16 luglio 2016

"La più grande poetessa d'America: lo sguardo-sbrego di Moresco su Emily Dickinson"



di Davide Pugnana

Sulla vita e l'opera di Emily Dickinson, sul loro reciproco compenetrarsi o escludersi, sui silenzi e i vuoti di un giorno o di un'ora trascorsa, è stato scritto moltissimo. Biografi e studiosi hanno frugato fin dentro la rugosità più minuta del suo privato; fiore dopo fiore, voce dopo voce, come esperti botanici e abili mappatori. Ma il continente della sua poesia, il suo Heimat creativo, rimane sommerso e continua ad affascinarci per la sua impevedibiltà. Per capire il fascino di questa abrasione tra ciò che cade nel quotidiano e l'assoluto della trascrizione poetica basta scorrere l'epistolario e leggere la prima lettera scritta da un' Emily undicenne (18 aprile 1842), indirizzata al fratello Austin. Con estrema freschezza, veniamo a sapere del pollaio di casa (salute delle galline e inventario delle uova). Intorno a questo minimo evento - come dalla tazza di tè proustiana - affiora un mondo sommerso e vivente: si aggregano voci, volti, desideri; prende corpo un paese filtrato attraverso percezioni finissime, quasi in miniatura, simili a quelli fiabeschi dipinti da Brueghel. Scorrono corpi in movimento, suoni slegati, riti arcaici: nulla va perduto sotto questa penna che arriva a registrare con puntiglio le nascite, i matrimoni, i traslochi e le morti per tubercolosi dei giovani di Amherst. E accanto alle parole, i fiori di giardino sempre pronti ad entrare nei simbolici mazzetti da inviare alle amiche. Anche questo gesto, più tardi, si sublimerà nella vita della Dickinson poetessa, fino ad assumere il valore di un messaggio incorporeo, dalla forte valenza propiziatoria.
 
E' sopra notazioni come queste che la letteratura critica ha costruito vari ritratti della poetessa; che si è mossa per individuare le radici lontane della sua scrittura, andando a cercare fin nelle lacerazioni e nei dolori taciuti, nei due tagli wolfiani di gioia e dolore; nei risarcimenti artistici capaci di portare equilibrio in una vita vissuta per metà, tra le mura di un giardino. Ma nessuno - per quanto io sappia - si è spinto fino ad una analisi profonda del temperamento della poetessa attraverso una fotografia, osservata e scomposta in tutti suoi elementi, messa in relazione con la temperie dell'epoca e con i versi. E' quello che ha fatto lo scrittore Antonio Moresco nel breve saggio: "La più grande poetessa d'America".
 
Uno studio che mette i brividi per le cose latenti, invisibili, che riesce a portare alla luce. Vengono in mente due riferimenti in questa lettura: il primo, non può che ricordare (ma solo in parte) il metodo che Roland Barthes utilizza nei Miti d'oggi, ossia il lento, inesorabile smontaggio dell'oggetto reale attraverso "lo sguardo" semiotico: la spogliazione progressiva, segno dopo segno, della cosa, fino alla sua essenza e alla sua ragion d'essere (dai giocattoli alla fotogenia elettorale dei politici); il secondo aspetto riguarda (questa volta da vicino) sempre Barthes e l'intuizione portante del suo saggio più bello: La camera chiara, nel quale la lente della semiologia viene spostata ad analizzare alcune famose fotografie, in un viaggio di recupero che culminerà nella riscoperta dell'archetipo materno, luogo e approdo definitivo. Come per le visitazioni memoriali di Proust, anche per Barthes la fotografia è il "ritorno del morto"; è la presa di coscienza extra-temporale di frammenti puri di vita che formano depositi inconsci, giare mai più schiuse, fino a che un contatto speciale non li rivela, e ci riporta tutto un fascio di dettagli che non avevamo mai percepito davvero. In questo senso, tornare a guardare un'immagine fotografica coincide con un "rischiaramento": il ricordo affiora dall'oscurità; la figura che ci sta davanti si rivela, rinuncia alla sua "aura" - come la definiva Walter Benjamin - e porta l'osservatore a trovare il "punctum", l'aspetto emotivo e conoscitivo, l'intermittenza epifanica, la 'puntura' interpretativa attraverso la quale chi sta osservando viene irrazionalmente colpito da un dettaglio particolare della foto; dettaglio che ne scopre l'essenza non detta. Esempio analogo lo ritroviamo solo nell'esperimento di lettura, o, meglio, di critica d'arte figurativa, che Salvador Dalì fece su un dipinto di Millet dal titolo l' "Angelus", pubblicato poi col titolo Il mito tragico dell'Angelus di Millet: laddove la critica aveva visto un raccoglimento delle figure in preghiera, un momento di pausa dalla vita dei campi, il pittore spagnolo aveva intuito altro, ipotizzando un lutto e addirittura la presenza della tomba di un bambino, poi coperta da una piccola carretta. Radiografie successive hanno rivelato la presenza di una massa scura, in basso, ai piedi delle due figure.
 
