15 aprile 2009

"Le fantasticherie del passeggiatore solitario" di Jean-Jacques Rousseau


di Emilio Michelotti



Sul finire della sua vita, Rousseau scrisse pagine terribili. Si tratta di “fantasticherie” piene di astio, lamentose, rancorose, paranoiche. E’ ormai un uomo solo e instabile di mente, sconfitto, non amato, assalito dai sensi di colpa, che dubita della fecondità oltre che della ricercata “inattualità” del suo lavoro, che si sente tradito da chi l’ha descritto cattivo padre e pessimo maestro (Voltaire), nel cui animo irrompono ricordi dolorosi come l'episodio di Motiers, vissuto come un tentativo di lapidazione.

Sono pagine amare, sconvolgenti, lugubri, odiose. Una monotona autoflagellazione narcisistica (una “erotizzazione dell’offesa e del risarcimento”, suggerisce Starobinski). Perché scriverne, allora? Perché una delle dieci “passeggiate” che formano la breve opera, la quinta, riscatta con la sua armonia e bellezza quasi “musicale” l’orrida acredine che pervade quasi totalmente le altre.

Jean-Jacques rivive la memoria di una vacanza, due mesi in tutto. Affiora dal passato la piccola isola disabitata di Saint-Pierre, nel mezzo del lago di Bienne (cantone di Neuchatel), e con essa il sogno di una condizione capace di fargli riguadagnare l’intera naturalità perduta.

Come il coevo Linneo, morto nello stesso 1878 (del quale sicuramente Rousseau conosceva gli scritti), il filosofo concepì, nell’estrema fase dell’esistenza, un nuovo entusiasmante percorso di ricerca, testimoniato da queste pagine: si trattava nientemeno che di completare l'opera di Dio, dando ad ogni cosa il suo nome.

Il progetto consisteva nel partire dal descrivere tutte le piante dell’isola senza ometterne neanche una: “Avrei steso un libro intero su ciascuna gramigna dei prati, su ogni muschio del bosco, su ogni lichene che tappezza la roccia”, osservando “il funzionamento delle parti sessuali nella fruttificazione”.

Da quali “estasi e rapimenti” si può essere posseduti identificandosi con la natura, di che può ancora gioire chi ha perso tutto meno la disperazione? “Di niente di esteriore, di niente se non di se stessi e della propria esistenza; finché dura questa condizione, siamo sufficienti a noi stessi, come Dio”.

Ritorno illuminista di un pensatore che prima aveva radicalmente rovesciato l’idea della necessità di un éclairément nel corso del quale il progresso tecnico-scientifico e intellettuale avrebbe diradato le nebbie della superstizione? Non credo: Rousseau continuò fino al termine dei giorni a pensare la sua come l’epoca del massimo occultamento dell’ingiustizia.

La stagione che precedette il trionfo della borghesia continuava ad essere per lui il regno della falsità - e il pensiero che la permeava una filosofia nella quale la verità delle cose era nascosta, imprendibile - l’era della vittoria finale della civilisation sulla autenticità. La critica verso una visione che, per distruggere tutti i miti, si avvaleva ancora una volta di un mito, quello del progresso senza fine, non poteva essere più feroce. E questo in omaggio alla convinzione utopica dell’esistenza di uno stato di natura affratellante che, per quanto tradito e degenerato da una storia antiumana, continua a vivere in ognuno.

L’utopia però ora si fa piccola, si riduce a sentimento, ad eco romanesque (termine ambiguo che sta a significare sia “romantico” che “romanzesco”) della libertà originaria mai sperimentata, in un privilegiato e tormentoso rapporto individuale con le forze vive della natura e con il senso del divino qui definito deisticamente come le intelligenze celesti.


Jean-Jacques Rousseau – Le fantasticherie del passeggiatore solitario
Traduzione di Nadia Cappelletti Truci, introduzione di Jean Starobinski, premessa e note di Henri Roddier. BUR – Rizzoli- Milano, 1979