26 febbraio 2020

"Anche i Pisani sono esseri umani" di Luciano Luciani (8a puntata)


                                                                                 

personalissime memorie di un tempo lontano   
                           che nessun casa editrice - forse a ragione -
 sembra avere interesse a pubblicare.

La goccia che fece traboccare il vaso.
La goccia che fece traboccare il vaso nei sempre più difficili rapporti con l'Enaip di Pontedera... furono due.
 

La prima si riversò fuori dall'orlo il 31 gennaio 1973, festa di san Giovanni Bosco, patrono degli apprendisti: santa Messa in officina alla presenza di religiosi locali - gli stessi che avevano optato per il non aderire, né sabotare quando mi dannavo l'anima per trovare corsisti e a cui avevo avuto l'ingenuità di rivolgermiro nella speranza che volessero aiutarmi -; aclisti in alta montura ben forniti di labari e gagliardetti precettati dalle loro associazioni; pii insegnanti e corsisti devoti; alcuni operai e impiegati Piaggio "per grazia ricevuta". Una consuetudine locale, mi dissero. Io non c'ero. Per carità, niente contro don Bosco, al quale riconoscevo una vocazione sociale sconosciuta ai liberali del nostro Risorgimento, ma non mi sorrideva l'iniziativa di piantare il crocione in un ambiente laico - perché finanziato coi soldi di tutti - e per di più in quell'officina la cui agibilità era anche il risultato delle mie fatiche. Almeno avvertitemi, cosa che nessuno si era preoccupato di fare. Quel giorno festeggiai il patrono degli apprendisti rimanendo a casa mia, ben cosciente che quell'assenza, ignorata dai più, sarebbe stata certamente registrata da alcuni pochi che però in quell'ambiente clerical-pontederese qualche peso lo avevano. 

Gli stessi non poterono poi non cogliere la mia partecipazione - eccola, la seconda goccia! -  a una manifestazione con Livio Labor, ormai inviso a tutti i cattolici conservatori d'Italia, promossa da un circolo culturale locale d'ispirazione socialista. Qui non solo andai, ma mi ritagliai pure una piccola parte in commedia, svolgendo un ruolo che in età matura mi sarebbe toccato tante e tante altre volte, di moderatore della serata. Che vide la presenza di tanta gente e lo svolgimento di un interessante dibattito: il ruolo dei cristiani in politica; la tormentata vicenda delle Acli; le luci e le ombre della Chiesa di Paolo VI; il governo Andreotti-Malagodi e le divisioni interne alla "balena bianca" democristiana... Ricordo anche, e senza false modestie, di essere stato particolarmente brillante in quella occasione. Una luminosità che mi rese particolarmente visibile e che di lì a poco, pochissimo, avrei pagato a caro prezzo.

Primi anni Settanta: la fatica della politica.
Passato dalle Acli alla politica, Labor non aveva avuto particolare fortuna. Probabilmente prematuro il suo tentativo di introdurre l'idea del conflitto sociale all'interno del corpaccione molliccio, vischioso, interclassista del cattolicesimo italiano e del suo partito di riferimento, la Dc; sbagliata, poi, la sua collocazione all'interno di un'area politico-culturale, quella socialista, che non gli apparteneva e che stava già incubando la mutazione genetica craxiana. Il colto conferenziere che intervenne alla partecipatissima assemblea a Pontedera era appena uscito da una sonora sconfitta elettorale: il suo Movimento Politico dei Lavoratori, Mpl, messo in piedi frettolosamente per favorire il distacco e il riposizionamento di settori di mondo cattolico sullo scenario politico italiano, nelle elezioni anticipate del 7-8 maggio 1972 aveva raccolto solo lo 0,4 degli elettori. Quell'esperimento era fallito: le elezioni avevano detto "avanti al centro"e per Labor, almeno come figura significativa della politica italiana, iniziava il tempo di un dignitoso declino.
 

Fuori dalla loro portata l'ex presidente delle Acli, le rappresaglie degli aclisti/democristiani locali si concentrarono su quanti, a torto o a ragione, vennero individuati come suoi simpatizzanti o referenti. Fu proprio quello che mi accadde. Il clima si fece immediatamente pesante e credo che il buon Carlo Ciucci si sia dovuto adoperare al meglio delle sue doti diplomatiche di cattolico di lungo corso per evitarmi rivalse e rappresaglie troppo pesanti e tali da pregiudicare le rifiorenti attività del Centro. Comunque, se fino a quel momento non erano mai mancati gli inviti per noiosissime riunioni di tutti i tipi (organizzative, di programmazione, di coordinamento, pedagogico-didattiche...) ora andarono improvvisamente rarefacendosi; sempre più faticose divennero le comunicazioni con le sedi di Pisa, Firenze, Roma e sempre meno significative le mie relazioni personali con i colleghi di lavoro, che, pure di fronte alla proposta di un caffè insieme al bar, trovavano sempre la scusa di qualche impegno impellente a cui attendere. Insegnavo nei corsi, facevo lezione la sera, mi impegnavo in luoghi e orari per me pendolare proibitivi nei faticosissimi corsi-apprendisti, ma era evidente che per Luciano a Pontedera non c'era più futuro. 

Bene, anzi male, ma forse era il momento di chiedere un trasferimento. Ne parlai con l'allora coordinatore regionale Enaip Marcello Perrotta, destinato negli anni a venire a un percorso professionale di tutto rispetto come sessuologo e terapeuta del mal di coppia, e mi fu proposta una possibilità, l'ultima, in quel di Livorno. Non c'ero mai stato e ne approfittai per visitare la più brutta città della Toscana e prendere contatto con un paio di persone con cui avrei dovuto lavorare. Per fare cosa? Dirigere un Cfp, naturalmente nei pelaghi di mille problemi organizzativi ed economici, amministrativi e di idee... Un déja vu che proprio perché tale non mi preoccupava più di tanto. Anche perché non potevo fare diversamente, accettai.

16 febbraio 2020

"Anche i Pisani sono esseri umani" di Luciano Luciani (7a puntata)



memorie autobiografiche
di malsicura pubblicazione

El pueblo unido jamas serà vencido.

