30 ottobre 2020

"Se mi porti con te" di Marisa Cecchetti



di Luciano Luciani

Scrittrice navigata Marisa Cecchetti. Con pagine ora in prosa ora in poesia, da almeno due decenni, l’Autrice toscana scandisce il tempo della nostra contemporaneità trasfigurando liricamente situazioni e circostanze, persone e piccole storie, incontri e novità del vissuto quotidiano, quello che tutti conosciamo perché comune a ognuno di noi. 

Sempre chiari e curiosi i suoi occhi e sempre capaci di cogliere il dettaglio significativo, il particolare che racchiude Dio, la pepita dorata comunque presente anche nelle vite più semplici, nelle condizioni umane più ordinarie. 

Insomma, Marisa Cecchetti è una raffinata evocatrice che, attraverso le parole, si rivela ogni  volta capace di far emergere dal confuso apparato del presente suggestioni di bellezza apparentemente invisibili, inquietudini nascoste, vibrazioni sopite di dati memoriali, rintocchi emotivi appena percettibili ai più… 

Anche in questa sua ultima breve silloge poetica, Se mi porti con te, 27 testi datati ai tempi recenti, faticosi e dolorosi del contagio, la poetessa pisano-lucchese mantiene tutte le caratteristiche della sua poetica: le sue riflessioni sono offerte in forme sommesse e in un tono modesto. 

Se l’arredo dei suoi versi si mostra disadorno e, come sua abitudine, preferisce modi stilistici controllati e disciplinati, pure, nei suoi versi sembrano insinuarsi nuove sfumature che evocano un’apprensione mai provata, una nuova paura, un’inedita angoscia: quella recente del contagio, del morbo subdolo e invasivo, un timore che avevamo per sempre relegato nell’ambito opaco di memorie storiche remotissime. Uno sgomento che mai avrebbe potuto riguardare noi, i figli onnipotenti del secolo scorso che pure con maggiore o minore agilità siamo riusciti a traghettarci nell’attuale. 

Accade così che i versi di Marisa si riempiano di un lessico per lei, artigiana della parola ordinata e composta, del tutto inusuale. Versi e lessico che raccontano di un tempo sospeso sine die, di tremori e antiche paure, di silenzi che bloccano la socialità, di comportamenti impacciati sino all’affanno, di parole e sorrisi nascosti e quasi vergognosi, di un’esistenza che si fa forzatamente introversa. 

E se le parole della poesia riescono con compiutezza a esprimere questa nuova condizione negativa toccata in sorte all’umanità, possono, ancora una volta e una volta di più, le parole della poesia contribuire a dare speranza? Sì, se ci aiutano i sogni che sanno dilatare i limiti di un’esistenza forzatamente costretta o se, in questo mare opaco di forzata solitudine a cui siamo stati inopinatamente costretti, ci manteniamo capaci di cogliere comunque una parcella di vita, di bellezza. Sì, se ci aiutano il sole, il vento, la pioggia che croscia, un fiore da curare, una canzone improvvisa che ci sorprende e commuove, una primavera che comunque rivendica i propri diritti, la telefonata di un amico… 

Non c’è rabbia nei versi di Marisa, né gridi di rivolta esistenziale: piuttosto una pacata accettazione che non è, però, rassegnazione allo stato di cose presente. Continua a mantenersi vigile e imperterrito l’Io dell’Autrice e il suo esercizio della ragione che sa e vuole darsi conto del dolore proprio e di quello altrui e della presenza, non sempre positiva e benigna, dell’uomo nella natura e nel mondo.

Marisa Cecchetti, Se mi porti con te, Giovane Holden edizioni, Viareggio 2020, pp. 32, Euro 9,00

 

 

20 ottobre 2020

"Il Passatore. Diabete e vita asocial" di Iulian Emil Murgoci

 


Il Passatore 2019. Diabete e vita “asocial”

 di Luciano Luciani

Li chiamano runners, corridori, non risparmiandoci neppure in questo caso l’anglismo di moda. Piccola minoranza sino a pochi anni fa, oggi corrispondono a una porzione rilevante della popolazione. Corrono tutti: gli uomini e le donne, gli adolescenti e gli anziani, gli impiegati di banca e i percettori di reddito di cittadinanza, le partite Iva e i dipendenti pubblici… Periferie e centri storici, viali e ville comunali, lungofiumi e lungolaghi sono attraversati a tutte le ore da decine, centinaia, migliaia di amanti della corsa e dei suoi presunti benefici. Dicono, infatti, che faccia bene alla salute. E così, in nome di una buona qualità dell’esistenza, li vediamo, questi forzati salutisti, corricchiare, trotterellare, galoppare sulle brevi e brevissime distanze e camminare di buon passo per tratti appena appena un po’ più lunghi. Zelanti interpreti degli attuali stili di vita, sudati, sbuffanti, ansimanti, scaracchianti, col linguaggio di un corpo messo a dura prova, significano a noi, inveterati lentopedisti, tutto il senso di una fatica tanto improba quanto probabilmente inutile.

