22 gennaio 2018

« L’abisso negli occhi. Lo sguardo femminile nel mito e nell’arte » di Liliana Dell’Osso e Barbara Carpita



SUGGESTIONI FILOSOFICHE

di Angela Giovanna Palermo
 
« La visione è l’incontro, come a un incrocio,
 di tutti gli aspetti dell’Essere »
M. Merleau Ponty, Le Visible et l’Invisible

In questo breve ma densissimo saggio, difficilmente ascrivibile a un solo genere, le due autrici si riferiscono in modo frequente, decisivo e fiducioso alla filosofia, all’arte e alla letteratura; e lo fanno in una «forma chiasmatica», cioè attraverso una potente ricostruzione letteraria e filosofica dei numerosi temi psichiatrici e nosografici toccati. In questo modo di procedere le due autrici hanno un illustrissimo antecedente in Lacan.
Il tema del libro è lo sguardo, raccontato nelle sue infinite declinazioni descrittive, percettive e appercettive. La vista, la visione, lo sguardo, sono presentati al lettore come concetti metaforici per eccellenza, ed effettivamente lo sono, fin da quando nel termine greco « ϑεωρία » (theorίa) si sono fusi l'aspetto fisiologico ottico del vedere e quello, figurato, della conoscenza intellettiva.
Com’è noto, in greco antico  « οἶδα » (oida)[1] significa al tempo stesso « ho visto » e « so », «conosco»: conosco in quanto ho visto, sono testimone.
Uno dei versi più alti di tutta la letteratura occidentale, viene cantato dall'Ulisse sofocleo nel prologo dell’Aiace, dove vediamo Odisseo concludere il suo discorso con parole di compassione per l’eroe uscito di senno; nella sorte di Aiace, infatti, vede riflessa la propria e apprende dalle sofferenze tragiche del suo nemico la nullità dell'uomo. Il senso di questa nullità, Odisseo la esprime proprio con il verbo greco «ὁράω» (orao), «vedo», che in greco vuol dire anche «capire»:

« ὁρῶ γὰρ ἡμᾶς οὐδὲν ὄντας ἄλλο πλὴν εἴδωλ’ ὅσοιπερ ζῶμεν ἢ κούφην σκιάν ».
(Vedo infatti che noi, quanti viviamo, null'altro siamo che fantasmi o vana ombra).

La vista è per i filosofi greci classici il senso teoretico principale, e la luce è la metafora più usata (e forse abusata), per esprimere l'accesso alla conoscenza e alla salvezza. Aristotele, nell'incipit della Metafisica (libro I, 980 a, 2), affermava che la vista è il senso più importante, l’unico in grado di farci conoscere meglio il mondo:

«Tutti gli uomini aspirano per natura alla conoscenza. Ne è segno l’amore che portano per le sensazioni: e infatti le gradiscono di per sé, indipendentemente dall’uso che ne possono fare, e tra tutte preferiscono le sensazioni che hanno attraverso gli occhi. Preferiamo la vista a tutto, si può dire, non soltanto ai fini dell’azione, ma anche quando non dobbiamo far nulla. La causa di ciò consiste nel fatto che la vista ci dà conoscenza più di tutti gli altri sensi, e ci rivela molte differenze».

 In generale, la visione è per i filosofi greci classici, garanzia del sapere e metafora della conoscenza.
Partendo da questi presupposti storici e concettuali, L’abisso nello sguardo ci conduce verso un sentiero impervio, lungo il quale si comprende come la questione dello sguardo sia anche, e soprattutto, una questione di identità.
In Essere e Nulla Sartre scrive che lo sguardo è prima di tutto un intermediario che mi rimanda da me a me stesso; la difficoltà a gettare lo sguardo sull’Altro consiste nel riuscire a passare dalla reificazione dell'Altro alla sua accoglienza in quanto Soggetto. Come ben spiegato nel libro, lo sguardo, infatti, è apertura con l'altro, incontro con l'altro; lo sguardo è incontro e relazione. L'occhio riceve ciò che si dà a vedere, così come la mano riceve ciò che le si offre da toccare e da tenere: il mondo è dato nelle mani dagli occhi.
Levinas fonda tutta la sua teoria dell’etica della società su «il faccia a faccia con l’altro». E’ lì che è racchiuso il segreto supremo della vita: nel volto che vediamo e «Che li occhi no l’ardiscon di guardare» (Dante); che mai riusciremo ad afferrare per intero, riconducendolo a noi stessi.
Così egli scrive in Dio, la morte e il tempo:
« Quando mi riferisco al volto, non intendo solo il colore degli occhi, la forma del naso, il rossore delle labbra. Fermandomi qui io contemplo ancora soltanto dei dati; ma anche una sedia è fatta di dati. La vera natura del volto, il suo segreto sta altrove: nella domanda che mi rivolge, domanda che è al contempo una richiesta di aiuto e una minaccia. La morte apre al volto d’Altri, il quale è espressione del comandamento: Non uccidere ».

