31 marzo 2015

"Winter" di John Fosse regia di Oskar Korsunovas



di Dafne

E’ inaspettato, perché è di giovedi ed il biglietto si acquista sul momento al costo di una proiezione cinematografica. Ma è teatro. Sarà che in questa città di provincia per quanto culturalmente significativa non accadono cose così, inaspettate appunto.

Winter è una pièce teatrale scritta da John Fosse, considerato il massimo scrittore e drammaturgo norvegese vivente. Già questo è interessantissimo: l’incursione della Norvegia in una tranquilla città della mite Toscana. Il regista Oskar Korsunovas è conosciuto in tutto il mondo. Questi due grandi nomi spalancono le porte ad una intensa rappresentazione teatrale di grandissima qualità e di forte impatto emotivo in una normalissima serata di fine inverno, proponendosi senza clamori ed affidandosi all’intuito del potenziale spettatore che passa davanti alla locandina affissa lateralmente al Teatro, dato che lo spettacolo si svolgerà non nella sede teatrale principale, ma in quella secondaria. In realtà ci sentiamo dei privilegiati noi che siamo lì, in questo non grande teatro, con solo la platea ed il palco – e quindi gli attori – a ridosso delle nostre teste.

I due attori – bravissimi -sono talenti italiani; la donna è lituana naturalizzata italiana, l’uomo è addirittura della stessa città di provincia che ospita lo spettacolo. E così, in un’ora di spettacolo, ogni provincialismo è bandito: Lituania, Norvegia, Italia, mostri viventi della drammaturgia e giovani attori premiati dai loro anni di studio.

Lo spettacolo è entusiasmante per come riesce ad entrare fra le pieghe dell’umano sentire per poi enucleare le recondite motivazioni del vissuto. E’ teatro puro, vivido, come carne viva. E’ teatro all’ennesima potenza: non solo le parole scandagliano gli avvenimenti interiori, le motivazioni estreme; a queste si aggiunge – esaltando potentemente il contenuto e l’espressività – la rappresentazione vera e proprio, ovvero la fisicità degli attori che si muovono nello spazio, fra la scenografia. Il corpo narra quanto e più delle parole. Il teatro è parola – corpo – spazio – fuori dall’ordinario. Al teatro la parola , il corpo e lo spazio possono essere utilizzati sfruttando la genialità dei registi e dei drammaturghi che riescono e possono osare oltre le convenzioni delle parole, del corpo e dello spazio stessi.

Solo così, grazie a questa arte della drammaturgia, il tema esistenziale viene scandagliato a profondità a cui non si potrebbe altrimenti arrivare. E ci tocca interiormente, in una normale serata di fine inverno, durante un’ora di spettacolo intensissimo.
 

uno stanco uomo d’affari incontra una donna nel parco di una città. Bella, scapigliata e strana, lei rappresenta un enigma al quale è difficile resistere. Lui la porta nella sua camera d’albergo e intreccia con la donna una relazione appassionante. Questa commedia esplora un incontro tanto ordinario quanto estremo”.

WINTER
Testo teatrale: John Fosse
Regia ed ideazione scenica: Oskar Korsunovas
Attori : Ruta Papartyte e Marco Brinzi

25 marzo 2015

"La fanciulla olimpica" di Virginio Giovanni Bertini



di Gianni Quilici

Ho letto le poesie di Virginio Giovanni Bertini come se fossero un racconto. Un racconto visivo. Immagini e pensieri che si snodano e si sviluppano come se fossero un film.
Un film con molti montaggi, molti cambiamenti di scena, con primi e primissimi piani, dettagli, campi lunghi o lunghissimi, panoramiche.
Un film incalzante senza requie, vibrante e sferzante, inventivo e straziante, realistico e infine simbolico. Mi ha ricordato ciò che Majakovskij  scrisse sul cinema
“Per voi il cinema è spettacolo./ Per me è quasi una concezione del mondo./ Il cinema è portatore di movimento./ Il cinema svecchia la letteratura. /Il cinema demolisce l'estetica./ Il cinema è audacia./ Il cinema è un atleta./ Il cinema è diffusione di idee”.

Ho letto le poesie di Virginio Giovanni Bertini come se fosse una lunga canzone più che cantata gridata-urlata-invocata con la possibilità di immaginare come sottofondo musicale dei tamburi o battiti di cuore o, perché no, la primavera di Vivaldi.

Ho letto le poesie di Virginio Giovanni Bertini come se fosse una lunga poesia al tempo stesso stratificata e unitaria.

Stratificata per gli scenari diversi che offre: l’esaltazione del goal e la malinconia del ricordo; il campione che era e la sedia a rotelle; il centometrista e  i campi di mais su cui volava; il quarto d’ora calcistico esaltante come riscatto collettivo; la staffetta in atletica come comunità che vuole oltrepassare i propri limiti; la volontà paranoica spinta al limite e il desiderio di vittoria e di fama; la corruzione come infiltrazione, speculazione, inquinamento; il giavellottista e Tchaikovski; il messaggero maratoneta senza gloria, perché correre è già una vittoria; la solitudine dell’atleta solo dinnanzi alla barriera; la bambina tenera e sola che danza e canta in cambio di niente.

Unitaria, perché il protagonista è lo sport nelle sue varie sfaccettature: le diverse specialità dal calcio al pattinaggio, dal nuoto all’atletica, dal ciclismo alla maratona primigenia; la molteplicità degli stati d’animo; i protagonisti “fuori campo” ossia il pubblico e quel mondo di faccendieri, di corrotti, che opera nell’oscurità.
Unitaria infine anche per lo stile che attraversa ciascuna di queste  poesie.
Uno stile la cui veemenza musicale è data da rime baciate e rime alternate, da assonanze e consonanze, da anafore e neologismi.
Una poesia, per questo anche difficile a farsi per  il duplice rischio, che Bertini quasi sempre evita. Per un verso cercare la musica (rime varie) con il rischio di ridurre il tasso poetico; per un altro verso abbandonare improvvisamente la musicalità del verso con il rischio di risultare stridente.