I fatti, come è noto, si incaricarono di contraddire tale perentoria affermazione. El pueblo non solo fu vencido, ma pure pesantemente: con la durezza spietata che i potenti sono soliti riservare a quanti hanno osato ribellarsi, magari anche con un certo successo iniziale, alla loro autorità. Ai poveri di quel lontano Paese latinoamericano fu inflitta una lezione da non dimenticare che parlasse, e in maniera esplicita, anche alle altre genti del "cortile di casa": non si azzardassero ad alzare la testa, altrimenti gliela avebbe fatta abbassare il big stick nordamericano. Per piegarlo, il popolo cileno, si allearono le multinazionali del rame e i generali felloni, i reazionari, che anche in quel Paese non mancavano di sicuro, e le logiche  di dominio dell'imperialismo americano. Il presidente socialista Salvador Allende, legittimamente eletto attraverso libere elezioni, muore mentre difende la sua casa, il palazzo della Moneda, e quella di tutti i cileni. Le ultime foto lo consegnano alla storia che indossa un improbabile maglione da casa, un elemetto militare e imbraccia un mitra. Glielo aveva regalato Fidel sempre scettico, ma lungimirante, sulla correttezza democratica degli Usa.
Dopo la Cecoslovacchia di qualche anno prima, un altro colpo durissimo all'idea dell'autodeterminazione dei popoli: chi si ostinava a crederci non poteva che sentirsi più solo e impotente. Non fu una bella esperienza quella di dover ammettere già a venticinque anni che la storia, anche la nostra, quella che vivevamo ogni giorno con una straordinaria passione civile quale non ho mai più ritrovato negli anni successivi, assomigliava "sempre più a un mucchio di macerie e di speranze distrutte, deluse e infrante  che a una logica di progresso organizzata per tappe di superamento".

La prima giornata senza automobili della mia vita.

Ma quell'anno straordinario doveva ancora regalarci ancora un'indimenticabile intersezione tra la Storia grande e quella minore, se non minima, di ognuno di noi.
Accadde che in autunno l'Egitto attaccò Israele sul fronte del Sinai, mentre la Siria si faceva sotto nel Golan. È la guerra del Kippur dal nome della festa ebraica che si sta celebrando in quei giorni: dura solo 15 giorno e già il 22 ottobre le parti accettano un cessate il fuoco. Bene, viva la pace e tutto bene quel che finisce bene? Nient'affatto, perché la guerra avrà pesanti conseguenze per i Paesi industrializzati, in genere filoisraeliani. Strumento di guerra individuato come destabilizzante dai Paesi arabi, sconfitti sul terreno militare, l'aumento del 70% sul prezzo del petrolio, mentre ne veniva diminuita la produzione tra il 10 e il 25%. Ne derivò un pesante aumento del prezzo del greggio e già in novembre il governo di centro sinistra è costretto a varare una serie di misure piuttosto impopolari tese a contenere i consumi petroliferi: limiti di velocità su strade e autostrade; divieto di circolazione per le auto nei giorni festivi, cinema e teatri chiusi entro le 23,00, illuminazione pubblica ridotta... Si esaurisce un periodo di prosperità e inizia un decennio di stagnazione e disoccupazione diffusa e dentro quella piega presa dalla politica e dall'economia c'eravamo dentro tutti noi fino al collo e anche di più. Non ricordo se maturassimo per quella contingenza geopolitica la giusta preoccupazione. Certo è che nel filtro della memoria personale sono rimaste alcune immagini della prima domenica senza auto per risparmiare la benzina: una giornata luminosa e ventosa e tutti - tutti noi - a camminare sull'argine destro dell'Arno in direzione della corrente. Mete? Riglione di sicuro; magari Cascina, e perché no? Pontedera... E se le gambe avessero retto ancora, ancora più in là... Camminavamo in gruppo - pisani, calabresi, milanesi, romani - e parlavamo. Ad alta voce, perché quel silenzio strano, ignoto a tutti, di strade e piazze senza rumori di automobili, frastornava e un po' inquietava. E allora per spezzare quella tranquillità inusitata e strana, ci mettemmo a cantare. Intonammo un po' di tutto: Lucio Battisti, subito abbandonato perché si diceva che fosse un mezzo fascio; La canzone di Marinella e Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers, Amore che vieni, amore che vai di De Andrè e poi, a grande richiesta tante, tante canzoni di lotta: Ivan Della Mea, i testi arrabbiati del Canzoniere Pisano e del suo capofila Alfredo Bandelli, mentre Il pueblo unido jamas serà vencido degli Inti Illimani, il complesso folk cileno che non piacerà a Lucio Dalla, venne urlato a squarciagola nel tentativo di turbare la serenità domenicale indifferente di quella periferia pisana non più città e non ancora campagna. Incancellabile nella mente e nel cuore, allora come oggi, una sensazione - mai più provata in seguito -  profonda, struggente e lancinante al ricordo: di essere amici e invincibili, invincibili perché amici. Anzi di più: fratelli. Anzi di più ancora: compagni! E quindi immortali, eterni... Per cui Pinochet e fascisti di qui e di lì, Agnelli e Rumor, Nixon e Kissinger a noi ci fate una sega, anzi una bella sega!



14 febbraio 2020

"Il carnevale di Viareggio e io" di Romina Cortopassi


Il carnevale è quello che più di tutto, mi rende l'idea della drammaticità del tempo che non tornerà mai.
Chi non è di Viareggio, per quanto impegno ci metta, non la può comprendere questa cosa.
Perché, come il mare, è il Carnevale che scandisce l'anno. Estate e inverno.
Perché tutte le cose più intense, quasi tutti le abbiamo fatte col costume. Da bagno, o mascherato.
Ma la maschera, che maschera le cose che non ti piacciono di te e tira fuori tutto quello che sei per davvero, la sappiamo usare solo qua. Perché non nasconde, ma svela e fa osare.
E scandisce il tempo.
E allora, con la maschera, hai sicuramente fatto qualcosa di nascosto, dietro i bagni la domenica, e dietro le cucine ai rioni.
Hai preso le prime e forse uniche sbornie, con i bottiglioni pieni di sangria.
Hai litigato col fidanzato, sei entrata in libreria, hai camminato per le strade, hai parlato di cose importanti con la stessa serietà di chi indossa un tailleur.
Hai ballato fino allo sfinimento, che poi, più che ballare, salti e ti spingi o ti sloghi le spalle per fare il cerchio che si allarga e si stringe e ti sei trovata spiaccicata tra ragazzi sudati e sconosciuti e magari, ci è scappato anche un bacino o una palpata. Reciproca!
Una volta, a proposito di baci, ne hai dato uno da diciassette minuti e quarantadue secondi (preso il tempo dalla tua amica) a quell'amico che non vedevi da un po'.
Mica perché "chissà che...". Semplicemente perché eravate vestiti da orsi marroni tutti e due.
E poi, "ciao".
E, hai voglia a rimettertelo ora, quell'orso lì, di vent'anni fa.
Non è che ti senti ridicola, no.
Però noti quelle rughette in più, che i giorni normali è come non ci fossero. E ti accorgi che i codini stonano.
Che i coriandoli, dopo, li devi spazzare.


"...passeggiata Margherita, se a incontrarla per prima sei te, devi dire alla mia fanciullezza se per gentilezza, ripassa da me."

