14 dicembre 2012

"Divagazioni sulla saggistica di Mario Vargas Llosa e José Ortega y Gasset" di Davide Pugnana

“Il tempo lotta al buio col tuo sogno
boscaglia verde e bianca
quercia fanciulla quercia millenaria
il vento ti sradica e trascina e rade al suolo
apre il tuo pensiero e lo disperde”
(Octavio Paz, Temporale)









Mario Vargas Llosa, o la letteratura come orgia perpetua



Per molto tempo Mario Vargas Llosa fu per me l’autore de L’orgia perpetua Flaubert e Madame Bovary (Rizzoli, Milano 1986, pp.256). Questo saggio magistrale cadde in un periodo di intensa e ingenua scoperta del romanzo. Dopo il primo amore per Dostoevskij e Tolstoj; per Padre e figli di Turgenev, con la sua meravigliosa elegia finale sulle meste figure dei genitori, degna di un dipinto di Millet; e dopo qualche racconto di Pietroburgo di Gogol, letto male e abbandonato a metà per un tentativo di goffo arrembaggio all’Ulysses, fu la volta dell’opera di Flaubert. Non che il suo mondo narrativo fosse particolarmente accessibile rispetto ad altri classici; ma quella manciata di personaggi entrarono a segnare la mia adolescenza in modo durevole, fin quasi a prevalere sulla realtà quotidiana, che, per un magico rovesciamento, stingeva i suoi contorni contro i caratteri e le voci di Frédéric Moreau, della signora Arnoux, di Salomé, di Felicita la domestica dal cuore semplice, del farmacista Homais. E in questa persistenza dei personaggi flaubertiani entrava in gioco il bovarismo del viveur de romans, espressione coniata da Albert Thibaudet per indicare il lettore che, sospesa la credulità terrestre di Sancho per sposare la causa di Don Chisciotte, si slancia in un volo ideale, fino all’abbandono, nelle iridescenti, evocative e spregiudicate menzogne del romanzo. Ed è proprio in questo ratto del cuore e della mente che i miti irrompono come torme moresche di venti, e spargono la loro malia potentissima nelle mente dei lettori adolescenti. Una sera faticavo persino ad addormentarmi, perché non sapevo di aver chiuso il libro su uno dei vertici della letteratura europea e brancolavo stordito nel buio. Era precisamente la scena in cui Léon, dall’interno del fiacre nel cui ventre sta viaggiando con Emma, grida al cocchiere di continuare la corsa, di spronare i cavalli sempre più forte. Léon che, per un’intera sequenza, diventa urlo sferzante proveniente da una capsula ermeticamente chiusa: “Continui!”; “Vada avanti!”; “No, sempre diritto!”, in un delirante climax erotico sempre più concitato; mentre il pover’uomo “dall’alto del suo sedile, lanciava alle osterie sguardi disperati. Non capiva quale furore della locomozione spingesse quegli individui a non volersi fermare.”; e chi, nelle strade o sul porto, vedeva passare quella vettura indemoniata, con i ronzini sudati e il cocchiere “quasi piangente di sete”, sbarrava gli occhi davanti a quella “carrozza con le tendine abbassate, che ricompariva di continuo, più chiusa di una tomba e sballottata come una nave.”; fino a quando - termina Flaubert - in aperta campagna, “una mano nuda passò sotto le tendine di tela gialla.”

I lettori tra i sedici e i diciotto anni subiscono l’attrazione oscura e seducente dell’eros. In questo territorio innominabile, amica e sorella mi divenne la penna del sedicenne Flaubert il cui immaginario di metafore, il cui fraseggio gonfio di parole erotizzate ebbe l’effetto di spiovere sugli oggetti inaccessibili della mia psiche, accendendoli di luce nuova. Memorie di un pazzo e Novembre erano pur sempre mondi partoriti dall’esperienza di un mio coetaneo, il quale andava scoprendomi la natura umana adolescente, la passionalità incontrollata, la lingua mistica dell’amore-passione stando immerso nell’ombelico sotterraneo della scrittura come “orgia perpetua”. Così, portato dalla parola saggistica di Mario Vargas Llosa, scoprivo l’inesauribile tastiera dell’umanità flaubertiana: un campionario di individui calati in perfette macchine narrative. E nonostante siano passati due lustri, ho ancora chiaro il ricordo della sensazione di stupore e ammirazione che provai di fronte al trittico finale, a quei Trois contes concepiti da Flaubert nel 1876, a quattro anni appena dalla morte e dopo aver perduta la sua musa epistolare, Louise Colet. Tre racconti: scritti senza tremito e con la perfezione di un maestro orologiaio.

