13 giugno 2024

“Inversione di rotta” di Virginio Giovanni Bertini

 



di Elisa Bertone

      Sono molto felice di essere qui questa sera, a introdurre il libro di Virginio Giovanni Bertini con le fotografie di Liliana Barone, perché quando si tratta di poesia in qualche modo mi sento a casa. Se poi alla poesia più tradizionalmente conosciuta come tale, cioè quella fatta di versi, si affianca la poesia dell’arte fotografica, come in questo prezioso libro, allora la casa si arricchisce di un arredamento che la rende meno spoglia, e quasi aiuta ad imprimerle un’identità, può diventare una muta chiave di lettura che non sottrae nulla al testo, ma ne aumenta le potenzialità armoniche. Del resto una delle qualità della poesia consiste nella sua capacità evocativa in cui la sonorità delle parole, proprio come la luce su una lastra fotografica, impressiona i contenuti del testo, rendendolo unico ed inimitabile.

      Camminando tra gli scaffali del supermercato, di fronte all’ultimo libro della Murgia “Ricordatemi come vi pare” ho trascritto una frase: “Se mi avessero chiesto che cosa volevo fare avrei risposto: “Voglio cambiare il mondo. Non l’ho certo cambiato tutto, ma la parte di tempo che ho attraversato forse non potrebbe dirsi quella che è se io non ci fossi stata”. Ho pensato che questa frase potesse riguardare anche Virginio Bertini, per l’impegno da sempre profuso e che anche questo libro di poesie vada in questa direzione.

       Eppure, la poesia, come già evidenziava Montale nella sua prolusione dopo la conquista del Premio Nobel della Letteratura nel 1975, è “un prodotto assolutamente inutile”, ma a cui si riconosce almeno il vantaggio di non essere quasi mai nociva. Il poeta ligure si chiedeva quale spazio potesse ancora essere offerto alla poesia con l’avvento dell’era delle comunicazioni di massa, in quel “paesaggio di esibizionismo isterico” che tenta di “annientare ogni possibilità di solitudine e di riflessione”–e pensare che l’evoluzione tecnologica non aveva ancora prodotto gli smartphone e “social” era solo un aggettivo del dizionario inglese-.  Terminava poi il suo discorso con una certezza, rara per chi era più abituato a lasciarsi avvolgere in profonde e talvolta cupe ansie metafisiche: “ Se … ci limitiamo [alla poesia] che rifiuta con orrore il termine di produzione, quella che sorge quasi per miracolo e sembra imbalsamare tutta un’epoca e tutta una situazione linguistica e culturale, allora bisogna dire che non c’è morte possibile per la poesia”.

       L’incontro di oggi sembra proprio confermare la dichiarazione di Montale.  Virginio Giovanni Bertini-e così finalmente veniamo a parlare della sua opera- ci consegna la sua voce, in un linguaggio ardito e innovativo non in funzione di un espressionismo di nicchia ma per conferire incisività e forza comunicativa alla parola (si pensino a termini come “stonfati”, “incestate”, “ondivagare”, ”sdrumate”)-, in un’alternanza di stili che da testi brevi in cui è il singolo vocabolo a diventare protagonista del verso si proietta in componimenti di più ampio respiro, con refrain cadenzati che penetrano nella coscienza come mantra a dissipare le colpevoli nebbie di indifferenze codarde. ove la rima baciata ritma gli incisi rendendo le poesie stesse quasi canzoni di impegno. La voce del poeta, partendo dal suo intimo sentire, non rinuncia a farsi”social” cioè non si ripiega in un intimismo senza sbocchi, ma si fa denuncia, lente di ingrandimento sugli errori del passato e del presente, nella speranza di riaccendere speranze senza naufragare in nuove avvilenti delusioni.

          La raccolta, intitolata programmaticamente Inversione di rotta, è divisa in quattro sezioni “Sopravvivenza”, “Radici”, “Potere, contro” e “Azimut ecocentrico”. Essa dal primo testo “Bum!” all’ultimo “Una nuova altra umanità” ci accompagna in un viaggio ideale che dalla realtà frantumata del sé ci conduce alla visione conclusiva di “un’altalena del desiderio”, metafora icastica che suggella la fede in una fraternità rinata. Non è il caso che l’autore abbia fatto precedere ai suoi, due componimenti tratti dall’ Allegria di Ungaretti, fonte di ispirazione e di incoraggiamento giacché nelle corolle di tenebre di ogni epoca buia può tremolare la foglia appena nata di una mai spenta fratellanza. Un viaggio, ben inteso, che non deve necessariamente procedere in modo lineare, se non per ragioni strettamente tipografiche, ma che può essere concepito come una spirale che dal soggettivo, dall'intimo, dalla memoria sfocia all'esterno nel grido di rivolta, “come un fiume carsico,/in piena”, per utilizzare una delle tante significative similitudini e metafore di cui si nutre la raccolta, “quando torna/l'onda quantica/ a vibrare/ ed un canto libero sale/ e gli antichi semi/ sbocciano/una vita che vale”, si legge in Alberi.

