28 luglio 2011

Jezabel di Irène Némirovsky

di Gianni Quilici


L'inizio può ricordare un romanzo di Simenon: Gladys, una donna ricca e matura, ma ancora bellissima e affascinante, entra “nella gabbia degli imputati”, perché ha ucciso con un colpo di pistola il suo giovanissimo amante... Il pubblico, abbarbicato in ogni angolo, segue l'interrogatorio sovraeccitato, desideroso di conoscere ogni più torbido segreto...

Il romanzo è un lungo flash back. Inizia con il primo ballo in società di lei, fresca ed incantevole, per arrivare a quella sera, la sera del delitto, in cui si comprendono non solo la storia, ma le dinamiche che i semplici fatti nascondono.

Jezabel è un'analisi profonda e spietata dell'amore verso la propria bellezza. Non dell'amore di sé tout court, ma dell'amore di sé legato all'immagine della bellezza e quindi della giovinezza. La grandezza della Némirovsky risiede nel rappresentare questa condizione con una radicalità, che oltrepassa ogni morale.

Jezabel si presta ad essere quindi anche un trattato analitico sul narcisismo, ma è innanzitutto un romanzo, perché, del narcisismo, descrive le più sottili sfumature, con spietata eleganza, dentro un tempo e un paesaggio.

Tutto questo costituisce del romanzo la necessità e grandezza, ma forse anche il limite.

Gladys, che nel suo spettrale pallore evoca l'ombra di Jezabel, l'ombra che nell'Athalie di Racine, compare in sogno alla figlia, ha, infatti, un destino tragico già segnato. Diversamente ne “Il ballo”, romanzo breve di formazione e che un capitolo ricorda, la ragazzina aveva di fronte a sé un futuro completamente aperto. Nel romanzo non ci sono sorprese e si intuisce ben presto che la fine della donna è inesorabilmente scontata, ineluttabile. Gladys non ha, nel suo orizzonte, alcuna possibile libertà. E' schiava della sua bellezza, che si perde. Ne' alcuno, tra i personaggi della storia, ha la chiarezza intellettuale di metterla in crisi, di dinamicizzarla.

La Némirovsky ci svela, quindi, nel profondo la tragedia di una certa tipologia femminile , che tuttavia non ha una dilatazione più grande, rimane sopratutto chiusa in se stessa.


Irène Némirovsky. Jezabel. Traduzione di LauraFrausin Guarino. Adelphi. Euro 10.00.

26 luglio 2011

"Borgogna" foto di Gianni Quilici


di Caterina Donatelli

Lei

Avrei voluto una vita così: dritta, con deviazioni simmetriche che lasciano la libertà di muovere un pensiero diverso, senza sentirsi obbligati alla scelta. Solo opportunità, offerte, spunti, per diversificare il cammino.

Superati, a seguire, un’attesa di morbidi alberi, pronti ad abbracciarmi con il loro profumo, il frusciare melodioso delle foglie e insetti vogliosi, che svolazzano nello zucchero legnoso delle cortecce. Poche insidie, giusto la trama di ombre scese a terra con un’ elegante tastiera geometrica di desideri; ogni tasto una passione, un ricordo, un sentimento provato, bisbigli della memoria, che a distanza, è sempre incantevole e vibrante.

Fottuta tentazione quella di sedersi, sui declivi issati dalla primavera, a intrecciare lamenti e rassegnazioni, recitare liste di fallimenti per mortificare il passato e restringere il presente, ma la strada è chiara: dritta tutta d’un fiato chiama i passi, i miei, ben posizionati a centro.

Ed io vado calma e fiera, portando ciò che sono, nella certezza di aver scelto la direzione giusta; non saranno i fiorellini gialli, a distrarmi, o le tracce impertinenti che curvano sul selciato, a rianimare pulviscoli di solitudine. Certo, ci sarà un istante, in cui avrò voglia di trattenere a lungo il respiro, gustandolo, di alzare gli occhi al cielo per guardare la densità dell’azzurro, migrare altrove; solo allora, sentirò altri passi fare eco ai miei. Riconoscerò il ritmo, l’andatura, con il tempo troppo simile alla mia, perché con il tempo anche i respiri miscelati dalle nostre bocche, sono diventati gli stessi.

L’intenzione del mio cammino sporgerà limpida dal pozzo del tuo occhio, guidandomi come bersaglio, a fissare un definitivo orizzonte, convergere verso lo stesso punto; lì davanti a noi, alla fine di questa strada, dritta, che spiana i pensieri.


Berzé Le Chatel in Borgogna. Foto di Gianni Quilici. 2011.