Suona vero che ogni adolescenza gira dentro il suo personalissimo zodiaco di miti eterni. Il mio, almeno sul terreno della letteratura, era quel Flaubert sempre così lontano dal confessare agli amici il suo ritiro dalla scrittura. Era l’ostinato anacoreta che compulsava centinaia di libri in vista del grandioso progetto di Bouvard et Pécuchet. Per lui, fedele ad una vocazione demoniaca che gli rubava tutto il tempo della vita per convertirlo in scrittura, l’allontanamento dallo scrittorio di Croisset sarebbe stato un suicidio. Flaubert non era più solo un ‘classico’, divenne presto il mito per eccellenza di resistenza alla vita nel fuoco della creazione artistica. Mi riempiva di coraggio il destino di questo scrittore: messo precocemente sulla via della scrittura e cosciente, fin dall’adolescenza, di esser nato per far parte del novero degli scrittori che muoiono con la penna in mano. Flaubert incarnava il tipo di scrittore per il quale il pur minimo cedimento della volontà creativa avrebbe, da un lato, trascinato al fallimento un intero sistema esistenziale e, dall’altro, avrebbe sancito il tradimento di una fede nella scrittura vissuta come mistica irrinunciabile. Ma come ogni fede autentica, anche quella flaubertiana era profondamente venata. Numerose crepe correvano sulla superficie della sua vocazione: l’Epistolario è tutto tramato di crisi sboccate in feroci invettive contro la vita; in minacce di gesti estremi; in martiri di ore e di giorni, folli scoperte espressive; in separazioni e divorzi dalla musa. Come quella di Baudelaire, muse malade dalle iridi colme di visioni notturne e paurose malinconie, anche la musa flaubertiana era frequentemente maltrattata: bestemmie, imprecazioni, rifiuti, odi, rancori, nostalgia di un desiderio di normalità, fughe memorabili e ritorni struggenti di padre, di figlio, di amante - era questo il romanzo che quotidianamente si svolgeva nell’officina creativa di Croisset.

In questo quadro di impressioni e sensazioni adolescenziali, Mario Vargas Llosa irruppe a suggerirmi la parola giusta: la letteratura, per scrittori viscerali come Flaubert, era “un’orgia perpetua”. Lo provavano vertici come Madame Bovary e l’Educàtion sentimentale; oppure, eterni ritorni su opere della giovinezza, come la ripresa del possente cartone preparatorio delle giovanili Tentation de Saint-Antoine; e lo registrava, in medias res, il lavico corso delle idee, delle intuizioni, delle grida verbali, delle confessioni strazianti, delle malinconie e degli scatti di innovazione stilistica che senza posa continuavano a levigare il grande letto della Correspondances.