"Liolà" di Luigi Pirandello. Regia di Francesco Bellomo


di Silvia Chessa

Unica vera commedia non intellettualistica di Luigi Pirandello, inscenata in ambito agreste, rurale e contadino, nella traduzione italiana negli anni ’40 (in dialetto già negli anni ’20) dove trionfano vere e proprie forze: vitalità pura, culto della fertilità intesa anche come avallo al potere, senso della “roba”, nell’accezione verghiana di proprietà, ricchezza, onore, riconoscimento sociale..

I personaggi sono ben definiti e delineati nelle loro prime pulsioni e gli interpreti ne rendono efficacemente l'anima: dallo zio Simone (Enrico Guarnieri offre una profonda interpretazione con una punta di mestizia e malinconia), vecchio avaro con l'ossessione di mascherare la sua infertilità, a Tuzza che cova il proposito di farsi una posizione di agiatezza coadiuvata dalla zia Croce ed è disposta perciò ad ogni inganno, financo a rinunciare all'amore vero.
Tra gli altri personaggi si nota Mita, nel suo profilo di figura remissiva e scialba, anche se poi, alla fine, persino lei non priva di malizie.



Su tutti emerge Liolà, impersonato da Giulio Corso, il quale rende l'energia la vitalità e il carisma di questo personaggio, protagonista giocoso e beffardo ma autentico a dispetto delle apparenze e degli intrighi della maggior parte.
Trionfa sugli intrighi operati da Tuzza e da zia Croce la schiettezza di Liolà. Egli dimostra di avere in fondo un suo codice d'onore per il quale è disposto a nozze riparatrici (ma è rifiutato in quanto povero); eppure non rinuncia a mantenere i suoi figli e ad essi insegna ad affrontare la vita cantando.
Allora i mostri veri non sono - ci avverte Pirandello - quelli che mostri appaiono in superficie ma coloro i quali, gettata la maschera, si rivelano gretti e calcolatori.
Tale epifania di vere mostruosità ricalca la situazione descritta da questa piccola circostanza della vita personale ed artistica di Pablo Picasso con cui mi piace concludere:
"Avete fatto voi questo orrore, maestro?", chiese l'ufficiale nazista di fronte al dipinto intitolato Guernica  (realizzato, come noto, dall’artista dopo il bombardamento aereo della città omonima durante la guerra civile spagnola) . "No, l'avete fatto voi", rispose Picasso.

La scenografia, veristica e minimalista, rispecchia un tipico paesino siciliano arroccato tra chiesa, casette arrampicate sulle pietre e mare sullo sfondo.
Le canzoni sono il giusto diadema di questa opera ben modernizzata e animata anche 
dalle musiche e dai balli che conferiscono un ritmo vivace all’insieme.
In conclusione si raccomanda la visione, al Quirino (fino al 16 febbraio), di questo dilettevole ed istruttivo spettacolo.

Giulio Corso
Enrico Guarnieri
Liolà di Luigi Pirandello
regia Francesco Bellomo
con (in ordine alfabetico) Sara Baccarini, Federica Breci, Alessandra Falci, Giorgia Ferrara, Roberta Giarrusso, , Anna Malvica, Margherita Patti, Nadia Perciabosco, Scene e costumi: Carlo De Marino
Musiche: Mario D'Alessandro e Roberto Procaccini
Disegno e luci: Giuseppe Filipponio
Produzione: Corte Arcana Isola Trovata, Teatro ABC Catania, ATA Associazione Teatro Arte.

11 febbraio 2020

“Vita quotidiana a Cuba” di Ernesto Bazan


di Gianni Quilici

Una grande foto di vita quotidiana sulle strade di Cuba di Ernesto Bazan, che coglie una molteplicità di situazioni e di sguardi, che si organizzano in una forma felicemente armonica.

Al centro, colto da vicino, un ragazzo concentrato con  occhi socchiusi, mentre sta camminando, sul capo una tavola su cui è sdraiato un maialino morto, che sembra quasi vivo.  Già questo sarebbe, di per sé, uno scatto inconsueto e molto originale, con tutto ciò che si potrebbe aggiungere ragionando sui dettagli.

L’abilità, e anche un briciolo di fortuna, di Ernesto Bazan nasce dallo sfondo, che rende più articolata, complessa e riuscita la foto.
Sulla sinistra, infatti, vediamo la bambina sopra un muretto, che lo osserva estatica, mentre tiene tra le mani un cerchio hula hoop,  intorno alla vita. Un ottimo scatto di per sé, anche questo.

Dalla parte opposta, invece, due altre bambine in movimento si incrociano: l’una guarda il ragazzo passare, forse stupita, con la mano sul volto e i piedi in cammino, che curiosamente formano un triangolo,  mentre l’altra la vediamo soltanto di spalla al limite  dell’inquadratura.
 Nessuna sovrapposizione tra di loro, in una  fotografia dove si mescolano  lavoro e gioco per strada, senza che nessuno dei loro sguardi si incroci. 

Siamo a Cuba nei primi anni ’90 nel periodo più difficile della storia dell’isola: l’Unione Sovietica è crollata e l’embargo statunitense si fa più insopportabile. Vivere a Cuba è duro, ma il popolo cubano , anche in mezzo alla povertà, esprime, come ha scritto Ernesto Bazan, “dignità, allegria,  passione per la danza e la musica e il forte senso della patria”.

Bazan, nato a Palerno nel 1959, ha vissuto a Cuba dal 1992 al 2006 “quattordici anni di vita vissuti intensamente”, perché nell’isola ha trovato l’infanzia perduta, si è innamorato, è diventato padre, è cresciuto come fotografo, vincendo, tra l’altro, il primo premio del World Press Photo e il prestigioso Eugene Smith           


10 febbraio 2020

“Versi in viaggio” di Gianni Quilici



                                                                               foto di Gianni Quilici
di Bartolomeo Di Monaco

Affrontare un testo poetico non è la stessa cosa che affrontare un romanzo. La poesia ha un connotato di sacralità assoluta che manca agli altri generi d’arte, esclusa forse la musica, alla quale, del resto, la poesia assomiglia.
 

Le altre arti diffondono visioni e sentimenti attraverso l’intermediazione della storia e dei personaggi che la vivono, non così la poesia. Essa è una manifestazione diretta dell’anima, che si rivela e si esprime con parole che non appartengono ad un vocabolario naturale, ma traggono la loro vitalità e significanza da uno scrigno universale, custodito da qualche parte esclusivamente per i poeti. Allo stesso modo che avviene per le note musicali, che l’autore raccoglie attraverso la propria anima, traendole da un angolo riservato e nascosto nella complessità della creazione.
Quando si scrive poesia non siamo più esseri umani davanti a uno specchio che riflette la nostra immagine, bensì quel segmento minuto della vita universale che si inserisce nell’eternità. Davanti allo specchio, il poeta non vede la sua misera figura ma l’eterno di cui fa parte e il segmento che lo fa esistere.
L’opera che qui si esamina appartiene a questo genere d’arte a cui il solo accostarsi mette i brividi. Chi legge la poesia affronta sempre, lo voglia o no, una sfida, poiché quel sentimento che forma l’eterno universale lo penetra e lo contamina, misurandosi con il segmento che pure è in lui, destandolo dal proprio torpore e costringendolo al confronto e alla trasformazione.


