali e perfino i gerarchi maggiori del nazionalsocialismo e lo stesso Führer, tutte figure assai mediocri al suo confronto, eccetto forse Speer. Pur rendendosi conto e somatizzando il disgusto per quanto gli viene chiesto di fare, lo fa comunque, non tanto obbedendo agli ordini, quanto facendo proprio, come una sorta di astratto e superindividuale imperativo categorico, il disegno astratto e delirante plasmato dai deliroidi pseudoscientifici e, pseudopolitici post-idealistici, ma anche post-darwinisti, di Hitler, Himmler & Co. Questo “Uomo senza qualità” si trova a realizzare effettivamente tutto ciò che la promessa del Reich millenario gli richiede. Perchè lo fa? Aub è, come l'Ulrich di Musil, un uomo pronto a realizzare ogni possibilità, non avendo alcuna identità personale, tuttavia queste possibilità, man mano che i suoi stati confuso-onirici e dissociati si fanno più frequenti, comprendonoil semplice intellettualismo di Ulrich, i maggiori tabù ebraico-cristiani: l’incesto, il matricidio, gli omicidi a freddo, l’omicidio di chi gli ha salvato la vita. Non è più l’esecutore decorato di crimini collettivi, ma si rende via via sempre più autore di crimini del tutto personali, inapparenti solo perché si confondono con la carneficina generalizzata, alla quale lui stesso scampa per puro miracolo più volte. L’unico delitto che non compie è lo stupro, ma solo perché gli è interdetto. Come Ulrich anche Aub ha una sorella gemella con cui è legato da un rapporto regressivo, simbiotico, incestuoso e atemporale; ma l’incesto illibato di Musil diventa qui ossessione erotica perversa, ridondante, iperbolica fino alla scatofagia. Questa complessualità impedisce a Aub di avere una reale identità sessuale e soprattutto di aborrire ogni contatto con la femminilità che non sia quella della sorella ormai refrattaria alle sue spinte regressive concrete. Aub è' inoltre alla ricerca di un padre, scomparso nel nulla quando lui era ancora piccolo, che scopre essere stato uno spietato carnefice nei ranghi della Wehrmacht della prima guerra mondiale. Non può perdonare alla madre di essersi realisticamente rifatta una vita, e la uccide insieme al secondo marito, ma senza rendersene conto. La figura di Aub, nei suoi aspetti psicologici, è dunque in gran parte una inverosimile costruzione teorica di Littel, un adulto mai uscito dall’onnipotenza difensiva infantile, che non può che percepire come persecutorio tutto ciò che è fuori da questo guscio. Può quindi farsi persecutore senza provare alcuna colpa reale, al massimo le sensazioni sensoriali dello schifo e del disgusto.

Aub non ha neppure una nazionalità, perchè prima del suo iter nazionalsocialista è un francese, e francese ritorna ad essere dopo la Guerra. E’, in sostanza, una personalità mimetica, pronta a tutto proprio perchè priva di una progettualità propria. Quello che la sua coscienza frena, gli stati dissociativi nei quali va via via sempre più incontro, glielo consentono. Del resto la forza e il fascino della storia del terzo Reich è che mai come in quel periodo l’inconscio e l’immaginazione erano al Potere, seppure camuffati e furbescamente celati dai grigi Diktat burocratici. Non essendo mai veramente nato alla vita, Aub non ha neppure paura di morire, ed è solo il destino benevolo (da cui il titolo, che fa riferimento alle Eumenidi che nella Orestiade, la trilogia di Eschilo, sono le Erinni che chiedono vendetta dopo l’ assoluzione del matricida Oreste, ma che Atena persuade a divenire benigne: benevole, appunto eumenidi) a salvarlo, facendolo sopravvivere in una vita totalmente falsa e apparente.

Accanto a Aub, accerchiato dagli sguardi e dagli odori mefitici delle vittime che spiccano tra le migliaia ridotte all’anonimato, ma anche delle improvvisate caserme al fronte, e perfino, da ultimo, del bunker del Führer, operano numerosissimi colleghi che, in una normalità comune ad ogni organizzazione aziendale, pensano soprattutto, spesso da bravi padri di famiglia, alla carriera, al potere e (solo qualcuno) alla corruzione, al denaro e al sesso. Fino in fondo, fino alla fine, senza poter credere di non essere dalla parte giusta e vincente. Se molti degli incontri di Aub con le figure più o meno note del nazismo (Himmler, Höss, Eichmann, Speer, ma nella miriade dei minori non manca proprio nessuno) sono costruiti, sia pure con grande verosimiglianza, a scopo didattico, molti di questi personaggi di contorno si scolpiscono nella memoria in modo indelebile, come il linguista Voss che, essendo uno studioso serio, capisce, studiando l’evoluzione delle lingue caucasiche, quanto siano stupide e false le teorie razziali, oppure come alcune donne pronte ad offrirglisi e a dare figli al Reich pur di fronte alla sempre più forte consapevolezza dell’incombente catastrofe, infine come l vitale amico fraterno Thomas Hauser, che alla fine Aub uccide per impadronirsi della sua falsa identità francese.

Nonostante i molti limiti, come la sostanziale inverosimiglianza della vicenda personale e professionale di Aub, che, senza particolari meriti e senza una reale convinzione, sale fino quasi ai vertici la gerarchia delle SS, l’uso ossessivo delle sigle delle diverse organizzazioni dell’apparato militare e burocratico, e le verticali cadute di gusto, come ad esempio il fumettismo di certe figure, come quella del potente industriale Mandelbrot, degli investigatori Clemens e Weser, e lo scatologismo ripugnante delle descrizioni dei suoi disturbi fisici gastrointestinali, delle fantasie incestuoso-perverse e dei suoi stati confuso-onirici psicoorganici, il romanzo appassiona e si lascia leggere fino alla fine senza soluzione di continuità.

