29 agosto 2024

"Il Polacco" di J. M. Coetzee

 


di Marigabri

                    Romanzo spigoloso e misterioso, che si interroga sull’amore senza la pretesa di trovare risposte.

       Scandito da capitoli brevi e didascalici ci porta soprattutto nella mente di Beatriz, la donna quarantenne improvvisamente oggetto di culto amoroso da parte del settantenne musicista polacco Witold. Che suona Chopin senza pathos alcuno. Che si innamora di Beatriz perdutamente, come Dante di Beatrice. E conserva quel dono fatale dentro di sé fino all’ultimo giorno. Lontano da lei e quasi a sua insaputa.

      “Cosa c’era in lei che lo ha portato a sceglierla?” “…perché il suo corpo, perché la sua anima?” si chiede la donna.

      È l’eterna domanda dell’ innamoramento, l’eterno mistero dell’ alchimia che si produce fra due esseri sconosciuti che anelano a diventare intimi. Ma Beatriz rimane un’osservatrice; è distaccata, apparentemente poco coinvolta dalla trepidazione del polacco e tuttavia incuriosita dall’essere diventata oggetto di culto, intellettualmente sollecitata da quella improvvisa promessa di amore eterno.

      A lei la guida del racconto, nonostante il narratore onnisciente costruisca la partitura con andamento rapido e solenne. A lei le riflessioni sulla contraddizione dell’amore cortese, sulla sua impraticabilità, sulla sua evidente impossibilità. Sull’incolmabile distanza tra reale e ideale.

      Scrive Octavio Paz, qui citato:
“Un paradosso dell’amore: amiamo simultaneamente un corpo mortale e un’anima immortale. Senza l’attrazione verso il corpo, l’innamorato non potrebbe amare lo spirito che lo anima.
Per l’amante il corpo desiderato è anima.”


      Una riflessione anche sulla distanza creata dalla lingua. Lei è spagnola, lui polacco…l’inglese comune è inadeguato a esprimere i sentimenti, quasi un insignificante balbettio.
Alla fine Beatriz dovrà tradurre il testamento poetico che Witold le ha lasciato e solo allora comincerà davvero a comunicare con lui. Nell’impossibilità reale di un reciproco ascolto.

     Un Coetzee rigoroso e rarefatto, sempre più assiso nell’Olimpo dei grandi (e inafferrabili).

J. M. Coetzee. Il polacco. Einaudi

24 agosto 2024

" Teresa Bandettini si racconta" di Luciano Luciani

 

 


All’improvviso, la Poesia

 

      Nacqui lucchese nell’anno 1763, nella notte compresa tra i giorni 11 e il 12 agosto, e lucchese morrò per la grazia di Dio, quando lo vorrà quella Provvidenza che governa misteriosamente il mondo. Sono vecchia oramai, più che settuagenaria, nell’anno che corre dell’era cristiana 1837, eppure ancora giovine di cuore, forse meglio di quanto sia mai stata nelle mie combattuta giovinezza ed età adulta. Molto vissi e molto soffersi. La mia indole, l’ingegno, la prima educazione e le operazioni e le sorti che ne seguirono furono, come ogni altra cosa umana, un misto di bene e di male. 

       Di mio padre, Benedetto Domenico, non ricordo nulla, di nulla posso aver memoria ché ebbe a morire quando ancora imparavo ad articolare parole… Già, le parole: che negli anni a venire sarebbero state tanta e tanta parte della mia esistenza. Imparai a leggerle e a scriverle grazie a mia madre, Maria Alba, che mi fu maestra d’alfabeto. Mi incantavano, le parole: per le loro sonorità sempre diverse, per il libero giuoco degli accenti, i loro significati palesi e reconditi, la musica che avevano dentro, la magia della rima, l’alchimia dell’assonanza… 

      Dopo Lucca, la mia patria ideale sarebbe stata quella delle lettere. A esse avrei desiderato, toto corde, dedicarmi, ma c’era da contribuire al decoro di una famiglia priva della sua guida e per questo destinata al declino, se non addirittura alla fame. Un obiettivo da me perseguito con l’attività di ballerina a cui la mia genitrice m’aveva, fin dai più teneri anni, severamente indirizzata. E così, bambina e adolescente, mi muovevo con grazia al ritmo della musica, volteggiavo, piroettavo sui palcoscenici dell’intera penisola, nei teatri di Bastia, Firenze, Bologna, Venezia riscuotendo dappertutto consensi e successi. Ma non abbandonavo le lettere. Ballavo, ballavo e leggevo. Forsennatamente m’intridevo di poesia; Metastasio e Dante, Petrarca e Ariosto, il Tasso e Ovidio costruendomi, a poco a poco, la fama di “ballerina letterata”.

       Se oggi una chioma candida incornicia il mio viso tramato da una rete di rughe, com’ero, allora, a poco più di vent’anni, fedele seguace dell’arte tersicorea? Come mi vedevano gli altri?