Il discorso percettologico sullo sguardo, sull'incrocio tra visibile e invisibile, le autrici lo convertono in un discorso sul vedere noetico, sul rapporto tra il pensiero, le sue condizioni e i suoi limiti e questo risalta bene dall'analisi di vari, famosissimi sguardi, attraverso i quali le autrici compiono una vera e propria decostruzione dello sguardo in senso derridiano. «Decostruire» la nozione di visione, di sguardo, significa esporre nel vedere e nel visibile il dissidio interno che li abita e li anima; mostrare come essi siano pervasi di differenza e di differenze. Il visibile è sempre anche invisibile, vedere è sempre anche esser ciechi; consiste nel definire e determinare, nello sfumare, nello sfuocare.
L’abisso negli occhi mi ha riportato idealmente a Derrida, anche perché il filosofo francese si muove, come fanno le autrici, sempre tra il mito e la concettualità greci, la tradizione giudaica. In Memoires d'aveugles, Derrida si confronta con esempi presenti anche ne L’abisso negli occhi: Narciso, Edipo, Tiresia, Perseo e la Gorgona vengono citati in quanto sono personaggi che si muovono tutti all'interno di situazioni legate a un eccesso di visione, connessa a una speculare forma di cecità, che a sua volta assume i connotati di una nuova forma di visione: quella dell'assolutamente invisibile. Vedere troppo per l'uomo può essere una colpa, un rischio gravissimo: Tiresia ed Edipo divengono ciechi per aver visto, per aver conosciuto ciò che non avrebbero dovuto sapere; Narciso si perde nel suo stesso sguardo.
Sia nel discorso di Derrida che in quello delle autrici, la visione oculare tende spesso a confondersi e sconfinare nella visione intellettuale, capace di trasformare la visione in tatto e lo sguardo in contatto. Il rapporto con l'Altro decostruisce il movimento tra prossimità e distanza: l'occhio che può vedere da lontano diventa un organo tattile. Nella vicinanza estrema l'occhio non vede più, ma punta e tocca come un dito l’Altro. La sua funzione diventa quasi digitale, non più ottica, ma aptica: l'occhio arriva ad avere una funzione che non è più soltanto visiva.
Nel libro si percorrono alcune tappe parallele dell'indagine fenomenologica di Merleau-Ponty sulla percezione e sul tema del visibile, fino a far collidere l'idea di un rapporto chiasmatico che lega vedente e veduto con la sua pratica decostruttiva.
L’approccio fenomenologico del libro apre anche a una dimensione più specificatamente logica. Il campo della logica matematica, infatti, apparentemente così distante dalla pratica dello sguardo, si apre nel Seicento alla visione e, più precisamente, alla visione verbale, alla necessità di apprendere a pensare con gli occhi. Gli studi dei logici moderni sulle tematiche dei segni linguistici, hanno condotto in logica a una vera e propria rivoluzione dalla quale è nata l’informatica. La logica della visione nata nel XVII secolo, sulle ceneri della topica aristotelica  e della retorica classica, è stata ispirata da un linguaggio algebrico che, paradossalmente, il genio Leibniz chiamava «cogitatio caeca», pensiero cieco, e che ha spinto Ploucquet, uno dei più grandi logici matematici del XVIII secolo, a esaltare i benefici della sordità che avrebbe il vantaggio di non imprigionare chi non sente, nella complicate catene di sofismi linguistici che possono venir sciolte soltanto attraverso il ricorso al pensiero visivo.
E’ proprio a partire dal dibattito seicentesco che ha visto protagonisti la visione contro la retorica, e dai risultati negativi che questo dibattito ha prodotto, che si è sviluppata a partire dagli anni Settanta del Novecento, una scuola formata da psichiatri e psicologi americani: la scuola di Palo Alto, che ha inaugurato le cosiddette «psicoterapie brevi strategiche» che utilizzano stili comunicativi ricchi di analogie e di metafore in grado di parlare alla «mente irrazionale» e «visiva» del paziente.