19 luglio 2011

"Lucca che vive" di Gianni Quilici

di Caterina Donatelli

Ho ripreso in mano il tuo libro. La riscoperta è avvenuta seguendo traiettorie di cui non rivelerò provenienza e direzione, seppure è nella mia natura lasciare le cose ferme, in attesa che esse mi chiamino per qualche ragione, anche solo per metterle da parte definitivamente. Aspetto che arrivi il loro momento. 

Ora è il tuo, del tuo libro, intendo dire.
Lascio la riva sfogliando fugacemente le pagine; gli scatti fanno presagire i motivi per cui una mattina l’autore, ha deciso che era tempo di stampare il ritratto di una città e del suo amante errante. Un amante curioso, a cui piace scoprire l’anima di un luogo, la sua natura e per questo ricerca dettagli e particolari che la possano svelare. 

          Procedo per strati, partendo dalla lettura secondo uno schema preciso: dall’introduzione passo ad imbarcare nella mente le biografie dei suggestionati, i nomi, la descrizione delle proprie esistenze riassunte a volte in modo didascalico, altre, con piglio poetico o ironico. Quindi sbarco sui singoli componimenti, separandoli dalle immagini per coglierne la consistenza, il sapore, il profumo delle parole; le più belle mi spingono a tornare veloce sui nomi e sulla vita che segue, li accoppio e piego da una parte per riprenderli più tardi, quando serviranno. E’ un momento e sono sulle fotografie; mi soffermo ad osservare le inquadrature scavalcando le tracce a commento. La fotografia è “una piccola magia dell’attimo”. Ci sono molti modi di esprimere e raccontare il mondo attraverso un’immagine: ognuno sceglie il suo. Il ritmo in sequenza: occhio-dito-clic, definisce una scelta precisa che configura la costruzione formale di un pensiero. Lo scatto sancisce il momento di contatto e perdita fra dentro e fuori, quello che si realizza è l’espressione di sé, attraverso la rappresentazione del fuori da sé.

Gianni usa l’obiettivo come l’occhio di un bambino: sbatte le ciglia e lascia negativi leggeri sul tavolo. Nessuna complicanza, o proponimenti di derive intellettuali: semplicemente clic. E allora ti arriva il disegno limpido di una città, succo dai molteplici gusti, cola in gola depositando zuccheri ed essenze e così lo assapori, interpreti gli ingredienti, costruisci assonanze e ti lasci prendere o allontanare.

Le guardi tutte le foto e ti chiedi perché siano state scelte proprio quelle, provi ad immaginare il momento in cui sono passate fra le dita, il tentativo di imporsi con seduzione ruffiana di alcune sulle altre, e pensi a quelle rimaste tristi sul tavolo, scartate perché parlavano troppo o troppo poco. Poi ci ragioni su e cerchi di scegliere le tue, quelle che ti piacciono di più, ma rimandi a dopo, manca l’ultimo atto: è il momento di ricongiungere le parole alle foto. Ecco dunque che il libro comincia a dirti dell’altro. Tiro fuori i fazzoletti d’inchiostro e li stendo come un velario sui singoli scatti: la panoramica di un luogo si ricompone, ma allo stesso tempo si amplia di entusiasmi obliqui, non riesci più a separare gli attimi, tutto si avvolge attorno. Il piacere dell’autore nel realizzare un dialogo a più voci, viene trasfuso al lettore, immergendolo dentro all’amoroso amplesso di due corpi differenti che si cercano, si toccano intimamente e scopri che ci sono mille altre immagini, oltre la fotografia della pagina e mille altre sensazioni mutuate dalle parole, pronte lì a costruire mille altre città. Ed è qui che arrivi dove non puoi più scegliere, perché nulla è come prima, ora che anche tu sei parte di questo (a)mare.

Gianni Quilici. Lucca che vive. Pacini Fazzi editore.

Una poesia di Serena Bianchi" di Gianni Quilici



E mi ritrovo qua
un'altra volta ancora
in un circolo mai stanco dove
solo i tuoi occhi
sono i fari

dai quali rimanere abbagliata.
Riscaldata da un tepore che
non si allontana
e che avvolge le mani
e quel tratto di pelle che va
tra l'orgoglio e il cuore.
Bruciano le idee

a contatto con la tua voce
vibrante
risuona nei luoghi asciutti
e nei corridoi deserti del mio
amore....
Questa è la parola

a cui non vorrei dar nome!
e lasciarla libera di essere
genera il brivido
dell'abbandono.

Serena Bianchi



Diciamo la verità! Le poesie d'amore sono rischiose. Dietro il sentimento si nasconde sempre il rischio del sentimentalismo, del dire, cioè, un sentimento senza saperlo rappresentare, senza sapere coglierne alcune delle infinite sfumature psicologiche che milioni di poeti e scrittori hanno saputo delineare nel corso dei secoli.