Ma un breve libro autobiografico di un giovane autore romano di origini romene, Iulian Murgoci, col racconto della sua passione per questo sport, la corsa a piedi, rivaluta, anche ai nostri occhi scettici, la pratica fisica eroicamente nobilitata da Filippide due millenni e mezzo fa e che ogni quattro anni in occasione delle Olimpiadi ci regala sempre non poche emozioni. Ci comunica, Iulian, il suo personale approccio e il suo entusiasmo per il running: utile per rimodellare un corpo, il suo, che non gli piace e con cui convive a fatica; per reagire, a colpi di prestazioni sempre migliori, a bassi, bassissimi, livelli di autostima; per uscire dall’umor nero dello sconforto e della depressione che l’hanno già portato a gesti insensati di autolesionismo. L’Autore, con pagine di un dettagliatissimo e straziante iperrealismo letterario, ci aggiorna momento per momento sulla sua situazione esistenziale, fisica e psicologica. Ci racconta la scoperta della corsa come terapia, i suoi piaceri, le emozioni e le soddisfazioni che una tale gara con se stessi e con gli altri può regalare. Ma correre può bastare a restituire senso, direzione e significato alla propria vita? Certo, i buoni risultati aiutano, danno morale, contribuiscono a contrastare almeno per un po’ il sentimento sempre in agguato dell’inadeguatezza… E quando poi l’Io narrante, Iulian, dopo una lunga e minuziosa preparazione, partecipa, con un ottimo piazzamento, all’ultramaratona intitolata al Passatore, romantico brigante romagnolo della metà dell’Ottocento, cento chilometri con partenza da Firenze e arrivo a Faenza, lungo le severe strade dell’Appennino, al Nostro sembra di toccare il cielo con un dito perché sta per entrare nell’Olimpo riservatissimo dei grandi runners.  

Ma si sa la vita non fa quasi mai regali, anzi! E prima o poi ti presenta sempre il conto che talvolta risulta essere salatissimo. Soprattutto quanto tu quella vita l’hai provocata con eccessi, comportamenti sregolati, e condotte al limite. E così quel corpo, per troppo tempo costretto a tempi, distanze e prestazioni d’eccellenza ti abbandona e ti lascia ancora una volta fragile, malato, vulnerabile. Per Iulian inizia così la vera gara: quella per continuare a vivere e ritrovare un equilibrio psicofisico che sembra perduto per sempre. E anche qui fatiche e sofferenze, le tue e quelle di chi ti vuole bene, salite e discese dietro le quali si nasconde la morte o la sua succedanea, la malattia invalidante. Ma Iulian è uno tosto e non molla. Neppure quando la disperazione comincia spesso, troppo spesso, a fare capolino tra le pieghe di giorni ospedalieri sempre uguali, in mezzo a terapie provate e abbandonate perché inadeguate, alle prese con un organismo e un cervello che non ne vogliono sapere di trovare una stilla di requie. Poi, a poco a poco, Iulian riesce a fare pace col proprio corpo: lo aiutano i medici e gli infermieri, una madre vigile e inflessibile nel rispetto delle terapie, l’amata cagnetta Nadine e la solidarietà e la condivisione di tanti e tanti altri compagni di sfortuna.

Oggi Iulian appare un uomo nuovo: non lo spaventa un’impegnativa patologia diabetica che gli impone controlli continui e snervanti e non poche complicatezze alimentari. I pensieri autolesionistici sembrano lontani, ormai alle sue spalle. Ha anche ripreso a correre, sia pure con moderazione. Durante i lunghi giorni d’ospedale si è guardato spesso intorno e ne ha ricavato l’impressione di un mondo solo apparentemente “social”, ma nel profondo egoista, fatuo, narcisista a cui il nostro giovane scrittore non vuole arrendersi. E scrive: “non credete anche voi che lo slogan “andrà tutto bene” uscito fuori durante il lockdown dovrebbe prendere la forma di un abbraccio reale, braccia strette attorno alle nostre spalle in maniera fraterna anziché postare foto in rete?”