Littel ha voluto urtare, irritare, sconvolgere o si è fatto prendere la mano, oppure l’uno e l’altro? E’ egli stesso un pazzo, come Aub, oppure un furbo calcolatore come Himmler? Oppure, , rovesciandosi nella figura del vendicatore Aub, non potrebbe egli stesso aver perpetrato la sua vendetta ebraica, la sua personale contro-Endlösung? In ogni caso ha dato un contributo fondamentale, impietoso e carnale alla conoscenza della storia del Terzo Reich, su cui ha riaperto, con una salutare scorrettezza politica che solo il romanzo gli poteva consentire, la discussione.

Jonathan Littel. Le benevole. Gallimard, Paris, 2006; tr. It di M. Botto, Einaudi, Torino, 2007 e 2008






11 settembre 2010

"Il cellulare: bellezza e dipendenza" di Gianni Quilici

C'è una bellezza del cellulare, che per una vita attiva e avventurosa, può risultare oltre che necessaria, addirittura affascinante.

Primo: il cellulare rende superfluo il domicilio.

Secondo: è personale, non della famiglia

Terzo: è, se noi vogliamo, segreto. Lo diamo a chi vogliamo.

Quarto e sopratutto: è mobile, si può muovere con noi, diventa il nostro universo di relazioni. Possiamo essere raggiunti, se noi vogliamo, in ogni momento; possiamo raggiungere gli altri, se loro vogliono, in ogni momento. Può favorire il lavoro e le relazioni, i problemi pratici e quelli più intimi.

Può diventare una sorta di carta di identità se il cellulare è anche connessione ad internet e alla posta elettronica; se scatta foto e gira video. In questo caso diventa, oltre che conversazione, informazione, documentazione, strumento espressivo di rappresentazione fotografica o video-amatoriale. Come non ricordare riprese video di eventi importanti, che soltanto cellulari hanno potuto cogliere nel preciso istante in cui avvenivano!

Il cellulare per ragioni innanzitutto pratiche, ma non solo, è, infine, lo strumento della globalizzazione più diffuso e utilizzato nel Pianeta, anche nei paesi poveri.

I rischi

E tuttavia c'è l'altra faccia della medaglia: la dipendenza, con tutte le conseguenze che ne derivano.

Quanti hanno dipendenza dal cellulare? Quanti possono stare serenamente senza il loro cellulare?

E ad un altro livello che può essere più avanzato: quanti possono stare senza il loro computer?

Questa dipendenza, senza dubbio molto diffusa nelle generazioni vissute nella società post-moderna, cosa nasconde? Quasi sicuramente un bisogno affettivo. Il bisogno di essere raggiunti e di raggiungere con e da un messaggio. Il messaggio può essere una necessità, ma assumere anche un valore simbolico. Quindi immaginativo. Nasconde e cerca dei desideri. Da quello elementare del contatto (“sento il bisogno di telefonare”) al desiderio di essere raggiunto da qualcosa di sorprendente, di imprevedibile.

Tutto normale: è l'irriducibile desiderio di un “oltre” rispetto a ciò che si vive nella vita quotidiana.

Quando invece diventa preoccupante o addirittura nevrosi?

Quando ai rapporti quotidiani si sostituisce la ricerca di tanti piccoli stimoli, di tanti piccoli desideri, accompagnate da piccole ansie, da piccole frustrazione, da stati d'animo veloci che si consumano per essere vissuti di nuovo senza lasciare alcun sedimento, se non insoddisfazione e vuoto.

Ne consegue una struttura della personalità che cerca continuamente stimoli e sensazioni, incapace di lunghe concentrazioni e di silenzi, che non riesce ad essere soddisfatta, perchè consuma senza elaborare.

Elaborare, infatti, vuol dire concentrarsi, chiedersi i perché, dare risposte, insomma crescere, rinnovarsi. Non elaborare invece vivere in una continua dimensione consumistica, che porta noia, esacerbazione, oblìo, ricerca di stimoli sempre più forti. Guardate i bambini oggi. Diversi segnali ci dicono: “ Tante piccole nevrosi crescono”.

Possiamo cambiare percorso, comportamenti, valori? Sarà un'impresa titanica per la enorme potenza tecnologica, in rapidissima trasformazione, oggi molto più forte di quella psichica.

da Arcipelago 51, rivista dell'Arci di Lucca

08 settembre 2010

" Troviamo le parole. Lettere 1948-1973" di Paul Celan e Ingerborg Bachmann

di Davide Pugnana

ciò che essi (gli esseri umani) hanno pensato,
i sentimenti che hanno accompagnato le loro
decisioni e il loro progetti, i loro successi e
insuccessi; i discorsi con i quali hanno fatto
prevalere o hanno cercato di far prevalere
le loro passioni e la loro volontà su altre
volontà… Tutto ciò è taciuto dalla storia
e tutto ciò è dominio della poesia.
(Alessandro Manzoni)


I

Il Novecento è secolo generoso di destini incrociati. Scorrendo le biografie di artisti, letterati, filosofi, si scopre il lavorio di queste invisibili mani, sapienti nell’accostare e miscelare coppie memorabili. Coppie dal cui incontro e sodalizio sono nati frutti meravigliosi. Basti pensare all’incontro, umano e artistico, di Sibilla Aleramo e Dino Campana; di Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir; di Martin Heidegger e Annah Arendt; Diego Rivera e Frida Khalo; oppure a vite parallele meno note al grande pubblico, ma altrettanto cruciali, come quelle di Paul Celan e Ingeborg Bachmann - due tra i massimi poeti tedeschi del secondo dopoguerra.

Il dialogo a distanza tra i due poeti; il loro amore vissuto in parte nella realtà e in parte risarcito e reinventato nello spazio della scrittura; l’alternarsi di slanci e silenzi; le loro risposte più intime davanti alle vicende assurde della Storia, davanti alla violenza distruttiva dell’uomo moderno; o il loro interrogarsi curioso sull’origine del male nell’uomo e sulla doppia natura della malinconia, intesa come tratto connaturato al genio creativo e come fondo oscuro dell’anima - tutto questo paesaggio interiore, dai chiaroscuri forti e dalle linee spezzate e ricongiunte a fatica, è oggi finalmente visibile nel carteggio che abbraccia un arco cronologico lungo diciannove anni (1948-1973).

