18 novembre 2024

" Come un taglio nel sale" di Erika Pucci

 


di Elisa Bertoni

                 Il romanzo di Erika Pucci, ambientato in una città di mare, in cui si può facilmente riconoscere Viareggio, dove vive l'autrice, prende le mosse da quelle che lo psicoanalista Jung non avrebbe esitato a definire “coincidenze significative”. La sincronicità con cui avviene l'incontro-scontro della protagonista Frida, sedicenne inquieta, con l'altrettanto inquietoVinnie, -ragazzo cui viene da lei assegnato l'epiteto “OcchioniBluMalinconia”- e la successiva apparentemente casuale conoscenza con Gilberto, -professore in pensione, che nasconde a stento un suo dolente cruccio interiore- rientra in quella serie di eventi che, pur non avendo una relazione causale ovvia, diventano significativi per chi li vive in quella loro aura di magia e di mistero, costringendo i personaggi a cercare risposte, assumersi responsabilità, colmare vuoti.  “Sedici anni, quasi diciassette, e una vita piena di fantasmi”: così esclama Frida nel momento in cui consapevolizza in modo perentorio che la sua esistenza è stata caratterizzata da un vuoto mai riempito con il cibo che spesso ingurgita nevroticamente e mai sopito dai tagli che si infligge; un'altra fame e un altro dolore non riescono a placarsi, quelli dell'assenza del padre.

         Sincronicità e Assenza sono dunque due parole-chiave: la prima permette la rifocalizzazione della seconda, uno strumento che dal dolore individuale, dalla storia personale si allarga in un abbraccio collettivo. Significativa l'affermazione: “A quel punto stava diventando la storia di tutti, perché i risvolti riguardavano ognuno al di là delle questioni personali” (pag. 90).
 

        Interessante è sottolineare il fatto che c'è un luogo fra i tanti che rappresenta una sorta di focolare in cui la maggioranza dei personaggi finisce per incontrarsi, conoscersi, familiarizzare: il Covo, descritto in modo gustoso attraverso i dialoghi realistici con cui tra una partita di burraco e un pettegolezzo spiritoso trascorrono del tempo alcuni pensionati, ed altrettanto interessante è evidenziare che ciò che permetterà lo sviluppo di una conversazione intergenerazionale è un passo dell'Odissea di Omero, per la precisione l'incipit, in cui si introduce il personaggio di Ulisse, il quale patì “innumerevoli sofferenze sul mare lottando per la sua vita e per il ritorno dei suoi”. E' Gilberto a proporre la versione giusta del brano omerico e, dopo qualche screzio, nasce una paterna simpatia con Frida e gli amici che la accompagnavano.
 

        E non è un caso che nella ricerca affannosa di notizie del padre Frida finisca per trovare una fotografia rivelatrice proprio nel libro Ulysses di Joyce, romanzo in cui i personaggi, incrociandosi tra loro in modo in apparenza casuale, determinano lo svolgimento dei vari eventi e li descrivono. Frida è dunque nello stesso tempo Telemaco alla ricerca del padre ed una novella Ulisse, così come Gilberto: con lui ingaggia una sorta di lotta per il ritorno dei loro cari, per un degno riconoscimento alla loro memoria e solo cosi sarà per loro possibile metaforicamente ritornare a casa.
 

       Nel romanzo si può ravvisare una sorta di spartiacque a metà libro. Per evidenziare questa felice sterzata che contribuisce non poco ad attrarre il lettore può essere utile fare riferimento ad altri due termini chiave: colpa (e il conseguente bisogno di espiazione) e verità.
Si leggano questi passaggi: “Il vetro sulla pelle era l'espiazione per il suo [di Frida] senso di colpa ancora non meglio identificato” (pag 5). E sempre Frida: “Si alzò le maniche, vide le croste sottili dei graffi... Le sarebbe piaciuto indossarle sempre come simbolo della sua colpa: quella di esistere” (pag. 22).
“Di fianco [Gilberto] scrutò la grande ruota panoramica a metà perché in via di smontaggio, sembrava una falce, era l'immagine di come si sentiva intimamente, per sempre incompleto. Alle sue spalle i cantieri già tacevano a differenza dei suoi sensi di colpa” (pag. 16).
E ancora Paola, la madre di Frida: “A volte si additava la colpa di non essere stata una madre abbastanza valida come con Aurora”(pag. 20).
 