"Gianni Quilici" foto di Maddalena Ferrari. 1991
Gianni Quilici, diventa così, con il suo viaggio, un pellegrino che ha scelto a suo specchio il mondo e davanti ad esso si rimira e si ritrova diffondendo e donandoci nello stesso istante il suo spirito in un afflato che è affermazione e contaminazione.
Vediamo insieme questa raccolta, che già nel titolo esplicita una ricerca, quella di trovarsi e riconoscersi nell’universalità della Creazione.
È il suo primo libro di poesia, uscito nel 2017 per i tipi di Tra le righe libri. Abbiamo già conosciuto l’autore quando uscì, nel 2015, “Non è che l’inizio”, un romanzo anch’esso di movimento e di ricerca, e già in questa omogeneità d’intenti si può vedere la pervicacia, la risolutezza, e anche la voluttà, di un’anima che si muove soprattutto per riconoscersi, per identificarsi nella vastità di un universo che, proprio per la sua immane dimensione, tende a disperderci fino addirittura a tentare l’annientamento.
Ogni confronto con la Creazione è un tentativo dell’uomo, di ogni uomo, di lasciare un segno della propria esistenza. Un grido disperato, dunque e sempre, per la propria affermazione.
Ce lo conferma la prima poesia che apre la raccolta: “Vorrei”, che non è un debole desiderio, come lascerebbe intendere l’uso del condizionale, ma, appunto, già il prodromo di un grido: 

“Vorrei rivitalizzare/ogni anfratto di inerzia/ora che inizia il viaggio/con quello scatto/supremo/di libertà/ come quando s’incamera fiato/che poi leggero/ si spande”. Ci vuole fermezza, convinzione e audacia per affrontare un simile viaggio; il poeta ne è consapevole e lo manifesta in “Pensamenti”: 
“Soltanto ci vuole audacia./Vivere molto dentro/Andare fino in fondo./Pensare molto fuori./Trascendere lottare.”. Un filo dunque da tessere durante il viaggio il quale colleghi il dentro di noi con l’esterno che si muove e, anche grazie al nostro intimo sentire, si trasforma e sia pronto ad osservare, con lo speciale sguardo di un’anima capace di cogliere l’invisibile, il trascendentale, per un confronto, sia pure aspro, ma necessario per la conoscenza.
 

Sono poesie brevi, qualche volta con un’armonia intrinseca che non necessita di punteggiatura; quasi degli scatti che non fotografano la materia, bensì lo spirito. “Io corro nel sole” scrive in “Autostrada”; in “Nuvole celesti”: “Io scrivo/pensieri/che volano via”. Ricerca, dono di sé, speranza, sono tre forze che indubbiamente spingono e identificano la poesia di Quilici.
 

Le annotazioni che paiono neutrali, una specie di cronaca, come ad esempio quelle che compongono “La Rochelle”, sono in realtà un ferma immagini su cui riflettere e confrontarsi. Gli attimi che, numerosi, si incontrano in questa raccolta non sono mai veloci, rapidi come dovrebbe essere; hanno, al contrario, la lentezza di un lungo e sofferto brano di vita: “C’è nel viaggio/la necessaria sosta.” (“La sosta”) e: “Misuro il tragitto/misuro i miei passi,/la vita si srotola/se sappiamo captarla:/il paesaggio e le mura/i dettagli di quadri/i sotterranei pensieri.” (“Saint Paul de Vence”).
È il ritmo che incontriamo nel dolmen della poesia omonima: “Entrare nel dolmen/guardingo a testa china/lungo un percorso oscuro/che diventa forma/rifugio.”.
Nella ricerca c’è sempre poca luce, soprattutto in principio, e si procede a tentoni, fino a che non si intravvede il primo barlume; allora presto tutto s’irradia e si trasforma in pura luce. All’inizio no: “Guardo monoliti fisso/e a lungo/con il desiderio ingenuo/di evocare qui e ora/quei misteri possibili/fuggenti.
 

La luce, lo scioglimento di un mistero, si devono guadagnare con il coraggio di non trattenersi, di non avere paura nella propria personale ricerca, creduta erroneamente sovrumana e impossibile: 
“Vita veloce/che corri come il vento/si giunge fino a un punto/e si ritorna indietro?/Ancora non ci sono al punto/ancora inquieto/ancora mordo e fuggo.” (“Vita veloce”). Le figure umane o appartenenti alla natura visibile si delineano furtivamente, consapevoli di un nascondimento necessario a sprigionare una ricerca più intima e universale: “una donna dalle cosce rotonde e piene,/un bimbo che gira in bici in tondo/come un ossesso.” (“Misteri”).
 

Non c’è mai smarrimento, tuttavia, anche se le probabilità, per la natura sovrannaturale della ricerca, sono altissime, e nemmeno la paura riesce a fermare il cammino nell’intrico dell’umano e del naturale che il poeta incontra a corollario di una difficoltà che forse mai nessuno è riuscito a superare: 
“Io sogno che infine/correndo a casaccio/mi trovo/davanti le mura/le mura di Aigues Mortes./Io solo/e campagna e campagna in distesa alle spalle/ ed in cielo una luce splendente/da fine del mondo/che non lascia respiro.” (“Aigues Mortes”).
 

Come nel romanzo, Non è che l'inizio, l’autore non mette mai in conto la sconfitta; lo stesso processo succede nell’ispirazione poetica, intrisa della stessa forza e del coraggio. Si veda “Grottammare”, che comincia: “Volava giù la macchina/stasera/nella discesa volava/ed io con lei volavo/tra la luna piena/e la morbidezza/d’una vista sognante.”.
 

I versi sono in viaggio poiché non pongono limiti alla esplorazione prefissata, al cammino della speranza, ai propositi felici ed entusiastici, mai contaminati dall’illusione. La delusione è sempre momentanea, come la temporanea sconfitta non ha la negatività che le si attribuirebbe: “”Cercavo la spiaggia bianca/come se fosse un sogno/per correre a braccia alzate/e perdermi nell’acqua.” (“La plage bianca”).