In questa poesia di Serena Bianchi c'è un inizio in cui i versi si accumulano salendo in una tensione anche fonetica (fino a “sono i suoi fari”), per poi apparentemente chiudersi (“dai quali rimanere abbagliati”). Non è così, perché la poesia riprendere a salire, precisando e approfondendo, in diverse articolazioni, il divenire interiore di questo amore.

La prima articolazione è nel tepore del cuore che riscalda, che avvolge le mani, è nella sua “voce vibrante” che brucia le idee, che risuona...

La seconda più nascosta: l'orgoglio. “L'orgoglio di cosa?”, verrebbe da chiedersi. La risposta non è esplicita, è semmai implicita. L'orgoglio di chi vive in una condizione di solitudine amorosa (i “corridoi deserti”), di chi non sta vivendo la passione (i “luoghi asciutti”), che può temere quindi un rifiuto, o che semplicemente lo immagina e non lo potrebbe accettare.

La terza articolazione è forse più sottile ancora: la paura dell'amore stesso, tanto da non volergli dare il nome, da non volerlo, cioè, limpidamente riconoscerlo: per il “brivido dell'abbandono”, di rimanere senza più illusioni.

Ecco questo sentimento antichissimo, che più di ogni altro si ripropone in moltissimi linguaggi da sempre, è qui presente con una sua necessità e profondità. Non attraverso la speculazione intellettuale, una mera razionalità, come sta facendo il sottoscritto interpretandola, ma come canto che mescola mente e cuore. Il canto della musicalità dei versi, di certe scelte lessicali e di metafore adeguate.

Serena è lucchese e vive nei dintorni di Lucca. Le chiedo, in qualche modo, di presentarsi.

"Non è facile descrivere ciò, che in modo definitivo, descrivibile non è . Son fatta di tutto e di niente come certe fantasie oniriche.
Di sicuro so che sono nata Donna, ma che non avrei avuto nessun problema se fosse stato diversamente.
Che vengo attratta dal Viola, dal nero, dagli occhi pieni di passione, dalle mezze stagioni, dalla falce di luna e dalle "gite"notturne. Che mi urtano gli appuntamenti, le date prestabilite, le costrizioni, e il dover essere coerente.
Tutto ciò che nella mia Vita è accaduto, è stato guidato prevalentemente dal caso, compresa la nascita di due irruenti Figli.
Questo ancora mi sorprende.. e mi delizia.
Ho abbracciato e poi lasciato o perso tante cose lungo il mio personale percorso....ma ci sono due cose che mi sono sempre rimaste, fedeli e autentiche, accanto... la Musica.. e la Birra! Banale... ma vero!"


18 luglio 2011

"Con il piombo sulle ali" di Eugenio Baronti

foto di GIANNI QUILICI

di Luciano Luciani

[foto di Gianni Quilici]

Asfaltar no es gubernar: asfaltare non è governare, recita un lontano motto antifranchista dovuto all’intelligenza storico – politica dello scrittore spagnolo Salvador de Madariaga. Ovvero, l’ordinaria amministrazione, quando pure viene garantita, non è sufficiente. Governare è faccenda di più ampia lena e di più largo respiro ideale e culturale. Vuol dire indirizzare e sovraintendere, regolamentare ed educare. Significa prendersi cura ed essere responsabili; designa un esercizio del potere non fine a se stesso, ma orientato nella direzione di una riforma intellettuale e morale della società, la più vasta, profonda, partecipata e condivisa possibile.

Perché tale idea, alta e nobile della politica, una volta, al tempo della famigerata prima Repubblica, patrimonio di un largo e trasversale ceto politico - amministrativo non si dà più e anzi viene irrisa e sbeffeggiata? Perché non si dà più a sinistra? Perché anche a sinistra la prassi politica si è ridotta alla ricerca di un consenso solo elettorale, finendo così per prosciugarsi, inaridirsi e ridursi a un’attività autistica priva di passione, povera di umanità, colpevolmente disinteressata alla domanda di giustizia, democrazia e diritti che proviene dai settori più deboli e fragili della società’?

Sono questi gli interrogativi, direi i rovelli vista l’insistenza con cui ci torna l’Autore, che percorrono le pagine di Con il piombo sulle ali. Racconto dell’esperienza umana e politica di un amministratore di sinistra nella rossa Toscana. Le ha scritte, intingendo il pennino nel calamaio di un fortissimo sentimento del bene comune, stato d’animo che lo ha sempre contraddistinto, Eugenio Baronti, figura storica e imprescindibile della sinistra radicale lucchese, a conclusione della sua esperienza di amministratore locale: prima come assessore all’ambiente nella amministrazione progressista che regge dal 2004 le sorti di Capannori, uno dei più importanti Comuni della provincia di Lucca, poi assessore alla Ricerca, all’Università e al Diritto alla casa nella giunta regionale del presidente Claudio Martini.