Ho letto le poesie di Virginio Giovanni Bertini e ne ho trovata in particolare una, che potrebbe stare –penso io, senza averne l’autorità- a fianco delle più belle poesie italiane sullo sport.  Ed è “ I cento metri (elogio della volontà eroica)”.  
Proviamo a dire perché, utilizzando la quarta strofa.

Lo starter vestito di scuro
spara fermo sicuro
e uccide il sacro silenzio
e la corsa d'impeto va.
Dai blocchi smollano i corpi
sbozzano i robot alati
rullano i piedi la pista
le braccia smenano forti
muscoli tesi tirati
razze e colori azzummati
gli sguardi sbarcano avanti
vene ai polsi vibranti.

In questa strofa colpiscono la notevole visività, velocità e sonorità della corsa.
Sono pochissimi secondi resi con grande efficacia dallo “sparo fermo e sicuro” dello “starter vestito di scuro” fino ai dettagli del corpo interamente riversato a dare il massimo con i “muscoli tesi tirati” con le “vene ai polsi vibranti” e così via.

Questa efficacia è data dal linguaggio della poesia e dal senso che essa fornisce.
Innanzitutto per la musicalità con tre rime baciate, diverse assonanze e consonanze con i versi che scandiscono un ritmo incalzante, perché essi corrono insieme con l’esplosione psico-fisica degli atleti in corsa. 
E poi per la forza delle scelte lessicali. Il poeta per rendere realistico lo sprigionamento di tutta l’energia del centometrista, ma anche le sonorità ed i colori utilizza verbi e aggettivi, che danno nel suono della parola stessa il senso del significato che essa –la parola- contiene, ricorrendo anche a neologismi tanto arditi quanto calzanti ( smollano, sbozzano, smenano, azzummati).

Ho letto le poesie di Virginio Giovanni Bertini, infine, come messaggio che contiene due facce, l’una contrapposta all’altra. Una contro ed una per.
Una è decisamente di condanna furiosa e di lotta esplicita contro chi nel “mondo dello sport” corrompe, ruba, sfrutta, aliena, distrugge.  Ed è lo sport come industria legato ad un profitto esasperato, all’ideologia di una competizione paranoica che esalta e cancella, alle scommesse e alla corruzione mafiosa, alle sostanze che alterano il corpo degli atleti lo esaltano per poi eroderlo, in qualche caso, distruggendolo completamente.
Da qui il messaggio che Bertini ci lancia: il volto pulito e ludico dello sport come piacere, creazione e immersione nella luce e nei tanti magnifici possibili spazi, e non solo sportivi, dalle ‘corti di grano’ alla ‘spiaggia candida’ eccetera eccetera.
Un messaggio e una suggestione che vengono dalla nostra storia occidentale, da Atene e dalla Grecia antica, una grande civiltà, dalla cui profonda filosofia tanto dovremmo ancora imparare, anche nello sport. Ce lo dice proprio la “bambina olimpica” negli ultimi versi:
“ Gioco antico,/ ludico movimento greco,/ in cambio di niente.

Virginio Giovanni Bertini. La fanciulla olimpica. Aletti. 10 euro.

                                              

                                                






























23 marzo 2015

"Chiedimi se sono felice" di Luciano Luciani





foto gianni quilici
Ringraziando il Signore, non ho più vent’anni e nemmeno trenta: un tempo lontano ben più di mezza vita. Allora trasudavo energia, mangiavo in maniera pantagruelica e dissennata e i miei capelli erano neri come le penne di un corvo, fitti e forti. Andavo a letto tardissimo, mi svegliavo prestissimo: non accusavo la fatica, non lamentavo nessun deficit di sonno, non indossavo occhiali. Come molti miei coetanei  mi entusiasmavo a qualsiasi cazzata apparisse sull’orizzonte culturale e politico del tempo che il Destino mi aveva assegnato come La Mia Giovinezza e, alla pari di loro, mi impegnavo duramente a immegliare il Mondo.

Non poche donne si contendevano le mie attenzioni e scegliere tra questa, quella, l’altra e, magari, l’altra ancora non era cosa facile, ma, sia pure con qualche fatica e complicati girigogoli, riuscivo a sfangarla…

Ora, bella domanda, chiedimi se ero felice. Eri felice? Non lo so, non credo. Era tutto così confuso, affannato, complicato. Vivere in quella terra di mezzo e di nessuno tra la fine degli studi e l’inizio della professione mi creava un’ansia indicibile. Per non parlare del disagio di mantenersi continuamente all’altezza di un mondo adulto già strutturato e poco accogliente, severo, quando non arcigno.

La percezione che ho ora di quegli anni è quella di una perenne inadeguatezza: qualcuno prima di te aveva sempre già pensato i tuoi pensieri, progettato i tuoi progetti, sognato i tuoi sogni! Se mi ripenso, mi vedo impegnato in una perenne rincorsa, un interminabile inseguimento in cui qualcuno spostava sempre in avanti la linea del traguardo. Comunque ho avuto fortuna: e per un bel tratto di esistenza ho svolto il lavoro per cui avevo studiato, anche divertendomi: leggevo Dante e Leopardi e mi pagavano pure.