Una chiave di volta e di salvezza è rappresentata dallo stupore che sempre si accompagna allo sguardo del poeta; è uno stupore catartico, purificante, che rende quel chiarore necessario a proseguire:
 “Ma quando oltrepasso il ponte/è lo stupore che mi porto accanto.” (“Concarrneau”). Lo stupore è la forza motrice della sensibilità, consente di ascoltare e di ricevere risposte: “Fare poesia là dove/già c’è poesia.” (“Amboise”). 
Perfino l’estraneità diventa stupore: 
“Guardo come se fossi/estraneo a questo mondo/la piazza con la luce dei lampioni/che riposa morbida/nella prima sera/e pianto gli occhi/sul grande orologio nero e bianco/con la torre a vela e la campana/che svettano trasognate/nell’imbrunire/della sera” (“Sovana”). Quest’ultima, riportata per intero, è tra le più belle, poiché è una sintesi tra armonia e stupore, tra estraneità e compenetrazione. 
Ci sono poesie in cui lo stupore raggiunge il suo apice: si vedano: “Aigues Mortes”, “Santiago de Compostela”, “Dubrovnik”, “Punta Ala”, “Verso Pitigliano”, “Monterubbiano”, “Non c’è sulle Mura”, “Lubecca”, “Adolescenza”, “Immagina tu”, “Vedi laggiù”, “Vorrei essere”, le quali s’illuminano di luce propria, quali punti di riferimento, come terminetti stradali, del cammino da percorrere.
 

Le poesie, salvo quelle appena citate, non hanno ciascuna una propria unitarietà compatta e intrinseca; sono come lucciole, e l’acquistano nella catena di anelli che esse compongono nel viaggio, sicché, come per un mosaico, il percorso maieutico e il suo risultato sono composti dalla loro sequenza e complessità. Alla fine della lettura, il cammino apparirà chiaro, comunque sia il suo esito, esaltante o triste: 
“il futuro che è là/oltre l’orizzonte/oltre i nostri occhi d’una bellezza perfida/perché aperta a dismisura/ad ogni possibile caos.” (“Si va”). Ma anche “La piazza di platani antichi/protesi nella luce provenzale/purissima/E curiosamente nel caffè/un giovane che sorridendo/stringe festosamente la mano/a tutti.” (“Pourrières”).
 

Che cosa rappresentano i numerosi luoghi che incontra e fotografa (la fotografia ausiliatrice del poeta) e raccoglie nel suo intimo? Particelle sopite di un’anima in risveglio, che si avvia, nella sua ossessiva ricerca, a definirsi e a illuminarsi: 
“Nell’ora in cui la luce/pare con le acque giocare/e le ombre si distendono lunghe/ed un vento leggero/sommuove i capelli.” (“Rodano”); e anche: “Mi riempio gli occhi/di campi di grano/di ciuffi di boschi/di mucche assonnate/di nuvole incerte.” (“Verso Loches”). È il mondo che entra (un raggio di luce e di sapienza alla volta), prima nel corpo e poi nell’anima per universalizzarla: “Mi batte sole rovente/sulla spalla nuda” (“Lungo la strada”); “gli occhi eccitati/le parole da scavare in corpo…” (“Saint Malo”).
Le parole, in questa raccolta, hanno un significato ben più ampio di quanto possa apparire, e ne assorbono molti altri, sicché immagini, emozioni, sentimenti e stupore trovano nell’uso semantico della parola il loro veicolo di penetrazione. Troveremo in “Oh come non mi piace”, del 1980: 

“Amo la corsa leggera/lo sguardo limpido/e inquieto/la parola che incide/nel solco della memoria.”; “Ora in silenzio/lascio che le parole/vengano a me,/le forzo anche/cercando il punto di calore,/quel punto che ha/una sua ragione profonda/e che si allarga.” (“La ricerca”, del 19 maggio 1977).
 

Anche il tempo perde la sua definizione e ci fa avvertire la sensazione di un disorientamento a cui dovremo subito rimediare: “A Vitré/ci sono strade/dove il medioevo quasi si tocca./Una locanda sul crocevia/e locali tuffati/in un altro tempo.” (Vitré”), e anche: “C’è quel momento/in cui scivolo via/in un mondo senza tempo/quando gli occhi/malgrado tutto/si chiudono/e di me gianni/perdo conoscenza.” (“C’è”). Ma il tempo è anche il contenitore e il misuratore principale della nostra esistenza; ne ha tracciato il passato, ne traccia il presente, senza timori di assenze dimenticate e finite nel nulla, e ci promette e assicura altrettanto per il futuro che continuerà a marcare sia nella complessiva umanità che in ogni singolo uomo (“Ci sono luoghi”).
 

La femminilità che ogni tanto compare lungo il percorso, simile alla luce di un faro, è sempre pervasiva e rassicurante: “Lei, imperterrita,/appare lì sulla panchina/altera come se fosse sopra un piedistallo.” (“Catedral”); e anche: “La vedo venire innanzi/nella piazza disarmonica/nella sua armonia,/nel biancore virgineo/ di balze e di trine/come se danzasse/in sé e per sé/seducente.” (“Dalla terrazza”). Quando arriveremo al capitolo dedicato all’erotismo (ma io lo chiamerei amore), allo splendore della femminilità si aggiunge una armoniosa tenerezza che fa di questo poeta un moderno cantore della donna leggiadra e ispiratrice.
 

Ma non c’è tempo da perdere: “Di più fare di più tutto./Non perdere tempo/e prendere quei pensieri sottili/che vanno esili e veloci/e che quasi subito si perdono/assaporando con lo sguardo/i segni infiniti delle cose/annusando odori laddove essi respirano/mettendo in moto corpi e gambe/nella luce più splendida d’estate.” (“Immersione”).
 

Sebbene il poeta compia il viaggio in compagnia di altri pellegrini tutti alla ricerca di se stessi, esso è interno e impermeabile a ogni contatto altrui (soprattutto quando trova testimonianze di odio e di guerra, la sua riflessione acquisisce tutta la profondità della meditazione interiore). Le varie intimità non si incontrano mai. La ricerca è del tutto personale, in solitudine, come deve essere, e lo resta anche nei momenti conviviali (“Ai margini di una strada”).