Pubblicato da nottetempo, nella collana “ritratti”, “Troviamo le parole. Lettere 1948-1973” è uno degli accadimenti editoriali più importanti dell’ultimo anno. Il testo italiano mutua una più ampia versione tedesca uscita nel 2008 (Herzzeit. Briefwechesel), e dotata di apparati filologici attenti a vagliare la più piccola variante d’autore; mentre i curatori italiani, per maggior fruibilità, sfrondano il testo espungendo un saggio di due studiosi tedeschi e mantenendo, in appendice, l’ampia interpretazione a due mani di Hans Holler e Andrea Stoll, dal titolo “Il segreto epistolare delle poesie”: una lunga riflessione critica che porta il lettore all’interno del gioco di specchi, delle rifrazioni e proiezioni dell’io e dei suoi statuti; che aiuta a seguire l’intercambiabilità delle sue maschere e del suo linguaggio inconscio, attraverso il ricorrere ossessivo di lemmi appartenenti al campo semantico del buio, dell’angoscia, della colpa, del peccato, o, viceversa, della luce, dell’intuizione, dello slancio creatore, del fondo luminoso che si rivela per agnizioni: “sono parole chiave del dialogo epistolare, che insistentemente cerca di illuminarsi e non cadere nel silenzio, e questo spiega perché le parole tematiche nel carteggio assumano le più diverse modulazioni, variazioni e trasformazioni.”

Con queste parole del saggio, ci avviciniamo a toccare uno dei centri nevralgici più profondi del carteggio in sé, e, in particolare, di quello imbastito tra due, o più, scrittori. Il lettore non si lasci ingannare dalla naturalezza delle loro confessioni. Per loro, la lettera non è solo il luogo di una comunicazione immediata, un terreno sul quale riversare un vertiginoso flusso di coscienza; ogni affermazione non arriverà mai ad assumere fino in fondo la piega imprevedibile di uno sfogo d’umori e sensazioni in libertà. Nemmeno quando l’epistolario rimane chiuso nel circuito del privato - cioè si avvicina alla forma del diario o dello ‘zibaldone’ - rivela un’assenza di controllo e, più addentro, rinuncia alla seduzione di un certo margine di invenzione. Per lo scrittore ogni parola, anche quella che anima la più segreta delle scritture, è sempre soggetta al filtro di una coscienza critica; porterà sempre la cifra di fedeltà alla “costruzione”, connaturata al suo lavoro e all’educazione del suo sguardo-sul-mondo.

In questa prospettiva, anche il carteggio tra Celan e la Bachmann si muove tra realtà dei fatti - storici e biografici - e fiction, intesa alla luce dell’elaborazione di un vero e proprio ‘personaggio’ . In questo dialogo, la distanza fisica ha un’incidenza forte: è la suggestione della lontananza a favorire il lavoro del desiderio e dell’immaginazione: chi scrive si rivolge ad un 'tu' fantasmatico, verso cui proietta le proprie pulsioni, idee, speranze e illusioni. Si innesca quel processo psicologico che Stendhal chiamava, nel De l’amour, “cristallizzazione”: si arriva a rivestire l’oggetto amato - ciò che non si può vivere fino in fondo (un amore, un’altra vita, un luogo ecc.) - di minute lamelle, di raffinate incrostazioni, tanto fitte da annullare il corpo originario. Siamo calati nella scena della parola erotizzata, che insegue l’oggetto che non può possedere davvero, e che ri-crea, risarcisce, con la parola scritta. Questo meccanismo, sottile e complesso, regola i tempi e i modi della scrittura epistolare dei due poeti. La stessa Bachmann porterà nelle maglie del suo romanzo Malina spunti presenti nel carteggio.

Ma leggere un carteggio significa già entrare nella tessitura vibrante di un “romanzo epistolare” polifonico, un romanzo solo in parte inconsapevole, disseminato di voci che tessono - per gemmazione spontanea - trame di vita, spaccati e suggestioni riconducibili a un intreccio funzionale alla narrazione. In Troviamo le parole, alle voci dei due poeti si affiancano quelle di Giséle Lestrange, sposa di Celan, e di Max Frisch, nuovo compagno di Ingeborg. Si allarga così il sistema dei personaggi e si moltiplicano i punti di vista intorno ai due protagonisti: si ha la sensazione di entrare in un affascinante caleidoscopio, nel quale al tradizionale modulo del triangolo amoroso si sostituisce la complicata geometria del quadrilatero.

Ad un secondo livello - forse più specialistico, ma non meno percepibile dal lettore - il carteggio tra due artisti rappresenta l’occasione voyeuristica di spiare dal buco della serratura la genesi e la preistoria di alcune opere; di entrare nel laboratorio creativo e di seguire l’accordarsi di parole in un verso, il recupero di un’immagine antica; o il corpo grezzo di un’idea che avevamo già trovata perfezionata in un romanzo. Allora in questa “stanza silenziosa”, come la chiamava Leopardi, ci è data la possibilità di leggere la ‘forma-lettera’ come un documento dalla natura complessa (a metà tra confessione umana e tensione inventiva) e come via d’accesso alla composizione dei testi pubblicati, cioè ai “monumenti stilistici”.

II

Ma chi erano Paul Celan e Ingeborg Bachmann? Dal carteggio, il lettore italiano ricava poco delle origini, della formazione e dei conflitti esistenziali e artistici che si muovono nelle lettere. È necessario ripercorre brevemente le loro vite e finire là dove le loro poetiche, prima che i loro vissuti, si intrecciano in un abbraccio fusivo (quasi-)unico nella storia della letteratura.