Una domanda retorica. Certo che sì, Iulian.

Iulian Emil Murgoci, Il Passatore. Diabete e vita “asocial, Abra Books Narrativa, Vicenza 2020, Euro 12,00

12 ottobre 2020

“La testa perduta di Damasceno Monteiro" di Antonio Tabucchi

 

 di Gianni Quilici

                Un delitto. Ferocissimo. Un giovane viene trovato da un vecchio zingaro in una boscaglia abbandonata, vicino al Douero, nei pressi dell’antica e affascinante Oporto, con la testa tagliata. Un giovane giornalista viene inviato dal quotidiano della capitale per fare un’inchiesta. Lo aiuterà un testimone intimidito e un perspicace avvocato.

Non è il classico giallo, manca la ricerca dell’assassino.

Non è neppure un classico thriller, penso ai romanzi di Patricia Highsmith, pieni di una tensione spasmodica, nonostante che l’assassino sia spesso il protagonista stesso.

 E’ un romanzo civile, che denuncia la tortura, gli abusi della polizia, la complicità della giustizia, la marginalità delle minoranze etniche, senza tuttavia avere la forza espressiva di Sostiene Pereira.

 Perché è’ un romanzo lineare. Tutti i personaggi sono chiusi in questa sorta di linearità. Il giovane giornalista, Firmino, che vuole scrivere un saggio su Vittorini e il neorealismo portoghese, ingenuo, che poco scopre di sé e della situazione. L’avvocato corpulento e  calvo, le guance cadenti e le labbra carnose somigliante a Charles Laughton, ma più simile letterariamente a  Orson Welles. Lo vediamo seduto in una sala enorme stracolma di libri con un enorme sigaro in bocca e la sicurezza oracolare e paternale di chi sa cosa dire e cosa fare. Vera coscienza del romanzo, ma le cui indicazioni e lezioni che infligge a Firmino da una parte lo rendono troppo statuario,  privo quasi di contrasti, e dall’altro il passato che incombe su di lui come una tragedia lo rende letterario, non vitale. Infine i personaggi minori sono abbozzati.

E’ uno di quei romanzi di denuncia, a cui Tabucchi ha voluto troppo bene, senza avere la forza di metterlo in discussione.

Si legge bene, è visivo, ma scivola via. Non colpisce come tensione narrativa, ne’ come complessità esistenziale.

 Antonio Tabucchi. La testa perduta di Damasceno Monteiro. Feltrinelli

"L’invenzione della violenza " di Carla Rosco

 


“Voglio scrivere un racconto, scrivo e leggo per sentirmi in compagnia … vengo da una famiglia numerosa con tante tante parole …” dice Saman.

“Mi sembra una buona idea, una buona pratica … Il linguaggio non è istintivo, è acquisito tra gli umani e per gli umani” commenta Piero, comodamente seduto in poltrona.

Di fronte a lui due anime in cerca di scambi profondi: Saman (melodie in sanscrito) e Arim (scimmia in etrusco), così amano chiamarsi fra di loro da qualche giorno; si divertono aggiungendo ogni tanto un nuovo nome al proprio.

Continua Piero: “Lo studio dei bambini abbandonati in natura o gravemente trascurati ci conferma che il linguaggio verbale lo acquisiamo dall’ambiente sociale in cui viviamo durante un periodo critico e precoce dello sviluppo. Essere umani si diventa: questa è l’essenza dell’evoluzione bio-culturale degli esseri umani”.

Piero è un giramondo, innamorato della sua compagna Silvana e della nonviolenza.

Ha fatto ricerca e insegnato in varie Università occupandosi di sviluppo biologico, neurologia, storia della medicina, educazione alla pace.

Arim è scettico sulla possibilità di cambiare a questo punto dello stato delle cose: “Quanto mi piacerebbe vivere in una società nonviolenta! Ma come si fa a cambiare il modo di vivere se le orecchie delle persone sono ben tappate dalle abitudini, dalla paura del nuovo … “

“E’ vero – dice Piero – con gli adulti è difficile. Bisogna contare più su adolescenti e bambini, più disponibili ad ascoltare e ad imitare comportamenti diversi. Ma chi potrà essere per loro l’educatore giusto per questa impresa culturale? La violenza l’abbiamo inventata circa 6000 anni fa e si è trattato di una innovazione culturale. La grande Maria Montessori, che ebbe più successo all’estero che in Italia a causa della sua incompatibilità con il fascismo, fece scrivere sulla sua tomba in Olanda: Io prego i cari bambini, che possono tutto, di unirsi a me per la costruzione della pace negli uomini e nel mondo”.