       Partiamo dalla poesia “Bum!”: Bertini nella sensuale tranquillità di una notte di luna piena “sfavillante, umana, innamorata” sogna di “esplodere come una bomba”. Il poeta si nutre di suggestioni, se ne imbeve a tal punto che necessariamente trabocca con l’irruenza di una passione incontrollabile, e quasi come nella reazione atomica nucleare , si produce una conflagrazione che sparpaglia il sé in frammenti che possono apparire come “brandelli”, termine di ascendenza ungarettiana,  “sulla nuda piangente terra”, personificata al pari della luna. I brandelli, tuttavia, come per l’Osiride egizio, possono essere appunto il preludio di una laica resurrezione, la propria voce, fatta parole e versi e libro di poesie, uniche tracce di una vita pronta a germogliare di nuovo, fuori da inutili orpelli e alla ricerca di un’autenticità che parte dal basso e dalla dissoluzione.

        Nel libro si può riconoscere anche una spiritualità aconfessionale come spinta ispirativa. Si prenda ad esempio il testo Preghiera: i termini “fango” e “cenere” richiamano l'atto generativo del Dio creatore della Genesi e la destinazione ultima delle umili creature (cenere ritornerai). L'autore con un deciso atto di emancipazione dal Dio della Bibbia, avvia quasi un'autocreazione in nome della “curiosità di questo mondo” e il neo-Ulisse non rischia come quello dantesco di essere travolto dal naufragio perché a spingerlo è un sentimento cristianamente laico: l'amore “di questa fragile,/imprevedibile umanità disastrata”.

        Del resto la forza di un grande poeta è quella di trasformare il soggettivo in voce universale. Questo è evidente anche nel componimento Delusione, in cui ognuno può trovare rappresentata “la propria delusione” che procede ad onde come quelle “guerriere/ dell’Oceano”, dissonante quando ad essa si vuole opporre le rassicurazioni di una ragione pronta a consolarla. La delusione può diventare una voce flebile, ma non si cancella, quasi una tappa iniziatica per ogni essere umano e “le ombre, i crampi, i nodi/risalgono/i tornanti del disinganno”. Il poeta sa dare sintesi senza togliere forza, anzi proprio nella sintesi ciascuno può rifocalizzare e sentire in sé la crudezza di certe sensazioni che solo chi ha il coraggio di abbassare l’orgoglio e la protervia può avvertire, e che solo uno scrittore può raccontare, e che solo un poeta può rendere emblematiche.

        E non è un caso che un poeta avverta il dolore delle “parole violentate”, come si scrive in “Identità perduta”, che si staglia come una dichiarazione di poetica; l’autore cerca di empatizzare proprio con le parole quando la disumanità non solo le tradisce ma le viola, scatenando una guerra sanguinosa contro il senso e la verità delle stesse, che finiscono per negare se stesse. Chi darebbe il timone ad un navigante ubriaco in una notte senza luna? Eppure il verbo, il logos che ci caratterizza come esseri umani è stato così ridotto nel suo significato, deturpato e svilito: seguire tale scempio equivale a naufragare nei mari dell'autodistruzione.

      Delusione-Speranza, Indifferenza-Umanità, Passato-Presente: il libro trae vigore proprio dalle antitesi che si dipanano tra i versi tanto che persino le amate parole si scontrano con il loro limite, “oltre il quale,- afferma Bertini- / solo un sorriso,/ una carezza,/ un bacio/può continuare il discorso”. Afferma un proverbio Masai: “Trattiamo bene la terra su cui viviamo: essa non ci è stata donata dai .nostri padri, ma ci è stata prestata dai nostri figli”. E allora oltre le nostre parole sorridiamo, carezziamo, baciamo la nostra umanità nella nostra madre terra. Bertini, con questo libro, ci rammenta questa eterna verità.

Virginio Giovanni Bertini. Inversione di rotta. Introduzione di Gianni Quilici. Postfazione di Laura Marchetti. Fotografie di Liliana Barone. Opzioni 2024.

 

 

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