Poi, finalmente, sono invecchiato. E invecchiando ho ancora avuto culo: sono andato in pensione. Ho preso qualche chilo abbondante, ho perso i capelli, il viso ora è segnato da più di qualche ruga, ho inforcato gli occhiali. Le donne hanno smesso di interessarsi alla mia persona e così mi hanno lasciato il tempo per occuparmi, finalmente, di quello che avrei voluto fare da grande: leggere, scrivere certune paginette che - a mio parere e sia pure in palese conflitto d’interesse - non sono niente male, coltivare amicizie significative. 

Il sesso? Mah, direi che, oggi come oggi, mi appare ampiamente sopravvalutato e non riesco più a capire come abbia potuto perderci tanto tempo. La competizione professionale? Percaritàdiddio, la lascio agli altri. Accomodatevi e, come dice il poeta Francesco (il mio coetaneo Guccini, non l’algido Petrarca!), “andate e fate”. Vi osservo con distacco, e anche la pretesa di cambiare il mondo, che pure mi è appartenuta, mi suscita adesso solo un tiepido calore di fiamma lontana. Mi sono fatto cinico? No, probabilmente sono diventato solo un po’ più saggio.

Ora, chiedimi di nuovo se sono felice. Sei felice? No, solo un po’ più sereno. Ogni tanto mi capita di vedermi riflesso nella vetrina di qualche negozio, i pochi ancora aperti. Mi guardo e mi interrogo su chi sia quel signore maturo e sconosciuto che mi fissa. Se lo incontrassi per strada, penso che ne apprezzerei il portamento finalmente sicuro, l’ironia che trapela dagli occhi, la disponibilità al sorriso. Conquiste faticose e per questo irrinunciabili.


12 marzo 2015

"Alexander Rodchenko" di Chiara Savettieri




di Chiara Savettieri
                       
 Alexander Rodchenko diceva di voler "rivoluzionare la visione", indicando la strada per vedere la realtà più banale e quotidiana in modo diverso. Scegliendo inusuali punti di vista, ribassati o rialzati, combinati o non con scorci in diagonale, persone, oggetti, edifici, strade si trasformano nelle sue foto in pure forme astratte, in ritmi visivi, in dinamiche geometrie.

La macchina fotografica diventa uno strumento che permette di fissare e rivelare il mondo sotto altre prospettive, diverse da quelle tradizionali.

Avviene un miracolo: quello di far coincidere realtà e bellezza, immersione nell’attualità e metafisica della forma. Foto-epifanie in cui l'occhio dell'artista - e il suo strumento, la macchina - scoprono che nell'affastellarsi di impressioni visive che ci provengono dalla realtà, vivono limpide geometrie, nitide composizioni formali, netti contrasti di materie, colori, grane, partiture ritmiche a formare un superiore equilibrio...il tutto sta nel coglierle: ecco la differenza tra un attento e attivo occhio artistico e un distratto e passivo occhio comune.

Kant aveva ragione quando diceva che la bellezza è nell'uomo. Nell'uomo che sa vederla.

10 marzo 2015

“Don Giovanni” di Mozart



di Maddalena Ferrari

L’ambientazione moderna ( la New York degli anni 80 del novecento, dove  la regista Rosetta Cucchi ha immaginato un Don Giovanni star di un locale alla moda, “ un uomo mito che viveva sopra le righe forse conscio di dover bruciare tutto e subito..”) spiazza ed in alcuni momenti stride un po’.

I tentativi di essere originali e di sorprendere nella lettura di un’opera lirica, e in particolar modo del capolavoro di Mozart, così stringente nella sua attualità, si sprecano. Se è comprensibile il desiderio di uscire dalla routine ed è persino encomiabile il coraggio di rischiare, non si possono eludere due o tre problemi che inevitabilmente si pongono.

Primo, il pericolo di slabbrature o forzature; che in questo caso, in qualche misura, ci sono: ad esempio, il rapporto del libertino con Donna Anna, che, si accenna in un primo tempo e poi si esplicita con immagini di flash-back, viene consumato con reciproco godimento in un taxi; ed allora la domanda di Leporello al padrone  “Ma Donn’Anna cosa ha voluto?” perde ogni spessore di ambiguità e quindi di profondità;  e poi la “statua” del Commendatore, nel recitativo della scena del cimitero, diventa l’immagine, in quanto siamo in un laboratorio fotografico...

In secondo luogo, occorre chiedersi se questa messa in scena ha un senso: e forse ce l’ha più da un punto di vista ideologico che artistico; ciò non toglie però che presenti dei momenti intensi ed efficaci, quando i rapporti con il reale si fanno più stilizzati e simbolici, come il banchetto con il convitato di pietra e la fine di Don Giovanni, momenti che sono sempre stati di difficile rappresentazione.

Il problema più importante è però se l’impianto complessivo, musica, cantanti, azioni, movimenti, regge: si può affermare che , nonostante qualche sbavatura e imperfezione, l’operazione ha ritmo, tensione, capacità di coinvolgimento. Grazie, naturalmente, alla meravigliosa partitura; ma anche alla compattezza della direzione d’orchestra di Aldo Sisillo ed alla bravura dei cantanti-interpreti, soprattutto Alessandro Luongo,  un Don Giovanni giovane, aitante, agile, con una bella voce duttile; Antonio Di Matteo è un  Leporello corretto e scorrevole, mai sopra le righe; Yolanda Ayuanet  una Donna Anna fluida e sinuosa; Raffaella Lupinacci una Donna Elvira energica e appassionata.    