Saman si alza dal divanetto per prendere un bicchiere d’acqua dal tavolo sul quale c’è un’allegra confusione: libri, riviste, bottiglia d’acqua con bicchieri, una piantina ed altro non meglio identificato.

Una volta seduta di nuovo, si rivolge a Piero malinconica: “Mio caro Piero, credo di essere diventata quasi un essere umano per fortune iniziali – il concepimento, la nascita e mia madre Antonietta innamorata dei bambini. Avevo un cuore allargato, pronto a gioire, un cane che scodinzola mi sentivo … poi mi sono accorta di essere in mezzo ad un sacco di gente malevola, che nascondeva i cattivi sentimenti dietro falsi sorrisi, che parlava e manovrava alle spalle … uomini e donne. Ho dovuto rassegnarmi: mi dovevo proteggere. E ho fatto molta fatica perché mi piaceva sentirmi aperta, fiduciosa, innamorata delle persone. Purtroppo l’educazione che gira in famiglia e dovunque è competitiva e aggressiva e produce esseri poco umani, maschi e femmine, che sono immersi nello stesso brodo culturale”.

“Beh – dice Piero – senti questa: l’Organizzazione Mondiale della Sanità dal 1994 ha classificato la violenza come una malattia. Significa che la maggior parte degli esseri umani del terzo millennio è malata”.

“Che peccato! – dice Saman – Tu almeno hai una certa fiducia nelle donne, che secondo te hanno potuto mantenere, nella loro educazione, un buon grado di umanità, poiché il processo culturale di disumanizzazione che ha accompagnato l’invenzione della violenza ha danneggiato più gli uomini che le donne”.

“Sai – dice Piero – ho parlato in molti paesi del mondo a persone interessate alla promozione sociale. Ho sempre preso nota del rapporto di genere nel pubblico: in media gli uomini sono meno del 10%. Anche nel campo politico – politica di servizio, non di potere – ci sono tantissime donne. Del resto esistono molte prove in varie discipline accademiche sulla posizione centrale (non superiore) delle donne nella storia biologica, culturale e spirituale dell’umanità. Nel periodo del Tardo Neolitico l’uguaglianza di genere e la centralità femminile sono state sostituite in quasi tutte le culture da diversi modelli di regimi patriarcali, con impressionanti conseguenze negative per l’umanità.

Bisogna ricordare che durante lo stesso periodo del Medio-Tardo Neolitico fu inventata la produzione di cibo: grandi insediamenti umani produssero gerarchie e varie forme di violenza”.

Ora è Piero che si rinfresca la gola con un sorso di acqua.

“Una curiosità – riprende Saman –. Come mai, Piero, non fai nessun cenno, nessuna nota sull’ipotesi fatta dall’archeologa Marija Gimbutas circa le successive invasioni dei Kurgan provenienti dalle steppe del nord-est verso la Vecchia Europa (dagli altipiani dell’Anatolia fino alle coste mediterranee della Francia e della Spagna, passando per i Balcani e il Tavoliere delle Puglie).

Nella civiltà della Vecchia Europa (più o meno dal 7500 al 3500 a.C.), fondata sull’agricoltura e sull’allevamento, non esisteva il dominio di un sesso sull’altro, non fortificavano i villaggi e vivevano in modo nonviolento. I Kurgan avevano il culto del valore guerriero e con la violenza e il patriarcato pian piano riuscirono ad avere la meglio”.

“Non ti rispondo oggi … la prossima volta che ci vediamo, spero a breve, saprò soddisfare la tua curiosità …”

Arim propone di fare due passi in giardino, visto che c’è ed è anche grande: “E’ il primo giorno di primavera, andiamo fuori e intanto faccio una domanda a Piero sulla nascita della violenza. Tu sostieni, insieme ad altri studiosi, che la violenza fu la conseguenza della produzione di cibo in tre punti diversi del pianeta: Turchia Orientale e Mesopotamia, America Centrale, Cina del Sud, con le stesse conseguenze negative che poi si diffusero nel pianeta. Perché il passaggio a comunità più numerose provocò quella che tu definisci una tragedia?”