        Come trovare espiazione al dolore originato dal senso di colpa? Frida e Gilberto, contrariamente a Paola che assume con il compagno Claudio il ruolo di antagonista, optano per la ricerca della verità; inizia così una vera e propria indagine con conseguente denuncia. Afferma Frida con fermezza: “Io
non rinuncio alla verità” (pag. 89). Solo la verità, unita al coraggio, alla caparbietà e alla talora fortunosa determinazione che ne permettono la scoperta, riuscirà nell'impresa di liberare i personaggi dal senso di colpa che li attanagliava. Finalmente Frida si riconcilia con l'assenza: “Quel demone che per anni era stata la sua ombra segreta nell'anima adesso era capace di guardarlo negli occhi, e imparare a conviverci. Non c'era niente da espiare”.
 

        Il taglio nel sale che dà il titolo al romanzo rappresenta con pregnanza visiva la sofferenza, ma nello stesso tempo il desiderio di squarciare il velo che nasconde il sale della vita, che è senso, autenticità dei sentimenti e giustizia.
Ed il sale è anche il mare, silenzioso ma onnipresente che, ritratto in modo ossessivo dal pittore Fulgor, non è solo ornamento paesaggistico ma vero e proprio personaggio per cui, su cui, in cui si muovono vite, passioni, viltà, crudeltà, riconciliazione. “Come l’acqua del mare porta via la risacca, così il sole, la leggerezza e la salsedine portarono via i sentimenti difficili e lasciarono a riva, come conchiglie preziose dopo la tempesta, solo ciò che avrebbe continuato a contare” (pag. 140).

Erika Pucci. Il taglio nel sale. GFE, 2024.

 

14 novembre 2024

"Scuola e fantascienza, un rapporto difficile" di Luciano Luciani

 


 

           Sconcerto, disappunto, rabbia: questa la gradazione, in crescendo, dei sentimenti della Professoressa delle Medie nello scoprire il genere delle letture del suo giovane discente.

 

        Eravamo alla fine degli anni '50 in una scuola alla quasi, allora, periferia di Roma e in una tranquilla discussione in classe sui libri preferiti da noi giovinetti alle soglie del "teenagerato", era venuta fuori la mia più che annosa. nonostante la giovane età, frequentazione con i BEM (i Bug-Eyed Monsters, i mostri dagli occhi d'insetto) che riempivano allora le pagine dei volumetti diUrania”. Mitici se si vuole, ma bruttini anzichenò: ora per le edizioni non integrali e maltagliate, ora per le traduzioni approssimative, ora per gli autori talora di grande valore, sovente sconosciuti e discutibili.

 

         Il primo incontro tra i due mondi, quello della mia scuola e quello della mia fantascienza di allora, non fu onestamente memorabile. Venni invitato dalla brava donna - una nobile figura di educatrice e una mamma per tutti noi - a liberarmi quanto prima dal mio "vizio" assurdo. Pensassi, invece, a dedicarmi con più passione di quanta ne avessi dimostrata fino a quel momento ai Classici e al latino, evitando così le brutte figure scolastiche e le "borse" sotto gli occhi.

Certo, a rileggerli ora gli oggetti dello scandalo, i fin troppo agili volumetti di Urania della seconda metà degli anni Cinquanta, così pieni di trovate mirabolanti, ma anche di comici esempi di cattiva scrittura, così zeppi di ossessioni anticomuniste espresse sotto metafore granghignolesche, bisogna ammettere che la brava donna che mi infelicitò la vita col suo latino non avesse tutti i torti.

 

         Non pervenuta la sf neppure al ginnasio e al liceo. La scuola continuò a ignorare la fantascienza, che, letta in condizioni di semi-clandestinità, occultata sotto il banco, patrimonio di una sparuta minoranza oppressa, finiva per essere vittima sia della pesante tradizione accademica che ha sempre gravato sulle nostrane vicende letterarie, sia della propria lentissima emancipazione dall'imbecillità stilistica.