Lui, ebreo romeno di lingua tedesca, nato in Bucovia, a Cernovcy, nel 1920; lei, una giovane artista proveniente dalla provincia austriaca; figlia di un terra di confine, aspra e difficile, la Carinzia meridionale, l’heimat dove, nel 1926, era nata. Lui aveva perso, a ventidue anni, la famiglia, sterminata dalla “soluzione finale”, lo sterminio sistematico del popolo ebraico, legittimato dai gerarchi nazisti nella conferenza del Wansee del 20 gennaio 1942 - un evento e una data sui quali si costruirà tutto il suo percorso poetico; lei abbandona giovanissima Klagenfurt visita l’Austria, e avvia una carriera accademica brillante, laureandosi in filosofia e legge dando, dando prova di un’alta capacità di elaborazione filosofica: scriverà “contro” Heidegger e proseguirà le scoperte di Wittgenstein sui limiti dell‘espressione linguistica. Lui contraddirà il monito di Adorno - secondo cui dopo Auschwitz la poesia non poteva più esistere - scrivendo sul dolore generato dalla Shoah; sulla tragica data innominabile, se non con la perifrasi “quello che è stato”; facendo della sua parola poetica un mezzo per dare voce alle vittime dello sterminio. Lei andrà scoprendo la versatilità della sua mente; simile per poliedricità ad un’artista del Rinascimento italiano, ‘Inge’ sapeva attraversare tutte le forme espressive e rinnovarle dall‘interno: si nutrì prima di filosofia, pubblicando due opere; poi compose alcuni radiodrammi e un romanzo - salutato come un capolavoro - dal titolo “Malina”, primo tassello di una trilogia che la morte ha lasciato incompiuto; parallelamente, farà sua la frase del poeta inglese Coleridge “nessuno è mai stato grande poeta senza essere nello stesso tempo un profondo filosofo”: da questo humus nasceranno poesie di pensiero, belle come quelle del suo maestro Rilke.
Lui sceglierà di scrivere in tedesco, la lingua dei nazisti, gli assassini dei suoi genitori: ne farà una lingua unica, la purificherà da ogni residuo storico-politico e ne farà una Muttersprache, intesa nella doppia accezione di “lingua materna” e “lingua della madre”, il solo filo per incontrarla e farsi carico della sua “Incontestabile testimonianza”. Lei conoscerà lo spettro della malinconia dopo gli anni Sessanta: entrerà in depressione e comincerà ad assumere psicofarmaci che incepperanno il suo desiderio di scrivere e conoscere il fondo di tutte le cose.

Così ci avviciniamo al nucleo profondo - a quel dolore declinato in infiniti modi e nervature, lungo tutto il Novecento letterario - che lega queste due vite così distanti e antitetiche, per origine, formazione e pensiero. Il filosofo Emil Cioran scriverà di Celan: “Essere segnati dalla fatalità è un’elezione o una maledizione? Entrambe le cose contemporaneamente. Questo doppio aspetto definisce la tragedia. Ora Celan era un personaggio, un essere tragico. Per questo egli è per noi qualcosa di più che un poeta.”; mentre su ‘Inge’ scriverà pagine bellissime il nostro Pier Vittorio Tondelli: le sue opere “costituiscono grandi pagine di quella letteratura interiore in cui non si svolgono plot (intrecci), non si mettono in scena i popoli o i grandi avvenimenti della storia, ma dove gli eventi interiori assumono una potenza catastrofica. (…) La Bachmann ci offre per frammenti poetici le tappe di un martirio interiore che è insieme perdita del linguaggio e perdita della personalità, ma anche perdita della forma.”

Al centro della ricerca poetica di entrambi sta la volontà di lottare contro il silenzio (angoscia così ossessiva nel carteggio); di rendere testimonianza di qualcosa che deve essere fissato per sempre. Nel loro percorso di conoscenza e nell’esplorazione dei loro ’fantasmi’ (gli archetipi del padre e della madre, ad esempio) sembra ripresentarsi la lezione di Brecht. Il drammaturgo invitava ad una ricerca della “verità” capace di intrecciare la parola letteraria all’etica dello scrittore, aprendo così il cammino verso una lotta alla menzogna, all’ignoranza, agli schermi consolatori, o deformanti, di chi “non ha voluto vedere”. Una “verità dei fatti” che - secondo Brecht - poteva essere verificata piegando la propria scrittura verso cinque movimenti: il coraggio di scrivere la verità; l’accortezza di riconoscerla; l’arte di renderla maneggevole come un’arma; l’avvedutezza di saper scegliere coloro nelle cui mani essa diviene efficace e l’astuzia di divulgarla.
Per Celan questa “verità” diventerà, via via, maneggevole e coraggiosa, avveduta ed efficace, attraverso il recupero di un dialogo con la madre, cercato e durato per vent’anni di poesia. Sarà la presenza di questo “Tu” - che dall’intimità (auto-)biografica passerà alla Storia, al dolore collettivo di tutti i popoli che soffrono nelle zone grigie delle ideologie, e di cui il poeta deve rendere testimonianza - a dare corpo di voce a quei nessuno che non hanno potuto farlo e non hanno avuto nemmeno il privilegio di una tomba. Affinché questo messaggio fosse possibile e universale, Celan creò una delle metafore più belle del Novecento: giovanissimo partì dall’immagine del papavero, facendo della poesia un’entità in bilico sui fragili petali rossi, lievi come la seta, ma forti tanto da circoscrivere un cuore nero. Poi portò la sua ricerca sulla “soglia” , chiamandola a definire questo confine incerto e aperto su di un mondo doppio, insieme familiare e straniero. Ma fu più tarsi che trovò il nome per la sua poetica: il “cristallo di ghiaccio” e il “meridiano" . La poesia è una ‘metafora respiratoria’; essa va incontro al mondo e agli uomini, in un abbraccio che riecheggia quello che ogni meridiano compie idealmente nel globo terrestre: “ Trovo qualcosa che è - come la lingua - immateriale, eppure è terrestre, planetario, qualcosa di circolare, che ritorna a se stesso attraverso entrambi i poli e facendo questo interseca persino i tropici: trovo…un Meridiano”. Il mezzo per questo viaggio diventa, nell’immaginario simbolico di Celan, una catena respiratoria: il messaggio corre di bocca in bocca nell’attimo della svolta del respiro, nell’istante tra espirazione e inspirazione; il poeta deve cercare il ’primo respiro’, quello che innescherà l’intero processo: il cristallo di respiro: “Corroso e scancellata/ dal vento radiante della tua lingua/ la chiacchiera versicolore/ dei fatti vissuti -/ la linguacciuta miapoesia, la nullesia./ Dal/ turbine/ aperto/ il passo attraverso le umane forme/ di neve - neve di penitenti, / fino alle accoglienti stanze/ dei ghiacciai, ai deschi. / In fondo/ al crepaccio dei tempi, / presso il favo di ghiaccio/ attende, cristallo di respiro, / la tua irrefutabile/ testimonianza.”