Al grande castello flaubertiano giustapponevo la letteratura critica. Dopo l’opera di Mario Vargas Llosa, fu la volta della storica monografia di Victor Brombert; alla quale seguirono stralci dell’incompiuta cattedrale saggistica di Sartre e le pagine finemente ricamate di Pietro Citati sugli scintillanti occhi di Emma. Nei corsi di letteratura francese, a Pisa, la voce di un maestro come Francesco Orlando mi avrebbe rivelato l’esistenza di Mimesis di Erich Auerbach, uno dei saggi più belli scritti sotto il cielo dell’Occidente. Lì, attraverso l’analisi del realismo dantesco, rabelaisiano, stendhaliano, zoliano avrei trovato molti punti fermi sulla natura del realismo di Flaubert. E sempre nell’ambito della francesistica pisana - evidentemente in un torno d’anni particolarmente fecondi - sarebbe arrivato l’anno del secondo incontro più importante della mia vita, quello con Norina Fornasier, il cui stile e pensiero non assomigliava a nessun altro ascoltato e appreso in ambito accademico fino a quel momento. Poetessa (Infanzie, Kolibris edizioni, 2012), studiosa e traduttrice di Baudelaire, esperta di scritture femminili del Novecento; autrice del più bel saggio italiano su Marguerite Duras (Marguerite Duras un’arte della povertà, ETS, 2001), Norina Fornasier sapeva leggere il romanzo francese realista dell’Ottocento con lo stupore intatto e appassionato di una matricola. Profonda conoscitrice di Freud (e di un metodo psicoanalitico trasferito sulle opere letterarie senza fumisterie interpretative) e della natura umana, Norina Fornasier ci parlava di Flaubert dal di dentro del processo creativo, non solo facendo ruotare le lezioni sulla verità del testo; attraversando la selva dell’epistolario e degli stadi redazionali di Madame Bovary; intrecciando l’analisi dei romanzi ad una più vasta rete di discipline ausiliarie (la storia, la psicoanalisi, la stilistica, l’antropologia, le pagine di Marx sull’ascesa del capitalismo e sul romanzo come moderna epopea borghese); ma ci portava soprattutto nel cuore segreto dei romanzi smontando e rimontando, sotto i nostri occhi, il meccanismo dello stile, l’uso dei dettagli quotidiani incendiati di ‘realismo visionario’ (ricordo l’analisi dell’irreale berretto di Charles Bovary nel primo capitolo), ricostruendoci, passo passo, gli occhiali del romanziere sul mondo, sull’uomo e sulla vita in provincia di Emma, dal cui angolo di terra Flaubert finiva per cogliere lo spirito della provincia tout court. Norina Fornasier faceva lezione pensando come un romanziere, sedotta dal desiderio, forse, che qualcuno di noi avrebbe un giorno seguito quella strada con coraggio e ostinazione; o, chi, già incamminato, non l’avrebbe tradita grazie alla resistenza etica e al mestiere di scrivere esemplati da Flaubert. Nessuno riuscì a farmi capire il profondo senso dell’apprendistato creativo e il lavorio della malinconia che lo divora e alimenta, come le lezioni di Norina Fornasier su Flaubert, e, più tardi, su Baudelaire e Proust.

Intanto, sullo sfondo, campeggiava sempre il profilo de L’orgia perpetua di Mario Vargas Llosa. Pochi altri testi, per quanto profondamente intelligenti, continuavano a portarsi addosso quella lucidità di pensiero, quella penetrazione nella natura del romanzo e quel viaggio nelle viscere espressive del personaggio che conteneva questo saggio su Flaubert. Era chiaro che in quelle pagine era filtrata molta sostanza delle lezioni di letteratura di un maestro come Miguel de Unamuno. Ma nell’allievo il contenuto e la prassi del grande padre intellettuale erano trasformati e arricchiti nelle maglie di uno splendido metodo analitico sorretto da una non comune finezza di pensiero e libertà di movimento. Quante volte Vargas Llosa  avrà letto e riletto le pagine di Miguel del Unamuno sulla natura della forma-romanzo e sul Don Chisciotte, per poi tornarvi sopra con i propri occhiali di lettore sapiente? Anzi, questo suo dialogo, dimostra quanto sia vero l’adagio che dice “non ci si libera mai dei grandi maestri intellettuali”; nemmeno con la maturità, nemmeno con la scoperta di un proprio stile; possiamo tutt’al più fingere di dimenticarli, far finta di ucciderli allontanandoci dal loro verbo, criticando alcuni limiti del loro lavoro; contestandone l’autorità generazionale sgusciando schivi di spalle lungo opposti sentieri. Ma tutto questo meccanismo raffinato di paziente erosione si ingolferà quando scopriremo che la nostra parola scritta non ha mai realmente abbandonato i suoi idoli; e che, in modi diversi e invisibili, essa continuerà a trattenerli vicino a sé, anche quando li farà tacere, discosti su qualche riva lontana. La nostra parola li aveva accolti nel suo grembo arcaico, in un giorno di orfanità, con la promessa di non restituirli più al passato. E forse la scrittura giocherà ad illudersi che ogni pagina possa andare adulta per il mondo, mentre continuerà sottopelle a tessere struggenti lettere al padre.