DON GIOVANNI

Dramma giocoso in due atti KV 527 . Libretto di Lorenzo Da Ponte. Musica di Wolfgang Amadeus Mozart

Personaggi e interpreti: Don Giovanni Alessandro Luongo, Il Commendatore Antonio Carmelo Di Matteo: Donna Anna Yolanda Auyanet, Don Ottavio Blagoj Nacoski (28 febbr) / Francesco Marsiglia* (1 mar), Donna Elvira Raffaella Lupinacci, Leporello Roberto De Candia, Masetto Felipe Correia Oliveira**, Zerlina Ayse Sener**
Direttore Aldo Sisillo, Regia Rosetta Cucchi, Scene Andrea De Micheli, Costumi Claudia Pernigotti, Luci Andrea Ricci, Maestro del Coro Stefano Colò

Orchestra Regionale dell’Emilia Romagna
Coro Lirico Amadeus-Fondazione Teatro Comunale di Modena

Teatro del Giglio di Lucca 28 febbraio 2015 e 1 marzo 2015

08 marzo 2015

Cataratta” di John Berger




di Gianni Quilici

“Cataratta è un libriccino di John Berger, critico d’arte e scrittore, poeta e sceneggiatore, di cui Susan Sontag ha scritto:
“ E’ dai tempi di D. H. Lawrence che non esiste scrittore capace di riservare altrettanta attenzione al mondo dei sensi rispondendo agli imperativi della coscienza”.

Sono una sessantina di pagine nella sostanza, in cui si alternano i pensieri di Berger con a fianco i disegni di Selçuk Demirel e in cui lo scrittore rappresenta un’esperienza personale, l’esportazione di cataratta prima all’occhio sinistro, poi all’occhio destro, dedicando il libro al dipartimento e al dottore che ha realizzato le operazioni.

Cataratta è interessante, perché è sottilmente analitico. Delinea un processo di presa di visione della luce e dei colori stessi. Scrive Berger dopo il primo intervento all’occhio:
“Con il solo occhio destro pare tutto usurato, con il solo occhio sinistro pare tutto nuovo”, perché “la luce conferisce a tutto ciò su cui cade un carattere di primità  restituendolo alla sua purezza originaria . . .”
Ne consegue una condizione nuova e esaltante: la rinascita degli occhi, la rinascita della visione. Conclude infatti lo scrittore:
“La familiare eterogeneità dell’esistente è meravigliosamente tornata. I due occhi, tolta di mezzo l’inferriata, non si stancano di registrare la continua sorpresa”.

Di fianco i disegni di Selçuk Demirel hanno un’acuta inventiva e una tenerezza  surreale in armonia  con il testo di John Berger e forse lo superano per poeticità.   

John Berger. Cataratta. Disegni di Selçuk Demirel. Traduzione di Maria Nadotti. Gallucci. Pag. 69. Euro 12,50.

“Rileggendo De Sanctis: Machiavelli” di Davide Pugnana



Riaprendo la "Storia della letteratura italiana" di Francesco De Sanctis, scritta nella calda onda risorgimentale, tra il 1870 e il '71, torno sempre con preferenza al capitolo su Machiavelli; e nonostante gli anni, le riletture o le nuove letture su Machiavelli, certo più aggiornate o passate al vaglio di un piglio storiografico meno teso a narrare i fatti di storia letteraria entro le linee di un disegno dell'identità e dei valori nazionali, continuo a tuffarmi in quel capitolo ricevendone intatta la sensazione di un corpo verbale in sé finito, perfettamente sagomato e sostenuto da un vibrante tono critico; da un tale equilibrio di giudizio che lo rendono autonomo rispetto al resto.

Per questo sono convinto che il capitolo su Machiavelli non sia solo il cuore geometrico di una 'visione' delle forme espressive entro la storia; ma sia, soprattutto, un 'medaglione' biografico-esegetico che, proprio per bellezza delle argomentazioni e per il ritmo di scrittura, costituisce un capolavoro nel capolavoro.

Trascrivo il passo in cui De Sanctis analizza gli elementi di modernità della prosa di
Machiavelli, assimilata ad un "marmo" ricco di venature, metafora della sua capacità di stringere il contenuto alla forma, le parole alle cose:

<<Fra tanto infuriare di prose rettoriche e poetiche, comparve la prosa del Machiavelli, presentimento della prosa moderna. Qui l'uomo è tutto, e non ci è lo scrittore, o ci è solo in quanto uomo. Il Machiavelli sembra quasi ignori ci sia un'arte dello scrivere, ammessa generalmente e divenuta moda o convenzione. Talora ci si prova e ci riesce maestro; ed è, quando vuol fare il letterato, anche lui. L'uomo è in lui tutto. Quello che scrive è una produzione immediata del suo cervello, esce caldo caldo dal di dentro: cose e impressioni, spesso condensante in una parola. Perché è un uomo che pensa e sente, distrugge e crea, osserva e riflette, con lo spirito sempre attivo e presente. Cerca la cosa, non il suo colore: pure la cosa vien fuori insieme con le impressioni fatte nel suo cervello, perciò naturalmente colorita, traversata d'ironia, di malinconia, d'indignazione, ma principalmente lei nella sua chiarezza plastica. Quella prosa è chiara e piena come un marmo, ma un marmo qua e là venato. [...] Questa prosa, asciutta, precisa e concisa, tutta pensiero e tutta cose, annunzia l'intelletto già adulto, emancipato da elementi mistici, etici e poetici, e divenuto il supremo regolatore del mondo: la logica, o la forza delle cose, il fato moderno."

07 marzo 2015

“Grazie” di Chiara Savettieri




"Le grazie" di Antonio Canova

In un mondo sempre più narcisista e individualista il "grazie" è sempre più desueto, eppure è una minuscola e bellissima parola che ci apre un mondo di significati positivi: amicizia, amorevolezza, riconoscimento, ringraziamento, ma anche delicatezza, je ne sais quoi, charme indefinibile.

Il "grazie" è fare attenzione all'altro, volergli comunicare simpatia, il "grazie" è umiltà, apertura.

Pronunciarlo è un dono che si fa a se stessi e agli altri.

