di Elisa Bertoni
Perché associare alla musica un termine come vergogna e non piuttosto onore, orgoglio, successo?
Il titolo del libro di Claudio Orsi potrebbe sembrare un ossimoro che ribalta la percezione istintiva che solitamente accostiamo alla parola “musica”. Di quale “vergogna” si tratta e in relazione a quale “musica”? Invece di rispondere alla domanda proviamo a mettere in relazione tra di loro due noti aforismi. Il primo di Miguel de Cervantes recita: “Dov'è musica non può esservi nulla di cattivo”. Il secondo di Friedrich Wilhelm Nietzsche afferma: “Chi chiami cattivo? Chi mira soltanto a incutere vergogna”. Da un rapido confronto si potrebbe desumere in modo indubitabile che la vergogna, associata ad un comportamento moralmente riprovevole, si confà a pennello a chi muove il dito inquisitorio e accusatorio per suscitare vergogna e non piuttosto a chi, pur con mezzi rudimentali più o meno improvvisati, tenta di muovere i suoi passi nella musica, attività mai cattiva in sé, adatta a tutte le età nelle declinazioni più svariate dei suoi generi.
Già dal titolo, dunque, l'autore provoca il lettore, sfidandolo ad adottare una lente ironica e disincantata, necessaria per approcciarsi al testo, un testo che sa toccare momenti cruciali della nostra storia novecentesca fino ai giorni nostri, con un piglio narrativamente godibile per la sua leggerezza, resa altresì corposa grazie ad un humour garbato, capace di costruire gustosi quadri di costume, di regalare delicate emozioni, di suggerire acute riflessioni.
Si può forse rimproverare a Vincenzo, protagonista del primo racconto, di essere rientrato tardi a casa, a mattina quasi fatta, zuppo di pioggia, se si è lasciato sedurre dalla Rossina, fatalmente attratta dai suoi colpi alla batteria? Galeotta fu la bacchetta! Si può forse criticare la generazione dei Beat, al centro del secondo capitolo, definiti a Lucca con icastici appellativi quali “panchinari” e “cialtronpower” se nella loro musica e nelle loro scelte di vita emergeva il desiderio di distinguersi dalla massa di “borghesi benpensanti, consumisti e conformisti” così come da quella “dei popolani moralisti e reazionari” e dei “superuomini violenti”? E certamente non possiamo imputare niente a Mandarino, l'io narrante del terzo racconto, se, suonando con la sua giovane band all'Hotel Bixio per l'ultimo dell'anno del 1968, matura una esperienza cruciale per le sue future scelte politico-ideologiche. E, percorrendo rapidamente gli ultimi due capitoli, non possiamo neppure censurare un settantenne se continua, divertendosi, a suonare nei pub, e a illudersi nel sogno di un disco, che tante speranze prometteva, rifiutato poi come un figlio storpio dell'antica Sparta.
La chiave, quella per comprendere il libro, è proprio effigiata sulla copertina: serve per accordare i tamburi. Ritmo e accordo. L'autore svela così come ogni possibile nube di vergogna svapori se a spingere le mani e il cuore c'è desiderio di armonia, il riflesso musicale di una pace agognata tanto nel privato quanto nel pubblico, nella speranza di una società nuova. “All you need is love”! Nessuna vergogna, dunque, qualsiasi sia la musica, quando in essa va ricercato un bisogno stringente di amore personale e collettivo, che detti i suoi ritmi.
Del resto per concludere con il poeta Torquato Tasso: “La vergogna ritien debile amore;/ma debil freno è di potente Amore”. Questo libro testimonia in modo indubitabile quanto l'Amore di Claudio Orsi per la musica e per l'armonia che essa rappresenta è tutt'altro che debole, oltre ogni vergogna.
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