27 gennaio 2017

"Lisario o il piacere infinito delle donne" di Antonella Cilento




 di Sharon Tofanelli


A certe storie, a certi libri si deve arrivare preparati. In un certo qual senso, li si può equiparare al primo rapporto sessuale: strascichi perturbanti, esplosioni multisensoriali. Una gamma sgargiante di colori, di odori e suoni prende a impazzare con una passione non priva di sadismo.
Quando l'imbuto che è Lisario inizia a inghiottire, nella testa del lettore si spalanca un caleidoscopio. E no, non si torna indietro.

Il romanzo di Antonella Cilento si apre sulla Napoli barocca, la Napoli delle folle inferocite e dei teatranti squattrinati, dove mezza Europa va a defluire come l'acqua giù per i canali di scolo. Nella città del chiasso, del turpiloquio e dei santi venerati, Belisaria Morales -ovvero Lisario- è la voce che ha da tacere, la femmina immodesta, "malata dalla nascita di straparola". Lisario osa leggere, osa scrivere e pensare.
Lisario dovrà pagare con la perdita della lingua. 

Condannata al matrimonio, opera una protesta passiva, faticosa: sceglie di dormire, dormire forzatamente, di essere la bella dormiente del rione. Al destino della ribelle si allaccia quello di Avicente Iguelmano, il medico fallito che è incaricato di porre fine al coma. Scrutato dal paese intero, da quella Napoli poliocchiuta e popolaresca da Cunto de li Cunti, Avicente desta Lisario con il piacere: quello di lei. E il suo spirito di uomo, di individuo secentesco scivola nella confusione.
Perché Lisario è una donna e può conoscere l'ebbrezza dei sensi anche senza di lui.

Poetico, passionale e tuttavia morboso, il romanzo sprofonda nei moti interiori dei suoi personaggi, in particolare i maschili, frugando nei meccanismi più sensibili e remoti. Avicente, che ha ottenuto Lisario la miracolata in sposa, pur conscio del fatto che ha fatto finta, che lei, stupida femmina, costola estratta, metà deficiente dell'uomo, per sei mesi è riuscita a fingere il sonno e a beffarsi di una città intera; di più, sa che non lui l'ha destata, ma lei stessa ha acconsentito a farsi destare. E' Lisario, la consorte muta, a esercitare il potere. E c'è quel misterioso, quell'abominevole piacere della donna, un piacere che non si può controllare, né imbrigliare:
«Loro godono e io non capisco come...godono anche senza di noi...»
«E che v'importa?»
«Perché...ci rubano qualcosa. [...] Forse possono fare altro senza di noi [...] Immaginate che concepiscano senza di noi [...]: su chi eserciteremmo la nostra...autorità? [...] Presto anche il denaro sarebbe nelle loro mani...»

Altri personaggi s'intessono nella trama: Töde, l'anatomista asessuato che stempera la frustrazione sezionando donne; Jacques Colmar, il maestro di scena, che riamato ama Lisario; Michael de Sweerts, talentuoso pittore omosessuale, innamorato suo malgrado di Colmar e condannato dal tempo e dalla morale a detestare ciò che è. Un intreccio dinamico porta i personaggi a incontrarsi e scontrarsi in un rutilante alternarsi di luci e di ombre, delle battute più scurrili e della poesia più viva: lo studio di Avicente si affastella di vulve disegnate; nei tendaggi smossi dal vento, Michael immagina le sottane di una donna e si addolora; Lisario scrive in segreto lettere alla Madonna; Colmar la intravede in chiesa, innamorandosi delle sue unghie sporche, delle orecchie non lavate.

E' guerra dichiarata. E' guerra tra la ragione e l'umanità cruda; è un gatto epilettico che piomba in laboratorio, seminando il caos. E' la crudeltà di certi flashback, quando assistiamo all'Avicente bambino, trascinato dal padre all'autopsia pubblica, costretto a fissare il cadavere, svenuto. E' l'impatto di certe figure lontane, ormai deperite, come la madre, la cristianissima madre di Michael: lei così pia, lui un'aberrazione. A far da sfondo la Napoli tumultuosa di Masianello, tra epidemie,  zoccole e fiamminghi, la Napoli dei cantanti castrati e dei travestiti, la Napoli sboccata che i dottori disprezzano. Ciclo dei vinti, fantasia erotica di un Verga nei fumi dell'alcool, con un ritmo forsennato che per certe svolte pare quasi una fiaba, il punto di vista slitta da personaggio a personaggio, ora inscenando azioni, ora trascrivendo diari missive appunti, sino ad approdare al piano onirico: è il caso del sogno che ricorre per ampia parte del romanzo, in cui un Avicente progressivamente più folle si trova al cospetto dei santi, santi popolareschi, quelli che la città ama, che si sporgono dal balcone e gl'imprecano addosso in napoletano.
                                                                     Antonella Cilento
E in tutto questo coacervo di lingue, di traumi e violenze, Lisario pare irriducibile come un obelisco. Causa involontaria, in quanto femmina disinibita, del tumulto che scuote la rete dei personaggi, lei non è partecipe della matassa psicologica. I fatti le scorrono addosso puri, limpide le emozioni, veritiere. Lei che è donna, dalla quale questo Seicento non si aspetta la dignità della ragione, rimane al di fuori dai quei torbidi abissi. E tutti, noi compresi, a scrutarla dall'esterno, oltre quell'afonia che l'ammanta di segreto. Lei, che dà il nome al romanzo, rimarrà un mistero nella sua semplicità sconcertante.

Questo libro? E' Lisario, nel nome e nell'essenza. Ti accoglierà nel suo letto di lana grezza, un poco ruvido e lentamente stringerà la presa. Sarà volgare, sarà diabolico e scurrile da farti scuotere il capo. Se griderai al peccato, arrossirai nel sapere che un peccato lo s'interpreta, lo s'indossa con convinzione. E Lisario non recita.
Perché Lisario è.
E in queste tre parole è l'intero dramma.

Antonella Cilento. Lisario o il piacere infinito delle donne. Mondadori 2014.

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