Questo è il ‘luogo d’intensità’ dove si conclude il senso e il destino del poetare celaniano; quel processo cominciato nel segno del ‘papavero’ e approdato ad una discesa attraverso la neve sino alle accoglienti stanze di ghiaccio, in fondo al crepaccio dei tempi, dove attendeva il cristallo del respiro: la figura materna, ritta accanto alla testimonianza fattasi ghiaccio in cui addensano tutte le lacrime dei morti nell’aria; tutti gli ebrei trucidati aspettano lì, in un cristallo a sei punte, di essere liberati e consegnati alla memoria collettiva e al sentire umano.

Per Inge, invece, l’approdo alla “verità” si raggiungerà solo rompendo il ghiaccio del silenzio. Solo penetrando al di là di questo diaframma si potranno rievocare le “memorie taciute” dei “crimini accaduti sui luoghi reali del delitto, quelli interiori”. Solo guardando nel cuore nero del papavero - vicino a quella “malattia della morte” che ci abita, come la chiamava Marguerite Duras - il poeta potrà portare alla luce. La testimonianza e la poetica della Bachmann la ritroviamo tutta in un suo discorso pubblico: “Perché noi tutti vogliamo diventare vedenti. E solo dopo aver provato quel dolore segreto possiamo sentire (in modo diverso) ogni esperienza, ed in particolare quella della verità. Quando giungiamo a questo stato in cui il dolore diventa fertile, stato che è insieme chiaro e triste, noi diciamo, molto semplicemente, ma a ragione: mi si sono aperti gli occhi. E non lo diciamo perché abbiamo davvero percepito esteriormente un oggetto o un avvenimento, ma proprio perché comprendiamo ciò che non possiamo vedere. E l'arte dovrebbe portare a questo: far sì che, in tal senso, i nostri occhi si aprano. Lo scrittore - e anche questo è nella sua natura - è rivolto con tutto se stesso ad un Tu, all'uomo al quale vorrebbe far giungere la sua esperienza degli uomini (o la sua esperienza delle cose, del mondo e del suo tempo, sì, anche di tutte queste cose insieme!). Ma soprattutto egli vuole che giunga la sua esperienza dell'uomo che egli stesso o altri possono essere nel momento in cui sono al massimo grado uomini. Con tutti i sensi vigili, egli cerca di delineare la forma del mondo, i tratti dell'uomo in questo tempo. (…) Perché in tutto quel che facciamo, pensiamo e sentiamo vorremmo talvolta giungere fino al punto più estremo. In noi si sveglia il desiderio di oltrepassare i limiti che ci sono imposti. Ma, all'interno dei limiti, abbiamo lo sguardo rivolto a ciò che è perfetto, impossibile, irraggiungibile, che sia nell'amore, nella libertà o in qualche altro valore puro. Nel contrasto tra possibile e impossibile ampliamo le nostre possibilità. E secondo me ciò dipende dal fatto che noi stessi produciamo questo rapporto di tensione che ci fa crescere; che tendiamo ad una meta che veramente si allontana ogni volta che noi ci avviciniamo ad essa(…) perché la nostra forza è più grande della nostra sfortuna, che, anche se privati di molto, si riesce a rimanere in piedi, che si riesce ad essere delusi, che cioè si riesce a vivere senza farsi illusioni. Credo che all'uomo sia concessa una specie di orgoglio, l'orgoglio di chi, nella buia prigione del mondo, non si dà per vinto e non smette di cercare ciò che è giusto.”

Come avviene in narratori quali Proust, Virginia Woolf, Duras, o in poetesse suicide come Silvia Plath e Marina Cvetaeva, l’esperienza del dolore cui la Bachmann fa riferimento è ragione e scopo dell’attività artistica, la cui funzione è rendere “vedenti ” i lettori.

Paul Celan morirà suicida a Parigi, il 20 aprile 1970, gettandosi nelle acque della Senna; e sarà ritrovato solo dieci giorni dopo da un pescatore. Inge morirà a Roma, il 17 ottobre 1973, bruciata, in un incendio nel suo appartamento. Scriverà in Malina: “La mia vita finisce, perché lui è annegato nel fiume durante la deportazione. Era la mia vita. Io l’ho amato più della mia vita.”
Aveva scritto versi profondamente affini a quelli di Celan: “In questi giorni, mi levo con le betulle/ e sulla fronte ravvio le ciocche di frumento/ davanti a uno specchi di ghiaccio.


Paul Celan e Ingeborg Bachman. Troviamo le parole. Lettere 1948-1973. Nottetempo. Euro 25,00.








02 settembre 2010

L’altro sguardo": per una riabilitazione del Novecento poetico femminile" di Davide Pugnana

“Le grandi voci della nostra vita attraversano spesso una zona di silenzio prima di raggiungerci.” (Marguerite Yourcenar)


I

La frase messa in epigrafe è tratta da un saggio di breve respiro - tra i più illuminati del Novecento - che Marguerite Yourcenar ha dedicato alla figura e all’opera del romanziere giapponese Mishima ("Mishima, o La visione del Vuoto"), l’ultima, grande presenza maschile ad essere (ri)visitata dalla mente coltissima e sovranamente intuitiva della scrittrice francese.

Ho scelto di estrapolare questo passaggio perché tra tutte le immagini possibili, questa figurazione spaziale della “zona di silenzio”, raggiunta a getti caldi e intermittenti da alcune “grandi voci” - voci giunte quasi fatalmente e per volontà di un destino oscuro - traduce alla perfezione la complessità e la fecondità creativa della ricerca poetica femminile dentro il Novecento. Non solo: la “zona di silenzio” permette di trovare, al contempo, l’equivalente allegorico della condizione di esclusione e di marginalità della scrittura femminile sul terreno delle selezioni, dei ’cànoni’ e delle logiche che regolano la compilazione dei manuali e delle antologie.