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Ortega y Gasset, o della bellezza delle argomentazioni



Per molti anni ancora, anche il nome di Ortega y Gasset sarebbe rimasto legato a un unico libro e ad un unico personaggio: quello delle meditazioni sul Don Chisciotte, scritte nel 1914. Almeno fino a quando avrei scoperto che questo pensatore e intellettuale, classe 1883, allievo di Miguel de Unamuno, diviso tra la docenza universitaria a Madrid, inarcata su psicologia, metafisica e letteratura, e la militanza in riviste e gruppi, nel 1984 aveva dato alle stampe una delle raccolte di saggi più belle del secolo: Lo spettatore (Guanda, Milano 1993, pp.234, Euro 13,94).

Bisogna essere dotati di una singolare bravura nel riuscire a tenere insieme, senza dissonanze e con variate soluzioni di continuità, una piccola estetica portatile del tranvai e l’iconografia bacchica in Tiziano, Poussin e Velàzquez; una meditazione sulla democrazia e una disquisizione sulla funzione della cornice nell’opera d’arte; così come occorre un gusto infinitamente sottile per la variazione di registro stilistico nel saper affiancare, senza stridore, incipit folgoranti come: “Nella morfologia dell’essere femminile forse non ci sono figure più strane di quelle di Giuditta e di Salomé, le due donne cha hanno ciascuna due teste: la loro e quella tagliata.” e  un’acuta disanima storica di ciò che è stata la dittatura fascista. E occorre, inoltre, un ampio e mobile occhio intellettuale per tessere, nel disegno di un unico ordito, campi dello scibile umano tra loro tanto lontani nel tempo e nello spazio, come il meraviglioso fascio di glosse sui canti e i racconti dell’antico Egitto e certe riflessioni sulla civiltà moderna, sulla crisi della cultura, sulle masse, sul lessico contemporaneo, e sulla struttura della psiche maschile e femminile. L’aspetto sorprendente di quest’impasto magmatico non è solo la versatilità della poligrafia e la pluralità dei registri; quanto quella cifra di purissima e cartesiana linearità che non viene mai meno, anzi ci guida nelle viscere delle province e delle propaggini di un vastissimo territorio mentale. Si fiuta lo stile del pensiero di Ortega y Gasset in ogni interstizio concettuale e in ogni metafora chiarificatrice. Quando leggiamo, ad esempio: “L’incomprensione della vita infantile che ci affligge, dipende dal fatto che giudichiamo gli atti dei bambini come se questi fossero sommersi nel nostro stesso ambiente” (La psicologia del sonaglio), e, nel capitolo dopo: “la Gioconda è la donna essenziale, che conserva intatto il suo incanto. Madre e sposa, sorella e figlia sono i precipitati che dà la femminilità, le forme che la donna riveste quando cessa di essere donna e non lo è ancora. La maggior parte delle donne hanno solo un’ora nella loro vita e gli uomini sono dei don Giovanni solo per qualche momento.” (Cercando un tema). Ad unire momenti così differenti in una scia di tensione, maculata di lampi apodittici, è uno degli elementi portanti connaturati ai più bei diari intellettuali dell‘Occidente: la bellezza delle argomentazioni. Non so se questa espressione sia legittima tanto da poter fissare, oltre il campo delle suggestioni, la forza di un valore universale del pensiero; ma ci sono scrittori che possiedono in tale grado la capacità di pulire il concetto fino a conferirgli una vita adamantina che davvero non riesco ad immaginare altre formule per esprimere questo dono. Le loro pagine sono simili a paesaggi che un occhio nudo può esplorare nei primi piani, come nelle quinte più lontane, senza mai perdere il nitore dei contorni degli oggetti e dell’insieme.

Quando leggiamo opere come gli Essais di Montaigne, i Caratteri di La Bruyere, Aut-Aut di Kierkegaard, Danubio di Claudio Magris, l’affresco letterario italiano di Francesco De Sanctis o qualsiasi libro di Elias Canetti e del messicano Octavio Paz, questo tipo singolare di bellezza - la bellezza delle argomentazioni - ci viene incontro in tutta la sua concretezza, assume lo statuto inventivo di un’assoluta chiarità meridiana e si impone come indelebile marchio di fabbrica della grande tradizione della saggistica.

