20 luglio 2019

"Aprire il fuoco" di Luciano Bianciardi

Luciano Bianciardi, l'intellettuale anarchico solo contro tutti
di Luciano Luciani


Usciva cinquant’anni fa per Rizzoli Aprire il fuoco, l’opera più  amara e delusa di Luciano Bianciardi (Grosseto, 1922 – Milano, 1971), scrittore che ama muoversi tra il racconto satirico del proprio tempo e scatti di anarchica ribellione contro gli assetti politici e sociali posti a salvaguardia di una società percepita come ingiusta e disumanizzante. L’io narrante, che per tutte le pagine rimane senza nome, mescola sapientemente due tempi storici; l’Italia clericale e democristiana del 1959 e l’atmosfera di Milano prima, durante e dopo le gloriose cinque giornate quarantottesche. Ne deriva uno straordinario e irresistibile pastiche in cui l’allora recente ascesa al soglio pontificio di Giovanni XXIII viene assimilata a quella di Pio IX alla vigilia del nostro Risorgimento; sulle barricate milanesi si alternano con funzioni di comando Cesare Correnti e il cantante Enzo Jannacci alla testa degli “insorti di Linate”, Carlo Cattaneo e Camilla Cederna, il conte Porro e Luigi Nono, mentre Paolo Grassi distribuisce al popolo le armi di scena del Piccolo Teatro. Ma, come insegnano i manuali scolastici, la rivoluzione del ’48 fallisce. E il terribile maresciallo asburgico Radeztky rientra a Milano in jeep, mentre le personalità più compromesse  con i moti fuggono in Svizzera. Solo lo scrittore toscano dal suo esilio di Nesci, ovvero Rapallo, rimane pronto a battersi e ad aprire il fuoco con le armi dell’ironia, del sarcasmo, dell’invettiva.
 

Romanzo della nevrosi interiorizzata in autoemarginazione, Aprire il fuoco si alimenta dell’assimilazione tra il governo austriaco che precede la grande stagione della rivoluzione risorgimentale e quello italiano a guida democristiana prima degli anni del boom economico: l’uno e l’altro moderati assai, politicamente conservatori, socialmente ingiusti. L’ex azionista Bianciardi, trasformato in anarchico da una Storia che tradisce e inganna gli uomini che ripetono, però, sempre gli stessi errori, come il Robert Jordan ormai morente di Per chi suona la campana attende impaziente un segnale che l’avverta che il nemico sta arrivando  e che, quindi, è di nuovo giunto il momento di battersi: “il vecchio  Muaser che mi fu compagno nelle cinque giornate l’ho con me, nascosto. Se mandano qua un altro loro aguzzino, io sono pronto ad aprire il fuoco”.
 


In calce al libro una data: marzo 1968, Sono i giorni della rivolta studentesca: in tutto il mondo, dagli Stati Uniti all’Italia, dalla Francia alla Cina, a ovest come a est, la ribellione delle giovani generazioni sembra scuotere regimi e ordini consolidati. Bianciardi, anche se stanco e malato, si dimostra più attento di tanti altri intellettuali a la page nel cogliere le formidabili novità di quei tempi. Ma i giovani in rivolta, tranne poche eccezioni, non si accorsero di questo scrittore “esule in patria” appartenente alla generazione dei loro padri, non ne apprezzarono la straordinaria vis polemica, non seppero utilizzarne l’esperienza e la rabbia.
 

Lui morì solo e disperato di lì a poco, loro ci misero ancora qualche anno prima di finire malamente sconfitti.

Luciano Bianciardi. Aprire il fuoco. Rizzoli.

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