Questa operazione è presente anche nella lettura iconografica che Antonio Moresco fa su un dagherrotipo di Emily Dickinson, traendone risultati incredibili, quasi 'magici', o meglio 'perturbanti'. La sensazione è quella di uno sguardo-sbrego capace di lacerare l'aura distanziante del classico, con estrema eleganza e ferocia, così da avvicinarlo, profanandone l'immobilità della posa e del tempo.


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"La più grande poetessa d'America"
di Antonio Moresco

Nel 1848, in una cittadina del New England di nome Amherst, una ragazza di diciotto anni – destinata a diventare la più grande poetessa d'America – immobile su una sedia all'interno di uno studio, è intenta a fornire l'unica immagine fotografica di sé rimasta nel mondo.
Non proprio "fotografica", perché si tratta in realtà di un dagherrotipo, procedimento fotografico diretto, senza negativo, inventato dal francese Daguerre, che sarebbe morto tre anni dopo il fissaggio di questa inquietante immagine femminile.
Avviciniamoci un po' a questa ragazza immobile e in posa per ben dieci-quindici minuti: tanto ci voleva per realizzare questo salto fantasmatico di dimensioni e di piani e questa alchimia. Perché era necessario così tanto tempo? Perché – così leggo su un'enciclopedia – la dagherrotipia "consisteva nella sensibilizzazione, mediante vapori di iodio, di un sottile strato d'argento applicato elettroliticamente su una lastra di rame, e nello sviluppo dell'immagine latente (prodotta per l'esposizione alla luce) mediante vapori di mercurio e successivo fissaggio con una soluzione di iposolfito di sodio".
Conosciamo l'anno, ma non la stagione, il mese, il giorno, l'ora. Dall'immagine che abbiamo di fronte agli occhi non è possibile stabilirlo, perché è stata ottenuta in un interno e il vestito della ragazza immobile non ci dà indicazioni significative. Si sarebbe potuto indossare in ogni stagione dell'anno. Né ci danno indicazioni utili il nastro che la ragazza porta al collo, il tavolino su cui appoggia il polso e la mano destra, sicuramente una scenografia fissa dello studio. Neppure i fiorellini che la ragazza tiene con due dita della mano sinistra ci possono dare indicazioni significative sulla stagione e sul mese, perché in quel punto, proprio in quel punto, l'immagine è sfuocata, segno che, nonostante il resto del suo corpo e della sua testa fosse immobile per un arco di tempo così lungo, la sua mano sinistra – quella che stringeva il mazzolino di fiori – tremava.
Cosa stava avvenendo intanto nel 1848, anno di sommovimenti e rivolte, proprio mentre questa inquietante ragazza stava alchemicamente immobile per comunicarci qualcosa di enorme tramite la sua stessa figura corporea che a poco a poco si materializzava attraverso il tempo e lo spazio nel turbine elettromagnetico e chimico delle particelle? Difficile dirlo con esattezza, visto che non si conosce il mese e il giorno, ma, scorrendo gli avvenimenti di quello stesso anno, possiamo ipotizzare che – mentre lei se ne stava là immobile nella sua cittadina del New England – si stessero verificando alcuni di questi avvenimenti:

- Il grande capo Comanche Bull Hump sta compiendo una delle sue ultime scorrerie in Messico.
- Il Trattato di Guadalupe Hidalgo, stipulato dopo la sconfitta del Messico, consegna agli Stati Uniti parte della California e del Colorado, il Nuovo Messico, l'Arizona, il Nevada e lo Utah.
- In seguito alla scoperta dell'oro nei dintorni di Sacramento, arrivano negli Stati Uniti più di due milioni di cercatori da ogni parte d'Europa.
- Edgar Allan Poe pubblica Eureka, poema metafisico "in cui l'intuizione di un universo armonico è dimostrata matematicamente, ed è poi proiettata nel concetto dell'opera d'arte come organismo perfettamente ordinato, e nell'etica in modo da spiegare e rendere sopportabile l'esistenza del male".
- Melville sta scrivendo Mardi, romanzo arditamente sperimentale e filosofico.
- In Francia Baudelaire sta scrivendo I fiori del male.
- In Danimarca Kierkegaard pubblica La malattia mortale.
- In Russia Dostoevskij pubblica Le notti bianche.
- In Inghilterra Marx e Engels pubblicano il Manifesto del Partito Comunista.
- In Francia il popolo di Parigi insorge.
- Insurrezione a Vienna, barricate a Berlino.
- La Russia invia le sue truppe per reprimere le insurrezioni in Polonia, Ungheria, Moldavia, Valacchia.
- In Italia avvengono insurrezioni popolari a Palermo, Venezia, Milano. Carlo Alberto dichiara guerra all'Austria. Battaglie di Pastrengo, Montanara e Curtatone, Peschiera, Goito, Custoza. Garibaldi torna in Italia. Pio IX fugge a Gaeta…