06 marzo 2015

"Platone, gatto bambino" di Maddalena Ferrari



foto Gianni Quilici

Caro amico Platone,
e così te ne sei andato.

Con la dignità che hanno i gatti, ma in quella forma che apparteneva solo a te.

Ultimamente adeguavi  i movimenti e le posture a quanto le tue forze ti permettevano: non molto, sempre di meno. Finché sei rimasto nella tua cuccetta improvvisata sul pavimento, sdraiato di fianco, stendendo zampette e coda, come fanno i gatti che stanno morendo.

foto Gianni Quilici
Eri ancora vivo, ti spostavi girandoti su te stesso, poggiato sullo stesso fianco.
Ti accarezzavo; sentivo i tuoi ossetti premere contro la pelle, ma il pelo era sempre morbido. Tu accennavi ad un qualche cosa che pareva una manifestazione di fusa, debolmente, e giravi il capino, guardandomi  con gli occhi gialli già un po’ spenti. Cosa avrai pensato?

E cosa avrai pensato in tutti questi giorni di malattia, di fatica nel mangiare, di diarrea insistente, di vomito, qualche volta...
Ogni tanto stavi meglio, le flebo del veterinario ti aiutavano un po’; ma poi ricadevi giù.

Ho il rigretto di non essere intervenuta prima, quando vedevo che già qualcosa non andava.

foto Gianni Quilici
E ora: i gatti sono liberi e lasciano liberi; il tuo pensiero non è sempre con me. Ma getto spesso un’occhiata involontaria alla porta a vetri, da dove ti vedevo comparire; e,  quando parcheggio la macchina in corte, mi aspetto che una massa nera pelosa sbuchi dalla siepe e si avvicini, oppure sia già tra le mie gambe a strusciarsi.

Ti chiamavo Ciuffo, Ciuffettino, Ciocciocio...
Se mi capitano sotto gli occhi i posticini dove amavi stare, dentro e fuori casa, mi si stringe un po’ il cuore.
Ciao, gatto bambino.

04 marzo 2015

"Maria Pascoli. La signorina di Castelvecchio" di Sara Moscardini - Pietro Paolo Angelini,


La presentazione del libro con gli autori

Luci e ombre 
della Signorina di Castelvecchio

di Luciano Luciani

Un libro interessante, questo Maria Pascoli. La signorina di Castelvecchio nel senso più ampio: che può, cioè, interessare molti, lettori semplici e addetti ai lavori, studiosi di letteratura e amanti del genere biografico.
Un lavoro che emancipa, finalmente, dal peso ingombrante del grande fratello Giovanni, la “candida soror”, Maria, e la restituisce al lettore con le sue luci e con le sue zone d’ombra nella sua più piena umanità. E questo in virtù di una originale lettura delle fonti (giornalistiche, d’archivio, epistolari, diaristiche, testimonianze orali, letterarie, che mettono Maria, il suo tempo, i suoi luoghi, le sue relazioni, al centro della ricerca e dell’interesse degli Autori. Si evita, così, quanto è avvenuto finora: ovvero l’annichilimento di Mariù e la sua trasformazione in una nota a piè di pagina di una più ampia vicenda biografica e letteraria: quella di Giovanni Pascoli uno dei massimi autori italiani del passaggio tra Ottocento e nuova letteratura.
In queste pagini di Sara Moscardini e Pietro Paolo Angelini, dunque, il focus è su Maria, riguardata con rispettoso affetto, ma senza nulla tacere del suo carattere spigoloso, della personalità decisionista, dai modi direttivi fin quasi autoritari, di certe sue sconcertanti secchezze e aridità emotive: la sua figura e la sua storia risultano, comunque, assai alleggerite dal peso di chiacchiere, maldicenze, leggende paesane, ricostruzioni capziose che, diversamente rivisitate dagli Autori, ci appaiono ampiamente riportate a misura e restituite a una più verosimile, e senz’altro meno malevole, dinamica di affetti familiari e private emozioni.
Altra metà del “nido” prima, sacerdotessa poi della memoria del fratello, Mariù emerge da queste pagine come “una figura forte e conscia delle proprie capacità e dei propri mezzi” che vuole imporsi come interprete universale e ufficiale della eredità letteraria, morale e umana di Giovanni. Esecutrice unica del suo lascito, Maria è la, sacerdotessa dei riti e della religione pascoliana, fermamente intenzionata a erigere al fratello “un monumento più duraturo del bronzo”. Quindi non esita a prendere decisioni difficili: la tomba di Giovannino  assolutamente voluta a Castelvecchio contro la volontà dei familiari e dei sanmauresi, o la vera e propria campagna di annientamento nei confronti di quanti, a suo parere, in qualche modo oscurassero la fama e la grandezza del fratello. È il caso della vertenza aperta già nel 1913, a meno di un anno dalla morte di Giovanni, nei confronti di Luigi Morandi, senatore del regno e accademico, che, sia pure in maniera discreta, aveva sollevato nei confronti di Giovanni, l’accusa di plagio a proposito di un’antologia scolastica. Ora, al di là dell’esito di questa causa che vide Maria sconfitta dopo tre gradi di giudizio e condannata al pagamento delle spese processuali, quello che colpisce è l’animus pugnace di questa donna che non esita a entrare in rotta di collisione con un personaggio di tutto rilievo dello establishement politico-culturale e accademico del tempo.
Più fortunata, invece, la causa per la rescissione del contratto con la casa editrice Zanichelli e il passaggio dei diritti alla nuova casa editrice emergente, la Mondadori.
Tra la prima e la seconda vertenza, Mariù aveva saputo tessere utili, proficue, importanti relazioni col nuovo regime fascista. E queste dei rapporti col fascismo sono tra le pagine più significative del libro. Che, abbiamo già detto, non è un’agiografia e quindi non nasconde le simpatie di Mariù per il “fascismo regime” che garantiva ordine e regole, mentre, probabilmente, la sua anima conservatrice non aveva apprezzato il fascismo movimentista delle violenze e della marcia su Roma.
I suoi rapporti furono più che altro personali, ovvero con le persone, ai più alti livelli: con Mussolini e con Giuseppe Bottai, ministro della Educazione nazionale: al centro dei suoi interessi l’edizione nazionale delle opere di Giovanni e la realizzazione dell’Asilo intitolato ai genitori del poeta: una vexata quaestio, questa che si trascinò per anni anche per l’opposizione, vera o presunta, a quel progetto del podestà di Barga, Stefani. Che si concluse con un atto di forza di Maria, che di fronte agli ostacoli, si rivolse direttamente a tutti i ministri interessati, dai Lavori Pubblici, all’Istruzione, senza tralasciare Sua Eccellenza, il Capo del Governo, Benito Mussolini, a cui lo accomunava la comune origine romagnola; la modestia delle condizioni iniziale, il socialismo, che era stato la culla ideale giovanile tanto di Giovanni quanto, e ben più, di Benito. Né i nostri Autori tacciono del maldestro tentativo, operato non si sa da chi, né quando - ma possiamo ipotizzare nell’immediato dopoguerra - di ripulire le carte di Maria dalle testimonianze ritenute, a torto o a ragione, le più compromettenti della relazione tra la “candida soror” e il fascismo.
Intanto si avvicinava la guerra che doveva segnare in maniera indelebile lo spirito della donna. Che sempre più sola, isolata, conduce una vita ormai quasi eremitica, scegliendo di non allontanarsi da Casa Pascoli neppure quando quell’area si trasformò in una pericolosa “terra di nessuno” contesa da tedeschi e alleati, adottando, anche per gli anni successivi al conflitto, uno stile di vita privo di ogni comodità, senza corrente elettrica, senza acqua corrente, attendendo al suo lavoro più importante, la biografia intitolata Lungo la vita di Giovanni Pascoli, copiando e ricopiando pagine su pagine, guardando con diffidenza anche la stessa macchina per scrivere. Mariù si spense ultraottantenne nel 1953, nei primi giorni di dicembre, coerente e fedele con l’intera sua esistenza, lasciando un testamento che affidava tutto il patrimonio culturale, morale e umano di Casa Pascoli alle istituzioni barghigiane, in un gesto che, scrivono gli Autori “è il suo più grande atto d’amore per il fratello, per il “nido” e per lo stesso borgo di Castelvecchio,.
E questo libro, che ne rinnova utilmente la memoria sine ira et studio, conferma, ancora una volta, se mai ce ne fosse stato bisogno, il legame profondo tra “la valle del bello e del buono” e Maria Pascoli, la signorina che generazioni di bambini che hanno frequentato l’asilo, da lei testardamente voluto, ricordano come “buona, affettuosa e con le mani colme di caramelle e zuccherini”.