Il viaggio, in questo modo, diventa il cammino personalissimo del poeta, il quale della sua fisicità porta solo il peso materiale, ed è soltanto l’anima, in realtà, a compiere il viaggio, plasmando di sé ogni cosa che incontra e assorbendone le proprietà universali: “Me ne sto accovacciato/senza peso leggero/sul mare color del cobalto/come se raccogliessi/ogni senso//per aprirmi totalmente/a questo paesaggio/di magnifiche rocce/con forme bizzarre/di grandi animali/surreali a volte/levigati impastati aggrovigliati.” (“Capotesta”); 
“Che ogni attimo/sia un pensiero/o un verso/così che io/che sono volto/sparisca come tale/e diventi/un flusso ininterrotto/che sorprenda.” (“Aspirazioni”). E anche “Genova”: “Seduto disperso nel tempo/il tempo che tutto inghiottisce./Vibrante lontana una fisarmonica/mi dona un senso vertiginoso di immortalità./Nel tempo che tutto travolge/in cui tutto si perderà.”. Vi è una leggerezza estrema in questo cammino, che in qualche modo nasconde perfino una certa malinconia corporea legata ad una avvertita incompiutezza (si veda “Visioni”: “Dormire sulla collina/come se fossi un corpo elastico/capace di involarsi a comando/assumendo come giaciglio/non questi ibridi/abitacoli disseminati senza senso/ma la luce/nello spazio/più impensabile.”), la quale lo precede come espressione dell’anima che aspira alla nuova conoscenza e alla nuova fraternità con il Creato. In “Finzioni”, del 2005, troviamo: “Non ci sono limiti/nei limiti che/ahimè ci sono/quando rivolgendomi/alla luna gelida/di questa notte/vorrei farmi/ahimè/universo.”.
Tutto ciò consente al lettore (ogni tanto compare una critica sociale inflessibile e decisa, soprattutto contro la modernità) per concentrarsi sui veri frutti di questo cammino spirituale, che sono di conoscenza, di confronto e di accoglienza:

 “Il piacere di ritornare/stanchi,/di distendersi/con un tempo/tranquillo/di attesa/davanti.” (“Il riposo”). Anche “Meditazione”, e soprattutto “Agios Stefanos”: “E ora nell’onda/che lieve sciaborda/nella luce/che lieve discende/mi prefiguro vita nova./Prendere nelle mani/quell’io remoto/che nel profondo del Tempo/è nato e vissuto./Capirlo per ricrearlo”. Ed ecco il passato come colonna portante, come fondamenta del presente: “Una festa ci accoglie la sera/con la sua affollata, epidermica allegria./Il centro storico ha la bellezza invece/del suo medievale silenzio.” (“Monte San Giusto”). Lo stesso in “Firenze”. Ma è un passato che alle volte sembra essersi liquefatto: così si conclude la poesia “Mio padre potesse”, del 2007: “Quel mondo/che fu tutta una vita/non c’è più.”.
 

Scopriamo presto che tutte le poesie, anche quelle lontane della giovinezza (nelle quali è forte un sentimento in cerca della propria identificazione, una specie di blocco di partenza per un cammino che si intraprenderà; si veda “Vorrei essere”), sono un unico, ininterrotto e ostinato viaggio verso la conoscenza, la solidarietà, l’empatica simbiosi universale e, specialmente, la ricerca spasmodica, desiderata oltre ogni limite, di sé, per lasciare un segno del proprio passaggio sulla Terra. Un viaggio che non è ancora finito e che l’autore anela a proseguire con le stesse motivazioni di penetrazione, di crescita e di conoscenza:
 “Voglio vorrei/se mi sarà possibile/vivere viaggiando ancora/oltrepassando limiti e paure/col corpo immerso/nella luce nel vento nella pioggia/osservando scrivendo scattando/fino all’ultimo respiro” (“Un viaggio che continua”).
 

È una silloge che, proprio per l’afflato poetico che lo ispira, è un vero e proprio diario dell’anima, come ne hanno fatti Goethe e Stendhal.

dal blog BDM (Bartolomeo Di Monaco) Rivista d’arte Parliamone
22 Gennaio 2020     

Gianni Quilici. Versi in viaggio. Tra le righe libri. 2017


  

09 febbraio 2020

"Anche i Pisani sono esseri umani" (5) di Luciano Luciani


                                                                           quinta puntata di una memoria autobiografica
                                                   che non è piaciuta alle più – e anche alle meno - importanti
                                                case editrici italiane

Quell'appartamento disadorno.
Più vicini ai venti che ai trent'anni gli abitatori di quell'appartamento disadorno in via Carlo Del Prete, tra San Giusto e San Marco, zona Areoporto a Pisa; coetanea la larga corte dei loro amici e sodali. Ritengo sia quasi superfluo aggiungere che quel folto gruppo di giovinotti, vuoi per età, vuoi per innate doti di umana simpatia, esercitasse una formidabile forza attrattiva per un ampio stuolo di ragazze coeve: studentesse, laureande, laureate cum ac sine laude, impiegate, commesse, operaie... Belle e meno belle; simpatiche e anche no;  dai costumi in genere liberali ma non sempre; inibite e/o disinibite, talora inibite con l'uno e disinibite con l'altro. Tutte, comunque, ebbero il merito, non trascurabile, di aggiungere piacere a piacere: spesso connotarono di grazie e gentilezza convivialità piuttosto materiali, per non dire grevi; movimentarono le serate; complicarono la vita a non pochi e stesero a volte per caso, a volte per una connaturata abilità strategica, reti emotive che, nel tempo, avrebbero portato a relazioni amorose sfociate in convivenze e matrimoni più o meno lunghi, più o meno felici.
 

Farei torto a questi amici - e non della ventura - se omettessi i loro nomi: Francesco "Ciccio" Romeo, quello piccolino; Antonino "Nino" Zampaglione, l'omaccione gentile; Angelo Curatola, quello alto, uno degli uomini più belli in cui mi sia mai capitato di imbattermi e che sembrava incarnare nell'aspetto il significato profondo del luogo di  provenienza di tutti e tre: Bagaladi, in provincia di Reggio Calabria, ovvero "Baha' Allah" "La Bellezza che viene da Dio". L'onnipotente che, apparentemente così prodigo nei suoi confronti, aveva già messo in conto per lui un'esistenza breve e una fine tragica. Quarto coabitante di quella casa per studenti, Rino Pensato. Un po' appartato rispetto agli altri: per età, si avvicinava ai trent'anni; perché meridionale, ma dell'est, pugliese/ foggiano; in quanto già professionalmente e socialmente garantito da un impiego presso l'Archivio di Stato pisano. Tutte caratteristiche che ormai lo proiettavano, almeno ai nostri occhi, verso un'irreversibile dimensione adulta. Rino era "grande": non partecipava sempre alle nostre serate e dimostrava di amare poco il "cazzeggio" e la veglia.