        Comunque, onore al merito e alla mondadoriana collana “I romanzi di Urania”/“Urania”, governata dalle mani sapienti del suo primo curatore, Giorgio Monicelli, fratellastro del più celebre regista Mario, scrittore, traduttore e partigiano garibaldino. È proprio Giorgio a coniare il termine italiano di “fantascienza” per indicare una nuova letteratura proiettata verso spazi lontani, lontanissimi, e tempi ancora a venire. Problematica, minacciosa, ma sostanzialmente ottimistica, la sf viveva dello spirito del tempo: un’attesa nella realizzazione delle “magnifiche sorti e progressive” promesse dal formidabile sviluppo delle scienze e delle tecniche nel secondo dopoguerra e l’aspettativa di un’epoca di pace, fragile e insidiata, ma sempre pace. Il racconto di una storia futura, attento nei suoi prodotti migliori anche ai non trascurabili aspetti etici di quanto avverrà… 

         E se l’”Urania” di Monicelli ha buon gioco nell’attingere a piene mani dagli Autori fondamentali – Arthur C. Clarke, Van Vogt, Clifford Simak, Eric Frank Russel, Isaac Asimov… - Monicelli guarda senza particolari prevenzioni anche agli Autori italiani - qualcuno già c’era -  spesso costretti, però, a celarsi dietro pseudonimi vagamente anglicizzanti. Qualche nome? Lo stesso Giorgio Monicelli; il prolificissimo Franco Enna, che nasce Cannarozzo, giornalista, autore oltre che di sf (L’astro lebbroso, n. 73) di non pochi e neppure disprezzabili polizieschi, riconosciuto da Andrea Camilleri come il suo maestro; lo sceneggiatore Ernesto Gastaldi, travestito dietro lo pseudonimo di Julian Berry (Iperbole infinita, n. 220); Luigi Rapuzzi Johannis (C’era una volta un pianeta…, n. 41; Quando ero “aborigeno”, n. 110); le sorelle Maria e Ornella de Barba (Gli infiniti ritorni, n. 272) nascoste dietro l’unico nom de plume di Marren Bagels e altri pochi…

        Tra tutti, però, spicca Samy Fayad, e il suo Ulix il solitario, “Urania”, n. 208, 1959, copertina di Carlo Jacono, pubblicato quando la conquista dello spazio era ancora ai primordi, a metà strada tra lo Sputnik che girava sopra le nostre teste (ottobre ’57) e lo scomodissimo viaggio nel cosmo di Yuri Gagarin (aprile ’61) che, per alcuni anni, nella corsa alle stelle, sembrò assegnare il primato ai sovietici “rossi” e alla falce e martello.

          Letto alle soglie dell’adolescenza, intorno ai 12 anni, quando la scuola media di allora dopo la lettura dell’Iliade mi aveva appena proposto quella dell’Odissea, la storia di questo Ulisse giunto degli spazi profondi mi impressionò non poco per l’acuta sensibilità dell’Autore nel rielaborare il mito dell’eroe omerico, proiettandolo in un futuro non indistinto, ma immediato e tangibile. Navigatore stellare alieno, naufrago sul nostro pianeta, accogliente sino a indurre pericolose forme di oblio, Ulix non rinuncia mai alla speranza di poter tornare un giorno a unirsi all’amata Karen, una Penelope galattica distante anni luce e, forse, persa per sempre. La sua tenacia lo premierà? A quel che ricordo, sì.

         Narrazione di una diversità e dell’isolamento che ne deriva, condotta secondo toni elegiaci più che tragici, Ulix il solitario è opera di uno scrittore e giornalista, Samy Fayad, di origini libanesi, nato a Parigi nel 1925 e fattosi napoletano alla fine degli anni trenta. Autore di radiodrammi e testi teatrali di qualche notorietà, portati al successo da Nino Taranto, Fayad intercetta con disinvoltura la scrittura fantascientifica in questa e in un’altra occasione, La collina di Hawotack, “Urania”, n. 261, 1961, di cui, dopo più di sessant’anni, conservo vaga, eppure non sgradevole, memoria.