Focalizzandoci sul Novecento italiano (e tralasciando quel netto florilegio maschile che è la ‘Storia della letteratura’ del De Sanctis), possiamo seguire questa esclusione comparando due famose antologie di poesia del Novecento: la prima è quella di Pier Vincenzo Mengaldo (“Poeti italiani del Novecento”), la seconda è quella compilata da Edoardo Sanguineti (“Poesia italiana del Novecento”).

Entrambe coprono quasi l’intero secolo; ed entrambe svolgono due livelli di analisi affini: negli ampi saggi introduttivi, i due autori delineano la loro storia e la loro periodizzazione, alla ricerca delle origini della modernità lirica in Italia; mentre ai singoli poeti dedicano un medaglione, nel quale vengono fissate vita e poetica. Si spinge l’asse cronologico fino ad includere Pascoli e D’Annunzio, quali termini di inizio; seguono crepuscolarismo (Gozzano e Corazzini); Govoni e Palazzeschi, passando per i vociani (Sbarbaro e Rebora, soprattutto); una sosta intensa nel paesaggio orfico di Campana e in quello interiorizzato della Trieste di Saba; poi si accede alla camera oscura dell’ermetismo (Luzi, Quasimodo, Gatto, Penna), e si tocca il baricentro del secolo con le due “funzioni” maggiori: Ungaretti e Montale. Dopo una lunga sosta tra nudi versi carsici e viaggiatrici alate prese tra bufere metafisiche, si prosegue nella generazione successiva con Bertolucci, Caproni, Zanzotto, Sereni, per giungere a sfiorare i bordi della poesia dialettale (Giacomo Noventa, Biagio Marin e Delio Tessa; Virgilio Giotti, Albino Pierro e Franco Loi). Chiudono le due antologie gli outsider Pavese e Pasolini; Sanguineti e Raboni (in Mengaldo) e i rappresentanti del gruppo ‘63 (in Sanguineti). Tra le due antologie passa una leggera variazione: Mengaldo si permette di includere dieci liriche di Amelia Rosselli.

Questo rapido attraversamento delle due antologie poetiche più famose, dà un’idea, contingente e tangibile, della “zona di silenzio”, ossia dell’assenza delle poetesse italiane del Novecento durante la formazione del cànone poetico novecentesco. Questo modello (e questa impostazione storico-metodologica) è venuta poi rispecchiandosi nelle antologie per il liceo, tutte improntate a consegnare una storia letteraria declinata al maschile (salvo la narrativa morantiana e le recenti, ma ancora rare, ’sezioni’ tematiche dedicate al nodo femminismo-letteratura).

La sola eccezione risale al lontano 1951, allorquando Giacinto Spagnoletti pubblicò l’antologia “Poetesse del Novecento”, includendo le liriche di una giovane sconosciuta di nome Alda Merini. Così dovremo attendere il 1996 per avere finalmente tra le mani un’opera organica, capace di raccogliere la lezione censurata e la parola sommersa delle poetesse del Novecento.


II

“L’altro sguardo. Antologia delle poetesse del Novecento” (1996) è stata da poco ripubblicata, in versione aggiornata, nella collana mondadoriana dedicata alla Poesia del ’900. Dopo esattamente quattordici anni torna al pubblico ripulita, arricchita di altre sei voci poetiche femminili - tra le quali la stessa Alda Merini - e con la curatela filologico-critica di Guido Davico Bonino e di Paola Mastrocola, alla quale si deve il pregio di un’introduzione articolata intorno a nodi interrogativi sulla natura e sulla specificità della lirica femminile. Lungo quattrocento pagine, vengono raccolti testi che coprono più di un secolo di storia letteraria mondiale; si attraversano i principali movimenti artistici e gli snodi di poetica individuale. Come grani di rosario ordinati in successione lineare, vediamo snodarsi e moltiplicarsi le 'voci' di poetesse appartenenti a luoghi geografici e ad anni differenti (si va da poetesse nate negli ultimi decenni dell’Ottocento a figure recentemente scomparse).

Il titolo dell’antologia è il segno più evidente della volontà di mostrare la presenza di questo continente sepolto, di questo Novecento ‘non ufficiale‘ che lavora, trasversalmente, sotto quello dorato e rotondo dei grandi maestri canonizzati. L’espressione “altro sguardo” è figlia di un desiderio che da lungo tempo chiedeva di essere esaudito: il desiderio di far conoscere al lettore italiano l’altro versante del XX secolo, quello della ricerca poetica femminile, tutta votata allo scavo del dolore, alla testimonianza della durassiana “malattia della morte”: quella cifra segreta della vita individuale e collettiva del secolo scorso.

Ma l'espressione "altro sguardo" fissa anche l'alterità del punto di vista femminile, una lente conoscitiva obliqua, rispetto alla quale il gusto e l'orizzonte d'attesa del lettore italiano rimane spiazzato. Che cosa agisce di nuovo e di perturbante in questo contatto? Nel panorama che schiude l'antologia, dov'è il 'punctum' rispetto allo 'studium', per usare il felice binomio barthesiano? Porsi di fronte e interrogare la ricerca poetica femminile - tutta votata allo scavo del dolore e alla formazione di una parola assunta su di sé, sul proprio corpo, come scheggia nella carne - apre alla scena di un Novecento punteggiato di "agnelli sacrificali". Dietro questa omissione della presenza muliebre, non pesa solo un pregiudizio di ordine ’maschilista’, già smantellato, a più riprese, dagli storici movimenti femministi e dalla teorizzazione stratificata (biologica; storica; psicoanalitica; letteraria; antropologica ecc.) di Simone de Beauvoir ne “Il secondo sesso”.