Todos compañeros.
Tutti compagni, naturalmente. Chi berlingueriano di ferro, chi simpatizzante socialista (guardato dagli altri,  va ricordato per onestà, con una sensazione mista tra lo stupore, lo struggimento e la pena), chi di Lotta Continua... Attorno a quella tavola pisano/calabrese ho visto realizzarsi le forme più ardite di unità a sinistra, quale immaginavo - e immagino ancora - che dovesse essere la sinistra: accogliente verso tutti; solidale con chiunque; capace di sentire e condividere nel profondo del proprio essere tutte le ingiustizie del mondo e provare una pietas piena d'amore per le  vittime della disarmonia sociale: dai braccianti del sud agli operai della Fiat; dai vietnamiti ai campesinos, dai neri americani ai palestinesi. Era, la nostra, l'adesione a un'idea di socialismo ingenuo, prepolitico, sentimentale e non ideologico. Discutibile che contribuisse davvero a cambiare il mondo, a spostare di un ette i rapporti di potere tra le classi. 

Però, faceva stare meglio noi: ci rendeva partecipi di un progetto collettivo di emancipazione, riscatto, liberazione che ai nostri occhi candidi appariva largo come il mondo e inarrestabile come un uragano. Un moto di trasformazione della società così ampio, profondo, radicale quale la Storia mai aveva mai avuto modo di conoscere prima di quegli "anni formidabili". E noi intendevamo esserci; a tutti i costi. Senza pretendere ruoli di direzione: umili fantaccini della Rivoluzione Proletaria avremmo disciplinatamente obbedito ai leader "esperti  e rossi" che le Masse, e noi con esse, avrebbero democraticamente individuato come loro, nostre guide.
 

Nessuno di noi, seduto a quella tavola - ma vado a memoria e parlo di percezioni - aspirava a ruoli di direzione nel partito, nel sindacato, nei gruppi dalla tumultuose dinamiche interne che si agitavano alla sinistra del Partito comunista. Per il futuro ci prospettavamo, più modestamente, di servire la Rivoluzione dal posto che avremmo, forse, saputo conquistarci nella società: insegnante, avvocato, medico, ingegnere... Saremmo di sicuro riusciti a  cambiare dal profondo quelle professioni e quei ruoli, trasformandoli nell'ispirazione e negli obbiettivi. Per renderli utili non individualmente, ma socialmente e mettere abilità, competenze e conoscenze a disposizione di chi ne era privo. Le nostre ambizioni non erano politiche in senso "politicista", ma sociali in senso "socialista". Per il resto eravamo grati al Gran Disegno di una società più giusta perché ci offriva l'occasione di stare insieme, ci teneva uniti in maniera fraterna, impediva alla solitudine di immalinconirci, rattristandoci coi pensieri delle radici lontane e forse perdute per sempre, dell'affitto da pagare tutti i mesi a padroni di casa esosi e pisani, degli amori non contraccambiati e quindi infelici, di un futuro problematico e malsicuro, opaco e ancora indistinguibile nei suoi lineamenti di fondo.
 

Come mi riaffiora alla memoria l'Italia di allora? Ingiusta, ma carica di speranze; sofferente di mali antichi e recenti nei corpi e negli spiriti; giovane, ma governata da una gerontocrazia tutta declinata al maschile. Era proprio così? No, probabilmente no. Larghi si presentavano gli spazi di libertà politica, culturale, nei comportamenti privati e nei collettivi stili di vita. Certo, ogni conquista, anche la più modesta era pagata a caro prezzo, continuamente insidiata e messa in discussione, in alto come in basso, dai potenti e dalla gente comune: e questo avveniva nella famiglia, a scuola, al lavoro. Ricordo l'orgoglio di appartenere a un'imprecisata "meglio gioventù", ma, certo, di minoranza. Corposa, se si vuole, ma sempre minoritaria e, tra l'altro, povera di alleati perché arrogante nella sua persuasa convinzione di essere comnque dalla parte giusta. Continuava ad agitarmisi dentro lo slogan parigino del maggio '68: "Non liberatemi. Lo faccio da solo".

07 febbraio 2020

"Le parole la notte" di Francesco Biamonti


di Emilio Michelotti

Impressioni fugaci da una prima, sommaria lettura.

                                        Da nebbia purpurea spunta la luna. Rossa
                                                  come un sole d'un malato tramonto.
                                                  “E' l'ora, andiamo!”. La cengia sale il costone:
                                                  roccia soffusa di biancore rosato.
                                                  Mirti, elicrisi, lentischi, olivastri che, sfiorati,
                                                  rilasciano odore l'oltremare.
                                                 Come occhi lucenti brillano nella macchia
                                                 puntini che spiano chi passa.

                                                Dal pianoro si vede la costa, tappezzata
                                                da piccole luci. Bagliore lunare rivela un confuso orizzonte,
                                                lontano. Lo spazio ci accoglie: fronde appena mosse
                                                da brezza marina si chiudono sopra di noi.
                                               
                                                Da est bagliori d'incendio. La luna, attonita, un poco
                                                svanisce. La volta del cielo è viola, verde smeraldo
                                                il disco lunare lancia aghi di gelo. Ali si alzano
                                                in volo silente, mentre, là in fondo, coagulano
                                                miraggi azzurrognoli: Gorgona, Capraia e
                                                il lungo profilo corrusco di Corsica lontana.
                                                Nelle mie mani l'odore di lei: “che parola daresti
                                                all'inedito giorno che nasce, adorazione?”
                                                “No, rimpianto”.
                                                                                               Pseudo Leonardo

La vita, sorta dall'abisso, nell'abisso ritorna. Chi lo pensa è stanco, impaurito, non riesce a vedere nessuna verità nel mondo che nasce. “L'odio che non dimentica cade a goccia goccia sul cuore e lo rende simile al deserto”. Pensieri nichilisti, eppure solidali con una terra aspra ma dalla bellezza struggente e con i “clandestini” che, traumatizzati dal distacco e vissuti senza aver conosciuto la morte di Dio, passano ogni notte in quella zona di frontiera verso la Francia.
Vaivara, Argela, Beragna, Sultano, piccoli borghi aggrappati a roccioni a picco sul mare, nascondono scheletri nei pozzi e nei burroni, ospitano agenti dei servizi, trafficanti di droga, reduci dalle guerre coloniali, intellettuali disperati e alla deriva.
 

La lingua di Biamonti è trasognata, visionaria, allucinata, vertiginosa. Dà sgomento, è fremente come per una passione a lungo trattenuta. Ho conosciuto persone che parlano in questo modo, che poi è il modo del protagonista alter ego di Biamonti, Leonardo, e dei vecchi rimasti nei casolari di alta collina. (Un altro era mio zio Florindo: mezzadro, appena alfabeta, solitario, parlava una lingua ricchissima, metaforica, trasversale, ammiccante, quasi poetica).
 