Ma osserviamo adesso più da vicino il dagherrotipo di questa ragazza immobile. Perché prima ho detto che si tratta di un'immagine "inquietante"? E ancora: perché la sua mano sinistra – a differenza del resto del suo corpo impassibile e impavido – trema?
Trema per l'enormità di quanto stava rivelando di sé al mondo.
Sì, perché questa immagine nasconde (o, al contrario, rivela come più non si potrebbe) una verità esplosiva che nessuno, per più di un secolo e mezzo, ha voluto cogliere, anche se ci viene così palesemente e insurrezionalmente sbattuta in faccia.
Proviamo a guardarla davvero, per la prima volta senza paraocchi e senza diaframmi, questa immagine. Che cosa – con la sua immobilità rotta appena dal tremito della mano sinistra – ci sta rivelando questa ragazza intenta a far arrivare fino a noi il suo composto grido?
Avviciniamoci ancora di più a questa sconvolgente rivelazione. Guardiamo insieme, come non abbiamo mai fatto, questo volto. Però prima andiamo a cercare la riproduzione del dagherrotipo originale, non una delle tante manipolazioni successive ottenute tramite ombreggiature stilizzanti o puliture occultanti, oppure i disegni ingentiliti ed edulcorati che sono stati tratti via via dall'immagine originale. Concentriamoci sulla testa: gli occhi sono grandi e sporgenti, molto distanti l'uno dall'altro, il naso è enorme, le narici sono larghe, la bocca è molto grossa, sporgente e tumida, i capelli sono appiattiti e come snervati, sembrano artificiali, incollati: la tipica impressione che danno i capelli crespi lungamente e penosamente stirati…
Vorrei che fosse chiara una cosa. Quello che sto cercando a poco a poco, con fatica, di dire non è un paradosso culturale, non è un gioco. È una cosa – per quanto possa apparire incredibile e assurda – in cui io credo davvero e che sospetto da tempo. Di più: mi sembra una cosa inequivocabile e nello stesso tempo impossibile, una sorta di scambio che ha a che vedere con la nostra visione infinitamente parcellizzata del configurarsi della materia nel paesaggio cosmico e nelle sue molteplici dimensioni.
Insomma, la verità plateale e addirittura, a mio parere, gridata, la verità che nessuno ha mai osato vedere anche se questa ragazza ce l'ha sbattuta arditamente in faccia, è che la più grande poetessa d'America è nera, è di razza nera.
Non mi credete, lo so. Ma, prima di chiudervi a riccio nella difesa del vostro fossilizzato giudizio, provate almeno a guardare davvero questa immagine, a guardarla come non avete mai fatto, senza pregiudizi culturali, senza strutture mentali ossificate. Guardatela intensamente, guardatela a lungo. Quelli che avete di fronte agli occhi sono davvero i lineamenti di una ragazza bianca?
"Ma la pelle è chiara!", direte.
Sì, in effetti è così, dall'immagine almeno sembrerebbe così. Ma – insisto – se avete davvero di fronte agli occhi la riproduzione del dagherrotipo originale potrete anche notare con chiarezza che ci sono molti segni di sfregamenti e abrasioni nella parte alta del ritratto, proprio dove c'è il volto. Alcuni di questi segni e di questi graffi sono così fitti e marcati che tutta l'immagine è attraversata verticalmente da veri e propri tagli, come se qualcuno ci avesse sfregato sopra febbrilmente e rabbiosamente delle sostanze solventi nel tentativo di cancellare quella abnorme e inequivocabile verità.
Ma poi, anche se la mia ricostruzione fosse azzardata, se quei segni indicassero solo un tentativo della ragazza di infierire sul proprio volto e di cancellarlo per altre ragioni dopo avere giudicato insoddisfacente l'esito della seduta di dagherrotipia, si sa che ci sono e ci sono stati molti "negri bianchi" e "negre bianche", persone cioè nate dall'incrocio tra queste due razze ma che non si possono riconoscere dal colore della pelle. In questo caso, se ciò che a me sembra incontestabile fosse davvero la verità nascosta e nello stesso tempo assolutamente palese – il che farebbe di questa immagine il più grande terremoto culturale e la più incredibile "lettera rubata" di tutta la storia della letteratura – allora vorrebbe dire che la madre Emily o il padre Edward – di quest'ultimo conosciamo da fotografie e ritratti il volto dalla postura integerrima – si sono accoppiati con un uomo o con una donna di razza nera e che da questo congiungimento è nata una bambina che hanno evidentemente voluto tenere con sé, tanto più che il colore della pelle non smascherava questo sconveniente segreto.
In quegli stessi anni vivevano negli Stati Uniti più di quattro milioni di schiavi neri impiegati nelle piantagioni di tabacco e cotone o nelle case delle famiglie benestanti come serve o servi. È solo nel 1863 che Lincoln abolisce la schiavitù negli stati del nord-est e poi, nel 1865, al termine della guerra vinta contro gli stati del sud, nell'intero paese.
Ma non c'è solo questo. Se infatti guardiamo i volti dei famigliari ci accorgiamo subito che il volto di questa ragazza non assomiglia a nessun altro, che è completamente diverso da quello del padre, della madre, del fratello William Austin. Nessuno di loro, assolutamente nessuno, ha le stesse labbra tumide e grosse, lo stesso naso, né gli occhi altrettanto sporgenti.
E allora possiamo arrivare a pensare che siano dovuti all'enormità di questo segreto famigliare il bisogno di autoreclusione così vivo in questa ragazza e poi in questa donna, la sua ossessione per il colore bianco: il suo famoso vestito bianco pieno di pieghe, la sua camera chiara e dalle tendine bianche, da cui poteva vedere il giardino pieno di fiori, di api e di uccelli, che danno vita al suo animistico mondo poetico così assoluto e così ultimativo.
D'altronde, se non ci basta ciò che questa ragazza ci ha rivelato così arditamente con la sua stessa immagine corporea, non ce lo rivela anche e continuamente coi suoi versi e con le sue lettere? Le sue poesie – che hanno la primitiva concentrazione di una poetessa africana che abbia letto la Bibbia e Shakespeare – sono disseminate di espressioni che rivelano l'incombenza di qualcosa di abnorme e alieno, di cui bisogna occultare la presenza. Faccio soltanto alcuni esempi:

Io mi nascondo nel mio fiore.

Oppure:

Il popolo più vasto
non è notato da nessuno.

Oppure:

La mia vita era stata un fucile carico.

Oppure:

La geografia mi attesta che ci sono
vulcani in Sud America
e in Sicilia -
ma esistono vulcani più vicini.

E cosa pensare di molte zone del suo epistolario. Ad esempio di questa epifanica frase di apertura che troviamo in una lettera indirizzata a Thomas W. Higginson:

Caro amico,
questa mattina, la vista di una Donna Indiana con tra le braccia una bambina splendida e delle Ceste dai colori allegri, sulla porta della Cucina, mi ha commossa e mi ha ricordato la sua piccola Louisa – il Ragazzino della Donna Indiana "era morto una volta", così disse lei, secondo lei la Morte lo aveva scacciato – io le chiesi che cosa piacesse alla Bambina, lei mi rispose "entrare". Davanti alla Porta la Prateria era illuminata di Fiori di Fieno, io l'ho fatta entrare.

Oppure dell'enigmatico attacco di una lettera allo stesso destinatario:

Caro Amico,
non ho pensato che le forze Planetarie si fossero annullate – ma che avessero subito uno Scambio di Territorio, di Mondo.

Questa lettera è stata scritta nel febbraio del 1863, esattamente l'anno in cui viene abolita la schiavitù dei neri negli stati americani del nord-est, di cui fa parte il New England, cuore puritano degli Stati Uniti e centro di forti movimenti antischiavisti, dove una veggente africana fragile, indomabile e arcaica, vissuta nel nuovo mondo e negli stessi anni trascendentalisti di Thoreau, di Emerson, di Melville, Whitman, Hawthorne, Poe, Beniamino Franklin – che indagò a fondo i fenomeni elettrici e a cui dobbiamo una teoria elettrostatica basata sull'ipotesi dell'esistenza di due fluidi dotati di opposte proprietà – stava fronteggiando le forze planetarie e lo scambio di territorio e la dislocazione del mondo.



(Questo scritto di Antonio Moresco è apparso per la prima volta su "Iconoteca" (gennaio 2010), secondo numero di «Rivista», luogo d'arte e pensiero fondato da Pietro Babina, Jonny Costantino, Flavio de Marco; poi è stato ripubblicato sulla rivista "Il primo amore")


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