“Il comportamento sociale nonviolento degli uomini paleolitici era in armonia con le piccole dimensioni delle loro comunità, che permettevano loro di conoscersi e di praticare solidarietà e cooperazione. Molti aspetti del comportamento sociale degli esseri umani paleolitici sono stati rilevati dagli antropologi che vissero a lungo con le culture di cacciatori-raccoglitori nomadi di oggi – i paleolitici attuali – durante il secolo scorso. Possiamo anche dire che l’invenzione della produzione di cibo comportò un aumento di tecnologia, che fu accompagnato da una perdita di umanità. La specializzazione professionale portò ad una stratificazione sociale, senza particolari pianificazioni politiche. Più tardi si sarebbero avute consapevoli strategie sociali basate sulla violenza uomo-contro-uomo”.

Fiori dappertutto mentre passeggiano lentamente nel giardino.

Saman si ferma davanti ad una mimosa fiorita: “Piero, leggevo qualche giorno fa un’intervista a Frans de Waal, il noto etologo olandese che insegna negli Stati Uniti ad Atlanta. Ad un certo punto parla dei Bonobo, i primati altamente socievoli e pacifici del Congo, i più vicini a noi nella scala evolutiva. Dice che i Bonobo vanno presi sul serio, perché ci raccontano che nell’evoluzione abbiamo ereditato attitudini più pacifiche e cooperative di quanto pensassimo prima, senza bisogno di tutto questo contributo della civilizzazione. Siamo meno aggressivi di quanto pensiamo di essere.

La guerra è un’invenzione recente”.

“Sì, un’invenzione recente. Soprattutto sulla base di quello che sappiamo delle culture pacifiche ancora viventi sulla terra, ma anche da quello che ci ha tramandato l’arte rupestre paleolitica possiamo parlare di una nonviolenza che è durata per almeno 50.000 anni, ma molto probabilmente per circa 200.000 anni. Negli ultimi circa 5000 anni abbiamo perso – ma solo culturalmente – le caratteristiche di comportamento sociale tipiche degli esseri umani, quelle che hanno permesso ai nostri antenati di evitare l’estinzione durante i centomila, forse anche duecentomila, anni precedenti. Insomma bisogna ri-umanizzare l’attuale società violenta. La specie umana potrebbe estinguersi in tempi abbastanza brevi, a causa del livello insostenibile di violenza uomo-contro-uomo e uomo-contro-ambiente”.

Saman e Arim devono rientrare a casa per la cena: “Dobbiamo andare purtroppo – dice Saman -. Ci piacerebbe poter continuare a parlare con te, c’è calma e profonda attenzione alle parole … “

“Con voi c’è buon ascolto e vi ringrazio – dice Piero, accompagnandoci al cancello -, ma vorrei aggiungere alcune cose importanti: modeste modificazioni genetiche e importanti modificazioni culturali (da cui il termine evoluzione bio-culturale) hanno fatto emergere, circa 200.000 anni fa, la nuova specie Homo Sapiens da una varietà di forme di Ominidi che esistevano in Africa. La cultura è trasmessa da una generazione all’altra in modo diverso dall’eredità genetica, ma con lo stesso grado di fedeltà. Il fatto che il cervello degli esseri umani appena nati non sia ancora completo dal punto di vista funzionale può spiegare la diversità culturale degli esseri umani e come nonviolenza e violenza siano state trasmesse da una generazione all’altra per periodi evolutivi molto lunghi.

La definizione del comportamento sociale avviene attraverso l’imitazione degli adulti da parte dei bambini e degli adolescenti (non attraverso l’eredità genetica), questo spiega l’esistenza di circa 6000 diverse culture esistenti al mondo. La trasmissione culturale del comportamento sociale è così precisa che le diverse culture rimangono tali per lungo tempo e si è tentati di pensare che si tratti di una trasmissione genetica, benché basti una conoscenza elementare della biologia per capire che non è possibile”.

Dopo queste parole ci salutiamo con la promessa di vederci presto.

Arim si affretta lungo la discesa che porta al parcheggio, Saman procede lenta, con calma.

Le viene in mente il bel libro “Il calice e la spada” di Riane Eisler, suggerito da Piero, dove a proposito della nostra cacciata dal Giardino dell’Eden si scrive che si tratta di racconti basati su realtà precedenti, sui ricordi popolari delle prime società agricole o neolitiche, che piantarono i primi giardini su questa terra. E ancora si scrive che l’antico poeta greco Esiodo parlò di una stirpe aurea che lavorava la terra in serena tranquillità, prima che una stirpe inferiore introducesse il suo dio della guerra.

 


Ispirato dal libro di

 Piero P. Giorgi 

“La rivoluzione nonviolenta” 

Gabrielli editori, 2019.