Sara Moscardini - Pietro Paolo Angelini, Maria Pascoli. La signorina di Castelvecchio, Maria Pacini Fazzi editore, Lucca 2014  



03 marzo 2015

“Castelvecchio di Compito: viaggio nella lucchesia” di Gianni Quilici



Cielo grigio a tutto tondo. A guardare bene, però, strisce di un celestino smorto si allungano qua e là.
S. Margherita fermo davanti al passaggio a livello scrivo di getto:

La strada è senza sguardi
Così usuale, così scontata
Che scorre, scorre, scorre
E non rimane niente.

foto Gianni Quilici
Verso Colle di Compito, in un tratto di leggera salita, intravedo una di quelle chiese che, per collocazione, per minutezza mi appare agli occhi come un piccolo gioiello, anche se poi non ha niente di prezioso artisticamente o architettonicamente.
Perché appare d’improvviso in alto sopra un poggio, circondata da cipressi, ce ne sono ben 16 su un fianco e dietro, vecchi o da poco piantati e in uno spazio erboso, che domina la strada.
Come si evince, in parte dall’immagine, alcuni scalini e un manto d’erba, delimitato da un muretto, portano alla porta (semplice) della chiesetta con ai lati due  panchine di pietra (semplici) e, in alto, con il bel campanile a vela.
Nessuna scritta, da nessuna parte, ti informa della chiesa: come si chiami, quale sia la sua storia e le caratteristiche. Solo sul web trovo che ha un nome: San Martino di Palaiola, che faceva parte nell’Estimo del 1260, della Pieve dei SS. Giovanni e Reparata di Lucca con all’interno una sola navata e, come noto anch’io, senza abside.

Castelvecchio si trova poco avanti sulla strada di via di Tiglio, appollaiato a 138 metri , voltando a destra, attraverso una breve e tortuosa salita. 
E’ un paese, leggo, che ha un’origine antica. Risale almeno al periodo pre-romano, per la presenza di un ramo dell’Auser, il fiume Serchio, che favorisce l’insediamento, l’agricoltura e il commercio; ha il suo massimo splendore con i romani per le opere di bonifica messe in atto, per la nascita delle prime fattorie e per la fondazione dell’Abbazia di San Salvatore di Sesto, che avrà un ruolo economico e politico importante in tutta la regione. Il borgo collinare, quello dove ora mi trovo, nasce con la fine dell’impero romano e l’invasione dei barbari. La popolazione, infatti, è costretta a cercare riparo sulle alture vicine. Da ciò sorgerà Castelvecchio di Compito, che si trova ancora oggi sulla planimetria dell’antico castello, nato come strumento di difesa, ma di cui non è rimasto niente.