       


     Di me coglievano gli occhi nerissimi e folgoranti; una bocca ben tagliata e sempre sorridente, denti bianchissimi che illuminavano un personale svelto ed elegante; giusto e ben profilato il naso; non molto tumido il petto. E poi, un’aria di persona concentrata su se stessa, sempre impegnata a pensare, riflettere, filosofare… E della fresca bellezza del mio corpo e dello spirito poetico e sognante ben s’accorse un uomo, Pietro Landucci, un conterraneo, da me incontrato a Imola. M’innamorai di lui e lui di me. Lo sposai a Bologna e fu lui a rivelare al mondo i miei talenti, ancora in gran parte nascosti, e a trasformarmi da ballerina in poetessa improvvisatrice: ovvero, capace di improvvisare in rima su qualsiasi argomento proposto dal pubblico. Un dono il mio, un dono degli dei, una grazia… Comunque da coltivare, da valorizzare, da affinare con uno studio indefesso del latino, del greco, del francese per ottenere quella sapienza letteraria che mi portò a essere applaudita nei teatri di tutt’Italia da Udine, a Ferrara, e poi a Venezia, e quindi a Padova, Verona, Mantova… Acclamata dai più qualificati intellettuali del tempo - dal gesuita Bettinelli, al biologo Spallanzani, dal fisico Alessandro Volta allo scienziato e poeta Lorenzo Mascheroni… -  Giuseppe Parini mi conobbe a Milano e subito m’ebbe cara e lo stesso accadde al corrucciato Vittorio Alfieri. E, finalmente, Roma! Qui, di fronte a un pubblico di colti aristocratici ed esigenti letterati, quello dell’Accademia dell’Arcadia - impreziosito dalla presenza di Vincenzo Monti, il più famoso poeta del tempo - mi cimentai in un’impresa che avrebbe fatto tremare le vene dei polsi a qualsiasi illustre e dotto intellettuale del tempo. Sì, in quella sede prestigiosa, fui capace d’improvvisare poeticamente sullo stesso argomento per ben otto volte, ognuna secondo un metro diverso. E quell’elevato e nobile consesso m’accolse tra i suoi pastori-poeti con nome greco di Amarilli Etrusca. 

       E Lucca, la mia città, come si è portata nei miei confronti? Come suo solito. Gloria, onori, tante lusinghiere parole di lode… Quattrini, però, pochi. Sì, perché vista la mia fama letteraria, pensavo di aver maturato titoli a sufficienza per aspirare a uno stipendio stabile da parte del governo. Ma quale governo se la mia vita correva a cavalcione di due secoli che resteranno un tempo assai memorabile nella storia italiana? Il turbine rivoluzionario che, partito dalla Francia, aveva attraversato l’Europa non aveva certo risparmiato la Toscana e, meno che mai, Lucca. Dove le malelingue mi dissero filofrancese, filogiacobina e, perfino, troppo, troppo vicina a certi generali transalpini… Mai fu profferita stupidaggine più grande… Io improvvisavo versi, sonetti, odi, cantate… E lo facevo come ditta dentro per celebrare sia le vittorie di Napoleone e delle armi francesi, sia la grandezza della corte russa o di quella di Vienna dove fui addirittura in predicato di prendere il posto del celeberrimo Metastasio. Comunque, per ottenere un modesto, e mai sufficiente, riconoscimento economico, ché le spese sono tante, fui costretta ad attendere fin oltre i miei quarant’anni e non mi venne né dai lucchesi, né dai francesi, ma da un milanese, il conte Francesco Melzi d’Eril, figura eminente del bello italo regno.

         Salvifica, davvero salvifica, quella pensione ottenuta lottando con le unghie e con i denti! E, nonostante i tempi profondamente cambiati, l’ho mantenuta grazie ai buoni uffici di Sua Altezza Reale duca di Modena e m’ha fatto non poco comodo adesso che sono vedova, vecchia e malata… E Cecco, Francesco, il mio unico amatissimo figlio, non m’aiuta? Dopo aver fatto di tutto, davvero di tutto, per sistemarlo a corte, quella lucchese dell’ottimo Carlo Ludovico, come mi ha ricompensato quel baggiano? Sposandosi con una disgraziata di lui maggiore d’età di 10 o 12 anni, che per tutta dote gli ha portato una bambina di primo letto. Cosa volete farci? Gli uomini sono tutti uguale ed è proprio vero che “Amor non mira lignaggio, né fede, né vassallaggio”. E, comunque, lo ripeto: Cecco è proprio un gran bel baggiano! Mi consola solo la stima che ancora sento a Corte nei confronti miei e della mia poesia. Non molto tempo fa, Carlo Ludovico in persona si è adoperato per far stampare dal Bertini, il tipografo ducale, un’antologia dei miei improvvisi più famosi. Una raccolta pubblicata in un’edizione così ben curata che non ho avuto remore a inviarla alle più eminenti personalità della penisola: il duca di Modena, il granduca di Toscana, il re di Sardegna… Magari, sarebbe potuto derivarne un qualche beneficio economico… Anche se, finora, a parte una medaglietta d’oro del sovrano sabaudo, benefici se ne sono visti pochi!