In questa costellazione di pleiadi, la medesima condizione privilegiata permea di sé ogni brano de Lo spettatore di Ortega y Gasset. Per coglierne la portata è sufficiente trascegliere, tra i molti possibili, due interventi legati a questioni letterarie. Ne Il Don Chisciotte nella scuola, il filosofo prende le mosse interrogandosi sulla legittimità necessaria del romanzo di Cervantes nella formazione giovanile e finisce a trattare, quasi per gemmazione, la natura della pedagogia, della macchina nella modernità, del desiderio, del mito e dell’ambiente. Mentre in Tempo, distanza e forma nell’arte di Proust, Ortega spiega la rivoluzione espressiva del romanziere francese sviluppando il concetto di “invenzione” così come la tradizione antica l’aveva modellato e così come la recherche creativa di Proust ha saputo rinnovare, grazie ad un nuovo “tempo” e ad un nuovo “spazio” della memoria e dell’inconscio ricostruiti letterariamente per poetiche intermittenze del cuore. Ancora una volta, una bellezza particolare si raccoglie nelle prima righe del saggio: “Ma c’è un altro tipo di scrittori che hanno la fortuna o la genialità di essersi imbattuti in un filone di ‘cose’. La loro situazione è molto simile a quella degli inventori scientifici. Con una semplicità e con un’evidenza stupefacenti hanno trovato che il loro piede scivolava su un nuovo campo di possibilità estetiche. Se, servendosi di una vaga parola mistica, si suole chiamare ‘creatori’ gli scrittori suddetti, bisognerà chiamare questi ‘inventori’, nel senso più latino della parola. Hanno trovato una nuova fauna occulta in paesaggi intatti; almeno hanno trovato un nuovo modo di vedere, una semplice legge ottica con un certo indice inusitato di rifrazione. La posizione di questi autori è molto più solida: anche se la loro opera è sempre identica a se stessa e non promette cose nuove, spettacoli inediti, è difficile che manchi in noi il desiderio di vedere. Quando Platone cerca una categoria sicura in cui iscrivere i filosofi si decide per la classe dei filoteamoni o amici del vedere. Forse pensava che la virtù più costante dell’uomo fosse un certo entusiasmo visuale.”  

Fluidità della conversazione; profondità di pensiero e di sentimento; solidità e naturalezza stilistica; estro e improvvisazione; abilità tessitrice nel discoprire corrispondenze tra campi lontani: sono solo alcuni arpeggi della scrittura saggistica di José Ortega y Gasset. Ma c’è un altro elemento unificatore, una sorta di tonalità di fondo che avvicina il pensiero del filosofo spagnolo e la sua prosa alla grande forma del saggio europeo. Per comprendere questa appartenenza al saggio come “genere letterario” dobbiamo rileggere ciò che dice Alfonso Berardinelli nel suo celebre La forma del saggio. Vien fatto di chiedersi: che cosa contraddistingue il bravo e rigoroso ricercatore scientifico dal saggistica di razza? Per più di duecento pagine Berardinelli ci spiega “forse il più mutevole e inafferrabile dei generi”, interrogando le pagine di Leopardi, di Nietzsche e di Ruskin, dei “saggisti in versi o anche in prosa”. E quando ci descrive lo statuto di questo organismo sfuggente e composito come qualcosa che riesce ad inglobare un’ispirazione “sussultoria, incostante, disorganica”; una scrittura porosamente dilatata sul proprio presente e “in perpetua instabilità”; un dettato imbastito da un “visionario del pensiero e un dialettico della metafora” che “scontento di se stesso, finisce per scontentare tutti, sia chi lo vorrebbe più dialettico, sia chi lo vorrebbe più visionario”, sentiamo che da questo identikit emerge una fisionomia non lontana dal temperamento di Ortega y Gasset. Ritroviamo, ad esempio, il suo spirito di osservazione delle cose in questa frase di Berardinelli: “Il saggista non inventa universi alternativi, né costruisce una ben organizzata e speculare teoria del reale. Se può sembrare che si tenga un po’ al riparo, con le sue divagazioni, dalla verità e dalla bellezza, è solo perché non osa fronteggiarle o non crede che fronteggiarle sia  possibile. Sceglie la via indiretta e momentanea, fa risuonare i concetti come voci, li fa entrare in scena come maschere.” 
Ortega y Gasset possiede tutto questo? Bisogna leggerlo per sentirlo.

Mario Vargas Llosa, L’orgia perpetua. Flaubert e Madame Bovary, Rizzoli, Milano 1986, pp.256, euro 11,36
José Ortega y Gasset, Lo spettatore, a cura di Crlo Bo, Guanda, Milano 1993, pp.234, Euro 13,94

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