Un’altra suggestione filosofica cogente alla quale L’abisso negli occhi mi ha ricondotta, è la lettura in assoluto più affascinante che sia mai stata fatta del Simposio di Platone: quella psicoanalitica che ne dà Lacan nel suo Seminario sul transfert, libro VIII, dove il filosofo-psicoanalista analizza, tra le altre cose, il tema dello sguardo. In questo testo orale, Lacan parte definendo il concetto di «oggetto del desiderio», quello che egli chiama «objet petit» e che Jankélévitch ha felicemente interpretato  come «quel non so che». Questo concetto serve a Lacan a ribaltare drasticamente il mito platonico dell'amore enunciato dalla sacerdotessa Diotima come Idea di assoluta completezza e di Sommo Bene, a favore dell'idea della assoluta parzialità dell’oggetto d’amore. Questo mito è citato anche da Freud in Al di là del principio di piacere: in quest’opera, il padre della psicoanalisi pone la pulsione scopica alla base del desiderio e del vissuto del bello, come esito elaborativo dell'eccitamento sessuale. Da alcuni psicoanalisti degli anni Quaranta e Cinquanta (come ad esempio Fenichel) invece, la pulsione scopica freudiana viene trattata come una pulsione specifica, la scoptofilia: la sessualizzazione delle sensazioni visive.
La rilettura lacaniana del Simposio di Platone si lega direttamente alla visione e allo lo sguardo, in quanto l'oggetto causa di desiderio è proprio quello che ricade direttamente sotto la sfera visiva: è l'oggetto di uno sguardo del desiderio da cui nasce qualsiasi forma d'amore. In uno dei suoi passi più eruditi, Lacan accosta genialmente il concetto di sguardo del desiderio alle metamorfosi cinematografiche la cui evoluzione, giustamente, Lacan la rintraccia proprio in Platone, esattamente nel mito della caverna:  
«E’ assolutamente chiaro che oggi l’amore non è più all’unisono con il livello della tragedia (…). Esso è a al livello che nel discorso di Agatone viene indicato come quello di Polimnia. E’ il livello di ciò che si presenta come la materializzazione più viva della fiction nella sua essenzialità. Per noi è il cinema. Platone sarebbe felice di questa invenzione (…). Quanto viene espresso nel mito della caverna lo vediamo tutti i giorni illustrato dai raggi danzanti che, sullo schermo, manifestano i nostri sentimenti allo stato di ombre. Ed è proprio a questa dimensione che nell’arte dei nostri giorni appartengono in modo eminente la difesa e l’illustrazione dell’Amore».
 Secondo Lacan lo sguardo e la visione che molto hanno a che fare con ciò che egli chiama charme, fascino, un elemento di cui spesso è dotato anche lo psicoanalista, è l’elemento che costituisce uno dei più grossi limiti di un'analisi, proprio perché lo charme è in grado di rompere la situazione analitica transferale, esempio perfetto di amore assoluto in senso platonico; una situazione perfettamente «falsa», dunque, che, nel momento in cui viene sfiorata dalla visione, cioè dal desiderio, decade a causa della rottura di un incantesimo. Per questo, dice Lacan, sarebbe meglio se l'analista non fosse dotato di charme, unica condizione affinché egli resti invisibile e, quindi, intoccabile.
Riecheggiando Lacan, una delle parti più felici del libro è quella in cui le autrici parlano dell'importanza della vista e del linguaggio del corpo nel contesto analitico:
«Il terapeuta dovrebbe ricorrere alla categoria dell’Indifferenz (…). Il terapeuta deve farsi impalpabile, impercettibile, sottraendosi alla vista: lo sguardo quindi non è più oggetto di attenzione «scientifica» in quanto troppo problematico, coinvolgente ed emotivo (…)».
 Ma, parallelamente, le autrici riconoscono allo sguardo un ruolo centrale in psicoterapia, benché veicolo di pericolose ambiguità e di perniciose ambivalenze.
Arrivati a questo punto della lettura, non si può non pensare a Binswanger, il quale intercettava nello sguardo l’elemento centrale di ogni autentica psicoterapia. Lo sguardo non è solo veicolo di una comunicazione non verbale; è una sorta di intesa tra paziente e medico, un (in) tendere insieme, nel silenzio, oltre la psiche, lì dove si trova l’afflatus vitale della terapia. Lo sguardo tra paziente e analista è sempre sconvolgente e apre a una dimensione a-spaziale e a-temporale, che per entrambi è una vera e propria ri-velazione reciproca: «Voi che per li occhi mi passaste ‘l core» (Guido Cavalcanti).
Kierkegaard diceva che chi non può rivelarsi non può amare. Ma Binswanger aggiunge che chiunque non può amare non può rivelarsi: amore e rivelazione di se stessi sono la stessa cosa.
In psicoterapia lo sguardo è la fonte primaria dell’essere-per-altri, la testimonianza più alta di Amore, un atavico segnale di (ri)nascita di una relazione che ha il suo primordiale modello nel riconoscimento della madre da parte del bambino, e la reazione conseguente di sorriso, rassicurazione, accoglimento. Ecco perché Ludwig Binswanger definisce l’amore terapeutico come la forma più alta in cui viene espressa la apertura del Dasein (esserci):