Il primo aspetto che, inevitabilmente, colpisce la vista è la sua collocazione raccolta, in alto sulla collina, ad un passo dalla via provinciale.

foto Gianni Quilici
Il secondo elemento interessante: lo sguardo dall’alto sul paesaggio. Perché è uno sguardo della forma di un semicerchio, largo e vario, punteggiato da molti ingredienti naturali, fisici ed urbani.  Si può partire dalla via sottostante, abbastanza urbanizzata, salire verso il borgo di Colle di Compito per arrivare al monte Serra e da lì discendere sulle colline del compitese, per allargarsi sulla Piana di Capannori, incluse la torre di avvistamento di Porcari e la collinetta con la torre-campanile di Montecarlo fino alle Pizzorne per ritornare, infine, a ciò che è più vicino ed attraente, il lago della Gherardesca con la sua forma stretta e allungata, tra i cipressi e la vegetazione palustre e la distesa solitaria dei territori bonificati, oggi in prati e alberi.

Il paese non ha palazzi rilevanti, manca una vera e propria piazza, e la facciata della Chiesa di S. Andrea, fondata prima del secolo XIII, ma notevolmente rimaneggiata, è modesta. Ci sono, invece, case coloniche con mandolato ben ristrutturate, altre lasciate a se stesse,  vicoli, per buona parte, lastricati in pietra lavorata e alcune case  ricoperte da piante di limone con i loro festosi  colori giallo-verde.

Castelvecchio di Compito. Domenica 1 marzo 2015.





   

"Autoritratto" da Pina Bausch





Caterina Donatelli.
Certe cose si possono dire con le parole, altre con i movimenti, ma ci sono anche dei momenti in cui si rimane senza parole, completamente perduti e disorientati, non si sa più che cosa fare. A questo punto comincia la danza.” Pina Baush
Nulla da aggiungere….

Gianni Quilici
La danza che non è solo corpo, non è soltanto movimento, non è soltanto musica, ma è l'insieme di questi e di altri misteri che è difficile verbalizzare . . .



Caterina Donatelli
e poi quella corda che tiene, che lascia, che tende, che libera... e un corpo, il suo, libero e in tensione. una moltitudine di evocazioni poetiche...

Gianni Quilici
... il corpo che si fa poesia...

Caterina Donatelli
nel limite del legame, amplificato dal vocabolario del corpo fattosi strumento e l'occhio aperto alla 'danza' della percezione intima e universale... potrei scriverci sopra un poema su lei, su me, sulle donne, sulle persone, sulla vita... ecc ecc

01 marzo 2015

"Roma. Mille anni di belle donne" di Luciano Luciani





Lucrezia Borgia
Critico equilibrato e severo delle cose d’Italia di due secoli fa, James Fenimore Cooper (1789 – 1851), il celebre scrittore della frontiera americana, autore dell’Ultimo dei mohicani (1826), di passaggio per Roma, tappa di un suo più lungo tour europeo, non poté esimersi da un sincero omaggio di fronte allo spettacolo dell’avvenenza delle donne della Città eterna.

         Sono stato colpito dalla bellezza singolare delle donne incontrate per le strade di Roma nell’ultima settimana di Carnevale. Quasi tutte appartengono al ceto medio; ma, siccome si fanno vedere in pieno giorno, non possono avere addosso molti artifici. Hanno tutta la delicatezza delle donne americane, ma hanno seni e spalle più belli, e non mancano affatto di colorito. Hanno un’aria singolarmente femminile e modesta.

Un giudizio ammirato che lo scrittore “barbaro” giunto nella capitale del cattolicesimo da un mondo lontanissimo condivideva con legioni di artisti e letterati, cronisti e viaggiatori passati per l’Urbe negli ultimi mille anni almeno. La Città dei Papi, opulenta e affamata, miserabile e doviziosa, si rifletteva anche nell’aspetto esteriore delle sue donne e nei loro comportamenti: ora è la seduttiva e spregiudicata Marozia (892 – 955), “bella come una dea e focosa come una cagna” a incarnarne l’intima essenza, ora tocca alla dissoluta e tribolata Lucrezia Borgia, “Venere per l’aspetto” e figlia di un pontefice a riassumere nei suoi successi mondani e nei dolori privati la natura profonda di una Roma caput mundi, anzi caput munni, santa e plebea, disincantata e superstiziosa, indifferente e passionale. A Roma stanno bene preti, frati, puttane e abbati suona un antico adagio romanesco confermato dalla fortuna pubblica delle celeberrime cortigiane Fiammetta, Imperia, Tullia d’Aragona, che non conobbero, però, un destino personale altrettanto propizio. No, le donne, soprattutto se belle, non hanno fortuna a Roma, specialmente se all’avvenenza e al fascino uniscono ambizione e intraprendenza, coraggio e mancanza di scrupoli. È il caso di Teodora (870 – 916) e delle sue due figlie Marozia (892 – 937) e Teodora II, a cui il potere maschile non perdonò di avere infranto un millenario dominio di genere. Così una storiografia tendenziosa presenta Teodora come “una sfacciata puttana… che chiavava preti e cardinali per governare e ottenere favori” e tutte e tre le donne come protagoniste di quel governo delle prostitute che resse le sorti di Roma per i primi trent’anni del X secolo. Né andò meglio, mezzo millennio più tardi, a due nobildone, Vittoria Accoramboni (1557 – 1585) e a Violante Carafa d’Afile che pagarono con la vita il coraggio di darsi un amante; a Beatrice Cenci che allo stesso modo scontò il tentativo di liberarsi da un padre-padrone; ad Artemisia Gentileschi (1593 – 1653) che espiò con l’allontanamento da Roma la propria originalità artistica.

La bellezza delle donne romane, cos’è?