Un bilancio esistenziale e politico il suo: severo e preoccupato, intransigente nei confronti delle superficialità e delle miserie, né piccole né poche, incontrate nel corso del suo mandato alla Regione Toscana, ma anche testardamente aperto alla speranza di una possibile nuova stagione della democrazia in Italia. Che, certo, non sarà un obbiettivo facile da conseguire: sarà necessario, infatti, un mutamento culturale profondo, quasi una nuova antropologia, capace di mettere al centro della vita civile delle persone diritti e solidarietà, accoglienza e partecipazione, e di coniugare l’innovazione tecnologica e produttiva con il rispetto dell’ambiente e della natura. Insomma, pratiche sociali e politiche del tutto nuove, rispetto alle quali l’Autore non si limita a uno zelante discorso deontologico, a un volenteroso “bisognerebbe fare”: in maniera minuziosa, puntigliosamente, Baronti ci fornisce modi e contenuti di esempi virtuosi concreti, già formalizzati in atti legislativi, a Capannori come e Firenze, di provvedimenti socialmente utili, economicamente vantaggiosi ed ecologicamente rispettosi.

Durissimo, poi, il suo atto d’accusa nei confronti delle lentezze indolenti e delle negligenze menefreghiste degli apparati burocratici – amministrativi pubblici, sempre orientati al mantenimento dello status quo ante, al quieto vivere, a un tran – tran tanto neghittoso quanto privo di interessi e curiosità per il nuovo, anche se magari conveniente per la comunità. Così, la burocrazia che dovrebbe essere al servizio delle collettività, metta questa al servizio della propria conservazione.

Né meno tenera, anzi particolarmente tagliente e affilata, appare la denuncia dell’ex assessore regionale nei confronti dei limiti e dei ritardi, ormai cronici, della sinistra, la sinistra a cui appartiene l’Autore, il Partito di Rifondazione Comunista toscano, a cogliere e rielaborare se non tutte almeno le più profonde e radicali novità intervenute sullo scenario globale in questi ultimi vent’anni: la internazionalizzazione dei mercati, una sempre più urgente questione ambientale, modi di produzione in nulla simili a quanto già noto e, di converso, un imbarbarimento della politica nazionale e internazionale troppo spesso ormai declinata nelle forme inedite del populismo, del razzismo strisciante, del fondamentalismo, della xenofobia generalizzata. E tutto questo mentre la sinistra appare sempre più disposta ad accettare lo stato di cose presente, mentre condivide con entusiasmo un sistema politico clientelare che abbassa il livello delle dirigenze e produce danni non lievi in termini di inefficienze e perdite di produttività; che sostiene che il privato e bello sempre e comunque penalizzando proprio quel settore dell’intervento pubblico che in un passato anche recente ha rappresentato il motore dello sviluppo e il fulcro nell’affermazione dello stato sociale. Uno smarrimento grave delle proprie ragioni ideali e fondative, a cui fanno da duro contraltare il pensiero unico berlusconiano e il berlusconismo diffuso, la sollecitazione a ogni spirito plebeo e reazionario, la socializzazione del rancore popolare e la capacità di indirizzarlo verso capri espiatori deboli e indifesi: colpi durissimi inferti alla democrazia, le cui conseguenze non sono ancora facilmente valutabili sulla complessiva struttura civile del nostro Paese. E mentre i segni quotidiani intorno a noi muovono nel senso di un abisso di cui ancora non riusciamo a immaginare il profilo, la sinistra preferisce attardarsi in un politicismo esasperato fatto di sterili rituali escludenti, di tatticismi esasperati, di complicate e confuse dietrologie. Un suicidio annunciato, confermato anche dai risultati elettorali delle ultime due/tre consultazioni. Aspro, e senza appello, il giudizio di Eugenio Baronti su questa sinistra e sulle torsioni e gli avvitamenti recenti di un ceto politico – amministrativo senza memoria né futuro: altrettanto carico di umanissima e condivisibile speranza, però, il suo messaggio finale al Lettore. “Qualcuno ha detto: se si sogna da soli è solo un sogno, se siamo in tanti a sognare è la realtà che comincia. Se chiudo gli occhi già mi sembra di sentire in lontananza le voci, le grida, il canto, la festa, per una voglia di riscatto e di rinascita incontenibile che spazza via questa coltre di fango secco che ci ha ricoperto per tanti anni, e, chissà, dopo il carnevale arriva sempre la primavera. Così è da sempre, così sarà anche questa volta”.

Ben detto, assessore. Cominciamo, ancora una volta e una volta di più, a rimboccarci le maniche.

Eugenio Baronti. Con le ali spezzate. EDL. Lucca. Euro 10.00.