«Il ci dell’esserci, indica quell’apertura grazie a cui l’esserci, duale, è là in vista di noi, di me e di te, dell’un altro, l’essere-sé-stesso dell’amore, la sua ipseità, non è un io, ma un noi».

Vorrei concludere richiamando l'attenzione su di una figura che si intreccia e si distacca dallo sguardo: essa non è esplicitamente presente nel saggio, ma come un fiume sottile che passa attraverso i confini e lambisce territori diversi, trascorre, più o meno esplicitamente, tra le pagine. Sto parlando della lacrima, dell'occhio che piange e che quindi non vede. Lo sguardo che si scopre velato, offuscato, impedito, diviene spazio mediano tra presenza e assenza, tra pienezza e mancanza, unico luogo in cui sembra aprirsi la possibilità di un incontro autentico con l'Altro, per vedere o intravvedere il mondo e partecipare a esso, alla sua vita, nella difficile condizione di assenza-e-presenza di colui o di colei che, tra le lacrime, si ama.
La bellissima poesia di Andrew Marvell dedicata a John Milton, autore de: Il paradiso Perduto, costituisce, a mio avviso, l’appendice ideale de L’abisso negli occhi:
 « Quanto fu saggia la Natura a destinare così al pianto e alla vista gli stessi occhi!
Aprite dunque, occhi miei, la vostra doppia chiusa
 ed esercitate così il vostro nobile officio;
poiché altri possono ugualmente vedere o dormire, ma solo gli occhi umani possono piangere.
Così lasciate che i vostri torrenti trabocchino dalle vostre fonti,
che l’occhio e la lacrima siano la medesima cosa e ciascuno porti la differenza dell’altro:
                           questi occhi che piangono, queste lacrime che vedono ».


[1]  Οἶδα è il perfetto greco di un ricostruito presente *εἲδω (*eido). La radice indoeuropea di οἶδα è *wid che ha dato origine al campo lessicale del latino «video», dal quale deriva quello del nostro «vedere». Anche la declinazione greca del nome «Zeus» contiene una radice indoeuropea che riporta al verbo «Vedere», per indicare che Zeus è, per antonomasia, il «Dio che vede, che illumina, che conosce »: ὁ Ζεύς, τοῦ Διός, τῷ Διί, τόν Δία, Ζεῦ. 

Liliana Dell’Osso e Barbara Carpita. 
 L’abisso negli occhi. Lo sguardo femminile nel mito e nell'arte. 
ETS Pisa 2017.

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