La bellezza. Concetto effimero, volatile quello della bellezza. Soggetto al mutare del tempi, dei punti di vista, delle mode. Il giudizio estetico è sempre singolare e soggettivo e non è possibile stabilire una volta per tutte ciò che è bello sempre e comunque. In cosa consiste, dunque, questa tanto decantata bellezza delle donne romane? Dopo circa un millennio di enunciazioni più o meno vaghe, Gigi Zanazzo (1860 – 1911), studioso delle tradizioni del popolo romano e poeta romanesco a sua volta, propone finalmente un canone largamente condivisibile e minimamente obbiettivo:

Sette bellezze cià d’avé la donna
prima che bella se possi chiamà:
arta dev’esse, senza la pianella,
e bianca e rossa senza l’alliscià.
La bocca piccolina e l’occhio bello
Grazziosetta dev’esse ner parlà:
larga de spalle e stretta in centurella
quella se pò chiamà na donna bella:
larga de spalle e stretta de cintura
quella è na donna bella pe natura.

Certo, ben più sanguigno nei suoi canoni estetici e senza alcuna pretesa di fornire una precettistica si era dimostrato Giuseppe Gioacchino Belli:

A NINA

Tra ll’antre tu’ cosette che un cristiano
ce se farebbe scribba o fariseo,
tienghi, Nina, du’ bbocce e un culiseo,
proprio da guarnì er letto ar gran Zurtano

A cchiappe e zzinne, manco in ner moseo
sc’è robba che tte po’ arrubbà la mano;
chè ttu, ssenz’agguantaije er palandrano,
sce facevi appizzà Ggiusepp’ebbreo.

Io sce vorrebbe franca ‘na scinquina
che nn’addrizzi più tu ccor fa l’occhietto
che ll’antre cor mostrà la passerina.

Lo so ppe mmè, cche ppe ttrovà l’uscello,
s’ho da pisscià, ciaccènno er zoccoletto:
e lo vedessi mò, ppare un pistello.
(1831)

Profonde le differenze tra il garbo controllato del primo e la densità materica quasi espressionista del secondo, che assumendo come proprio il punto di vista della plebe romana non può che servirsi di un mondo di immagini e di un lessico grevi, triviali, osceni.
In un altro sonetto di alcuni anni dopo, il Belli conferma i capisaldi della sua estetica tanto grossier, quanto di straordinario mimetismo letterario:

LA BELLEZZA DE LE BBELLEZZE

Ce pomnn’esse in ner Monno donne bbelle,
ma un pezzetto de carne apprilibbato
come la serva nova der Curato
nun ze trova, per dio, drent’a le stelle.

Nun te dico er colore de la pelle
più ttosta assai d’un tamburro accordato:
nun te parlo de chiappe e dde senato
che ttappicceno er foco a le bbudelle.

Quer naso solo, quela bbocca sola,
queli du’occhi, so robba, Ggiuvanni,
da fàtte restà llì ssenza parola.

Si è ttanta bella a vvèdela vistita,
Cristo, cosà sarà sott’a li panni!
Bbeato er prete che sse l’è ammannita
(1834)

Insomma, il paradigma della bellezza femminile introiettato nel senso comune e nell’immaginario collettivo del popolo romano ha più a che fare con le forme prosperose delle giunoniche trasteverine o monticiane che con le esili ed eleganti  silhouette  pure presenti, immaginiamo, in qualche palazzo aristocratico della nobiltà nera. Ce lo conferma la canzone romana che nella sua storia secolare ci ha consegnato parecchi testi in cui, non a caso, di frequente amore e cibo si mescolano, originando significativi intrecci e ambigui doppi sensi.
Così, in un canto popolare della prima metà del XVI secolo troviamo l’elenco dei cibi ingeriti da una giovane moglie nei pochi giorni che vanno dalla cena al viaggio di nozze

LA CENA DELLA SPOSA

Che mangerà la sposa la prima sera – la prima sera
che mangerà la sposa la prima sera – che mangerà?
Una fravola inzuccherata
mezzo abbacchio e l’insalata
e mezzo piccioncin – e mezzo piccioncin

Che mangerà la sposa la seconda sera- la seconda sera
Che mangerà la sposa la seconda sera – che mangerà?
una fravola inzuccherata
mezzo abbacchio e l’insalata
due sfogliate e una crostata
co’ mezzo piccioncin – co’ mezzo piccioncin…

E procedendo per accumulazione si arriva alla dodicesima sera, quando la fresca consorte spazza via una mensa pantagruelica:

Che mangerà la sposa la dodicesima sera, la dodicesima sera
Che mangerà la sposa la dodicesima sera, che mangerà?
una fravola inzuccherata
mezzo abbabcchio e l’insalata
due sfogliate e una crostata
tre piccioni viaggiatori
quattro belli pomodori
cinque porchi ammazzatori
co’ sei galli cantatori+
sette anguille marinate
otto indivie sacppucciate
nove botti di bon vino
dieci olive di Marino
undici scatole di confetti
e in più dodici pasticcetti
e mezzo piccioncin – e mezzo piccioncin

Di ben diverso appetitola madonna protagonista di Fatevi all’uscio, un altro canto caratteristico del Cinquecento romano. Il suo è un desinare quasi monacale, una dieta che raccoglierebbe l’approvazione di una modella anoressica dei nostri giorni:

FATEVI ALL’USCIO

Fatevi all’uscio madonna dolciata
Ch’io v’ho recato un cesto d’insalata.

Io v’ho arrecato alsì di fine erbetta
hovvi recato molta porcellana
e nempitella e salvia con rughetta,
persia coviella e di molta borrana.
Siete più chiara che acqua di fontana
E rilucente più che una stagnata.

Fatevi all’uscio madonna dolciata,
ch’io v’ho recato un cesto d’insalata…