Tra le numerose voci meritevoli d’attenzione e i rari veri talenti del nostro secondo Novecento letterario, qual è lo scrittore più abrasivo, più corrosivo verso la società del boom economico, del miracolo industriale, del neocapitalismo e del mondo che ne derivò?
A mio modestissimo parere Luciano Bianciardi, grossetano, nato nel 1922, che, dopo una lunga gavetta letteraria, raggiunge il successo nel 1962 con La vita agra, il libro che per primo disvela come il consumismo di massa, allora ai suoi albori, sia soltanto una chimera, un’illusione “tossica”, i cui effetti stiamo ancora pagando sotto forma di disastri economici, scempi ambientali, e, cosa ancora più grave, la perdita della nostra stessa umanità. Le cementificazioni selvagge degli anni dell’ebbrezza consumistica hanno asfaltato non solo le nostre città e le nostre coste, ma anche i nostri cuori, trasformandoci prima da lettori in telespettatori totali, poi, ai nostri giorni, in follower al seguito supino e sciocco di autoproclamatisi influencer.
Nella cosiddetta “trilogia della rabbia”, tre romanzi, Il lavoro culturale, 1957, L’integrazione, 1960, La vita agra 1962, e, soprattutto, centinaia di articoli di articoli e traduzioni dei più importanti scrittori americani, da Saul Bellow a Henry Miller, da William Faulkner a Norman Mailer, da John Steinbeck a Jack Keruoac, Bianciardi cercò di contrastare, “dando l’allarme”, la deriva già in atto verso un mondo che, continuando a progredire, non permetteva a nessuno di progredire veramente. “Siate voi stessi” - ammoniva Bianciardi dalle pagine dei suoi romanzi e delle decine e decine di editoriali, articoli, recensioni pubblicati su “Le Ore”, “Playmen”, “ABC”, “Guerin Sportivo” – “siate coerenti con voi stessi, toglietevi il para-occhi, liberatevi delle comodità che vi inchiodano a una sedia, a una scrivania, a un televisore e pensate con la vostra testa”.
In quegli anni di luci colorate, Lambrette, frigidaire, Seicento, egli, a ogni nuova scoperta di benessere, fu l’unico a non credere in quei beni di consumo, che, oggi, ci hanno ridotto non ad acquistare, ma a essere acquistati, non a consumare, ma a essere consumati. Milano, ai suoi occhi, diventa il simbolo della spregiudicatezza e dell’ingiustizia del potere in Italia. È la grande città, la metropoli, che condiziona, ingloba, appiattisce, distrugge tutto, anche i sogni, la solidarietà, gli ideali… “Bastano pochi mesi” scrive Bianciardi “perché chiunque si trasferisca qui si svuoti dentro, perda linfa e sangue, diventi guscio: tra vent’anni tutta Italia si ridurrà come Milano”. E in una lettera all’amico grossetano Mario Terrosi del 1 marzo 1962, scrive: “Son riuscito a scrivere un libro che ritengo la mia cosa migliore… Si intitola La vita agra, ed è la storia di una solenne incazzatura, scritta in prima persona singolare. Per il resto nulla di nuovo. C’è il miracolo economico, l’espansione dei consumi, il boom economico, ed anche editoriale. In cambio non si vede mai un amico, ci si accorge d’essere considerati non come uomini, ma come funzioni (quello che traduce, quello che scrive, quello che dirige e così via), si capisce anche che se per tua disgrazia crepi gli altri ti scancellano e sei sparito…”. E in un’altra lettera a Terrosi dell’ultimo giorno del 1962: “In Italia stanno impazzendo: Milano di notte sembra un Luna Park, hanno attaccato lumini anche alle palle di Sant’Ambrogio, e la folla compra, compra, compra. Figurati che comprano anche i libri…
Dalle pagine de La vita agra, pubblicato nel 1962, 62 anni fa, a proposito del tanto decantato “miracolo economico”, lo scrittore grossetano rifletteva: “I miracoli veri sono quando si moltiplicano pani e pesci e pile di vino, e la gente mangia gratis tutta insieme, e beve. I miracoli veri sono sempre stati questi. E invece ora sembra che tutti ci credano a quest’altro miracolo balordo. Faranno insorgere bisogni mai sentiti prima. Chi non ha l’automobile l’avrà, e poi ne daremo due per famiglia, e poi una a testa, daremo anche un televisore a ciascuno, due frigoriferi, due lavatrici. A tutti. Purché tutti lavorino, purché siano pronti a scarpinare, a fare polvere, a pestarsi i piedi, a tafanarsi l’un con l’altro dalla mattina alla sera. Io mi oppongo.”
Un’opposizione pagata cara. Con l’incomprensione e una conseguente opaca solitudine. Morì, Bianciardi, a soli 49 anni, il 14 novembre 1971. Da solo, dopo 19 giorni di agonia. nella sezione D, letto 106, del reparto di Medicina Interna al quinto piano dell’Ospedale San Carlo di Milano. Al suo funerale si presentarono appena quattro persone.
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