       Insomma, l’età avanza, la salute declina, i soldi, come sempre, scarseggiano e la mia poesia, quella per cui eccellevo in virtù del verso istantaneo, il mio inutile, meraviglioso mestiere, non interessa più nessuno.

 


02 agosto 2024

"La solitudine della sera" di Olivo Ghilarducci

 


 

di Marisa Cecchetti

Scrittore instancabile Olivo Ghilarducci, che ha iniziato a dedicarsi alla narrativa nel 2018 pubblicando Le braccia al collo. Politica e amore nel ’68. Già docente di Statistica e Matematica presso l’Università di Pisa, è stato Sindaco del Comune di Capannori e Consigliere Regionale della Toscana, cofondatore di Lucense s.p.a. di cui è stato presidente, fino a trovare successivamente nella scrittura il mezzo per elaborare la sua vasta esperienza di politico e di uomo. 

       Lo fa attraverso i personaggi che crea, dove l’amore è un elemento costante, insieme alla fede profonda della maggior parte dei protagonisti. Sono amori contrastati, dove le differenze di classe e di condizioni economiche spesso creano ostacoli dolorosi che tendono a dividere. L’ultimo romanzo, La solitudine della sera, si muove tra i borghi della campagna lucchese, la città di Firenze negli anni ’60 fino alla inondazione del ’66, poi Roma e Chicago.

       Sono amori che sbocciano al primo sguardo, come succede a Lara e Marco il giorno della gita di gruppo in bicicletta a Le parole d’oro. Lui non si ritiene tale da attrarre una così bella ragazza: lo stupore e l’emozione gli vengono in aiuto in un momento economico difficile per la famiglia, negli occhi ancora l’immagine dell’ufficiale giudiziario a pignorare la mobilia. Cresciuto alla fede alimentata da mamma Gina, il padre Aldo democristiano, è aperto anche Marco alla corrente di sinistra della DC; invece Lara è figlia di un importante dirigente comunista che vive nella ricchezza. La difficile situazione familiare ha spinto Marco a interrompere gli studi e a puntare sul ciclismo di cui è ritenuto una promessa, ma l’amore per Lara, la fiducia che la ragazza pone in lui, il desiderio di essere alla sua altezza, lo riportano sui banchi di scuola. 

        Non accettato dalla famiglia di Lara che lo tratta da invisibile, seguito sempre dalla Seicento rossa del padre di lei che si oppone alle scelte della figlia e ne controlla ogni mossa, Marco vuole riscattarsi e mostrare quello che vale attraverso la carriera, dopo un percorso di studi di Statistica iniziato a Firenze e terminato a Roma. Lara lo sostiene, cerca ogni soluzione per stargli vicino, determinata, contro le aspettative e i desideri della famiglia.

       Giovani sensibili, riconoscono il privilegio di vivere nella bellezza quando pedalano a fianco: “La campagna lucchese in quel tempo era ancora inviolata. Nelle serate limpide era stupenda. I filari di alberi e quelli delle viti, con il giallo e il rosso delle foglie rimaste, delimitavano i campi già pronti per la semina del grano. Lo splendore dei colori autunnali sotto i raggi radenti del sole […] rendeva ancora più gioiosi i loro incontri e indimenticabili i loro baci”. Giovani responsabili, sono insieme agli angeli del fango nella alluvione di Firenze; innamorati, trascorrono insieme estati piene di emozioni. Se i giorni sono ricchi di impegno, progettualità, gioia, non è risparmiato loro il dolore, tuttavia l’amore che li lega fa superare i momenti più neri: lui ha fiducia nella divina Provvidenza; lei, lontana dalla visione religiosa della vita, è orientata alla bontà verso gli altri e al rispetto, pronta a incolparsi per non avere amato abbastanza.

       Il passaggio a Chicago per una borsa di studio triennale di Marco apre a una dimensione ampia, allo stupore dei grattacieli, ai laghi ghiacciati su cui si pattina d’inverno, ma soprattutto alla accoglienza e vicinanza di una famiglia di amici che li fa sentire come a casa; all’incontro di emigrati al Mazzini Verdi club con la nostalgia nel cuore, con la soddisfazione di veder nascere la sezione di Chicago dei Lucchesi nel mondo.

        Ghilarducci porta nelle sue pagine molto di sé, del suo vissuto, delle sue idee politiche e della sua visione della vita; i personaggi sono per la maggior parte dotati di grandi qualità, di intelligenza della mente e del cuore, di bontà. Se qualcuno se ne distanzia concede loro, comunque, la possibilità di cambiamento. Ne La solitudine della sera, dopo che Marco è arrivato insolitamente a mettere in dubbio la bontà di Dio, a chiedersi perché gli uomini debbano attraversare tanta sofferenza, finisce per prevalere la dimensione spirituale e il richiamo della fede.

Olivo Ghilarducci, La solitudine della sera, Tralerighe Editore 2024, pag. 226.