E' pur vero che nei confini di senso di questa recensione, il versante storico non ci interessa; ci interessa, invece, capire l’origine dell’oscuramento dei percorsi creativi femminili e, in ultimo, ci preme trovare la possibilità di isolare dal coro una “definizione di poesia” che si intrecci ad un modo dell'essere-nel mondo, ossia giungere all'anello più profondo dell'interpretazione, laddove i testi si congiungono alla vita e la vita all'elaborazione creativa. Qui sta un possibile 'punctum' latente dell'antologia: la conoscenza progressiva dell'"altro sguardo" può innescare un'accelerazione innovativa capace di investire e apportare linfe nuove all'immaginario del lettore italiano.

Il campionario rubricato dai curatori ha l'ampiezza di una galleria: ci vengono incontro poetesse diverse, per formazione e direzione di scavo e di ricerca; ogni io lirico ci spinge ad interrogare una parola che si rivela e si con-fonde con un sottosuolo oscuro e doloroso, appassionante. Sono testi che spaventano per la loro radicalità; che portano davanti a scenari ’notturni’ e 'censurati'; sono testi che (ri-)producono i woolfiani 'tagli' di gioia e dolori; che utilizzano - per dirla con il francesista Carlo Pasi - una "comunicazione crudele' : quella che fugge il consenso e l'integrazione, e preferisce "la creazione silenziosa nelle zone d'ombra", impastate di conflitti e di malinconie; o ancora: quel viaggio che sceglie una verticalità rovesciata in basso, verso "realizzazioni più affilate, coinvolgenti, (che) irrompano da vortici di opacità, dai bordi dell'afasia, attraversando le lesioni del linguaggio.".

Per questo, è stato detto che le scritture femminili - in poesia come in prosa (e basti, sopra tutte, l'incidenza della produzione durassiana, la sua influenza di stile su scrittrici come Agota Kristov o Herta Muller) - rappresentano una delle espressioni più radicali, più estreme, della crisi prodotta nella coscienza moderna dalla violenza delle forze distruttrici che hanno sconvolto la civiltà novecentesca: questo secolo abrasivo, percorso da polarità e contraddizioni memorabili, diviso tra impulsi necrofili e impossibilità di generare bellezza (pensiamo al monito di Adorno e della morte della poesia dopo Auschwitz, e al controcanto di Paul Celan con la sua Muttersplache, la 'lingua della madre').

Nel mezzo di questa crisi dei fondamenti, che ha investito il pensiero, la parola, i sistemi di percezione e di rappresentazione, ogni scrittrice si è spinta fino a mettere a nudo la dimora che le è propria: il linguaggio bucato, scarnificato e sradicato da se stesso; la 'parola' lavorata e raffinata a partire dalla lotta con un grumo profondo, intricato di silenzi e di feritoie, ma accolto e capito. Un linguaggio che, prima di tutto, diventa il luogo di un’interrogazione implacabile e senza fine. Si attraversa così, via via, la "zona di silenzio", divisi tra senso della perdita ed esclusione, tra esilio e orfanità; ma nella quale ci è dato trovare il nome della propria disperazione vitale.

Questo spazio di precarietà, soggetto a visitazioni terribili e a svuotamenti improvvisi, penetra all’interno della scrittura femminile; ne diventa il “corpo” testuale, che spesso si affida a frammenti, o a metafore affilate come rasoi. Scrivere è dunque per queste poetesse un cammino verso l’ignoto; un viaggio dentro il nostro “interno paese straniero” (Freud), paese plurale, luogo familiare e straniero a un tempo. Scriverà Marianne Moore: “Neanche a me piace: vi son cose più importanti di tutte queste inezie./ A leggerla, però, con tale disprezzo, vi si scopre,/ dopo tutto, uno spazio per l’autentico.” (La poesia).

A questa affermazione risponderà Paola Mastrocola nel cuore della sua Introduzione: “Se dovessimo indicare una marca specifica della poesia femminile, vorremmo suggerire proprio questa, sulle orme della Moore: scrivere poesia è per le donne trovare un luogo depositario dell’autentico. Vogliamo dire che la scritture femminile in versi è particolarmente, forse più di quella maschile - dovendo qui per necessità generalizzare -, costruita sulla ricerca della verità: innanzi tutto della propria verità, di ciò che nella propria vita è ‘vero’; scrivere è riflettere su se stesse, riflettersi, piegarsi dentro e lì dentro guardare, a costo di trovare il buio e l’orrore. È questo estremo ’coraggio dello sguardo’ che rileviamo come peculiare; non è tanto una predilezione dei temi autobiografici, né tantomeno, un’idea di scrittura come sfogo, o luogo dell’analisi del sé; se l’io è a volte molto in primo piano, è per questo carattere autoriflessivo che naturalmente ha la scrittura poetica per la donna: potremmo dire che fatalmente la vita trova un suo luogo privilegiato nell’opera.” (pp. V-VI).

Da questo “coraggio della sguardo” e dalla varietà degli statuti che l’io lirico assume in questo viaggio dentro l’invenzione poetica femminile, l’espressione "altro sguardo” , dunque, si legittima definitivamente come la ricognizione necessaria della “zona di silenzio”: volontà di rapppresentare quel sentimento tragico dell’esistenza, quelle ferite e quelle mutilazioni, che la scrittura femminile ha imparato ad assumere su di sé, e, in alcuni casi, a trasformare nel destino tragico (suicida) che segna molte biografie.


III
La fitta presenza, nell’antologia, di testi che intendono rispondere alla domanda “che cos’è il poeta e la poesia?” ci invita a percorrere un terreno di grande fascino: quello di rintracciare (o, almeno, di avvicinarsi a capire) la presenza di un fondo comune, di una 'poetica', o di un registro della fantasia che marchi e stringa - sotto un comune denominatore - i modi di raffigurazione scelti dal genio femminile. E proprio sulla natura del talento femminile, mi è capitato di scoprire un pensiero di Baudelaire che, per la sua incisività, trascrivo: “L’uomo che, fin dall’inizio, è stato a lungo immerso nella molle atmosfera della donna, nell’odore delle sue mani e del suo seno, delle sue ginocchia, dei suoi capelli, dei suoi vestiti docili e fluttuanti, ha contratta una delicatezza d’epidermide e una distinzione d’accento, una sorta di androginia, senza le quali il genio più aspro e più virile resta un essere incompleto.”. Non ci sono distinzioni di “genere”; questo dualismo psichico è inteso da Baudelaire come fondo necessario alle nature poetiche; lo ritroviamo in un sonetto giovanile di Marguerite Yourcenar, nei termini di uno “sguardo” scisso sulle cose. Ne riporto i versi salienti:


“In questo frantumarsi che è la realtà,
gli esseri divisi in lui si ricompongono;
il dolce mostro perfetto s’è steso sulle rose;

(…)

E chiudendo i suoi occhi di penombra e di fiamma,
nel tenero abbandono di un dio che sarebbe donna,
propone al desiderio l’enigma del corpo” (Ermafrodito)


La ricerca del fondo e dell’essenza delle cose avviene, per molte poetesse, attraverso questo ‘sguardo bifronte’; un atto conoscitivo che nasconde la volontà di capire l’altro da sé, di riflettersi/sdoppiarsi per trovarsi, e marcare, non la differenza col mondo maschile, ma la complessità della natura umana. “Non è un caso - scrive la Mastrocola - che alcune poetesse si scelgano un nome maschile, o dicano di sé al maschile; è il desiderio di essere anche l’altro, nella nostalgia dell’eterno Ermafrodito”.



IV
“Ogni vero poeta ci dà l’emozione di renderci testimoni della nascita della poesia”, sostiene Nadia Fusini, e questa vertigine la percepiamo nell’istante in cui la parola poetica trova un corpo e una lingua in cui incarnarsi. È per questo motivo, forse, che nell’antologia ampio spazio è riservato a quei mèta-testi nei quali le poetesse fissano la loro idea di testo-corpo.

Troviamo i “libri” di Anna-Elisabeth de Noialles, dove vi è depositato, nel fondo, “come fanno i bambini che mordono le mele,/ il segno dei denti”, e sulle pagine stese “le mani”, “la testa”, il “pianto”, la “fronte” e lo “sguardo” che proviene da ombre e da “tristi sabbie”, sopra le quali la notte è “blu e nera” e si confonde con i capelli;
mentre il testo di Natalie Clifford-Barney chiede la complicità dell’amico lettore, affinché si possa “eludere tutti i giochi del caso,/ congedare la sorte, scegliersi, non troppo tardi,/ i propri veleni”, e inventarsi “un prossimo me-stesso”.
Marianne Moore si spinge più lontano, sceglie un sublime dal basso, nella materia primigenia dalla quale la parola si stacca per diventare Forma: “se pretendi da una parte/ la materia grezza della poesia/ allo stato più grezzo che ci sia,/ dall’altra parte ciò che è genuino, /allora ti interessi alla poesia.” In questo processo alchemico, la mente diventa “una cosa incantata, / come lo smalto sopra/ un’ala di locusta,/ suddiviso dal sole (…)”, la ragione sospende il suo corso per una lucidità nuova, per aprirsi all’ “orecchio della memoria,/ che sa udire/ come l’inclinazione del giroscopio,/ che è davvero univoca perché/ imperante certezza la governa,/ e un potere/ di forte incantamento.”
Per la poetessa rumena Rose Auslander, la parola del testo ha uno “scintillare adirato”, è parola “d’inverno” che si ferma e genera molte poesie, ma non raggiunge quella “danza variopinta delle lettere dell’alfabeto/ consonanti vocali/ vocaboli tasto/ vastità e profondità/ delle parole/ cerco invento/ la parola/ furtiva.”
La spagnola Angela Figuera Aymerich dedica alla figura e alla funzione del 'poeta' una della poesie più belle dell’antologia:


Più di un giorno mi duole di essere poeta.
Di aver labbra, aver gola, che si apprestano al canto.

Ben facile è vivere quando solo si vive
muto e sobrio, schivando stordimenti e ricerche.
Ma colui che è poeta né in mezzo al tumulto
né imboscato otterrà il suo riposo sulla riva.

Perché a occhio senza palpebra è negata la notte
che perenne e insidiosa gli si accende e si affila.
Perché tutto il mistero, gabbiamo stramazzato,
gli martella il lembo delle sue tempie nude
e, in bocca, di impossibile bellezza stremate
s'accalcano e s'inceppano le enormi parole.

Perché egli vive e lo sa. Perché egli muore e lo sa.
Ma quel grido convulso di vita e di morte
è un falcone ribelle divorato da nubi.

Oceani, cicloni, boschi, astri abitano
l'àmbito angusto che il suo cranio circonda.
Uccelli, onde, radici, battiti, armonie,
per la rete dei nervi vibranti l'avvolgono.

Che brama di contorni gli esaspera le dita!
Che brama di cammini gli fa fremere i piedi!
E nel petto gli cresce il suo imperioso destino.

E, né dentro né fuori, sulla fine tangente
che in un punto appena alla certezza si adatta,
vigile e solitario, insonne e sonnambulo,
il poeta mantiene l'insicuro equilibrio.
(Poeta)



Nel finale dell’antologia si arriva allo 'sguardo' di Marina Cvetaeva, un filtro potente capace di rivelare l'anima tragica del Novecento; e la scelta dei curatori cade su una delle più alte dichiarazioni di poetica:


Il poeta

Ci sono al mondo i superflui, gli aggiunti,
non registrati nell'ambito della visuale.
(Che non figurano nei vostri manuali,
per cui una fossa da scarico è la casa).


Ci sono al mondo i vuoti, i presi a spintoni,
quelli che restano muti: letame,
chiodo per il vostro orlo di seta!
Ne ha ribrezzo il fango sotto le ruote!

Ci sono al mondo gli apparenti - invisibili,
(il segno: màcula da lebbrosario)!
ci sono al mondo i Giobbe, che Giobbe
invidierebbe se non fosse che:

noi siamo i poeti - e rimiamo con i paria,
ma, straripando dalle rive,
noi contestiamo Dio alle Dee
e la vergine agli Dei!

Sulla scia di questa preziosa antologia di ampio respiro, la speranza è quella di una rilettura del cànone poetico novecento che includa, e riabiliti, i processi creativi delle scritture femminili. Il tempo ci darà ragione o torto.