03 febbraio 2010

"Viaggio in requiem" di Francesca Caminoli


di Liliana Di Ponte

“C’è solo una cosa peggiore della morte di un figlio. Che voglia morire”. La citazione, tratta dal film Mare dentro di Amenabar, che apre il libro di Francesca Caminoli, Viaggio in requiem, immette subito nel cuore di quest’opera e ne anticipa il tema.

E’ il diario di viaggio di una madre che ripercorre, da sola in auto, la strada che giusto un anno prima suo figlio Guido forse ha percorso per arrivare sul bastione del castello da cui, a 26 anni, ha messo fine alla sua vita. Un diario lungo diciassette giorni, tanti le occorrono per attraversare un pezzo d’Italia, da Lucca ad Otranto, diretta ad un appuntamento con lui – 12 settembre, ore 17.30 circa – per poi salutare quei luoghi e ripartire.
E’ un viaggio lento questo della madre, lungo strade secondarie di un’Italia minore e ricca di suggestioni – i monti Sibillini, il Gran Sasso, L’Aquila, la Maiella, Trani, Castel del Monte, Lecce e infine Otranto – attraverso borghi e paesaggi magici, definito nella meta da raggiungere, ma un po’ casuale nel percorso (Chissà se anche tu sei passato da qui, nel tuo viaggio verso la Puglia l’anno scorso, ed esattamente qui hai sentito più vicina la pace che andavi cercando. ).

Le deviazioni e le soste – per mangiare, per dormire, per riposare – sono originate dal cartello allettante di un’osteria o di un albergo, da un panorama inatteso, da un segnale turistico, in uno smarrire e ritrovare la strada che diviene metafora di quel perdersi e ritrovarsi che è parte integrante del dolore.

Il diario della madre è un colloquio ininterrotto con se stessa e con il figlio, un interrogarsi sul loro rapporto (Tu sei stato prima il bambino, poi il ragazzo, poi il quasi uomo, anzi l’uomo, che sempre mi ha obbligato a guardare e a guardarmi nel profondo.), con domande destinate a non avere risposta (Da dove venivano, Guido, il tuo insostenibile dolore e la tua insostenibile sofferenza? Quante volte me lo sono chiesta senza riuscire a darmi una risposta. E non mi bastano le cose che mi dicevi, il tuo poterci fare del bene da un altro mondo, il tuo non volere stare più qui. Questo era il dopo, ma il prima, il prima da dove veniva?).

Ma ci sono anche i ricordi sereni di vacanze, della passione (e bravura) artistica di lui, dell’affetto di tanti amici da cui è sempre stato circondato.
E così il viaggio si snoda lentamente verso il Sud e, via via che si avvicina alla meta, cresce nella madre la tensione e il desiderio di questo appuntamento, mentre qua e là emergono tracce che vengono lette come segnali, forse inviati dal figlio, per aiutarla a capire il percorso che la sua mente aveva intrapreso (La tua delirante convinzione che le nostre famiglie fossero ebree, il tuo riconoscere in ognuno di noi la discendenza e l’appartenenza a una e l’altra delle dodici tribù di Israele mi ha portato per mano nel cuore dell’antica Judecca […]).

Il colloquio tra la madre e il figlio si fa più serrato, quasi a preparare la madre al congedo definitivo (Mi avevi chiesto più volte l’autorizzazione al suicidio. A volte me lo chiedevi con voce da bambino “mamma, ti prego”. Non te l’ho mai data e tu sapevi che non te la potevo dare. O forse invece te l’ho data? Perché tu sapevi anche che non ti avrei rinchiuso a vita in una prigione fisica o chimica pur di averti con me. [...] Così ora l’unico pensiero che forse puoi leggere nella mia testa vuota di pensieri è che adesso ti do l’autorizzazione che non ti ho mai dato, che adesso ti lascio andare.).

Arriva infine il giorno dell’appuntamento: 12 settembre, ore 17.30 circa, bastione del Castello di Otranto, il momento atteso e temuto. (E all’improvviso tu sei lì, sei lì etereo come nella mia visione che ti ho raccontato, ti alzi, mi sorridi, vieni da me e mi abbracci. […] Sento il tuo amore. Non so se io, confusa come sono, riesco a trasmetterti tutto il mio […].Sto per andare via, ma faccio pochi passi e ritorno al bastione. Mi risiedo sul muretto. Per un attimo. Poi vado. Adesso so che tu non sei più lì.).

Sono pagine, queste del diario, che traspirano dolore ma anche una serena vitalità, asciutte e lontane da qualsiasi retorica o autocommiserazione, che si leggono in punta di piedi, se si può spiegare così la sensazione di introdursi, da estranei, in una storia così intima e vera da avere paura di disturbare. Ma poiché è stata pubblicata – anni dopo quell’avvenimento – è diventata anche di chi la legge, perché ci riguarda tutti, al di là della viva partecipazione e dell’inevitabile commozione che suscita.

Ci riguardano i conti che quasi mai facciamo – se non costretti dagli eventi – con la morte, e la consapevolezza che non saremo mai pronti ad accettarla, distratti come siamo a vivere come se dovesse essere per sempre.

Ci riguarda la solitudine che accompagna il dolore e che sembra definitiva e senza scampo.

Ci riguarda il tempo che nonostante tutto passa e, contro ogni volontà, ricrea abitudini ed equilibri, sia pure provvisori.

In questo Viaggio in requiem che anche noi abbiamo fatto, tappa dopo tappa, non siamo noi che abbiamo accompagnato Francesca Caminoli, ma è lei che ha indicato a noi un possibile percorso, perché forse “la condivisione di un lutto può essere di conforto agli altri oltre che a se stessi”.

Francesca Caminoli, Viaggio in requiem, Milano, Jaca Book, 2010, pp. 117, € 12,00.