Tutti, in quel mondo precario, sono “passanti nella notte”. Ci sono Corbières, ufficiale francese tornato sul luogo ”conquistato” nel '45, De Ferri, un personaggio da “montagna incantata”, suo figlio adottivo Daniele – intrigato con la malavita – Luigi, un parricida che vive braccato anche da se stesso, Alain, pittore in crisi artistica ed esistenziale. Poi le donne: la moglie del pittore, Veronique, bella, enigmatica, algida ma ossessionata da una ricerca vana di sesso e di piacere; come Carla, la conturbante barista di un precario locale, che si dà a chiunque abbia voglia di lei, Astra, Sara e le altre che hanno escluso sesso e materialità dalla loro esistenza.
 

La terra è sostenuta da antichi terrazzamenti che stanno franando per incuria, incendi, temporali, siccità. I protagonisti, al pari dei quasi invisibili passanti notturni, sono “viandanti inceppati fra due mondi”, l'uno splendente di luce mediterranea, l'altro che è un altrove senza più né luci né ombre.
 

Corbiéres, comandante coraggioso e integerrimo, cercava un posto dove morire, una sorta di “austera Castiglia”, con fioriture di antiche coltivazioni di rose, profumi di zagare, elicriso e lentisco, ma attratto  soprattutto dal blu che “lievita nel fondo della valle e che è oblio e riposo”. E' un luogo dove le albe hanno un nitore dorato, ma le notti sono inquiete per sibili, fruscii, urla soffocate. I giardini custodicono una tenerezza alternata a crudeltà; puoi vedere api che muoiono dopo una straziante agonia e, alzando gli occhi, una via lattea splendente in un cielo più cupo d'un abisso. “Un fiore di mandorlo ha dentro del nero, per questo fiorisce con pudore”.




Francesco Biamonti. Le parole la notte. Einaudi.
                                

03 febbraio 2020

“Risorgere” di Paolo Pecere


di Angela Giovanna Palermo

Avvicinarsi agli scritti di Paolo Pecere vuol dire intraprendere viaggi geografici e intrapsichici sconvolgenti per intensità e ardore.
Questo vale anche e soprattutto a proposito del suo nuovo romanzo: “Risorgere” (Chiarelettere 2019).

Come il precedente romanzo,  “La vita lontana”, anche “Risorgere” è un romanzo filosofico e immaginifico in cui la complessità della trama è data dal fatto che le vicende sentimentali, familiari e culturali narrate, già poco comprensibili per meccanismi e motivazioni in larga misura inconsce, esprimono una critica al concetto di causalità e a una certa idea di Io individuale e collettivo, attraverso un’espressione narrativa febbrile e travolgente, capace di sprofondare il lettore nelle cavità telluriche della sua interiorità. In questo non-luogo è possibile comprendere che le emozioni dei personaggi del romanzo e, quindi, le nostre che in loro ci rispecchiamo, attraverso un potente meccanismo di mise en abîme, hanno una complessa struttura cognitiva che è in parte in forma narrativa, perché implica che certe verità su noi stessi, esseri dalla complessa storia temporale, e con gli oggetti da noi amati nel corso del tempo, si possano ri-velare soltanto attraverso la narrazione.

Il continuo e paralizzante alternarsi del passaggio da una condizione di artificioso equilibrio a una di totale irrequietezza da parte di due dei protagonisti, Marco e Gloria, è magistralmente esemplificato dalla metafora del cammino e del viaggio, reso epico dall’incontro con la montagna himayalana:

“(…) Un organismo stabile di parti che comunicano con precisione, pressioni e versi animali, flussi d’aria e assestamenti armonici, odori e segnali che innescano mosse ben ordinate (…). La sua complessità è sublime, la sua potenza inconcepibile. Il suo modo di persistere facendo e disfacendo sé stessa tra stillicidi e rovesci d’acqua, sbalzi di luce e colpi di vento, nascite, morti e attese sotterranee, somiglia alla saggezza di un dio, che prepara le sue azioni per milioni di anni”.

Viaggio vuol dire anche disperdersi tra le pagine di libri che per Gloria costituiscono una “direzione”, un “riparo”, una “zattera”, “uno sforzo titanico di cristallizzare il dolore in una forma splendida e trasparente”, per uscire da sé stessa, da quella che è diventata, per giungere in una zona inaccessibile all’altro, per difendersi dall’ininterrotto oblio di sé stessa, di quella che era e di quello che non è diventata, che ha dovuto non-divenire, per poter divenire quell’unico io possibile che la sovrasta e la incatena:
“Ogni identità è un costume da provare e poi sfilarsi”

Una delle caratteristiche più imponenti di questo romanzo è la dispersione, intesa come capacità di alternare una concentrazione di matematica severità, con l’uso delle immagini che hanno un forte potere evocativo sulla rappresentazione profonda dell’io e sulla distinzione tra reale, immaginario e simbolico; esse sono costituenti psichici essenziali dei personaggi, e riportano direttamente al concetto freudiano e lacaniano di “imago”. Si tratta di immagini di luoghi mitici e remoti della Cina, visitati direttamente dall’autore.

Con una liricità straordinaria, l’autore ci mostra come la conquista della nostra “imago” non sia l’effetto di una causa, nel senso in cui intendiamo comunemente il meccanismo di causa-effetto, ma che una tale conquista affondi le radici in processi interiori che trascendono il mondo reale e le sue leggi.

Paolo Pecere
Come mai prima nei suoi innumerevoli scritti, in “Risorgere” Paolo Pecere affronta quella “cosa” indefinibile che da sempre ossessiona la sua ricerca filosofica e letteraria, quel mistero proteiforme che di volta in volta, semplificando, chiamiamo tempo, identità, linguaggio, memoria, mente.
“Risorgere” è anche una riflessione ampia e vertiginosa sullo scontro che nella nostra epoca ha assunto nuovi, violentissimi sviluppi tra io e società. Una guerra il cui campo di battaglia è la nostra ipseità contesa tra Oriente e Occidente:
 “Ma dopo aver pagato per quei micidiali errori, del tutto privi di memoria, i cinesi almeno andavano verso qualcosa di nuovo. Non come gli europei, che a forza di riflettere e litigare continuavano a ripetere gli stessi errori, erano incapaci di dichiarare la bancarotta materiale e spirituale, di ricominciare, andavano sempre all’indietro, tornavano sempre a questa fissazione delle origini, Ursprung, la prima sorgente inimitabile, l’unica fonte a cui bere anche se ormai è secca”.

Allo stesso tempo, è un delicato concerto da camera, intimo e riflessivo, sui sentimenti familiari più ambigui e profondi, sulla de-strutturazione degli amori fusionali, sull’impossibile ma ineludibile necessità di risorgere e di portare i nostri sogni oltre quei limiti che il mondo considera come ragionevoli; a dichiarare che quei sogni non sono deliri della mente ma una realtà altrettanto tangibile dell’altra più tenue, infelice illusione che chiamiamo vita quotidiana. Risorgere

Paolo Pecere

CHIARELETTERE

320 pagine, Brossura

18,00€